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fandom: originale
partecipa al COWT 14
prompt: la porta tra i mondi
One shot


La chiave per Eltra

Aveva trovato la chiave in soffitta, ma Alessia non aveva idea di cosa aprisse. Non ne aveva mai vista una simile: era in un metallo scuro, quasi nero, ed era incurvata al punto che la ragazza si chiese se sarebbe mai potuta entrare davvero in una serratura. Sua nonna l’aveva mandata in soffitta proprio a cercare una chiave e, stando alla descrizione che le aveva dato, poteva essere quella giusta.

La casa della nonna era sempre stata piena di misteri: stanze chiuse a chiave, rumori inspiegabili e passi che finivano nel nulla. Investigava spesso, con la sua lente di ingrandimento e il suo cappello, ma non era mai riuscita a trovare la fonte di quelle stranezze. Di fronte alle sue domande più volte, con occhi vivaci, la nonna le aveva detto che loro due si somigliavano come gocce d’acqua e che prima o poi avrebbe avuto le sue risposte. “Noi siamo diverse dai tuoi genitori e da tuo fratello, vedrai: un giorno vivrai delle splendide avventure!”

Le chiedeva sempre quando le avrebbero vissute, da piccola era sempre a cercare nuove sfide, a esplorare ogni luogo che visitavano. “Un giorno ci andrai, te lo prometto.”

Con l’andare degli anni la ragazza aveva iniziato a passare in quella casa sempre meno tempo e si era dimenticata di quei discorsi che da piccola la affascinavano e catturavano i suoi sogni.

In quel periodo Alessia passava molto tempo lì, perché sua nonna Erminia si era rotta il femore e lei stessa si era offerta di prendersi cura di lei nel corso di quell’estate. Prese la chiave e la portò con sé. 

“Ci beviamo un tè?” Propose all’anziana donna una volta arrivata nella stanza.

“Sì, ma vorrei berlo in soggiorno, se non ti dispiace.”

La nipote annuì, prese la sedia a rotelle e aiutò Erminia a salirci sopra con movimenti calcolati e sicuri. La mise dentro l’ascensore che avevano fatto costruire per il nonno qualche anno prima e insieme scesero al piano terra. 

Il salone era arredato con mobili in legno scuro, tipici degli anni in cui erano stati acquistati. Una della parete era cosparsa di specchi con larghe cornici di legno intarsiate che da piccola avevano sempre affascinato Alessia. Era lì che giocava alla scuola di ballo e recitava fingendosi una famosa attrice.

Andò in cucina a preparare il tè e sistemò le tazze sul vistoso vassoio di argento antico che da sempre utilizzavano per servire bevande calde. 

Lo sistemò sul tavolino dove la nonna la aspettava, sembrava seria.

“Oh, tieni la chiave!” Annunciò Alessia, porgendogliela.

L’anziana donna prese invece la tazza calda con entrambe le mani. “Quella è tua ora. Dovrai usarla con molta attenzione e donarla a chi tu riterrai tuo successore nel custodirla.” 

Alessia piegò la testa di lato, forse la nonna aveva qualche piccolo problema di demenza. “Perché? Che chiave è?”

“Quella è la chiave della porta tra due mondi. Unisce il nostro a un mondo che presto conoscerai.” Sorrideva, negli occhi un’espressione vivace e nostalgica. “La città dove arriverai si chiama Eltra, in realtà è più un piccolo villaggio, ma la porta è ben custodita, vedrai. Potrai dire ai custodi il mio nome e loro ti accoglieranno. Ho vissuto splendide avventure nei dintorni di Eltra. Usa la catena per mettere la chiave intorno al collo e quando aprirai la porta la vedrai scomparire. Appena tornerai alla porta dall’altra parte essa riapparirà e potrai tornare a casa.”

La ragazza rise, nervosa. “Mi stai prendendo in giro, nonna?!

Erminia però alzò le spalle. “Anch’io ho reagito così quando l’ho ricevuta. Ho dovuto vedere. Alzati.”

Alessia pensò che assecondandola non sarebbe accaduto nulla di male, quindi seguì l’ordine.

“Metti al collo la chiave e vai verso lo specchio.” La ragazza continuò a obbedire, “Ora prendi in mano la chiave e chiedi di entrare.”

“Cosa devo fare? Dire io chiedo alla chiave di aprire la porta per Eltra e di farmi entrare?” Appena finì di pronunciare quelle parole, sentì un rumore simile a quello del vento tra i rami di un albero. Rimase a bocca aperta mentre lo specchio si apriva per rivelare una porta. 

“Bastava dire io chiedo di entrare. Per tornare basta chiedere di tornare.” La ragazza toccò la porta appena rivelatasi sotto i suoi occhi, poi tornò a rivolgere la sua attenzione alla nonna. 

“M- Ma allora è vero?”

“Ma certo che è vero. Non ti racconterei storie. Ora vai, fai il tuo primo giro. Puoi dire che li saluto, ma che dovranno venire loro a salutarmi, io non posso più viaggiare.”

“È un viaggio pericoloso?”

“No. Potresti vivere qualche avventura, ma non preoccuparti. Mi racconterai quando tornerai a casa. Ti aspetto qui.”

Alessia estrasse la chiave.“Hai mantenuto la tua promessa. Grazie.” Varcò la porta e svanì nel nulla, pronta alla prima delle sue avventure ad Eltra.


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Fandom: Persona 5
Personaggi: Chihaya Mifune
Prompt: chiaroveggente, prima persona
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One shot
La verità

In molti tra i clienti ai quali predico il futuro mi ripetono continuamente quanto io sia fortunata a vedere il mio destino e quello delle persone intorno a me. Magari fosse così semplice… All’inizio non lo è stato perché venivo evitata, è successo sin da quando ero una ragazzina, quando mi davano della strega e mi tenevano a distanza per paura che predicessi disgrazie. Come se fosse cambiato qualcosa. Nella mia città natale non riuscivano neppure a comprendere la differenza tra premonizione e capacità di alterare il destino. Il risultato è stato che ho imparato a tenermi dentro le risposte, anche se a volte proprio non ci riesco.


Il caso del giovane Ren mi sta mandando in crisi, perché il suo futuro è incerto e da quando lui è entrato nella mia vita anche il mio è diventato impossibile da decifrare. I tarocchi, che mi hanno sempre dato risposte, mi ignorano ogni volta che lui è parte delle mie domande. Quel ragazzo mi ha messa di fronte alle mie scelte discutibili e mi ha costretta a vedere ciò che ero diventata: una ciarlatana che avrebbe predetto qualunque sciocchezza in cambio di qualche soldo.

Quante volte nel passato ho maledetto il mio dono, pregando la natura di riprenderselo e di permettermi di vivere serenamente giorno dopo giorno, senza l’onere di dover portare nel mio cuore segreti, a volte difficili da tenere nascosti.

Qui a Tokyo non sono che una chiaroveggente di strada, per molti un momento di divertimento nel grigiore della vita di tutti i giorni.

Non so fare altro. Al mio arrivo nella capitale ho provato a ricominciare da zero, con persone nuove, lavorando in un ristorante e anche come commessa, ma sono sempre stata bollata come strana e infine licenziata. Bastavano poche parole dette senza troppo peso per fare sì che la mia fama di strega tornasse a colpirmi forte come un colpo di martello. Una maledizione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Ho ricominciato a sfruttare il mio dono di chiaroveggente per sopravvivere e perché è l’unica cosa che so fare. Mi ero sempre detta che lo faccio per dare speranza, almeno fino a quando quel ragazzino non mi ha messa di fronte alla realtà: ero diventata il circo di strada che odiavo.

Devo ritrovare me stessa e la mia integrità per tornare la Chihaya innocente e pura a cui il dono è stato regalato dalla dea Fortuna.

Ci sto provando. Questa sera spero che Ren venga a trovarmi. Sarò sincera con lui come non lo sono stata neppure con me stessa nell’ultimo periodo e gli dirò ciò che vedo: lui è parte del mio destino, così come io sono parte del suo.


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Originale
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Prompt: il castello abbandonato 
Avventura

Il viaggio di Daniel


Il viaggio di Daniel si stava rivelando più lungo del previsto. Era partito parecchie ore prima dal suo paese natale per portare il carico al porto, ma sulla strada non aveva incontrato anima viva. 

Era la prima volta che usciva dal villaggio e tutti si erano impegnati a dispensargli buoni consigli prima della sua partenza. Questo però non l’aveva aiutato a prendere la strada giusta, a quanto pareva, perché sembrava proprio che lì intorno non ci fosse alcun porto, tantomeno il mare. Aveva avuto qualche dubbio, in effetti, soprattutto quando si era trovato a passare sul ponte di legno mezzo scassato, rischiando anche di perdere carro e carico lungo la strada. E poi non aveva incontrato villaggi, né viandanti, né altri carri.

Si grattò il mento, lo faceva sempre quando pensava, e decise che la cosa migliore da fare fosse portare il carro nel punto più alto raggiungibile, solo che senza strade era un po’ difficile far salire il carro, perciò quando arrivò ai piedi di una ripida collina, legò il cavallo a un albero e iniziò a salire. Da lassù fu certo che era finito in mezzo al nulla. 

Gira a destra, poi segui le indicazioni per il porto, andrai in discesa, così gli avevano detto. A pensarci bene lui era andato in salita, e non poco dall’inizio del viaggio. Forse si era sbagliato di nuovo a distinguere destra e sinistra. Schioccò le dita, lo faceva sempre quando era dispiaciuto. Iniziò a scrutare la boscaglia e le campagne intorno a lui in cerca di una capanna, di fumo o un qualunque segno di vita, ma non c’era anima viva, solo corvi in cielo e rumori di qualche animale tra gli alberi dietro di lui.

Si grattò la fronte e pensò che tornare indietro ormai fosse fuori discussione, presto sarebbe stato buio e il cavallo era già stanco. Sua madre gli diceva sempre che lui non era il coltello più affilato del cassetto, ma quello lo capiva bene. aggirò il boschetto per vedere dall’altro lato dell’altura poiché era certo che quella fosse la direzione giusta: da qualche parte doveva pur esserci un villaggio.
Batté le mani, lo faceva sempre quando esultava, quando notò il castello, le mura coperte di edera lo mimetizzavano tra gli alberi del bosco che lo circondava, ma da lassù Daniel aveva notato il fossato e le torri. Scese veloce e liberò il cavallo, chiedendosi cosa avrebbe trovato ad attenderlo. Sua madre gli aveva detto di raccontare sempre che veniva dal villaggio di Velda, perché tutti amano i Veldani, sono sempre amichevoli e vendono le stoffe a tutti. Il ragazzo sperò che, magari in cambio di alcune delle stoffe che portava nel carro, sarebbe stato accolto e rifocillato per la notte. Il giorno seguente se ne sarebbe andato, non avrebbe arrecato troppo disturbo. Sarebbe stato ancora meglio se avesse trovato un piccolo villaggio nel quale vendere le sue stoffe, pensò grattandosi la spalla, così non sarebbe dovuto andare di nuovo fino al porto, sarebbe solo tornato a casa.

Il cavallo aveva approfittato della breve sosta per mangiare e per riposare un po’, quindi ripartì senza troppe preghiere, Daniel invece cominciava a sentirsi davvero stanco, era quasi il tramonto e lui non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti.

Daniel fischiettava sul carro, lui e Zampebianche si avvicinavano al castello a ritmo veloce, però, più andava avanti, più si rendeva conto che qualcosa non quadrava: sembrava che quella strada non venisse percorsa molto spesso, gli alberi erano grandi, l’erba alta e i campi non sembravano coltivati. Le stesse mura del castello, a cui si stava avvicinando, erano coperte di edera completamente. 

Il ponte sopra il fossato era abbassato e l’accesso all’interno appariva libero. La realtà era che non c’era proprio una porta.

Daniel si grattò il mento e si chiese quale scelta avesse. Non era mai stato un grande pensatore, nessuno gli rivolgeva mai domande importanti, semplicemente gli dicevano cosa fare e lui eseguiva. “Se non c’è nessuno, posso dormire tranquillo. Se c’è qualcuno magari trovo compagnia.” Disse, più rivolto a se stesso che al suo cavallo, che comunque non lo avrebbe capito, in effetti.

Il ragazzo staccò l’animale dal carro e portò il suo fido destriero a quella che un tempo era la stalla. Fu felice nel notare il rubinetto a leva di un pozzo, che azionò più e più volte, fino a quando l’acqua non prese a scorrere. Riempì un secchio al suo cavallo, bevve un po’ d’acqua anche lui, si riempì la borraccia e chiuse il recinto. 

“Ora penso a me. A dopo, Zampebianche.”

Si guardò intorno. Era ormai l’imbrunire e se qualcuno fosse stato nel castello, di certo Daniel avrebbe visto una candela o magari sentito delle voci che gli avrebbero rivelato la presenza di un uomo o una donna.

“C’è qualcuno?” Urlò, le mani a conca ai lati della bocca per amplificare il suono.

Rimase in attesa per qualche istante. “Se c’è qualcuno, non è che mi risponde?” Provò di nuovo, nessuna risposta. “Per favore!” Ma a quanto pareva, non sempre la gentilezza serviva, al contrario di come gli aveva insegnato sua madre.


Daniel si guardò intorno e si grattò la testa, pensò che per trovare un letto e qualcosa da mettere sotto i denti sarebbe stato opportuno esplorare gli edifici lì intorno, quindi decise di iniziare da quello più vicino. 

La porta era aperta, ma l’edificio era del tutto vuoto.

Il ragazzo uscì, non aveva senso restare lì se non c’era niente, e continuò a cercare il luogo adatto per riposare.

Gli sembrava un po’ strano che lì non ci fosse proprio nessuno, ma sua madre gli aveva detto di non farsi troppe domande, gli aveva spiegato tante volte che lui era più bravo a fare che a pensare, quindi proseguì. Entrò in altri tre edifici, tutti piccoli, nella zona di ingresso del castello. Nel primo c’erano dei sacchi pieni di semi, uno di essi conteneva della frutta secca. Era stato abbastanza fortunato, perché non era la cena migliore del mondo, ma avrebbe mangiato qualcosa almeno. Raccattò delle noci e alcune nocciole, poi proseguì fino al secondo. Lì c’erano alcuni mobili che, se avesse avuto il carro vuoto, forse si sarebbe anche portato a casa: un bel tavolo con quattro massicce sedie di legno e una grossa stufa da cucina. L’ultimo stabile invece conteneva solo alcune armi, che però non gli servivano, quindi le lasciò lì, anche se aveva sempre desiderato avere una spada. Sua madre però gli diceva sempre che non voleva che lui si facesse male, era sicuro che lei avrebbe preferito che non le toccasse neanche, quindi si allontanò.


Si avviò in salita verso il complesso principale del castello. “C’è qualcuno?” Chiese di nuovo. Ma ancora nessuno gli rispose. Poco male, pensò: ho un castello tutto per me. 

Riuscì a entrare dal portone senza difficoltà, perché di nuovo la porta era aperta. Che strano, pensò grattandosi il mento: perché avevano lasciato tutto lì dentro senza neppure chiudere a chiave? La stanza del trono era lunga almeno come un campo, alta più di una quercia, tutta in pietra, con enormi stendardi consumati e lerci che scendevano giù dalle pareti. Daniel osservò i due troni rivestiti di bellissimo velluto, un tempo era rosso, constatò. A terra c’era un tappeto lungo tutta la sala e ai due lati di esso alcuni candelabri alti almeno quanto lui. A Daniel sarebbe sempre piaciuto sedersi su un trono, quindi con il suo sacchettino pieno di frutta secca si avviò verso la sedia regale ridacchiando e battendo le mani.

Si fermò un istante prima di prendere posto e gonfiò il petto con aria solenne. “Re Daniel è arrivato!” 

Una volta seduto, finse di ascoltare sognante gli applausi di tutto il suo popolo, che lo amava. Sua madre gli diceva sempre che era una persona buona e che era facile volergli bene.

Rimase lì a sognare conversazioni di ogni tipo con i suoi consiglieri, pensò che i cuochi gli avrebbero cucinato dello stufato di carote, che era il suo preferito, e magari anche del pane fresco.

Dopo un po’, Daniel decise che era ora di alzarsi e procedette verso il grande tavolo dietro i due troni. Si sedette e iniziò a mangiare la sua frutta secca. Per romperla utilizzò uno strano oggetto grosso e pesante di forma sferica che stava su un piedistallo di fianco al tavolo. Continuò a mangiare fino a quando non fu sazio, solo che nel rompere le ultime nocciole la sfera si ruppe in mille pezzi, rilasciando una strana polverina viola. 

Daniel tossì e schioccò le dita. “Proprio con l’ultima nocciola, che sfortuna!" 

Si alzò e si diresse verso le stanze reali. Lì c’erano i letti ancora belli fatti, solo che erano un po’ sporchi, pensò mentre si grattava la pancia. Sua madre gli diceva sempre che non sarebbe stato qualche germe a ucciderlo, quindi il ragazzo alzò la coperta e controllò che sotto non ci fossero ragni, quelli non gli piacevano molto e in effetti era pieno di ragnatele, osservò.

Sbatté qualche volta il cuscino per togliere la polvere e si mise a letto. Si addormentò subito.


Il mattino dopo si risvegliò fresco e riposato, intorno a lui non c’era più la stanza abbandonata nella quale si era addormentato, ma una camera regale verniciata di fresco, con mobili nuovi e lenzuola linde. Si grattò la fronte: era sicuro di non aver preso sonno in quella stanza e lui non era un sonnambulo, sua madre gli diceva sempre che di notte lui non muoveva un muscolo, al punto che sembrava quasi morto.


Sentì delle voci e pensò che era ora che arrivasse qualcuno, così si diresse al piano inferiore, dove trovò almeno una trentina di persone che si zittirono appena lui varcò la soglia. 


“Eccolo, ecco l’eroe!”

Daniel era un po’ preoccupato, si indicò con il dito per capire se era proprio di lui che stavano parlando. “Io sono Daniel.” Riferì. 

Un uomo elegante con dei baffetti corti e un aspetto trafelato gli corse incontro: “Hai spezzato la maledizione, hai rotto la sfera! Come posso ringraziarti?”

Il ragazzo non sapeva cosa dire. Fu portato in festa per tutto il castello e a lui e al suo cavallo furono offerti oro e ricchezze, lui in cambio lasciò le sue stoffe e il nome del suo villaggio. Lo invitarono a tornare, dicendogli che gli sarebbero stati per sempre grati. 


Così Daniel tornò a casa con il titolo di cavaliere dato dal re in persona, più ricco di quanto avrebbe sperato. Sua madre forse non immaginava che proprio lui sarebbe stato chiamato eroe da qualcuno. Era fiero di se stesso. 



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Originale Capitolo 2

Partecipa al COWT 14

Prompt: bad ending

 

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.

Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.


Il viaggio verso l'Isola di Hermann - capitolo 2 Originale


Il mare era calmo, il relitto ondeggiava leggero seguendo la corrente.

Lucilla si svegliò di colpo. Era ancora notte. Era probabile che avesse dormito poco più di un’ora, forse solo alcuni minuti. Aveva passato tutta la giornata sotto il calore del sole, senza cibo né qualcosa da bere e la voglia di rifocillarsi con l’acqua del mare aperto aveva continuato a tentarla per tutto il tempo. Nonostante l’estate non fosse ancora arrivata, aveva sofferto il caldo sotto i raggi del sole. Le aveva scottato la pelle, l’aveva fatta sudare. Per cercare di risolvere il problema la donna aveva messo in acqua i suoi stracci e si era coperta, ma il sale sulla pelle arrossata bruciava persino di più.

Continuò a osservare intorno a lei in cerca di un qualunque segnale di presenza umana. Non ve n’era traccia. Nessuna isola all’orizzonte, nessuna nave. Resistette fino alla sera passando di frequente dal sonno alla veglia.


Preferì la notte al giorno. Si sentiva ancora più sola, ma nel buio stava riuscendo a riposare un po’ di più, le si erano anche schiariti i pensieri. 

Le sue speranze erano delicate come un bicchiere di cristallo sull’orlo di un precipizio, ma Lucilla pensava che la sua sopravvivenza al naufragio fosse un segno del destino. Perché il fato avrebbe dovuto salvarla da morte certa per lasciarla lì in mezzo al mare. Non aveva senso.


Quando sorse il sole, seppe che non avrebbe superato la giornata. Tentò di alzarsi per guardare meglio all’orizzonte, ma barcollò e cadde sulle tavole della sua scialuppa di fortuna. Doveva bere, la gola le ardeva e le sue labbra erano secche e rotte dal calore, dal sale e dalla disidratazione. Solo un po’ di acqua, un bicchiere, un sorso. Ormai era un pensiero continuo che non era più in grado di scacciare. Era quasi ironico morire di sete in mezzo a tutta quell’acqua. Si trascinò fino al bordo del suo relitto lasciò che una mano toccasse il mare. Con tutta la sua forza si spinse ancora più vicina al bordo della zattera e lasciò che la sua mano galleggiasse. Passò qualche minuto ad ascoltare il rumore del mare intorno a lei, a guardare la sua mano scavare nella superficie cristallina del mare e tornare fuori senza fatica. Bevve un sorso, uno solo non le avrebbe fatto male.


Si addormentò numerose volte nel corso della giornata. Fu svegliata dal suono di una tromba. Si alzò di scatto e salutò la nave, rinvigorita dalla certezza che l’avrebbero salvata. Un giovane marinaio vestito di bianco scese lungo una scala di corda con una borraccia e la invitò a bere, poi la legò a una corda, che l’equipaggio issò a bordo in pochi minuti. Le diedero cibo e acqua in abbondanza e la accompagnarono in una cabina, nella quale dopo giorni poté dormire un sonno lungo e riposante. Era stata a pochi passi dalla morte, ma aveva ragione: il destino non l’aveva abbandonata.


Il relitto apparve sulla sponda a est dell’Isola di Hermann solo quattro giorni dopo il naufragio della Dama Enrica. Sull’ammasso di assi che un tempo erano state parte della nave giaceva una ragazza che fu in seguito riconosciuta come la contessina Lucilla De Cornieri. Fu trovata dal giardiniere della residenza estiva della famiglia, che subito avvisò la famiglia. La giovane aveva in volto un’espressione serena. Probabilmente se n’era andata nel sonno.


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Fandom: Originale
Prompt: l'eco senza volto
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L'eco, Lana e la grotta profonda


La grotta era profonda come il mare e buia come la notte.

Una miniera scavata nell’antichità dentro la montagna, un labirinto di cunicoli stretti e profondi.

Lana era entrata per sfuggire ai soldati che l’avevano rapita dopo avere saccheggiato il suo villaggio, ma iniziava a pensare che forse il suo destino non sarebbe stato migliore ora che era imprigionata lì sotto, incapace di trovare una via di fuga. 

L’avevano seguita, era arrivata a sentire il loro fiato sul collo mentre correva nella foresta, i piedi leggeri nonostante fosse stata legata per ore prima della fuga. 

Alzati in piedi e corri, è la tua unica speranza. 

Una voce dentro di lei le aveva ordinato di scattare lontano e lei l’aveva ascoltata, poi la stessa voce le aveva detto di girare verso il bosco. Chiunque l’avesse osservata saltare le radici degli alberi e correre sicura nella foresta fitta avrebbe giurato che lei conoscesse bene il bosco, invece era la prima volta che lo percorreva. Arrivata di fronte alla grotta aveva esitato, ripensando alle leggende sugli spiriti che abitavano i luoghi sperduti sotterranei, ma le voci alle sue spalle l’avevano convinta a continuare a correre. Non pensare, entra nella grotta: è l’unica via di uscita.

Così aveva varcato la soglia e aveva corso fino a quando non era rimasta senza fiato. Solo allora si era resa conto di non sapere dove fosse.

Quanti bivi aveva preso? Quanti cunicoli aveva attraversato? Non lo ricordava, non ne aveva idea.

Sospirò e sentì un’eco, un rumore provenire da poco lontano. Si nascose chiedendosi cosa fosse in agguato nell’oscurità. Non vedeva quasi niente, ma a pensarci anche la flebile luce che le permetteva di vedere attorno a lei così in profondità non era normale. Che fosse finita nella caverna di un essere magico? Si chiese.

Al pensiero di ciò che avrebbero potuto farle i soldati, pensò che non sarebbe stato poi male essere mangiata da un ragno gigante, da un orso o da un goblin. Avrebbe di certo sofferto meno che tra le mani di quegli uomini.

Rimase in silenzio, le orecchie tese in ascolto, ma non udì altri rumori. Forse era stata lei stessa a causare l’eco. Si chiese se attendere ancora, ma presto sarebbe stata notte e lei non aveva cibo né acqua non sarebbe sopravvissuta a lungo nelle profondità oscure della terra.

Si rialzò e iniziò a camminare in silenzio. I suoi piedi scalzi non facevano molto rumore, ma, abituati com’erano alle scarpe,  erano sanguinanti e dolenti dopo la lunga corsa tra gli ostacoli della natura.

Si fermò: non aveva senso muoversi alla cieca, rischiava di andare sempre più a fondo nella grotta., quindi si chiese quale fosse il modo più efficiente per muoversi verso l’uscita della grotta. Utilizzò il suo naso per trovare traccia degli odori del bosco, i suoi occhi, per osservare raggi di luce nella quasi totale oscurità della grotta e il tatto per scovare qualche segnale scavato in giro. Non sapeva cosa fare.

“Ora la voce mi farebbe comodo.” Osservò, ma non c’era alcun suono a guidarla.

La luce pareva permeare dalle rocce intorno a lei, era la stessa in ogni direzione guardasse, al punto che Lana si immaginò di essere morta e che quello fosse il suo viaggio nella ricerca del luogo in cui avrebbe riposato per l’eternità.

Ripensò a lungo ai suoi passi e infine decise di procedere verso la salita. Nulla lungo il suo cammino le era familiare. 

Si lasciò guidare dall’istinto, cercando di ricordare le strane rocce che incontrava e le caratteristiche delle diramazioni e delle grotte.

Ora sei vicina. Continua.

Di nuovo l’eco. Lo sentiva vicino. Non era certa di potersi fidare di quella voce, ma che scelta aveva? La seguì.

Di qua, Lana.

Sentirsi chiamare per nome la fece rabbrividire.

Non avere paura, mi prenderò cura di te.

Le ultime parole suonarono come una minaccia, ma non aveva scelta.

Scese lungo una ramificazione stretta e tortuosa, riusciva a vedere il riverbero di una luce, creato dai cristalli sul soffitto della grotta: uno spettacolo che non avrebbe mai potuto immaginare e che per un istante le permise di dimenticare la fatica, il sonno, la sete e la fame che provava. Più si avvicinava e più sentiva il cuore batterle con forza nel petto. Paura e speranza erano unite in lei, mescolate in un vortice. 


La luce verso la quale si stava dirigendo non era simile a quella del sole: era bianca e fredda, pareva artificiale. Il cunicolo si allargò in una stanza larga e alta, cosparsa di cristalli bianchi. Al centro c’era un grande tavolo con una caraffa colma d’acqua, un bicchiere e un piatto coperto.

Benvenuta, Lana.

Di spalle, dall’altro lato della stanza, c’era una sagoma femminile coperta da un mantello scuro e ampio, con un cappuccio sulla testa. La ragazza era quasi certa che non fosse umana. “Grazie per avermi guidata.”

Bevi, mangia. Devi riprendere le forze.

La voce non proveniva dalla figura, era un'eco che rimbombava per la stanza, senza fonte visibile.

Lana tremava di terrore. Si sedette e prese la caraffa cercando di non versare l’acqua sul tavolo. Riempì il bicchiere e ne bevve il contenuto, sentendosi subito meglio.

Temevi che volessi avvelenarti? Se desiderassi la tua morte ti avrei lasciata vagare per i cunicoli, proprio come stanno facendo i soldati che ti hanno catturata. Loro sentono ciò che voglio e stanno percorrendo vicoli ciechi. Lo faranno fino all’ultimo respiro.

Mangia, non fare complimenti.

Lana prese il piatto e tolse il coperchio: conteneva frutta fresca. La ragazza sentì lacrime di sollievo scorrerle lungo le guance mentre addentava la pesca matura, ringraziando l’eco per la sua benevolenza.

Svuotò il piatto lasciando solo i noccioli. “Ti ringrazio.”

La figura, fino a quel momento immobile, iniziò a camminare lungo la parete della grotta, sempre dandole le spalle. Se tu potessi esprimere un desiderio, quale sarebbe?

Lana sospirò. In quel momento desiderava solamente uscire. Una parte di lei bramava la vendetta, ma a quella stava già lavorando l’eco. “Non… non ho un desiderio.”

Certo che ce l’hai. La figura era ormai vicina.

Non devi dirmelo. Fai spazio nei tuoi pensieri, rilassati. Quando mi volterò, guardami e io saprò cosa donarti.

Lana respirava affannosamente. La donna a pochi metri da lei sembrava attendere il momento giusto.

Ti darò il tempo che ti serve per liberare la mente.

Chiuse gli occhi, cercò di regolare il suo respiro e di pensare alla sua vita, da sempre segnata dalla cattiva sorte. 

Un desiderio: avrebbe voluto ricominciare daccapo, da quando era una bambina innocente.

Se solo sua sorella fosse stata con lei, se sua madre fosse vissuta. Avrebbe tanto desiderato aiutare persone innocenti a non soffrire. 

Aprì gli occhi. Di fronte a lei c’era la figura, una sciarpa a coprirle il volto. Con la mano, la donna iniziò a svolgerla. Sotto non un viso, ma il vuoto: niente occhi, né bocca, né guance o fronte. Solo una luce scura, dolorosa, sempre più forte e diretta verso di lei. Lana non riusciva a smettere di guardarla. 

Si sentì leggera come aria, volò lontano da lì in un soffio dolce.

Nel suo viaggio incorporeo vide una donna e la sua sofferenza. Conobbe la sua storia. Sentì il potere del suo desiderio di vendetta, la forza della risoluzione nella sua mente: avrebbe passato il resto della sua esistenza difendendo gli innocenti; avrebbe sterminato gli assassini e i malviventi che le sarebbero capitati a tiro. Sarebbe rimasta nella grotta, usando il suo potere dare una possibilità agli innocenti, costringendo i colpevoli a pagare il prezzo per i desideri che avrebbbero espresso al suo cospetto. Teri la reietta avrebbe sacrificato la propria umanità per cambiare i destini tristi dei meritevoli in nome della sua vendetta eterna.


Lana era nel suo letto, solo una bambina. Al suo fianco dormiva la sua sorella minore e in cucina si poteva sentire la madre che finiva di sistemare le pentole cercando di fare meno rumore possibile.

Le sue memorie erano intatte: Lana sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco ed era pronta a fare in modo che loro non le trovassero. Sarebbero scappate subito e avrebbero raggiunto il Tempio, lì era certa che le avrebbero aiutate, perché la prima volta avevano dato asilo a lei senza fare domande.

Si alzò di scatto, conscia che quella era la notte in cui avrebbe cambiato il suo destino e quello della sua famiglia.

Ringraziò nel suo cuore la valorosa Teri, ora conosciuta come l’eco senza volto, per la seconda opportunità che le aveva offerto. Non l’avrebbe sprecata.


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Fandom: originale
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Prompt: The Islander - Nightwish

L'isola della Tempesta


An old man by a sea shore at the end of day

gazes the horizon with sea winds in his face

Tempest-tossed island, seasons all the same

anchorage unpainted and a ship without a name




Era ormai l’imbrunire. Il vecchio stregone Genfir osservava il mare che solo pochi minuti prima appariva calmo, iniziava ormai a vedersi la tempesta, ancora lontana. L’aveva sentita arrivare ore prima nell’odore del vento, anche se per lui non era una sorpresa poiché l’aveva predetta pochi giorni prima. Mettetevi al sicuro, ormeggiate le barche e raccogliete quanto maturo, ci aspettano giorni difficili.

Nessuno gli aveva creduto, a quel tempo. “Non è stagione per la tempesta, vattene a casa a riposare, vecchio!”

Era vero, le tempeste erano rare in quel periodo dell’anno, ma non era sempre stato così. Anni e anni prima, quando lui e il suo equipaggio erano arrivati all’isola all’epoca disabitata, le stagioni erano tutte uguali, tutte avvolgevano l’isola in tempeste violente e invalicabili. Del resto lui era vivo da quasi duecento anni e aveva visto cose che loro non erano neppure in grado di immaginare, loro erano solo umani, semplici e comuni umani. Era certo che la maggior parte di essi fosse stata sulla terraferma solo per andare ad acquistare prodotti a Markensfeld, dove attraccavano le imbarcazioni che navigavano tra il la terraferma e l’isola.

Era probabile che nessuno di loro avesse davvero viaggiato nel continente o sulle coste fuori dall'isola, al contrario di lui che da giovane aveva conosciuto e visto tutto il mondo.

Sì, le stagioni erano tutte uguali lì. Le tempeste potevano arrivare quando lo desideravano.


Il vento sui capelli lunghi di Genfir era ancora piacevole. Sapeva di sale, di pioggia e di sabbia. Il vecchio si chiese quanto tempo avrebbe avuto a disposizione per ammirare le nubi lontane e il cielo che si colorava di nero prima di dover tornare all’interno della sua abitazione. Tra le mura non si sarebbe potuto dire al sicuro, ma di certo sarebbe stato più protetto che all’esterno. 

Lo stregone sapeva che le origini del villaggio erano state dimenticate alla morte della prima generazione di abitanti, così come le sue origini. La magia era diventata qualcosa di remoto, confinato alle regioni ricche del sud e alla città di Magana dove quasi tutti gli stregoni e le streghe vivevano. Al di fuori restavano solo pochi sciamani o guaritori erranti, ancora fedeli ai principi che un tempo avevano governato il loro popolo. Lui era rimasto al villaggio, celato al ricordo del mondo dalla sua apparenza di vecchio. Dimenticato dai suoi simili e da chi abitava l’isola.

All’orizzonte vide delle vele, ma non riconobbe la nave. 

“Stiamo aspettando dei carichi?” Chiese Lania, la governatrice del villaggio, arrivata alle sue spalle.

“No, ma potrebbe essere qualche commerciante.” Il vecchio si alzò e si voltò verso la donna, sembrava preoccupata, conscia di ciò che stava per accadere.

“Non ha scelto un buon momento, la tempesta sembra essere forte, speriamo che la nave riesca ad arrivare illesa.”

Genfir le andò di fronte. “Questo è l’inizio, lo sai, vero?”

Lania scosse la testa. “Sono leggende, non credi?”

Lei non sapeva la verità, che la leggenda dell’isola della tempesta si riferiva proprio alla loro casa: un luogo impossibile da lasciare o da raggiungere, costantemente tenuto in scacco dalle correnti circolari che non permettono alle navi di attraccare. Un luogo protetto e isolato da una maledizione.

“Voi siete ancora giovani. Lania, pensi che io sia un anziano consigliere, ma da quanto tempo mi conosci?”

La donna aggrottò la fronte. “Da sempre. Cosa vuoi dire?”

Genfir rise. “E da sempre ti appaio come un vecchio, vero? Perché sono qui dal giorno in cui il villaggio fu fondato. È incredibile come sia facile dimenticare chi si ha di fronte, quando si ha una vita davanti e molte responsabilità. Sono sempre stato un vecchio. Lo sono da almeno un centinaio di anni.”

“Sei davvero uno stregone?” Chiese, un sorriso abbozzato, quasi a deriderlo.

“Arrivai qui centoquarantasei anni fa.” Ammise. “All’epoca l’isola era deserta, ma quando la esplorai fu chiaro che qualcuno prima di me l’avesse visitata, ma anche abitata. C’erano vecchie abitazioni semidistrutte, strutture che in tempi più antichi di me funsero da porto, da mercato. La banchina era grezza, sembrava essere stata costruita in fretta. Non era dipinta. Fu in una sera come questa che arrivammo su una nave senza nome per cercare il tesoro dell’Isola della Tempesta. Giurammo tutti di proteggere questo luogo, senza sradicare inutilmente gli alberi o rovinarne le sinuose coste, senza avvelenare il fiume o varcare le soglie della grotta proibita.  Il mare ci lasciò arrivare e ci permise di restare. Protessi la nave con la magia, usando formule e cospargendo materiali incantati che avevo raccolto e conosciuto nel corso dei miei viaggi. Si dice che viaggiare su una nave senza nome porti sfortuna, io e i miei quattro accompagnatori scegliemmo di scommettere il contrario, dal momento che nessuna imbarcazione era attraccata sull’isola in decenni.  Pensai che il nome della nave potesse essere visto dal vento e dal mare come una dichiarazione, una prevaricazione sul luogo sacro in cui viviamo.

Sembrò che il nostro arrivo avesse mitigato i forti venti e le correnti. Restammo sull’isola, iniziammo a cercare il tesoro, ma col tempo fummo catturati dalla bellezza del paesaggio, dalla ricchezza della natura e dai frutti della terra.

Il clima sembrava essersi mitigato, quindi fondammo il villaggio.”

Lania si sedette di fianco a Genfir. “Ricordo che raccontavi ai bambini del villaggio queste leggende. Forse sei solo un cantastorie.” Si voltò a guardarlo. “In molti ti considerano strano, ma mio padre, e mio nonno prima di lui, mi avevano avvisata: se tu mai avessi dato consigli, io avrei dovuto ascoltarti. Parlavano di te come un vecchio amico.”

“Lo era. Tuo nonno era con me quando fondammo il villaggio. Tuo nonno era un giovane marinaio con il desiderio di trovare una casa, io all’epoca ero già maturo. Sono passati almeno un centinaio di anni da allora. Decidemmo di tenere la nave senza nome attraccata tra le insenature, nelle profondità del fiume per proteggerci. Il villaggio è ancora giovane, la terza generazione ha iniziato ad abitare le sue rive e il rispetto per l’isola si sta dimenticando. È compito tuo rafforzare la memoria della storia. Solo così le tempeste si placheranno.”

Lania annuì. “Cosa pensi che accadrà ora? Credi che torneremo a essere isolati?”

“Nessuno può dirlo. Io posso solo darti consigli e cercare di proteggere l’isola coi miei incantesimi. Ho giurato che nel momento in cui gli uomini avessero iniziato a non mantenere la promessa fatta il giorno della fondazione me ne sarei andato. Forse le cose hanno già iniziato a cambiare, ma possiamo ancora recuperare.”

“Non sarà facile…”

“Con lo sviluppo della tecnologia in molti cominciano a dimenticare il rapporto che in passato gli uomini avevano con la natura. Qualche giovane imprudente si può essere introdotto nella grotta, se così fosse è necessario che io rimetta i sigilli al loro posto.”

“In molti pensano che queste siano leggende, la curiosità è umana e giovane come i ragazzi che non credono nelle mistiche divinità della natura.” Li difese la donna.

“Mi piace pensare che ci sia ancora qualcosa da fare per dimostrare che qui gli uomini siano diversi. Ti aiuterò.”

Genfir e Lania si diressero insieme verso la piazza cittadina e suonarono la campana per radunare gli abitanti. Avevano un allarme da dare e un’importante storia da raccontare.


Il villaggio sull’Isola della Tempesta prosperò finché lo stregone Genfir percorse le sue strade, indolcendo la natura e piegando il volere degli uomini che la abitavano. 

Alla sua morte la nave senza nome fu abbattuta, la grotta fu saccheggiata e delle case del villaggio non rimasero che rovine. La banchina che un tempo era grezza, ora dipinta con vernice bianca fu lasciata a scrostarsi e a distruggersi in balia del vento e delle onde del mare in tempesta, che non permisero più a umani ingrati di vivere nella casa degli dei. 

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Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Heismay Noctule
Prompt: il guerriero errante 
Partecipa al COWT 14

Un destino di solitudine

 









Era chiaro a tutti che Heismay fosse entrato nella Guardia Reale grazie alle sue capacità in combattimento: era un guerriero agile, in grado di muoversi silenziosamente e con velocità. Inoltre le caratteristiche proprie della razza degli Eugief facevano comodo in battaglia: l’udito fine, la leggerezza del passo, la stazza minuta e all’apparenza innocua gli permettevano di agire senza quasi essere notato. Nonostante chi lo conoscesse di persona lo ammirasse, però, si trovava continuamente a essere osservato con sospetto dalla gente comune, che bisbigliava attorno a lui parole che gli causavano grande dolore.

Pipistrello, animale, bestia. Molto spesso si era trovato a pensare con sollievo alla sua famiglia, che se ne stava al sicuro nel piccolo villaggio abitato quasi solo dagli Eugief, dove potevano vivere in tranquillità. Sognava un futuro migliore per suo figlio, per questo continuava a combattere per mantenere il suo posto nell’onorevole Guardia Reale.

Nell’ultimo periodo però aveva iniziato a rispondere a tono ai commenti di alcuni sciocchi che commentavano la sua stazza o le sue origini quando lo vedevano in mezzo agli altri soldati. Per gli Eugief niente era semplice e in quanto tale si era dovuto guadagnare la sua posizione con il duro lavoro e l’impegno costante. Chi la pensava diversamente apparteneva a razze che non potevano capire la discriminazione.

Heismay si era isolato, passava le serate libere bevendo e pensando a quanto fosse stanco di essere continuamente messo in discussione. Si aspettava che prima o poi sarebbe stato invitato a entrare nella Shadowguard e ne fu lieto perché per lui stare lontano dal centro dell’attenzione e agire nascosto nell’ombra era un’opportunità, era nato per questo.


Il giorno in cui suo figlio morì, Heismay era in missione. Aveva in programma di tornare a casa entro pochi giorni e di passare un po’ di tempo in famiglia, non fece in tempo.

La notizia lo raggiunse durante la cena in taverna, proprio mentre festeggiava con il gruppo l’imminente ritorno a casa dopo il successo appena ottenuto.

Anche dopo anni lo considerava il giorno peggiore della sua vita.

Nonostante tutto quello che aveva fatto nell’esercito e nella Guardia Reale, non gli avevano neppure mandato un messaggero ufficiale. Una semplice pergamena inviata dalla Chiesa Santista. Un biglietto indirizzato a lui, scritto in fretta, senza sigilli ufficiali.


Sir H. Noctule

Siamo dolenti di informarla che suo figlio è in condizioni critiche dopo una rissa. 


Neppure una firma, solo poche parole. Heismay pensò subito che si trattasse di un malinteso: suo figlio era un pacifista nato: troppo tranquillo, troppo giovane. Non aveva mai neppure giocato a combattere con lui.

Più volte padre e figlio avevano parlato del senso del combattimento, del ruolo della Guardia e del ricorso alla violenza da parte della società, che per suo figlio non poteva mai essere accettabile.


Heismay si era precipitato al villaggio con un cavallo preso in prestito dal Santista, che si era premurato di farsi ringraziare per la gentile concessione.

Nella stanza della clinica c’era odore di disinfettante. La dottoressa aveva accolto l’Eugief con aria molto triste. “Non ci sono speranze, purtroppo. Ha una grande forza di volontà e sta provando a resistere, ma il suo giovane corpo è in condizioni disperate.”

Gli si era avvicinato trattenendo le lacrime e si era seduto al suo fianco. Il ragazzo era disteso, coperto di steccature, fasce, ematomi e disinfettante. Sembrava addormentato, ma si poteva notare la tensione del dolore nei suoi lineamenti. Heismay pensò che avrebbe desiderato prendere tutto il suo dolore e portarlo via, sostenerlo lui al suo posto oppure darlo ai suoi aggressori.

Gli posò una mano sul braccio con delicatezza, sperando che nel sonno clinico percepisse la sua presenza.. “Sono orgoglioso di te, non ti lascerò mai.” Gli disse. Il figlio rispose stringendo la sua mano, incapace di parlare. 

Heismay rimase fermo ad attendere, a pregare in un miracolo. 

Non ce ne fu alcuno. Ci vollero ore perché lui cedesse alla morte.


Dopo la madre, anche il figlio.

Era troppo. Intorno a sé non vedeva che odio. Lo sentiva, lo vedeva e lo annusava intorno a lui. Non ne poteva più.

Al diavolo tutto, pensò. Aveva passato anni della sua vita lontano dal villaggio, dal figlio che adorava e prima ancora dalla moglie che amava con tutto se stesso. Per cosa? Per difendere un popolo che disprezzava lui e tutti gli Eugief? Per causare ulteriore dolore in nome della pace?

Aveva sempre vissuto da ultimo, con la convinzione morale che tutti fossero uguali, ma faticava a pensare ai Parypus come suoi pari ora che a causa loro aveva perso l’unica persona che considerava importante.

Rimase al villaggio giusto il tempo per organizzare la cremazione. 


Non tornò alla Shadowguard.

Iniziò il suo esilio volontario. Heismay vagava per i boschi, per i villaggi. Si era dato lo scopo di difendere i deboli, di eliminare le ingiustizie e di vendicare, un giorno, la morte del suo unico figlio. 


Da solo, senza radici, senza qualcosa per cui vivere. Non gli importava del proprio futuro, desiderava solamente che nessun altro subisse il suo stesso destino.


Un guerriero errante a caccia di avventure, non con l’obiettivo di ottenere fama e gloria, ma con il desiderio di espiare la sua colpa, di fare in modo che anche se era stato assente con suo figlio, non lo sarebbe stato con altri figli sofferenti, impedendo a padri e madri che a volte non erano in grado di farlo, di prendersi cura di loro.

Proteggere i deboli, gli indifesi. I giusti. In nome di suo figlio.


Viaggiava di notte, osservava e ascoltava nascosto nelle ombre e in pochi lo vedevano. Se c’era una cosa che sapeva fare era scomparire nel buio. 

Una notte si appostò ai margini di un piccolo villaggio abitato quasi unicamente da Parypus. Sentì i brividi salirgli lungo la schiena al pensiero dei delinquenti che avevano picchiato a morte il suo innocente ragazzo e si chiese quale fosse il loro aspetto. Più volte aveva pensato che avrebbe potuto incontrarli, forse rivolgere loro la parola o aiutarli, difenderli. Per questo li evitava, ignorava le loro difficoltà e si limitava a occuparsi dei loro torti, rispondendo con violenza al dolore che gli avevano causato.


Era appostato nel bosco, stava su un albero a mangiare frutta fresca raccolta lungo il cammino quando sentì un urlo. Non era distante. Tese subito le orecchie per individuare la direzione da cui proveniva. Quando udì il secondo grido planò giù dall’albero e, veloce e silenzioso, corse. Con una mano impugnava la spada, pronto a sguainarla quando necessario. 

Si fermò all’ombra di una capanna e li vide: tre giovani all’apparenza alticci stavano strattonando una coppia di Parypus poco più che ragazzini. 

“Dammi le tue monete, che abbiamo finito i soldi.” Ordinò uno di loro ai ragazzini, che continuavano ad arretrare. 

“Vi abbiamo già detto che non ne abbiamo.” Heismay strinse l’impugnatura della spada sentendo la voce tremante della ragazza.

“In qualche modo ci dovrete pagare. Dove abitate?” 

“Già! Potete ospitarci per la notte.” Una minaccia velata nascosta sotto un tono vellutato. Il guerriero uscì dalle ombre in silenzio, un passante all’apparenza innocuo che dichiarò la sua presenza canticchiando piano mentre camminava in loro direzione.

Solo uno dei tre malviventi prestò attenzione a lui. Heismay sapeva che la maggior parte della popolazione reagiva alla violenza con indifferenza, perché lui avrebbe dovuto essere diverso? Persino i soldati spesso chiudevano entrambi gli occhi quando non erano in servizio, così come le guardie cittadine che a volte erano parte del problema. Era un mondo al contrario e lui sapeva che non avrebbe mai potuto cambiarlo, ma stava facendo la sua piccola parte.

L’Eugief si fermò a pochi passi dal gruppo. “Va tutto bene?” Chiese, con fare innocente.

“Non impicciarti, bestia.” La risposta lo fece innervosire. Per un istante pensò che avrebbe ucciso tutti e si dovette sforzare per resistere all’impulso di sguainare la sua spada.

“È strano che mi chiamiate bestia, quando è così che tutti chiamano voi. Noi siamo i mostri, giusto?”

I malviventi si voltarono a guardarlo. Aveva la loro attenzione. “Non fareste meglio a trovarvi un impiego anziché fare gli sbruffoni violenti?”

Il leader del gruppo strinse i pugni e iniziò a camminare verso di lui. Heismay non se ne preoccupò. “Immagino non ne vogliate parlare.” 

Gli si scagliarono contro, ma il guerriero schivò i loro attacchi senza troppi problemi l’alcool che avevano consumato rallentava i loro movimenti, rendendoli goffi e prevedibili. Uno di loro teneva in mano un coltello, un altro aveva un tirapugni coperto di pungiglioni di metallo.

Non riuscivano a toccarlo. Poteva sentire la loro frustrazione crescere: la vedeva nei loro movimenti sempre più lenti e insicuri, la sentiva nel loro respiro pesante. Impugnò la spada e colpì uno di loro al braccio. Il giovane urlò e arretrò, il terrore negli occhi. 

Gli altri due continuarono a tentare di colpirlo. Un altro fendente nella parte bassa della gamba. Heismay osservò il Parypus cadere a terra e tenersi la zona ferita. L’ultimo non cedeva. 

“Prima o poi ti colpisco!” Gli urlò. 

Il guerriero emise una lunga risata. “Certo, è possibile. Però preferisco chiuderla qui.” Lo colpì prima a un piede, poi al braccio destro. “Non oggi, temo.”

I due ragazzini erano scomparsi, fuggiti al sicuro. 

I malviventi invece erano a terra, sconfitti. Heismay li osservò, chiedendosi se avrebbe avuto pietà delle loro vite o se si sarebbe un giorno tramutato in un giustiziere, un assassino senza pietà, né anima.

Rivolse loro la domanda che faceva a tutti. “Siete mai stati al villaggio degli Eugief, vicino a Martira?”

“Perché lo vuoi sapere, mostro?”

Nonostante fossero a terra, quegli sciocchi continuavano a istigare la sua rabbia. “Rispondi o ti uccido.” Gli disse calmo, puntando la spada al suo collo fragile e indifeso.

“No, siamo arrivati dal nord.” Rispose il primo che aveva colpito.

Erano troppo giovani per essere loro i responsabili della morte di suo figlio. Era probabile che stessero dicendo la verità. “Cosa volevate fare a quei due giovani?”

“Noi… volevamo solo soldi.”

Heismay sbuffò. “Pensate forse che la violenza sia accettabile? Se desiderate vivere facendo del male al prossimo, sono pronto a uccidervi qui.”

Uno dei giovani stava piangendo. “Mi fa male la ferita.”
“Non sarà quella a ucciderti. Pensate al dolore che avete inflitto, alla paura che sentite ora e ditemi cosa fareste al mio posto.”

Il guerriero poteva osservare la paura nei loro sguardi. La odorava sulla loro pelle. La paura però non aiuta il pentimento, lo sapeva. La scelta di uccidere non era mai facile e si chiese se vista la loro giovane età avrebbe fatto bene a risparmiarli. “Avete mai ucciso qualcuno?”

Il pianto crebbe. “No! Abbiamo solo derubato… abbiamo picchiato…” Un’ombra di pentimento nella sua voce lo riportò verso la lucidità. Abbassò la spada osservandoli per ciò che erano: ragazzini impauriti senza una guida.


In quel momento Heismay sentì voci e passi provenienti dal villaggio, un gruppo di abitanti accompagnati guidati dai due ragazzini che aveva aiutato e da alcune guardie stava correndo in lodo direzione

“Eccolo! È lui che ci ha aiutati!”

Le guardie apparvero sorprese nel trovarsi di fronte lo Eugief illeso e i tre malviventi a terra, doloranti. “Non sono feriti gravemente, si riprenderanno.” Dichiarò riponendo la spada sperando che le guardie comprendessero le sue buone intenzioni.

Le guardie parvero rilassarsi e rivolsero le loro lance in direzione dei tre ragazzi a terra. “Li cercavamo da un po’, sono accusati di omicidio.” 

“C’è una taglia sulle loro teste, fresca fresca di giornata.” 

Heismay si voltò mentre le guardie trafiggevano i giovani, chiedendosi se davvero fossero assassini, in quel caso forse il mondo sarebbe stato un posto migliore senza di loro. Il dubbio però restava: erano dei ragazzi, il mondo ancora da scoprire, forse necessitavano solo di una guida. 

Non provava pietà, ma dispiacere: se era la morte il loro destino, forse avrebbe potuto esercitarla lui e sentirsi un po’ meno in guerra col mondo intero. Probabilmente però si sarebbe sentito solo più vuoto. La sua anima si sarebbe frantumata in modo definitivo e lui non avrebbe più provato il desiderio di vivere in mezzo a quella società in rovina.

“Una parte della ricompensa è tua, Eugief.” Disse il capo delle guardie. “Seguici, mio figlio ci tiene a darti ospitalità per la notte. 

Suo figlio. Heismay li seguì cercando di provare orgoglio nella sua missione. Quella notte sarebbe stato ringraziato e considerato un eroe, ma l’indomani sarebbe partito in cerca di altri figli da proteggere. Prima o poi avrebbe ottenuto anche la sua vendetta.


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Fandom: Metaphor- Refantazio
Prompt: Viaggio
Personaggi: vari

Gallica - 100
Will - 100

Gallica

Da quando erano saliti sul carro, Gallica si sentiva nervosa. Ogni volta che guardava Will aveva l'impressione di essersi dimenticata qualcosa di molto importante, vitale per la missione, se solo fosse riuscita a ricordarsi cosa. 

"è la prima volta che fai un viaggio?" Gli chiese, anche se sapeva già la risposta.

Lui annuì. "Non sono mai uscito dal villaggio prima."

"Giusto, sei stato sempre col principe." 

Will e il principe sono una cosa sola. 

Ma che sciocchezza! Forse stava invecchiando, si disse, più probabilmente era solo stanca.

Però gli assomigliava. WIll e il principe come erano due gocce d'acqua.



Will

Le spine gli premettero contro la gola e il Principe ansimò, prendendo fiato a fatica.

Nell'ultimo periodo anche pochi passi lo stancavano, tutto ciò che poteva fare era leggere il suo libro e dormire.

In sogno egli si vedeva come un giovane dai capelli blu con occhi eterocromi e due gambe agili che gli permettevano di correre. 

L'altro se stesso era partito per un viaggio per salvare il povero Principe che, debole e indifeso, non aveva possibilità di sopravvivere.

Si rese conto di non riuscire a svegliarsi. Poco male: quell'avventura era più interessante della sua triste vita.



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Fandom: originale
Prompt: storia con due finali
Wordcount: Cap. 1 - Routine - 2004
Finale 1 - Seguire il sogno - 2078
Finale 2 - Seguire il cuore - 2070

Capitolo 1 - Routine



Spense la sveglia con una mano, prima ancora che iniziasse a suonare. Non aveva dormito bene, ma non era una sorpresa, le capitava spesso di passare le notti a rigirarsi nel letto. A volte quando non riusciva a prendere sonno si rifugiava nel suo smartphone e iniziava a scorrere video e immagini cercando di svuotare la mente carica di pensieri, ma non funzionava, anzi: come aveva sentito in programmi TV pomeridiani di dubbia serietà e letto in seguito anche da fonti più attendibili, quella non era una soluzione, ma un’amplificazione del problema. 

Infatti continuava a  passare le notti fissando il buio della sua stanza, svegliandosi in piena notte senza apparente ragione.


Si alzò sbadigliando, col collo dolorante per la posizione sbagliata - era ora di provare anche a cambiare il cuscino -, si infilò le ciabatte alla cieca e si diresse in cucina dove la aspettava il suo caffè del mattino.


“Devo smettere di bere tutto questo caffè.” Si disse senza convinzione, perché sapeva che era probabile che nel corso della giornata ne avrebbe bevuto parecchio. Alzò le spalle, rassegnata, mentre si specchiava sull’immagine distorta che vedeva riflessa sul vetro del forno. “Magari dalle cinque del pomeriggio non ne bevo più, prima faccio quel che posso.”

Accese la macchina e inserì una capsula. Posizionò la tazzina pensando che quella fosse una azione poco sostenibile. “Oggi vado a comprare le capsule compostabili.” Di nuovo era rivolta al suo riflesso. Doveva smetterla di parlare da sola, ma non era abituata a stare da sola e non era facile passare la giornata in silenzio.

Sei mesi fa se n’era andato lui, e da qualche settimana sua sorella si era anche ripresa il gatto. Il suo unico compagno in quella casa troppo grande.

Le mancava, del resto l’aveva tenuto solo per sessantacinque giorni, il tempo necessario perché la ristrutturazione a casa di sua sorella fosse conclusa, non poteva pretendere di rubare il suo gatto.

Premette il pulsante e osservò il liquido scuro scendere e il fumo alzarsi intorno alla tazza. Si sedette sul divano, la tazzina in una mano e una fetta biscottata nell’altra. “Ma così cadono le briciole!” Disse in tono canzonatorio, ormai non le importava delle briciole e comunque quella sera avrebbe pulito, quindi non era un problema. Fece colazione pensando a Paki e al suo pelo sparso in giro per l’appartamento, a quanto all’inizio le aveva dato fastidio. Ora le mancava il piccolo Pachino.

“Magari mi prendo un gatto.” Sorrise, il pensiero la fece sentire un po’ meno sola.

O forse no, pensò inclinando la testa di lato. Doveva prepararsi per andare al lavoro, non era il momento di prendere decisioni così importanti, soprattutto non quella mattina e non mentre era così assonnata.



Celeste aveva studiato a ragioneria. Non per sua scelta, più per decisione dei suoi genitori che le avevano spiegato quanto quella fosse la decisione più conveniente per il suo futuro. Lei aveva tentato di lamentarsi agitando di fronte a loro con la sua debole convinzione i test attitudinali che dimostravano il suo interesse per l’ambiente umanistico o turistico. Sua madre le aveva strappato i fogli dalle mani liquidandoli come “Le sciocchezze che vi mettono in testa a scuola” e suo padre si era limitato a ripetere “Hai bisogno di qualcosa che ti permetta di lavorare dopo le superiori, ti iscriviamo lì.” 

Avrebbe voluto puntare i piedi e anche le braccia per convincerli a iscriverla al turistico o a un liceo linguistico, ma aveva rinunciato, non aveva la forza di opporsi a loro. Con un sospiro aveva immaginato tutta la sua vita, l’aveva vista passarle davanti agli occhi: i viaggi, il lavoro in giro per il mondo. Avrebbe conosciuto persone interessanti e culture distanti. Avrebbe imparato a parlare perfettamente inglese, tedesco e magari anche una lingua orientale come il cinese o il giapponese. Forse si sarebbe trasferita distante e avrebbe rivisto i suoi solo a Natale, a volte sarebbero andati loro a trovarla nella sua casa piccola, ma ben organizzata.

I pensieri erano scivolati via, ma a volte tornavano, soprattutto quando ascoltava le lezioni di economia aziendale senza alcun interesse e si perdeva in se stessa cercando di non addormentarsi.

Faceva il suo dovere, ma non riusciva a immaginarsi una vita intera a parlare di bilanci e di conti. Pensava che piuttosto avrebbe preferito un lavoro più umile, ma meno noioso.

A casa i suoi invece avevano continuato a parlare del suo futuro roseo e sicuro in una delle aziende lì intorno. “Con le conoscenze di papà troverai subito un buon posto, vedrai!” Le diceva la mamma sorridendo entusiasta, una mano posata sulla spalla di Celeste, che sospirava sentendosi invisibile.

La scuola era finita e suo padre l’aveva accompagnata al primo colloquio in un’azienda di amici di famiglia. Era stata assunta subito come apprendista e non si era lamentata, anzi. Era felice all’inizio, perché avere una busta paga le permetteva di comprarsi ciò che desiderava, di uscire coi suoi amici. Un giorno avrebbe usato i suoi risparmi per andare in vacanza per conto suo, forse in giro per il mondo.


Aveva conosciuto Stefano mentre camminava per il centro in un pomeriggio di primavera. Era in compagnia di una sua amica che le aveva chiesto di accompagnarla in un’uscita a quattro. “L’amico di Luca e simpatico, vedrai: ti piacerà!”

Celeste si era fatta trascinare, la sua vita era una deriva durante la quale le decisioni continuavano a essere prese da altri per lei, ma in fondo non le dispiaceva, perché non stava poi così male, anzi: il lavoro non la faceva impazzire, ma le dava da vivere e si era anche potuta mettere da parte un piccolo gruzzoletto che le avrebbe permesso di comprarsi un appartamento, quello che i suoi consideravano “un punto di partenza per il futuro”, non era ancora andata a fare il suo viaggio intorno al mondo, ma forse sarebbe andata in Giappone in vacanza quell’estate insieme a un gruppo di amici. Stefano era in effetti simpatico e aveva dimostrato da subito un particolare interesse per il lavoro di Celeste. Non le era dispiaciuto passare del tempo insieme, quindi si era lasciata convincere a uscire con lui e in breve avevano iniziato a fare progetti a cui la ragazza non aveva mai pensato prima di allora.


Quell’estate non era andata in vacanza, perché lei e il suo fidanzato avevano in programma di mettere su una famiglia, quindi si dovevano impegnare a risparmiare per il futuro. Celeste aveva tentato una volta di più di organizzare comunque un viaggio, alla fine si erano concessi una settimana al mare e lei si era rassegnata a trarne il più possibile. 

Quando compreremo la casa, quando ci sposeremo, quando avremo abbastanza da parte… c’era sempre una condizione fuori posto per il suo viaggio dei sogni, al punto che Celeste si era messa il cuore in pace e aveva smesso di chiedere.


Avevano cercato casa insieme, ma al momento della formulazione della proposta immobiliare lei si era resa conto che Stefano avesse parlato tanto di risparmi, ma non avesse in realtà fatto azioni concrete per potersi permettere l’acquisto della casa di cui avevano parlato.

“Per ora perché non andate a stare dalla nonna? Tanto lei è in casa di riposo e non ci vive nessuno, è la soluzione migliore.” Le aveva proposto sua madre. Come tutti si aspettavano, la nonna le aveva fatto preparare un regolare contratto di affitto che la nipote e il suo compagno pagavano regolarmente ogni mese.


La vita insieme si era rivelata meno romantica di quanto Celeste aveva sempre immaginato: Stefano era disordinato e non aveva i suoi stessi standard di pulizia. La ragazza era cresciuta in una casa splendente in cui ogni faccenda andava sbrigata appena possibile. Non c’erano scuse per evitare di fare la propria parte per nessun membro della famiglia. Il suo fidanzato invece se ne stava sul divano e la invitava a fargli compagnia. “Facciamo dopo, adesso rilassati.”

Solo che dopo un po’ di tempo si era resa conto che era sempre e solo lei a fare ciò che serviva. Stefano lavorava e tornava stanco: “Puoi preparare tu la cena stasera?”

Così lei preparava la cena, teneva in ordine, puliva e lavorava. Metteva in ordine i vestiti e spolverava, pagava le bollette e teneva sotto controllo la burocrazia, del resto era il suo lavoro, quindi era più brava di lui.


Ricordava ancora il giorno in cui si era resa conto di non essere felice. Era a passeggio con la sua amica Silvia per le vie del centro città, quando lei si era fermata di fronte alla vetrina di un negozio specializzato in colori artistici: “Vorrei tanto regalare a Luca quel set, gli piace così tanto dipingere e sta aspettando perché costa troppo. Spero di poterlo prendere per il suo compleanno.” Celeste aveva osservato gli occhi della sua amica brillare di orgoglio e di amore e si era chiesta cosa avrebbe potuto regalare a Stefano. Si era resa conto che lui non faceva niente di interessante, quando l’aveva conosciuto almeno giocava a calcio, non le piaceva, ma almeno era un impegno, ora nemmeno più quello, guardava solo le partite. Lei stessa non faceva più niente di interessante. Un brivido gelido le era corso lungo la schiena e aveva smesso di ascoltare la storia divertente che la sua amica stava raccontando.

La vita di Celeste era vuota. La realizzazione la lasciò distrutta.


Quella sera era arrivata a casa e aveva lanciato le chiavi sulla cassettiera. Si era distesa sul divano scalza e aveva acceso la televisione, l’aveva lasciata andare senza ascoltare, utilizzandola come sottofondo ai suoi pensieri che non le stavano dando pace.

Stefano era arrivato canticchiando dall’uscita coi suoi amici e aveva lanciato le chiavi al suo stesso modo. “Ho già mangiato.” Aveva detto togliendosi le scarpe di fianco alla porta e poi se n’era andato in bagno, probabilmente per farsi una doccia. Lei era rimasta lì immobile. Era ancora invisibile, evidentemente.


Si erano lasciati poche settimane dopo. Era bastato che lei smettesse di legarli perché ciascuno di loro iniziasse a percorrere la propria strada. Stefano all’inizio ci era rimasto male, ma non era riuscito a rispondere alle domande di Celeste: cosa facciamo insieme? Perché vuoi stare con me? Cosa mi piace? Chi sono io, lo sai?


Era convinta che fosse stato meglio così, ma era rimasta sola. Aveva passato i primi quindici giorni a piangere, poi aveva iniziato a notare alcuni fattori positivi: la casa era più ordinata e Celeste ora poteva comprare ciò che voleva da mangiare. Non si sentiva in colpa nel prendersi il suo tempo e non provava più la necessità di cercare sempre e comunque la perfezione. L’aveva detto ai suoi genitori dopo qualche giorno e per loro era stato più difficile accettare la situazione, ma non c’erano alternative, la decisione era definitiva.

Poi era arrivato Paki, il suo miglior coinquilino fino a quel momento.



Uscì dalla porta vestita come sempre: pantaloni sobri, scarpe nere, comode ed eleganti, maglioncino leggero adatto all’ufficio e un cappotto nero come il suo umore.

Prese l’automobile e si recò al lavoro. Era incredibile come col tempo avesse iniziato a riconoscere gli altri lavoratori che incrociava ogni mattina, sempre alla stessa ora: C’era l’uomo stempiato sempre di fretta che sembrava imprecare ogni volta che un semaforo diventava rosso, poi la donna che sbadigliava di continuo. C’era quello che cercava sempre di sorpassare e tallonava chi gli stava di fronte e la signora che rallentava di proposito per farlo passare, che ogni volta gli rivolgeva insulti dopo il sorpasso.

Forse qualcuno avrebbe potuto definire Celeste quella che non ride mai, oppure quella invisibile.

In ufficio in genere era da sola. Era considerata affidabile, almeno così le avevano detto i capi in occasione dell’incontro annuale nel quale non davano mai alcun bonus, ma facevano sempre un sacco di complimenti.

Entrò con un sorriso salutando i colleghi, almeno avrebbe dovuto fare meno ore del solito.






FINALE 1 - Seguire il sogno -


 
 

Quel pomeriggio uscì dall’ufficio alle tre del pomeriggio. Non era solita avere del tempo libero così presto nei giorni feriali, quindi decise di non andare direttamente a casa. 

Si sentiva molto stanca a causa del mancato sonno della notte precedente ma pensò che fare una passeggiata prima di tornare a  casa l’avrebbe aiutata a riposare meglio durante la notte e non nel pomeriggio, anche perché era certa che se fosse tornata a casa subito avrebbe passato il tempo pulendo in giro o si sarebbe fatta un bel pisolino. 

Si domandò se chiamare Silvia, ma poi ripensò a quanto Luca e Stefano fossero amici e lasciò perdere, forse ci sarebbe voluto un po’ di tempo in più per parlare con lei liberamente. Non credeva che l’amica le avrebbe negato la sua compagnia, ma era certa che il suo ex fidanzato, avvelenato dalla rottura, avesse passato parecchio tempo con la coppia in quel periodo a raccontare quanto lui fosse triste e quanto Celeste fosse stata cattiva. Poteva immaginarlo mentre si dipingeva da vittima innocente della situazione anziché prendersi le proprie responsabilità. Si è in due in una coppia, sia quando le cose vanno bene, che quando le cose finiscono.

In tutta onestà Celeste era convinta che Stefano avrebbe potuto recuperare il rapporto con lei se solo si fosse impegnato un po’ e che la maggior parte dell’impegno nella coppia l’avesse da sempre messo lei, ma si stava sforzando di non recriminare.

 

Pazienza, pensò, avrebbe fatto un giro per il centro da sola. In fin dei conti era ancora presto e lei aveva proprio bisogno di comprarsi qualcosa per tirarsi su il morale, fosse stata anche una pizza per cena, ci avrebbe pensato al bisogno.

 

Girò per le vie in cerca di un parcheggio e fu fortunata, perché ne trovò uno proprio dove sperava, di fronte all’agenzia di viaggi di cui osservava sempre la vetrina quando passava di lì. Scesa dall’auto si chiese se fosse stato il destino a farla parcheggiare proprio lì. Si fermò a osservare le proposte e le immagini di luoghi esotici in vetrina, incantata. Le sue stesse parole le riecheggiarono nella mente: “A cosa serve ormai una agenzia viaggi? Con internet si può organizzare tutto da soli.” Lo pensava davvero, ma si chiese se avrebbe avuto l’energia per farlo davvero. Senza neppure rendersene conto si ritrovò dentro l’ufficio.

 

La donna al bancone le sorrise: “Buonasera, come posso esserle utile?”

Celeste si schiarì la voce. “Veramente… io non ho molte idee, è da tanto che voglio fare una bella vacanza… però non so cosa… neanche dove in realtà.” Rise, imbarazzata.

L’impiegata però continuò a sorridere come se fosse abituata a incontrare potenziali clienti come lei: persone un po’ perse, che cercano risposte alle loro vite vuote in agenzia viaggio: “Io sono Elena. Ora ho tempo, se vuole posso rispondere a tutte le sue domande, oppure le posso lasciare qualche opuscolo da guardare.” Le indicò la sedia di fronte a lei con fare quasi materno.

A Celeste sembrò quasi che la vedesse per com’era veramente e accettò l’invito, “Mi chiamo Celeste, può darmi del tu.” la ragazza si sedette e iniziò a osservare i depliant sul tavolo. La donna invece restò in piedi, con il suo sorriso smagliante le puntò contro l’indice: “Ho un’idea!” 

Si allontanò e tornò indietro con un mappamondo grande poco più di una palla da calcio. Lo posò di fronte a lei trionfante. “Dove vuoi andare?” 

Celeste ripensò al suo passato: a tutte le volte che aveva sognato di partire per un lungo viaggio itinerante con una valigia da riempire nel corso della sua avventura con i ricordi di ciò che avrebbe vissuto, dei luoghi che avrebbe visitato. Aveva immaginato di incontrare persone nuove, che sarebbero diventate nuovi amici nel villaggio globale che il mondo intero stava diventando.

“Non lo so.” Disse, facendo ruotare il mappamondo con la mano. Chiuse gli occhi e puntò il dito a caso, come immaginava nel mezzo dell’Oceano Pacifico. Pensò che ne avrebbe comprato uno decorativo da mettere in salotto, uno di quelli grandi e pesanti col supporto in legno. “Però vorrei andare al caldo.” Rise. “Devo fare il passaporto,” realizzò e guardò preoccupata la donna: “Quanto tempo ci vuole?”

Lei scosse la testa. “Non si preoccupi per quello, le spiegherò tutto. Dobbiamo pensare a una cosa alla volta e per ora possiamo lasciare perdere la burocrazia.”

“Allora da dove cominciamo?” 

“Dalle mie domande. La prima è semplice: hai date flessibili o ci sono giorni precisi in cui vorresti andare in viaggio?”

Celeste ci pensò un attimo. “In agosto l’ufficio chiude, ma posso prendere ferie anche in altri momenti, anche perché lo fanno tutti gli altri. Flessibili, quindi.”

“Benissimo, allora seconda domanda: quanto tempo vuoi stare in viaggio?”

“Due settimane, oppure tre.” Non dovette pensare, il problema era che nella sua testa aveva già organizzato talmente tanti viaggi da non riuscire a decidere il luogo di destinazione. Ogni viaggio che aveva immaginato però era lungo abbastanza da permetterle di esplorare il territorio, di riposare e di fermarsi a osservare e conoscere le tradizioni, di assaggiare i cibi tipici e vivere esperienze distanti da quelle proposte ai turisti veloci, che viaggiano da un luogo all’altro scattando foto e correndo da una destinazione all’altra.

“Molto bene, preferisci un villaggio vacanze o qualcosa di più libero?”

Celeste sospirò. “Dipende dalla zona, vorrei sentirmi al sicuro perché devo viaggiare da sola…”

Lo sguardo dell’impiegata cambiò all’improvviso: “Potrebbe interessarti un viaggio di gruppo tra sconosciuti?”

La ragazza esitò. “Io… non lo so, forse preferisco andare da sola questa volta.”

La tour operator alzò le spalle. “Certo, va benissimo, era solo una proposta che in genere piace alle ragazze, perché dà un po’ di sicurezza in più, ma possiamo trovare una soluzione, più di una in realtà.”

“Grazie, a me basta non andare in crociera, mi terrorizzano.” Ammise Celeste ridacchiando in modo nervoso, domandandosi perché non avesse messo prima questo paletto.

“Dunque, ricapitolando: vorresti viaggiare per due settimane in un luogo caldo, in agosto ti sarebbe comodo, ma puoi considerare altri periodi.  Per te è importante che la destinazione ti faccia sentire al sicuro.” riportò in un foglio l’elenco puntato delle caratteristiche del viaggio, poi iniziò a far sbattere il tappo della penna sul tavolo, sembrava immersa nei pensieri. “Ultima domanda: quale è stato il tuo viaggio preferito, in tutta la vita?”

Celeste prese fiato, ma non sapeva cosa rispondere. “A dire la verità non ho viaggiato molto. Con i miei genitori, quando ero piccola, ogni anno per due settimane andavamo al mare qui vicino, sempre nello stesso appartamento e con le stesse persone nel condominio vicino alla spiaggia. Non sembrava neanche una vacanza negli ultimi anni, era più una routine estiva. Io qualche anno fa sono andata a visitare Roma con una mia amica e con la scuola l’ultimo anno siamo stati in gita a Praga. Lì mi sono divertita perché era tutto organizzato,  abbiamo visitato musei e luoghi interessanti nella città. Mi piace l’arte e mi sono divertita anche con la classe, gente della mia età.” Si fermò e osservò l’agente turistica che scriveva ancora. “Camminare mi piace, ma non in montagna, anche perché non sempre c’è molto da vedere. E poi non sono molto allenata” ammise.

“Ti muoveresti volentieri in treno o in metropolitana?” Chiese.

“Sì, in treno soprattutto.”

La donna si fermò. “Allora ti dico quello che farei io, ti do qualche alternativa e poi tu decidi cosa fare.”

Le consigliò un viaggio nel sud della Spagna, all’insegna della scoperta dei luoghi della storia, tra Siviglia e Granada. Lì sarebbe stata più libera di muoversi in autonomia e con comodità, inoltre si sarebbe sentita più a casa e a suo agio anche con la lingua. 

Poi le propose una vacanza incentrata sul relax a Cipro, dove avrebbe avuto il tempo di rilassarsi e di immergersi nella storia tra i templi di Nicosia e di Paphos e le chiese bizantine. 

La sua ultima proposta consisteva in un viaggio di gruppo in Giappone, organizzato in modo da visitare Tokyo e la zona di Kyoto. “So che hai detto no ai viaggi di gruppo, ma puoi stare in stanza singola e con gruppi di persone della tua età, o comunque molto vicini al tuo gruppo. Io penso che sia una buona occasione per conoscere gente nuova con la tua stessa passione e anche per viaggiare in modo più sicuro e controllato. Pensaci.” 

Le diede alcuni riferimenti e un sito dal quale prendere qualche informazione in più. Non le fece firmare niente, e la cosa un po’ la stupì. “Spero di rivederti, ricorda che per il Giappone avrai bisogno del Passaporto, quindi ricordati di metterti in movimento il più in fretta possibile per fare in tempo. In genere consentono le prenotazioni a chi ha un volo prenotato, io posso aiutarti se dovessi averne bisogno, basta che torni, quando vuoi. Chiama il numero nel biglietto da visita se vuoi un appuntamento.”

 

Celeste salutò l’agente turistica, grata di avere sognato ancora. Una volta fuori si sentiva allegra: era come se un pezzo del puzzle della sua vita finalmente avesse trovato la posizione giusta, era il primo, ma c’era ancora molto da fare.

Aveva passato un’ora all’agenzia, quindi prese qualcosa per cena e tornò direttamente a casa. Dopo averci pensato tanto nell’ultimo periodo, decise che era ora di trovare una coinquilina per quella grande casa nella quale era deprimente passare le giornate da sola a parlare con il proprio riflesso. Sperava in un gatto, ma pensò di iniziare a far girare la voce in ufficio, ne avrebbe parlato il giorno seguente, magari per una volta avrebbe fatto la famosa pausa caffè coi colleghi che nell’ultimo periodo aveva accuratamente evitato.

Quella sera dormì sognando il Giappone e i fiori di ciliegio in fiore; i mari azzurri di Cipro e il clima caldo e allegro della Spagna. Nel suo sogno i paesaggi erano nitidi come cartoline o fotografie coi colori accesi delle riviste di viaggio che aveva sfogliato poche ore prima. Passava da una cartolina all’altra come solo in un sogno era possibile fare. 

 

Per la prima volta da quando Paki non viveva più con lei, si svegliò riposata e si alzò canticchiando. In macchina scelse di ascoltare della musica al posto dei soliti podcast e cantò a squarciagola fino all’arrivo all’ufficio. Scese sorridente con l’idea di chiedere subito quale fosse disponibilità per le sue ferie quell’estate.

Si stupirono della sua richiesta di tre settimane, ma accettarono senza farle troppe domande. “Ormai pensavamo che non saresti mai partita per uno di questi viaggi di cui parli sempre, era ora!” Lei sapeva già quali erano i periodi più pesanti per l’ufficio e non aveva intenzione di partire durante quei lassi di tempo. Rassicurata, mandò un messaggio all’agenzia appena fuori dal lavoro.

Era vero: a volte al lavoro si annoiava e spesso pensava che probabilmente non sarebbe rimasta lì per sempre, ma in fondo non si trovava così male, anzi: i suoi capi erano persone oneste e si erano sempre comportati bene con lei e coi colleghi, li rispettava.

L’azienda era seria e affidabile. Poteva ritenersi fortunata.

Si era sempre lasciata trascinare dalla vita per evitare discussioni, per non far sentire chi le stava intorno in colpa o per semplice codardia. Non sapeva per quanto tempo avrebbe mantenuto quel desiderio di migliorare la sua vita e di vivere i suoi sogni e la risoluzione di cui aveva bisogno per cambiare in concreto la sua vita. 

Non le importava. Le bastava iniziare dal primo passo: partire per il primo dei tanti viaggi della sua vita. 

Mentre cercava le chiavi dell’auto sentì una voce alle sue spalle. “Ho sentito che cerchi una coinquilina!” 

“Oh, ciao Ambra, mi hai spaventato!” L’aveva sempre considerata una ragazza simpatica, ma non le aveva mai davvero parlato di qualcosa che non fosse relativo al lavoro. “Cerchi casa?”

“Sì, ormai è da un po’ che penso di andare via dall’appartamento dei miei, solo che continuo a rinviare perché non trovo niente di interessante. Se ti va possiamo parlarne, conoscerci meglio.”

Celeste annuì. “Sì, magari facciamo un giro in centro uno di questi giorni, così ne parliamo. Conosco un posto carino per farci un aperitivo!”

Un passo alla volta avrebbe realizzato tutti i suoi sogni, il primo l’aveva fatto, gli altri erano dietro l’angolo.


 
 


FINALE 2 - Seguire il cuore -

Quel pomeriggio uscì dall’ufficio prima del solito. Il direttore aveva mandato tutti a casa per una questione aziendale di cui Celeste aveva scelto di non informarsi, visto che non era necessario. Era il giorno giusto per uscire presto, pensò sbadigliando: si sentiva stanchissima, ma nonostante questo non aveva alcun desiderio di andare a casa perché sapeva che avrebbe finito con l’andare a dormire quasi subito e avrebbe buttato tutto il pomeriggio. Osservò il sole alto nel cielo di marzo e pensò che non avesse senso lasciarsi scappare l’opportunità di passeggiare per il centro in quella splendida giornata quasi tiepida di fine inverno.

Aprì la porta dell’automobile e rimase per un istante a chiedersi se chiamare o no la sua amica Silvia, ma pensò che non fosse il caso vista l’amicizia che condivideva con il suo ex fidanzato. Quel pomeriggio si sentiva stanca e priva di filtri, non voleva rischiare di dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentita.

“Celeste, sei ancora qui?” Immersa nei suoi pensieri com’era, la ragazza non sentì arrivare la collega alle sue spalle. Si spaventò d’istinto e lasciò cadere le chiavi sull’asfalto tra il marciapiede e l’auto.

“Scusa, non pensavo di spaventarti!” Rise Ambra, la sua collega del reparto commerciale, per poi chinarsi a raccogliere il mazzo di chiavi.

Celeste si chinò insieme a lei, imbarazzata. “Grazie, non serviva! Tanto le chiavi non si rompono.” 

“Oh, figurati, pensavo stessi aspettando qualcuno, eri lì ferma, in piedi.”

“No, mi stavo solo chiedendo dove andare oggi pomeriggio visto che è una bella giornata.”

Ambra annuì, sorridente “Hai ragione! Perché non vai al nuovo negozio di vestiti che hanno aperto in centro in via Pascoli? Ho visto il volantino e mi sembra il tuo stile!” 

A Celeste scappò una risata. “Il mio stile? Quindi noioso? Scuro e cupo, sempre tutto uguale?” 

La collega fece un passo indietro, il volto arrossito per il disagio. “Io… intendevo che è elegante…”

“No, scusa,” La ragazza agitò le braccia per scusarsi. “Hai ragione, sono io che mi vesto così per… per lavoro. Però mi piacerebbe provare qualcosa di diverso, magari più colorato, mi piace come ti vesti tu, magari puoi… aiutarmi? Se ti va.”

Ambra aveva più o meno la stessa età di Celeste, ma aveva uno stile completamente diverso anche sul lavoro: si poteva considerare piuttosto elegante, ma abbastanza giovanile. Spesso indossava abiti sobri, con una punta di colore che li rendeva interessanti. Era in grado di far trasparire la sua personalità anche da come si vestiva, almeno questo era il pensiero di Celeste, che in effetti non la conosceva bene come avrebbe voluto. Forse perché lei ha una personalità, per questo ti sembra che ce l’abbiano i suoi vestiti, sciocca che non sei altro,  si disse la ragazza, sospirando.

“Io ti ringrazio. Io non faccio niente di speciale, non ho neanche un negozio preferito a dire la verità e non ho mai dato consigli, anzi… però se vuoi una volta possiamo andare insieme a fare shopping, non siamo mai andate da nessuna parte insieme fuori dal lavoro.”

Era vero: Celeste non era mai andata da nessuna parte con gli altri dipendenti dell’ufficio. Al mattino lei entrava nel suo cubicolo, un luogo chiuso nel quale aveva a che fare solo con se stessa e sentiva i suoi colleghi solo via email, era raro che si vedessero di persona perché Celeste preferiva stare rintanata lì anziché uscire, dove il rumore di fondo di chiacchiere e risate le impediva di concentrarsi e di fare il suo dovere.

Forse le sue abilità sociali erano regredite al punto che si poteva considerare davvero un caso disperato. Non sarebbe rimasta ad aspettare ancora, però. “Perché non andiamo oggi?” Chiese, pentendosi immediatamente della sua proposta.

Ambra restò per un istante a bocca aperta, poi osservò l’orologio e Celeste si domandò se stesse trovando un modo per declinare con gentilezza. “Oggi? Adesso? …Si può fare, certo! Però ho un piccolo problema.” La collega arricciò il naso. “Oggi non ho la macchina, dovevo prendere l’autobus, quindi… io sono felice dell’invito, ma mi dovrai portare a casa.”

La ragazza si sentiva al settimo cielo. Era da tanto che si chiedeva se non fosse ora di fare nuove conoscenze, ma nell’ultimo periodo si era resa conto di essere più ombrosa del solito e di trovare più fatica nelle relazioni sociali. “Oh, questo non è un problema,” indicò la sua automobile. “Ho la mia fidata Fiat Punto di quasi nove anni che ci porterà ovunque! Basta che non sia troppo lontano.”

Le due ragazze salirono in macchina e Celeste si rese conto che nonostante si conoscessero da ormai tre anni, non erano mai state insieme da sole come in quel momento. La ragazza si sentiva tesa, soprattutto perché si era resa conto di non conoscere la collega.

“Celeste, dove vuoi andare?” 

Il sorriso di Ambra la aiutò a ricordare che in fondo non stavano facendo niente di strano, forse la troppa solitudine l’aveva resa paranoica. Mise in moto e si voltò a guardare la nuova potenziale amica. “Boh, non so. A me basta stare fuori, è una bella giornata.”

“Allora facciamo un giro in centro, un po’ di shopping e se vuoi anche un aperitivo, io sono liberissima oggi! Dipende da quando ti vorrai liberare di me. Ora che sono in macchina, ti tocca sopportarmi un po’!”

“Centro sia!” Esclamò Celeste alzando un braccio in un segno di vittoria. 


Faticò un po’ a trovare parcheggio, seguì il consiglio di Ambra e si infilò in una via laterale, dove trovarono un posto di fronte al cancello di quella che pareva una casa abbandonata. “Qui di fianco c’è uno dei localini che preferisco per fare gli aperitivi, è un posto un po’ piccolo, ma sono sicura che ti piacerà, se vuoi poi ci fermiamo lì così ti offro qualcosa per ripagarti del passaggio. Ti dico la verità: avevo proprio voglia di fare un giro!” Propose Ambra.


Le due ragazze passeggiarono fino a raggiungere la via principale del centro, dove entrarono in un negozio di articoli di cancelleria, stupendosi di avere in comune l’interesse per i pastelli colorati, con i quali entrambe amavano fare disegni e colorarli. A dire la verità Celeste mentì quando le disse di averli utilizzati parecchio, ne aveva comprata una scatola insieme a un blocco da disegno quando era andata a vivere con Stefano, ma le aveva usate una volta sola e poi messe da parte. Si era quasi dimenticata che esistessero, ma aveva tutte le intenzioni di mettere in pratica le proprie parole e di tirarle fuori dallo sgabuzzino quella sera stessa.

Ambra accompagnò la nuova amica anche in un negozio di accessori piccolo e ben fornito, che la ragazza non conosceva. Decise di comprare una borsa arancione con dei fiori in stoffa applicati. Qualcosa di appariscente che le sarebbe sempre piaciuto avere, ma che non aveva mai avuto il coraggio di acquistare.


In seguito si fermarono in uno dei piccoli locali del centro a bere un aperitivo, scaldate dai grossi funghi posizionati di fianco ai tavoli. 

Sedute all’aperto, Celeste si sentì libera di essere onesta. Le confessò della sua recente rottura sentimentale e di come si fosse resa conto di essere stata spinta ad andare avanti per inerzia in quegli ultimi anni. Le raccontò dei suoi sogni, dei viaggi mai realizzati e della sua difficoltà nel ricominciare a vivere, ora che era da sola.

“Mi dispiace per Stefano,” le disse allora la Collega. “Ma sono felice che ora tu abbia iniziato a pensare un po’ di più a te stessa.” 

A Celeste sembrava quasi impossibile avere trovato qualcuno che la facesse sentire così a suo agio. Una persona che aveva a pochi metri di distanza ogni giorno, tra l’altro.

Ambra le raccontò della sua vita a casa con i suoi e di come non ne potesse più di vivere con loro e restasse per necessità e comodità, ma anche di come ricordava con nostalgia il periodo che aveva passato da fuori sede all’università, conclusosi solo pochi mesi prima. Celeste non si era neanche resa conto che lavorasse insieme a lei da meno di un anno.


“Quindi il tuo più grande sogno quale sarebbe?” chiese Ambra. 

“Viaggiare,” Confessò Celeste.

“Allora viaggia. C’è un’agenzia qui vicino, anzi, ce ne sono tante. Puoi anche organizzarti con internet, però dovresti farlo, se puoi permettertelo.”

La ragazza annuì. “E il tuo sogno più grande, qual è?"

Ambra sorrise. “Non è che hai una stanza? Così tengo pulito mentre viaggi.”



Il pomeriggio si era rivelato migliore di quanto Celeste avrebbe mai potuto sperare. Sentiva di avere trovato un’amica con la quale presto avrebbe formato un legame forte e profondo, molto più di quanto avrebbe mai sperato di ottenere con una collega.

“Grazie di cuore per essere stata con me oggi.”

“Sono contenta, era da tanto che speravo di conoscerti un po’ meglio, pensavo di starti un po’ antipatica.” Rise.

“Ma no!” Celeste sentiva che ormai il gelo iniziale si era completamente sciolto. “L’antipatica sono io, o meglio, non ho mai fatto niente per non esserlo.” 

Le due continuarono a parlare mentre si avvicinavano all’automobile, sotto la luce del lampione. In quel momento lo videro: un gatto nero con una macchia bianca sul muso li stava fissando seduto sul muretto di fronte alla casa abbandonata. 

“Lo vedi anche tu?” Chiese Ambra, rallentando cauta. 

“Sì, non sta andando via.” Era strano: i gatti in genere scappano, pensò.

Celeste si avvicinò lenta e gli porse la mano. Il gatto la annusò e si strusciò piano.”

“Penso sia di qualcuno, altrimenti sarebbe fuggito.” Osservò Ambra, “Spero non si sia perso.”

“Oh, no! Non dire così, non ti porto più a casa, sai, resto qui con lui fino a quando qualcuno non se lo prende.”

Il gatto non pareva preoccupato per la presenza delle due ragazze. “Sembra piuttosto magro,” constatò Celeste. “Che peccato non avere niente da dargli da mangiare.”

Ambra fece qualche passo verso la casa e poi tornò indietro. Celeste la osservò mentre premeva i campanelli del condominio lì di fianco. 

“Buonasera, per caso sapete di chi è il gatto bianco e nero che c’è qui sotto?” La sentì chiedere, ma non riuscì a recepire la risposta.

La sua amica tornò camminando lenta. “Una signora mi ha risposto, ha detto che è lei che gli dà da mangiare perché è il gatto del signore che viveva qui che però adesso è morto. In pratica l’hanno abbandonato… Comunque adesso sta scendendo.”

Un paio di minuti dopo, una signora sulla cinquantina scese in ciabatte con una confezione di croccantini per gatti in mano. Appena la vide, il gatto miagolò e alzò la coda, per poi avvicinarsi a lei e strusciarsi sulle sue gambe.

“Abitava lì, da Luigi Visantini” disse la signora indicando la casa alle loro spalle. “I figli l’hanno portato in casa di riposo e poi non lo so se è morto, ma il gatto è questo, è rimasto qui. Quando li ho visti la settimana scorsa ho detto che io non lo posso tenere in casa. Pensate che mi hanno detto anche grazie che gli do da mangiare. Ma io non so se è possibile… Comunque per me non è un peso, ma il piccoletto qui viveva in casa, vorrebbe stare al comodo, se lo vuoi puoi prenderlo.” 

Ambra si voltò a guardare Celeste con un sorriso aperto sul volto. “Cosa dici? Lo prendi?”

La ragazza osservò il gatto che mangiava con gusto leccandosi i baffi di tanto in tanto. “Ha un nome?”

“Lo chiamava Felice, come il gatto della scatola delle pappe.”

“E se lo cercasse qualcuno?”

La signora scosse la testa. “Sono passati due mesi, e anche freddi. Nessuno lo ha cercato.”

Celeste si inginocchiò e avvicinò una mano a Felice. “Allora mi sa che oggi vieni a casa con me, Felicetto!”

Ambra lanciò un gridolino soffocato per non spaventare il gatto. “Che bello! Adesso sì che andiamo a fare un po’ di shopping interessante!”

Le due ragazze misero il gattone bianco e nero in un cartone bucherellato fornito dalla signora, fecero tappa nel negozio di animali lungo la strada, dove Celeste acquistò al volo tutto ciò che aveva restituito a sua sorella quando si era ripresa Paki.

Insieme lo portarono nella sua nuova casa. 

La vita di Celeste era cambiata, si chiese se quella notte avrebbe dormito, finalmente. Di certo nel suo futuro vedeva meno solitudine: aveva il suo coinquilino e, forse, anche una nuova amica.





quistisf: (Default)
 Fandom: Originale
 Prompt: Sure Grandma, let's get you to bed
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Zia Eleonora.

L’anziana signora si trascinava avanti col deambulatore un passo alla volta in movimenti irregolari e scattosi. 

Il ragazzo la osservava seduto dall’altro lato della strada, all’inizio gli era venuto da ridere, perché si era reso conto che la vecchia stava andando il più veloce possibile, ma la realtà era che gli ricordava una lenta tartaruga. Poi però si era sentito in colpa: poteva avere bisogno di aiuto e lui non era senza cuore.

Filippo si alzò e attraversò la strada. Più si avvicinava a lei, però, più si rendeva conto che la sua impressione era fondata: qualcosa non andava. Iniziò a notare il sudore sulla sua fronte, l’espressione nei suoi occhi, che avrebbe definito terrore puro. Il fiato corto.

“Tutto bene, signora?” Le chiese, mettendosi di fronte a lei.

“No, non è tutto bene.” Gli fece cenno di avvicinarsi e si guardò intorno con circospezione. “Quelli vogliono uccidermi. Vogliono la mia casa.” 

Filippo continuò a guardarla negli occhi, incerto su cosa fare. L’anziana donna aveva una fierezza nello sguardo che a tratti sembrava prendere il sopravvento sulla sua paura. Una parte di lui credeva che la donna fosse pazza, forse inferma di mente, ma il suo istinto gli diceva di crederle.

“Non sono chi dicono di essere. Non farti prendere per il naso anche tu da loro.” Lo stringeva talmente forte che il ragazzo non riusciva a liberarsi. “Via Pasini numero 8. Mi chiamo Eleonora Contini.”

“A- Andiamo alla polizia?” Chiese lui. Ma la donna non fece in tempo a rispondere, perché una coppia di mezza età arrivò alle loro spalle. 

“Mamma? Mamma, cosa ci fai qui, torna a casa, dai!” Disse la donna con tono mellifluo. Aveva lunghe unghie laccate, i capelli raccolti senza eleganza in una coda mezza sformata e abiti semplici, ma decorosi. L’uomo indossava un paio di jeans e una camicia a scacchi. Si mordeva un labbro e lo guardava incerto.

“Aiuto, aiutatemi!” Urlò la signora attirando l’attenzione dei pochi passanti.

Filippo si guardò intorno, incerto su cosa fare. I due sembravano assomigliarle parecchio. “Zia, non preoccuparti, ti accompagno anche io a casa.” La donna si fermò un istante. Sorpresa. “E tu chi saresti? Mia madre non mi ha parlato di te.”

“Sono Serena, la sua prima figlia, mi sto prendendo cura io di lei in questo periodo.” 

Il ragazzo si chiese dove fosse andato a incastrarsi, ma vista la gentilezza con la quale la donna gli stava sorridendo pensò che in fondo non avrebbe corso grossi rischi nell’andare in via Pasini 8 a casa dell’anziana signora a controllare che tutto fosse in ordine.

“Andiamo a casa, zia, ti portiamo a riposare e magari ci beviamo un tè insieme.”

Filippò cercò di ritrovare nella sua memoria il nome e il cognome della signora di cui si stava fingendo il nipote, Eleonora qualcosa… era un bel nome per una donna della sua età, si ritrovò a pensare.

Notò che la coppia restava indietro, lasciando che fosse lui a guidarli verso la casa. 

“Da quanto tempo siete a casa con la zia?” Chiese, cercando di prendere tempo mettendosi al loro fianco. Via Pasini era lì vicino, quello era certo, ma non si ricordava dove di preciso. 

“Solo da due giorni, siamo arrivati perché mio marito ha insistito perché le parlassi di nuovo dopo tutti questi anni di lontananza. Volevo solo passare per salutarla e per dirle che mi dispiace per come è andata, ma ho visto che non sta bene.” Lo prese da parte mentre l’uomo ed Eleonora continuavano lungo la strada. “Da quanto tempo ha problemi di memoria?”

Filippo iniziò a preoccuparsi, la donna gli pareva abbastanza sincera e poteva essere veramente la figlia di quella donna. Invece lui? Che scusa aveva lui per introdursi nella casa di una donna anziana con problemi di demenza senile? Se fossero arrivati altri parenti cosa avrebbero potuto dirgli? L’avrebbero denunciato? Scacciato in malo modo? Preso a pugni? 

D’altro canto, se l’anziana gli aveva detto la verità, significava che era in pericolo… poteva davvero abbandonarla lì inerme quando lei aveva riposto in lui la sua fiducia?

“Da- da un pezzo ormai…” Mentì. “Ha cominciato un paio di anni fa con i primi sintomi, ma io non vado a trovarla spesso a essere sincero.”

La donna gli sorrise, più serena. “Ovvio, tu sei giovane, perché dovresti andare a trovare la zia. Ha anche dei figli, no?”

Filippo approfittò della chiamata che proprio in quel momento stava ricevendo per concentrarsi sul suo smartphone, sperando così di lasciare decadere la domanda. “Un attimo, rispondo e vi seguo.”

Fece qualche passo indietro. “Pronto, Sabrina?” Si rivolse verso la donna indicando il telefono e si allontanò ancora di qualche passo. “Farò un po’ tardi, sono con la mia cara zia Eleonora.”

“La zia che? Mi prendi in giro? Io ti sto aspettando, perché non eri sull’autobus.”

“Non pensavo di passare da lei, ma l’ho trovata in giro per strada e sai com’è… con i suoi problemi di memoria ho pensato di accompagnarla a casa.”

“Che hai bevuto? Stai parlando in codice?”

“Ma no, non è niente! Sai com’è la zia, sto lì giusto per un tè e me ne vado. Comunque sì, hai ragione.” Rise.

“Vuoi che venga da te?”

“No, non la zia che sta vicino alla stazione, lei abita in via Pasini. Sai, vicino alla fermata dove prendo l’otto.”

Filippo osservava la donna con attenzione. Camminava lenta, in silenzio, le orecchie chiaramente tese all’ascolto. Quando sentì il nome della via sembrò rilassarsi e accelerare per un attimo il passo.

“Fil, dimmi se devo chiamare la polizia.” La voce di Sabrina al telefono era allarmata. Se solo avesse potuto, le avrebbe detto di farlo. “Puoi condividermi la posizione?”

“Ecco, questo sì che posso farlo. Stai tranquilla che arrivo presto, ci vediamo a cena, salutami la mamma.” Attaccò e attivò la condivisione della posizione. Scrisse due messaggi nei quali spiegava grossomodo la situazione e raggiunse la signora Eleonora.




Via Pasini 8, dice che pericolo vita.

Help.


Sabrina osservò il telefono incredula e subito decise di chiamare la polizia.  Spiegò la situazione come meglio potè, pregandoli di recarsi all’indirizzo per un controllo.


Li trovarono in casa che bevevano il loro tè. 

Il ragazzo appariva confuso almeno quanto la vecchia signora.


Il giorno seguente i giornali pubblicarono un articolo che descrisse l’accaduto in modo chiaro e conciso:


Giovane eroe salva una donna da tentativo di truffa.


Ieri, lungo una laterale di via Pasini, un ragazzo di diciannove anni ha soccorso un’anziana signora che era riuscita a sfuggire a una coppia di truffatori nota alle forze dell’ordine.

I due malviventi, accusati di furto aggravato e omicidio, in passato hanno estorto ingenti somme in contati a numerose anziane vittime ignare, una delle quali è deceduta a causa delle sostanze a lei somministrate dai due ladri. 

Il loro modus operandi consiste nel fingersi parenti lontani degli anziani che scelgono di truffare e nel farsi aprire le porte delle loro case, per poi incapacitare le vittime attraverso l’uso di medicinali e sostanze stupefacenti.

Il ragazzo afferma di avere visto la donna in difficoltà e di averle offerto il suo aiuto. “Mi è sembrato che sapesse quello che mi stava dicendo, le ho creduto. La coppia intervenuta per riportarla a casa invece era sospetta.”

La signora Eleonora Contini ha deciso di ringraziare pubblicamente il giovane F. P. e di donargli un premio per la sua prontezza di spirito, grazie alla quale la signora si è ora ripresa completamente.



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Fandom: Originale
Genere: fantasy, avventura, leggenda
Prompt: Il fuoco sacro
Partecipa al COWT 14

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.
Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.


Amtra e il Fuoco Sacro




Il Fuoco Sacro è situato nel grande tempio e arde dal giorno stesso in cui la città fu fondata dalla regina Amtra, che dà il proprio nome alla città, dopo che essa, una guaritrice, aveva salvato Orit, il Dio del Fuoco, da morte certa. 

La regina, mentre raccoglieva erbe sulla riva, aveva trovato quello che le era parso un uomo qualunque sulla sponda del fiume Parni, che attraversa la città snodandosi tra le vie in curve modellate dal tempo e dalla corrente.

Orit giaceva a terra: una freccia gli trapassava una spalla, altre gli trafiggevano la pancia e una gamba. Ella si era precipitata da lui e l'aveva soccorso come meglio aveva potuto, lavando le sue ferite al fiume e recitando le sue preghiere di guarigione, invocando gli dei perché concedessero la salvezza allo sconosciuto che aveva trovato a pochi passi dalla sua piccola capanna.

All'epoca essa non era infatti una regina, ma una reietta: una maga dagli occhi viola, considerata dagli abitanti del villaggio niente più di un cattivo presagio.

La donna portò il Dio alla guarigione e insieme essi fondarono la città, che da allora è benedetta dalla fiamma azzurra.






La città di Amtra era famosa nel regno di Ralonir per il Fuoco Sacro che bruciava nel tempio. Il giovane Elan era già stato in visita alla capitale, ma non si era mai recato al tempio prima di allora.

Quel giorno avrebbe iniziato il percorso di preparazione per diventare un protettore del tempio, finalmente avrebbe potuto ricevere le conoscenze in combattimento e in ogni altro ambito del sapere tramandate nel corso dei secoli dai Saggi e conoscere l’intera leggenda della città raccontata dal Sommo Templare in persona. Ciò che più desiderava, però, era avere l’occasione di fare la sua domanda al Fuoco Sacro, che gli avrebbe rivelato il suo destino. Tutto ciò che doveva fare era dichiarare che avrebbe protetto la fiamma azzurra a qualsiasi costo, anche se ciò avesse messo a rischio la sua stessa vita.

Il ragazzo attendeva con trepidazione di conoscere ciò che gli riservava il suo percorso di protettore del tempio e della fiamma sacra.

Era partito dal suo villaggio di prima mattina e per raggiungere Amtra si era aggregato a un carro di mercanti diretto lì vicino. Era arrivato nei pressi della porta est in anticipo. Era sceso dal carro e aveva percorso a piedi l’ultimo tratto di strada battuta che portava alla città attraversando i campi di grano. 

Prima ancora di varcare la porta di accesso ad Amtra, osservò alta nel cielo la fiamma azzurra che brillava alta sopra il tempio, convogliata lassù dall'alto camino di cemento costruito secoli prima dagli adoratori della fiamma sacra. Tra i visitatori, in molti vagavano tra le vie col naso all’insù, come ipnotizzati dal colore vivace della fiamma, simile a quello del cielo limpido del mattino, e dall’alone brillante che lasciava giorno e notte nel suo riverbero. Come un piccolo sole azzurro.


Al suo ingresso in città, Elan fu accolto da un’aria di festa: gli abitanti camminavano indaffarati lungo le strade impegnati a radunarsi in festa e a finire di appendere gli allegri festoni colorati alle pareti della case sulla via principale.

I tre carri che avrebbero accolto le nuove reclute attendevano parcheggiati sulle piazzette. Per l’occasione erano stati lavati e agghindati con lo stemma della fiamma azzurra e con comode sedute imbottite, le reclute avrebbero presto preso posto al loro interno, così da dare il via alla cerimonia di adunata.

Elan raggiunse il carro che gli era stato assegnato e si accomodò all’interno. Al suo fianco sedeva una ragazza coi capelli scuri legati in una treccia che stava scrivendo qualcosa in un taccuino. “Anche tu nella guardia?” Le aveva chiesto, amichevole.

“Che motivo avrei di essere qui, altrimenti?” Non aveva neanche alzato gli occhi, né fermato la sua penna rossa, che continuava a formare curve sul foglio.

“Giusto, domanda sciocca. Lo so che questo è il carro per i protettori.” Di fronte al suo silenzio Elan, imbarazzato, aveva abbassato lo sguardo sui sandali di pelle intrecciata che gli coprivano i piedi, era rimasto in silenzio a chiedersi perché non fosse mai in grado di stare in silenzio di fronte agli sconosciuti.

“Mi chiamo Shur, vengo dal nord.” La ragazza aveva alzato lo sguardo su di lui e gli sorrideva amichevolmente..

“Io sono Elan, molto piacere!”  Era vestita con una tunica di colore chiaro, il taglio era molto semplice, ma era elegante nei dettagli. Non era in grado di riconoscere il tessuto, ma immaginava fosse di pregio, lo si capiva dalle decorazioni a rilievo sul colletto quadrato e rigido e sulle maniche che arrivavano a metà del braccio. Calzava un paio di scarpe di cuoio di fattura elegante, che parevano comode e pratiche.

Gli occhi della ragazza erano di un viola acceso, segno che aveva dei poteri magici.

Elan avrebbe desiderato chiederle quali fossero, se si fossero già manifestati, ma immaginò che sarebbe stato inaccettabile da parte sua fare domande così private a qualcuno del suo rango, al punto che rimase a fissarla a bocca aperta come uno sciocco campagnolo, non abituato a vedere gli occhi viola dei maghi di Ralonir.

“Sono una guaritrice.” gli disse, rispondendo alla sua silente domanda. “Almeno per ora il mio potere si limita a questo. Sono qui per aiutare i Templari con un supporto protettivo, dovesse servire.” Strizzò un occhio, sorridendo.

Il ragazzo si rilassò nel constatare che la prima maga a cui aveva rivolto la parola non l’avesse trattato come un poveraccio.

“Sai leggere?” Gli chiese.

Lui scosse la testa e rispose con amarezza. “Sono andato a scuola e ho imparato un po’, ma non ho mai avuto occasione di allenarmi. Noi a casa non abbiamo libri.”

“Peccato, se vuoi fare carriera nei Templari devi studiare molto, sempre che tu voglia fare carriera. Spero tu decida di partecipare ai corsi di lettura, oltre che a quelli di combattimento. A che sezione vuoi unirti?”

Elan sospirò, pensando alle vicissitudini che l’avevano portato su quel carro. “Non ho una preferenza. La mia famiglia mi fatto scegliere se continuare a lavorare con loro alla fattoria o se partire, io ho deciso di provare a studiare al Tempio, per trovare la mia strada. Spero di riuscire a proteggerlo e di conoscere la vera storia del Fuoco Sacro.”

Shur osservò con sospetto l’accesso al carro, su cui fino a quel momento erano saliti solo loro. Gli si avvicinò e sussurrò: “Non dire in giro che vuoi la verità, in realtà credo non la conosca più quasi nessuno.” Lo sguardo di lei era serio e preoccupato, Elan si chiese cosa lei intendesse dire, ma tenne per sé la sua domanda, anche perché proprio in quel momento altre due reclute salirono sul carro e si sedettero sul lato opposto rispetto al loro.

Shur cambiò espressione e assunse un tono spensierato. "Quindi vorresti anche studiare, è saggio da parte tua. Credo sia importante imparare a conoscere la storia della nostra capitale.” Un sospiro. “Io invece sono qui perché non ho avuto scelta. Quando il potere si è manifestato mi hanno subito aggiunta alla lista. Non trovo niente di romantico o di interessante nel combattimento, ma il mio è un ruolo di vera protezione. Riconosco che i guaritori siano necessari in caso di attacco e che la città e il tempio debbano tentare di difendere se stessi e i cittadini di Amtra con ogni mezzo possibile.”

Uno dei ragazzi appena saliti rise. “Ma state tranquilli, non accadrà nulla! Non ci sono guerre da anni!”

“Vero,” convenne Shur, “Ma non usare il passato come esempio per il futuro, non è mai stato saggio farlo. Se anche non vediamo una guerra da molto, questo non significa che non ce ne saranno presto.”

Elan ebbe l’impressione che la maga sapesse qualcosa che stava tenendo nascosto, lo capì dallo sguardo infuriato che aveva rivolto al nuovo arrivato e dal nervosismo con cui aveva risposto alla sua osservazione, che per quanto fosse sciocca e immatura, non gli era parsa così grave. Shur si era quindi rimessa a scrivere i suoi appunti.

Ci volle un’ora perché tutte le reclute destinate al carro arrivassero e prendessero posto. Il mezzo partì e si avviò lentamente per il giro trionfale della città appena il rullo dei tamburi annunciò l’inizio della cerimonia di benvenuto per le reclute. La popolazione radunata fuori dalle case cantava il suo buon augurio ai futuri Templari, in molti battevano le mani e agitavano tessuti azzurri come il vessillo della città. I carri percorrevano lenti le vie di Amtra e gli abitanti depositavano sulle ceste appese intorno a essi le loro offerte per il tempio.

La città vista dal carro gli parve più piccola di come se la ricordava: le strade erano strette e tortuose, il passare del tempo si poteva notare su alcune delle case, che presentavano finestre rotte o la necessità di qualche lavoro, alcune erano state sistemate in modo precario, altre semplicemente chiuse con assi di legno inchiodate.

Un contrasto immenso con il tempio, le cui mura esterne di pietra bianca, lucidata e curata al punto da risultare quasi brillante. Tutto attorno alla porta principale, scene scolpite nel marmo bianco raccontavano la fondazione della città e la leggenda del Fuoco Sacro.

La grande porta di legno che portava al tempio si aprì davanti al carro per rivelare il grande giardino interno, adornato con alberi rigogliosi e fiori dai colori tenui, e la struttura principale: il tempio del Fuoco Sacro, la cui fiamma alta era visibile fino a fuori della città e attorniata da tutti gli altri piccoli edifici che costituivano il complesso del tempio: il palazzo dei Templari, la casa dei saggi del tempio e l’armeria, dove avevano sede anche la grande biblioteca e le sale d'insegnamento.

I tre carri entrarono uno dopo l’altro e tutte le reclute scesero, alcune emozionate, altre nervose, altre ancora indifferenti all’accoglienza.

I nuovi arrivati vennero subito divisi nei ranghi iniziali: Shur si sedette su una panca insieme all’unico altro mago presente e a un nobile, mentre gli altri tredici ragazzi furono lasciati in piedi, in fila per essere identificati e portati alle loro stanze.

Elan aveva sempre creduto che le reclute fossero centinaia ogni anno, vedere che invece il numero era così basso lo aveva confuso: forse vista l’assenza di guerre degli ultimi decenni non c’era necessità di nuovi Templari?

In quel momento però a occupare tutti i suoi pensieri c’era la grande fiamma azzurra: il Fuoco Sacro che bruciava in alto, in cima al camino lungo e affusolato del tempio. Elan immaginò il momento in cui sarebbe entrato all'interno e avrebbe finalmente potuto vedere dal vivo il Fuoco Sacro nel punto in cui si era originato. Una fiamma potente e magica, che ardeva da centinaia di anni senza necessità di legna, né olio.

Si chiese quale domanda avrebbe potuto rivolgerli. Se gli avrebbe rivelato il suo destino, come gli avevano detto i due saggi che erano andati a trovarlo a casa dopo che il ragazzo aveva presentato la domanda per entrare nella guardia del tempio.


Ricordava come fossero passate solo poche ore la coppia di uomini rugosi che avevano bussato alla porta. Elan era appena tornato dal campo insieme a sua madre, che aveva aperto con indosso ancora gli abiti sporchi di fango per il duro lavoro. “Stiamo cercando il signor Elan, della famiglia Luneis.”

Sua madre l’aveva indicato e si era congedata per preparare una bevanda calda e del cibo per i saggi, Elan li aveva fatti accomodare all’unico tavolo dell’umile casa della sua famiglia, sperando che portassero buone notizie.

“Siamo venuti a conoscere uno dei nostri potenziali Templari, l’unico che arriva da questa zona di campagna a est della capitale.” Il ragazzo ricordò di avere pensato che fosse strano che lui fosse l'unico in quella zona, ricca di piccoli villaggi in cui il culto del Fuoco Sacro era radicato, ma non aveva fatto domande, pensando che forse dipendesse dall'annata. Poco male, pensò, vorrà dire che sarò seguito meglio.

I due uomini avevano accettato quanto offerto dalla famiglia e gli avevano sottoposto un questionario piuttosto generico sulle motivazioni che l'avevano spinto a decidere di entrare nella guardia dei Templari.

"Per proteggere il Fuoco Sacro." Aveva ammesso, consapevole che era ciò che si aspettavano.

"E tu sai come è nata la fiamma azzurra, presumo." Gli aveva chiesto l'uomo più anziano con uno sguardo supponente. Elan conosceva la leggenda e, anche se non credeva che fosse legata alla realtà, aveva annuito convinto. I due, dopo il pasto, gli avevano lasciato una pergamena nella quale erano indicati il giorno e il luogo preciso in cui si sarebbe dovuto recare il giorno dell'arrivo delle reclute a Amtra. Quando chiuse la porta, Elan ripensò alla leggenda così come, ancora bambino, l'aveva sentita raccontare dal Saggio del villaggio.




Il Dio Orit si svegliò dal suo lungo sonno e vide la donna che dormiva sul pavimento al suo fianco. Tentò di sollevarsi, ma i bendaggi stretti attorno alla sua spalla glielo resero impossibile.

La donna nel sentirlo si sollevò di soprassalto. "Siete sveglio! Le mie preghiere hanno funzionato!"

Quando Amtra posò la sua mano tiepida silla fronte del Dio, egli vide le sue giornate, la fatica con cui l'aveva trascinato fino alla sua capanna, il pudore con cui aveva lavato le sue vesti e medicato le sue ferite per tre giorni interi prima che lui si risvegliasse.

In ogni momento, durante quelle giornate, era rimasta a vegliare su di lui, ripulendo le sue ferite, medicando il suo corpo e cantando i suoi incantesimi.

"Come ti chiami? Chi è stato a ferirti?"

"Sono un mercante, vengo da una città oltre il mare a sud. Alcuni briganti mi hanno aggredito e… sono stato derubato." Mentì.

La ascoltò mentre lei gli illustrava la gravità delle ferite che presentava: "Le frecce che vi hanno colpito erano avvelenate. Non sono stata in grado di riconoscere il veleno, ma l'ho visto nel vostro corpo e nel vostro sangue. Ho tentato di purificarlo con erbe e incanti, ma visto che continuavate a dormire temevo di non essere riuscita nel mio intento. Spero che quanto ho compiuto vi permetta di rimettervi in forze e di tornare in salute, anche se… non sono sicura che le ferite potranno guarire del tutto."

Orit provò un immenso senso di gratitudine per lei, ma anche se si fidava della donna aveva continuato a tenere segreta la sua vera natura. Quando lei gli aveva detto che si sarebbe recata alla città per vendere le uova delle sue galline e acquistare della farina, l'aveva pregata di non fare parola della sua presenza e del fatto che lui fosse ancora in vita. “Non voglio che i briganti si vendichino proprio di colei che mi ha restituito la possibilità di vivere.”

Amtra aveva continuato a prendersi cura di lui senza fargli altre domande. Il Dio Orit si stava riprendendo molto più in fretta di quanto avrebbe fatto un essere umano: nel giro di pochi giorni aveva iniziato ad alzarsi dal letto per aiutarla nel portare in casa la legna.

Per quanto la donna lo avesse pregato di riposarsi e di non fare fatica, Orit non l'aveva ascoltata, conscio del fatto che il suo corpo divino era già di nuovo forte e sarebbe di certo guarito del tutto. 

Nelle sere che avevano passato insieme le aveva raccontato una storia sul suo passato da mercante di stoffe, di come desiderasse aspettare prima di tornare a casa per essere sicuro di non imbattersi di nuovo in coloro che avevano attentato alla sua vita. Le aveva detto di chiamarsi Oreste e le aveva descritto il carro trainato dal cavallo pezzato che gli era stato rubato dai suoi attentatori. Menzogne ideate sulla base di uomini che il Dio aveva incontrato in passato, comode per rendere la sua immedesimazione in un essere umano più realistica.

Orit aveva imparato a conoscere la donna e si era rattristato quando ne aveva percepito l'immensa solitudine. 

Nonostante lei si sentisse abbandonata e debole, i suoi occhi viola ne indicavano la potenza. "Ti hanno allontanata perché non ti capiscono, temono ciò che va oltre le loro deboli menti."

"Forse hai ragione, ma le cose non cambieranno mai: la mia stirpe è destinata all'alienazione."

Il Dio non riusciva a comprendere gli esseri umani e la loro cecità di fronte a chi avrebbe potuto guidarli. La forza di individui come Amtra avrebbe potuto essere una risorsa, una grande ricchezza per il popolo di Ralonir, invece veniva percepita con paura e gli individui unici come lei venivano abbandonati in una sorta di esilio, proprio come era accaduto alla sua salvatrice.

Orit non era a conoscenza del mandante del proprio tentato deicidio. Sapeva che chiunque avesse tentato di ucciderlo l'aveva fatto sapendo chi fosse il destinatario delle frecce avvelenate.

"Le tue ferite stanno guarendo molto velocemente."

"Per merito tuo, mia cara salvatrice." Aveva percepito il dubbio nel tono di voce della donna, che aveva continuato a comportarsi con lui come aveva sempre fatto, senza mettere in discussione le sue parole.

Orit era rimasto con lei anche quando era completamente guarito. Prima di allora non aveva mai avuto interesse nelle condizioni del popolo degli umani, che aveva sempre considerato ignoranti e incapaci di prendere decisioni sensate. Con lei aveva conosciuto un aspetto dell'umanità che non immaginava potesse esistere: la gentilezza e il desiderio incondizionato di aiutare, anche uno sconosciuto come lui. Sapeva di non avere un aspetto raccomandabile: era alto, possente, con una folta barba scura e capelli corvini.

Il Dio aveva trovato nella donna un'amica e si abbandonava a intense conversazioni sui suoi pensieri sulla vita, sulla morte, sui poteri che le avevano segnato l'esistenza e sugli dei.

"Gli dei non sono poi così diversi dagli uomini: sono egoisti e fanno i loro interessi a scapito del fatto che potrebbero concederci una vita migliore, se solo agissero al nostro fianco e non si combattessero tra loro."

Orit fu costretto a trovarsi in accordo con lei su questo. Si era sempre occupato di se stesso, di divertirsi, di avere i favori degli uomini e di farsi adorare. Si sentiva cambiato, messo in discussione dal veleno che lo aveva reso vulnerabile come mai prima di allora.

Rendendosi conto di non essere immortale aveva abbracciato la sua parte meno divina.

Desiderava stare vicino ad Amtra molto più di quanto volesse tornare tra gli infidi e inviDiosi dei. In lei trovò una confidente saggia, una donna forte e coraggiosa, abituata a combattere.

Le chiese di restare insieme a lei.

I due iniziarono a vivere come sposi e stettero insieme per alcuni mesi, fino a quando Orit non decise che era tempo di trovare chi aveva attentato alla sua vita.

L'inverno era alle porte e la coppia aveva necessità di reperire sempre più risorse per vivere in modo sicuro e sereno la stagione fredda.

"Devo partire, ma tornerò presto," le promise un giorno il Dio del Fuoco. "Hai la mia parola."

"Dove devi andare?"

"È necessario che io mi occupi di miei attentatori, devo scoprire chi erano e quali motivazioni avevano."

La donna lo capiva. "Buon viaggio e buona fortuna." Gli augurò. "Pregherò per te in ogni momento di veglia."

Orit partì. Appena si lasciò alle spalle il capanno di Amtra, sentì la rabbia iniziare a crescergli dentro. Una sensazione che per qualche ragione in presenza della donna era riuscito a non provare per tutto quel tempo. Aveva un punto di partenza chiaro e definito. In principio chiese a Irna, la dea dell'acqua, se l'acqua del fiume avesse visto chi l'avesse colpito, ma non ricevetter risposta alcuna. Poi si recò da Lada, la dea del bosco sua amica da secoli, la quale riconobbe il suo veleno. "Questi sono gli alberi da cui si ricava. Le frecce avvelenate vengono ricavate dai suoi rami, mentre il veleno viene raccolto dalle sue radici, che vengono fatte bruciare e bruciare fino alla polvere. Si impregna la resina con la polvere e infine se ne cospargono le frecce. Sono in pochi a conoscere questo veleno. Ma credo di sapere chi ti ha colpito."

Lada si rifutò di preparare il veleno, ma decise di assistere Orit nella sua preparazione. Il Dio non utilizzò frecce, ma la sua ascia umana, l'arma che gli aveva donato Amtra per fare legna nel bosco.

Si sentiva un traditore nel prendere un oggetto di difesa e nel farne un'arma di offesa, ma non aveva scelta, perché era certo che se l'attentatore era chi lui e Lada credevano, non si sarebbe fermato una volta che avesse capito che il Dio era vivo.

L'uccisore di dei era un uomo. Uno dei signori della terra di Ralonir, donata proprio dagli stessi dei che ora lui cercava di uccidere. Orit si recò alla corte dell'uomo e offrì il suo servizio come taglialegna, come falegname. Con la sua ascia avvelenata fabbricò per il nobile ogni tipo di mobilia, entrò nelle sue camere e verniciò il suo letto. Conobbe sua moglie e le fabbricò uno specchio. La furia nel suo cuore era sempre più feroce, al punto che il Dio del Fuoco si sentiva ardere in modo così forte da non riuscire quasi a fermare le sue mani, che desideravano solo il sangue.

Aveva però promesso a Lada e, soprattutto, alla sua Amtra che lui avrebbe ucciso solo chi si era macchiato a sua volta di un delitto. Immaginò la sua cara moglie umana e i suoi occhi viola, sentì la sua voce lontana che lo avvolgeva in un canto di protezione che gli arrivava fino a laggiù, lontano chilometri da lei.

Era un Dio, ma si era nascosto come un umano qualunque. Aveva smesso le sue vesti pregiate per indossare lana di pecora e cotone ricavato dai fiori che crescevano nei campi. Non mangiava più ogni giorno leccornie degne del suo rango nel palazzo dove un tempo aveva vissuto. Sapeva che doveva avere pazienza. Infine fu ripagato per la sua perseveranza.

Il Dio Madunai arrivò al palazzo all'improvviso, discese dal cielo in una scia di polvere e fiamme rosse. Egli era il cugino di Orit, nonché il secondo tra gli dei del Fuoco.

Madunai consegnò al nobile beni di ogni tipo e prese la parola.

"Vi prego, oh popolo, di accogliere con gioia il vostro signore, e di prestare a lui fedeltà. Egli è protetto dal Dio Madunai, il primo tra gli dei del Fuoco. Mi ha dato prova della sua fedeltà e io lo ripago con la pace e la mia protezione."

Madunai accese una fiamma nella sua mano destra e con essa accese un bastone. "Fintanto che questo bastone brucerà, disse, io proteggerò questa città."

Orit restò in ombra, sperando che suo cugino non lo riconoscesse. A un tratto il Dio guardò in sua direzione, ma passò oltre il suo volto in cerca di altri fedeli da rendere devoti al suo nome.

Come è cieco alla realtà, si disse il Dio, proprio come lo ero io. Ma mai mi sarei sognato di uccidere uno di noi, mai mi sarei macchiato di sangue divino.

Orit faticava a contenere la rabbia. Si continuava a concentrare su Amtra per mantenere la calma. Avrebbe aspettato la notte per ottenere infine la sua dolce vendetta.


Madunai amava i banchetti, il vino, le donne umane e l'adulazione. Quella sera al palazzo nobiliare ebbe tutto ciò che desiderava. Era da mesi ormai che aveva realizzato il suo più grande desiderio: era diventato davvero il primo tra gli dei del Fuoco. Quando aveva proposto al ricco e sciocco nobile doni in cambio della vita di suo cugino, si era stupito che l'essere umano avesse accettato. Gli aveva spiegato per filo e per segno come causare la morte di Orit e l'uomo aveva preso appunti come uno scolaretto che impara a far di conto.

Essere secondo era una sensazione terribile, ogni volta che veniva presentato come "secondo dopo Orit" provava il desiderio di incenerire tutto ciò che lo circondava senza permettere la fuga.

Le cose però erano cambiate, finalmente.

Entrò nella stanza che gli era stata riservata e sbatté la porta dietro di sé. Era solo. Aveva lasciato i lacchè e le donne nella sala principale. Aveva bevuto parecchio anche per un Dio, al punto che desiderava soltanto riposare gli occhi.

Si tolse la giacca di lino e seta e slacciò i pantaloni coordinati. Le decorazioni tessute con filo d'oro brillavano alla debole luce della luna che entrava dalla finestra.

Madunai si stese sul letto e iniziò a ridere. Si sentiva inebriato di potere. Aveva finto di essere preoccupato per il suo futuro mentre se ne stava in alto nel suo palazzo insieme agli altri dei, ora non gli restava che godersi i frutti della sua opera, orchestrata con saggezza. Aveva persino dovuto uccidere gli altri due deucoli prima di Orit, ma erano soltanto vittime collaterali. Avrebbe tanto voluto dire loro che erano defunti solo perché a nessuno importava veramente di loro e di trovare i loro assassini.

Poi vide una sorta di lampo. Il dolore alla pancia lo colse di sorpresa. Ancora inebriato dalla serata, con una mano illuminò la stanza. Di fronte a lui: un fantasma.

Cercò di alzarsi, ma l'ascia piantata nelle sue viscere gli aveva reciso i muscoli.

"Resta pure fermo, sciocco Dio vanitoso."

"O- Orit, cosa ci fai qui? Te... Temevo fossi morto." La sua voce era già debole.

"Lascia perdere. Non ho pagato per un biglietto a teatro, ma per vedere la morte di un traditore."

"Tu, non hai prove."

Orit rise. "Prove? Le prove sono nell'altra stanza, quel nobile ha di certo già confessato tutto."

"Come...?"

"Lada, lei ti aveva insegnato a creare il veleno, vero?"

Madunai, la bocca piena di sangue, si era messo a ridere. "Credo di essere ubriaco."

"Una fine da vero Dio in declino. Non preoccuparti, il veleno farà effetto in fretta."



Orit osservò la vita abbandonare quello che un tempo era stato il suo protetto: il cugino a cui aveva insegnato a controllare le fiamme. Giovane, ambizioso, travolto dal suo desiderio di essere glorificato. Orit non ne sentiva più il bisogno.

Si alzò e attese che la delegazione entrasse nella stanza. Era stato lui a convocarli per raccogliere le testimonianze degli assassini. Tutti avevano confermato.

"Ora puoi tornare da noi." Gli aveva proposto Lada. "Sempre che tu non decida di restare per un po'." La dea aveva sorriso. Era l'unica che forse avrebbe potuto comprendere o condividere il suo desiderio di passare il tempo con gli umani. Lei passava quasi tutto il suo tempo sulla terra, in compagnia di ninfe, animali e umani abitanti dei boschi. Li proteggeva, li osservava e ne guidava il cammino. Fino a poco tempo pima Orit non la capiva, ma le cose erano cambiate.

Era mattina quando in una scia di Fuoco il Dio Orit si presentò alla capanna di Amtra, libero dal fardello della vendetta, pronto infine a svelarle chi fosse in realtà.



Elan era stato messo nella stessa stanza di un altro novellino di nome Arth, che aveva sempre vissuto ad Amtra. Aveva appreso che tutte le idee che si era fatto sui Templari erano state romanzate da anni di propaganda, in quanto in realtà l'Ordine militare non era che un piccolissimo gruppo di soldati che in caso di attacco avrebbe faticato a difendere anche solo la città.

Nonostante le sue aspettative fossero state disattese, aveva preso sul serio il suo impegno nello stuDio delle tecniche di combattimento insieme alle altre reclute e si impegnava anche a studiare in biblioteca ogni volta che ne aveva l'occasione. Shur era diventata per lui una guida nella comprensione dei volumi più complicati e spesso la cercava di sera, il libro carico di segnalibri: uno per ciascuna delle domande che le avrebbe rivolto, lei gli rispondeva sempre con serenità, ammettendo ciò che non sapeva e dimostrando una grandissima conoscenza.

I Maghi al tempio erano solamente cinque: Shur e Agi erano gli unici tra le reclute, vi era poi un uomo di mezza età e due anziani, ormai troppo persino per insegnare ai giovani, che passavano quasi tutto il loro tempo a viaggiare senza meta tra le terre del regno.

"Ormai non ci sono più molti maghi," gli aveva rivelato Shur. "Agi è l'unico della mia età che io abbia mai incontrato." Da come ne parlava, Elan aveva capito che la sua amica non si fidava molto del ragazzo, condividendo la sua stessa impressione.

I suoi poteri erano offensivi lui li usava senza neanche provare a contenerli, al punto che durante un combattimento di prova il mago aveva ferito una delle reclute, causandogli una ustione sul braccio col quale stava tenendo la spada.


Mancavano pochi giorni alla conclusione della prima parte dell’addestramento: presto sarebbero potuti entrare nel tempio e infine avrebbero avuto la possibilità di fare la loro domanda al Fuoco Sacro.

“Tu sai già cosa chiedere?” 

Shur scosse la testa. “Forse, ho un paio di domande in mente, ma non riesco proprio a decidermi… Tu invece?”

“Credo che improvviserò, non sono mai stato bravo a fare programmi, ogni volta che ci provo vanno a finire male.”





Shur era preoccupata. Gli addestramenti stavano andando per le lunghe e non era ancora riuscita a fare la sua domanda al Fuoco Sacro. Si era chiesta tante volte se tentare di entrare di nascosto nella sala della fiamma per accelerare i tempi, ma sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Era riuscita a tenere nascosti i suoi poteri offensivi e non poteva ancora scoprirsi. 

Sapeva che a tutti era consentita una sola domanda e lei in questo non era diversa dalle altre reclute. Conosceva già il quesito che avrebbe posto, era stato deciso nel momento stesso in cui la ragazza era nata. 

La sua missione era una sola ed era molto importante che lei la realizzasse il prima possibile: per la salvezza di Amtra e per il volere del Dio Orit, doveva spegnere il Fuoco Sacro.



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Fandom: Persona 3
Personaggi: Fuuka Yamagishi,
Natsuki Moriyama
Genere: introspettivo, avventura
Prompt: labirinto
Partecipa al COWT14
Wordcount: 4820


Soltanto uno scherzo


Un altro vicolo cieco
. La ragazza sbuffò e iniziò a percorrere la strada a ritroso, sperando di capitare di fronte alla via d’uscita. Non era certa di quanta strada avesse percorso vagando avanti e indietro lungo i corridoi, sapeva solo che non aveva più intenzione di salire, visto che ogni volta che era arrivata in cima a una rampa di scale, essa era svanita nel nulla intrappolandola in un nuovo piano più pericoloso di quello precedente. Quello era un luogo impossibile, malvagio e insidioso.

Chiedersi di nuovo come fosse arrivata lì dentro non l'avrebbe aiutata a trovare prima l'uscita, poteva solo continuare a cercare, anche perché se non fosse uscita di lì in fretta, sarebbe di certo impazzita.

Fuuka osservò le pareti scure, spettrali a causa della luce viola. Esse si muovevano costantemente, come se il luogo respirasse e vivesse. Le pareti si arcuavano e si modificavano a intervalli di tempo regolari. Nascondevano ombre che si muovevano lungo le superfici, in uno strato appena sotto la parte visibile, la pelle, in alcuni punti scrostata proprio come se qualcosa si fosse liberato dall’interno, creando una ferita.

La ragazza avvicinò di nuovo una mano alla parete, era più calda dell’aria intorno a lei, il Tartarus è vivo. Si sentì ancora più terrorizzata, ma si sforzò nel non lasciarsi andare alla disperazione in modo rumoroso. Non aveva intenzione di attirare a sé le creature che, come vermi, si muovevano silenziose nei punti più bui attorno a lei.

Doveva trovare una via d'uscita o sarebbe impazzita in quel labirinto.

Un essere strisciante le passò di fronte, Fuuka si portò una mano alla bocca per tentare di non urlare, ma sentiva il rumore del cuore martellare nel suo petto più forte di un tamburo, più veloce che dopo una lunga corsa.

E pensare che solo il giorno prima era a casa a sorseggiare un tè caldo e a lamentarsi del mal di testa.

Non solo di quello. Era da un pezzo ormai che Fuuka Yamagishi non si sentiva più felice, da quando i suoi problemi di salute l'avevano resa invisibile agli occhi di quelli che lei considerava, un tempo, i suoi amici.


Era cominciato tutto con una banale influenza che l'aveva costretta a letto per una decina di giorni. I suoi genitori erano entrambi medici e non avevano preso sottogamba i suoi sintomi, costringendola a restare a casa per curarsi.

Fuuka si sentiva in colpa poiché continuava a perdere giorni di scuola, sentiva i suoi genitori parlare fuori dalla sua stanza di quanto fossero preoccupati che non sarebbe mai riuscita a diventare anche lei un medico se non si fosse impegnata di più.

Il senso di colpa l'aveva portata a fingere di sentirsi meglio. Non voleva deluderli, era necessario che si impegnasse negli studi più che poteva. Quindi era tornata a scuola, ma si sentiva debole e a breve fu costretta ad ammettere di non sentirsi ancora bene.

Sua madre aveva iniziato a sottoporla a una montagna di esami per escludere ogni tipo di patologia conosciuta, dalle più comuni a quelle rare. Tutto risultò negativo.

Stare a casa con i suoi genitori significava passare il tempo sotto i loro occhi giudicanti, ad ascoltare parole fredde. "Spero che tu riesca a migliorare almeno un po', così non basta."

"Davvero hai studiato? Quanto tempo ci hai messo a scrivere questa relazione?"

Fuuka si impegnava il più possibile, ma pareva che non fosse mai abbastanza. Anche quando si sentiva soddisfatta del suo lavoro, loro reagivano come se quello fosse il minimo indispensabile.

Non era facile, ma la vita a scuola era diventata persino più difficile. Le domande invadenti dei suoi compagni di classe la mettevano a disagio. "Perché stai sempre male?" oppure "Cos'hai? Sei malata?", fino all'osservazione che le dava più fastidio: "Stai saltando scuola perché i tuoi sono amici dei dottori? Certo che sei fortunata." Se all'inizio Fuuka aveva provato a rispondere con leggerezza e serenità, col passare dei giorni aveva cominciato a evitare i compagni e i loro commenti carichi di risentimento e di invidia. "Pensi davvero che sia felice di passare così tanto tempo a casa?"

"Credi che restare bloccata a letto ed essere costretta comunque a non restare indietro con lo studio sia divertente?"

Aveva iniziato a fingere dolori solo per evitare la scuola. Lo faceva di rado, solo quando sapeva di non avere lezioni importanti o impegnative. Appena i suoi lasciavano l'appartamento per andare al lavoro lei iniziava a studiare seduta in salotto, odorando il profumo dei fiori freschi che in casa sua non mancavano mai, nella pace silenziosa della solitudine.


Natsuki Moriyama era una bulletta da quattro soldi. Fuuka era giunta a questa conclusione la prima volta che avevano parlato insieme, all'inizio del primo anno alla Gekkoukan.

Da allora aveva sempre cercato di ignorare sia lei che le sue due amichette, le chiamava le ombre, perché dove andava la prima, arrivavano subito le altre due.

Si erano ignorate in modo reciproco fino a quando Fuuka non aveva iniziato ad avere problemi di salute, da allora avevano iniziato a prenderla di mira, all'inizio con le domande sulle sue assenze. "Cosa fai fuori casa? Prendi forse lezioni private?" Poi con battutine che nascondevano un velato disprezzo. "I tuoi guadagnano bene, vero? Pensavo di sì. Quella maglietta è dell'anno scorso, giusto?"

Ignorarle non era poi così difficile, in genere rispondeva con un sorriso, senza dare modo alle tre di continuare a pungolarla.

Forse per loro non era così stimolante renderla lo zimbello della classe perché nessuno prestava attenzione a lei. Fuuka si sentiva invisibile agli occhi dell'intera scuola. Tutti quelli che lei considerava amici l'avevano abbandonata: non la invitavano più a uscire insieme a loro, neppure quelli del club artistico. La salutavano a stento e non le chiedevano neppure più informazioni riguardanti lo studio. A volte lei provava a inserirsi nei loro discorsi, ma trovava muri fatti di silenzio e di imbarazzo. Era come se il periodo durante il quale lei era stata male avesse alzato una barriera invisibile tra lei e i suoi amici. Fuuka aveva deciso di non avere la forza di provare a ricostruire la sua vita sociale, scegliendo di apprezzare invece il valore della solitudine.

Per questo, forse, Natsuki l'aveva avvicinata di nuovo e non aveva accettato la sua indifferenza.


La prima volta che si erano finte sue amiche, erano arrivate tutte insieme. Natsuki si era seduta di fronte a lei e le sue amichette si erano posizionate intorno al suo banco, La bulletta al centro e le altre due ai lati, come ombre, in una maniera che a Fuuka era sembrata quasi intimidatoria.

"Cosa fai di bello oggi pomeriggio?"

Presa in contropiede di fronte alla domanda inaspettata, Fuuka aveva risposto: "Niente di importante, devo solo studiare..." Se n'era pentita subito, appena aveva visto lo sguardo di vittoria sul volto di Moriyama.

"Allora vieni con noi? Facciamo shopping." Non le era servita una risposta. Le aveva stretto il polso un po' troppo forte e l'aveva strattonata fuori dall'aula e giù dalle scale senza neppure darle la possibilità di opporsi.

Fuuka si era lasciata trasportare dalle tre ragazze, le aveva seguite ed era salita sul treno con loro. Aveva riso quando Natsuki aveva iniziato a cantare a tutto volume le canzoni famose delle Idol, mimando un balletto sul treno insieme alle sue due amiche. Una volta scese, Moriyama l'aveva di nuovo strattonata per correre giù dalle scale, sotto lo sguardo un po' innervosito del controllore dei biglietti alla stazione. Erano state al centro commerciale di Paulownia, dove Fuuka aveva offerto loro dei frullati di frutta fresca che avevano bevuto insieme "In cambio della loro compagnia" e le aveva accompagnate a provare abiti alla moda e rossetti di colori sgargianti che lei non avrebbe avuto il coraggio di indossare nemmeno nella solitudine della sua stanza.

Tutto sommato non era stato un pomeriggio terribile come se l’era immaginato. Era da tempo che non intratteneva una conversazione libera con qualcuno della sua età e la sensazione le aveva risvegliato il desiderio di avere una vita sociale.

Era vero, le ragazze avevano dei modi un po' sgarbati e spesso Fuuka aveva avuto l'impressione che la stessero prendendo in giro, ma erano anche state gentili con lei, soprattutto quando una di loro aveva insistito perché lei provasse un abito rosso fuoco elegante, ma troppo vistoso per i suoi gusti e lei si era rifiutata. Natsuki le aveva sorriso e con una voce dolce e protettiva l'aveva confortata. "Non ti devi preoccupare, puoi indossare quello che preferisci. Questo lo provo io allora."

Più le ore passavano, più Fuuka si sentiva convinta che le ragazze forse non erano davvero delle bulle, ma semplicemente delle giovani esuberanti che davano un po' troppa importanza all'apparenza. Forse le aveva giudicate male, perché in fin dei conti nell'ultimo periodo lei era stata quasi sempre sola e un po' di compagnia l'aveva fatta sentire molto meglio. Aveva riso, cantato, corso lungo le vie della città e fin dentro casa. Per la prima volta da molto tempo si era sentita mancare il fiato per sua scelta e non per un malessere fisico.

Le due ragazze il giorno seguente l'avevano chiamata di nuovo per chiederle di uscire insieme a loro e Fuuka aveva tentato di rifiutare l'invito. Aveva deciso di tornare a frequentare il club artistico e l'aveva spiegato a Natsuki, che aveva accolto l'informazione con poco interesse. "Allora usciamo domani."

Oltre allo studio, Fuuka aveva davvero poco. Non era esperta di moda, non conosceva i marchi famosi, né tantomeno si interessava al tipo di musica che ascoltavano le ragazze della sua età, eppure quelle tre avevano continuato a invitarla. 

“Cosa volete da me?” Aveva chiesto il giorno prima.

Natsuki si era voltata, sorpresa per la domanda. L’aveva guardata come se la vedesse per la prima volta, uno sguardo di consapevolezza sopra le guance abbronzate e coperte di blush.

“Niente.” Aveva risposto. "Solo diventare amiche."


Era uscita di nuovo con loro, convinta che sarebbe stata un'esperienza leggera e divertente, ma si sbagliava. Natsuki l'aveva messa in imbarazzo per la prima volta sul treno. "Smettila di guardare quel ragazzo, Yamagishi. Non vedi che è troppo grande per te?" Aveva usato un tono di voce alto per fare in modo che un ragazzo di circa venticinque anni in piedi al suo fianco, intento a leggere un libro, si sentisse chiamato in causa e tutto il vagone la guardasse. La ragazza era arrossita e aveva passato il resto del viaggio con lo sguardo basso, pensando che non avrebbe pianto, perché non ne valeva la pena, era solo una battuta.

"Oh, scusa, era solo uno scherzo!" Le aveva detto Natsuki con aria innocente appena erano arrivate in stazione. Fuuka si era resa conto di avere sbagliato, ma sentiva di non avere modo di sottrarsi alla compagnia delle tre per quel pomeriggio. Si chiese se da allora in poi non avrebbe fatto meglio a restare direttamente a casa anziché recarsi a scuola. Forse avrebbe chiesto ai suoi genitori di poter fare gli esami in modalità privata, impegnandosi a studiare tutto il tempo, uscendo di casa solo per necessità. Ma non poteva rinunciare a tutto solo per una sciocchezza come quella. Desiderò diventare invisibile e non essere più costretta a vivere in quella società, era così stanca...

"Non te la sarai mica presa davvero?" Le aveva chiesto una delle due amichette. "Natsuki è così, le piace scherzare!" aveva minimizzato.

Fuuka era rimasta con loro e Natsuki aveva usato ogni pretesto per far sì che sia le sue amiche che i passanti ridessero di lei. Prima per la gonna sgualcita, poi per la bocca sporca, in seguito per l'espressione troppo seria. Si chiese se avrebbe mai avuto una via di uscita da quella situazione. Poteva andarsene, ma il giorno seguente sarebbe riuscita a dire loro di no? Non ne era sicura. Si chiese quali opzioni avesse e valutò che l'unica speranza che aveva era convincere le bulle che lei non era così facile da manipolare e da sottomettere. Dovette fare appello a tutto il suo sangue freddo e al suo desiderio di rivalsa per riuscire nell'intento.

Natsuki si era messa in coda per i Takoyaki. "Fuuka, questi li paghi tu, per la nostra compagnia."

"Sei tu che dovresti pagare me per averti sopportata fino ad ora." Le disse, seria. "Ah ah, sto scherzando, che divertente, vero?" Il silenzio che seguì fu la prova che Natsuki non si aspettava una risposta di questo tipo da lei.

"Credo che tornerò a casa, ora. Buon pomeriggio." Fuuka si era allontanata camminando in modo controllato, morendo dalla voglia di voltarsi a assicurarsi che le tre non la stessero seguendo. Cercò di inquadrarle sui riflessi delle vetrine, ma non cedette a voltarsi.

Solo quando salì sul treno si lasciò infine andare a un sospiro: ne era uscita, per ora. Sperava davvero che sarebbe bastato.

Quella notte fece uno strano sogno: lungo le strade illuminate dalla luna, non c'erano più persone, tutti si erano tramutati in bare, solo lei vagava senza meta in forma umana, come una salvatrice in grado di spezzare l’incantesimo che aveva imprigionato gli altri esseri umani.


Il giorno dopo Fuuka si alzò di buonumore, felice al pensiero della chiusura della scuola dei giorni seguenti in vista delle feste che le avrebbero permesso di rimettersi in pari con gli studi in tutta calma. Arrivata alla Gekkoukan aveva trovato Natsuki da sola ad attenderla al suo ingresso. Era di fianco al cancello della scuola. "Buongiorno Yamagishi." le aveva rivolto il saluto accennando un inchino, sul volto un'aria colpevole. "Mi dispiace davvero per ieri, non era nostra intenzione comportarci in modo così maleducato, ma a volte ci lasciamo un po' trasportare. Ti vogliamo chiedere scusa."

Fuuka era rimasta spiazzata da quel comportamento che avrebbe definito maturo e responsabile. Era rimasta a bocca aperta, chiedendosi quanto fosse sincero. "Non importa." Le rispose cercando di fingersi indifferente.

Moriyama si era congedata e Fuuka aveva passato le ore seguenti a seguire le lezioni del giorno, senza pensare più di tanto all'accaduto.

Stava per uscire dall'aula, quando una delle due amiche di Moriyama si era quasi scontrata con lei. "Natsuki mi ha chiesto di invitarti in palestra. Dice che è per chiarire e ci tiene molto. Visto che stai uscendo, se vuoi puoi andare lì direttamente, noi ti raggiungiamo subito."

Fuuka non era certa di volerle ascoltare, aveva camminato lenta, quasi certa che le tre avrebbero di nuovo tentato di farla sentire in colpa, oppure l'avrebbero umiliata con un nuovo scherzo crudele. La speranza però ebbe la meglio e la ragazza decise di assecondare la loro richiesta, in fin dei conti cosa avrebbero potuto farle a scuola? Era pieno di persone che avrebbero potuto sentirla, se non in palestra di certo appena fuori, non erano mica delle criminali, solo delle bullette innocue che lei desiderava tanto considerare delle amiche.


Entrò nel grande stanzone e si mise seduta su uno dei gradoni di fronte alla rete. Erano rivestiti in linoleum e coperti di piccoli elementi in gommapiuma che li rendevano un ottimo posto per leggere e rilassarsi. Fuuka aprì il suo libro e iniziò a leggere. Concentrata nella lettura, non si rese conto di quanto tempo fosse passato, forse una ventina di minuti. Fuuka sbuffò e si alzò, chiuse il libro e lo ripose nel suo zaino per poi alzarsi in piedi e dirigersi verso l'uscita. "Chiedermi di venire qui per poi non presentarsi neppure, che bello scherzo del cavolo." Si lamentò, sapendo che nessuno poteva sentirla. Quando abbassò la maniglia della porta, però, essa non si mosse. Un brivido freddo le corse lungo la schiena: era rimasta chiusa dentro. Bussò forte sulla porta. “C’è qualcuno? Sono rimasta chiusa qui! Apritemi per favore!” Ma dall’esterno ricevette in risposta solo silenzio.

Prima che il panico si impossessasse di lei, Fuuka tentò di ragionare.

Punto primo: era in una scuola, c'era di sicuro un modo per uscire, per esempio una uscita di sicurezza.

Punto secondo: era possibile che ci fosse un dispositivo per chiamare l'esterno.

Punto terzo: quella non era l'unica porta presente nell'edificio.

Respirò profondamente e promise a se stessa che non avrebbe mai più ignorato il suo sesto senso. "Certo, diamo a tutti il beneficio del dubbio, vedi poi come va a finire!" Questa volta a voce più sostenuta.

Provò la seconda porta, ma anche quella era chiusa. L'uscita di emergenza che dava sul campo sportivo invece era stata bloccata dall'esterno con un cacciavite. "Le hanno davvero pensate tutte..." Martellò coi pugni sulle porte sperando che qualcuno la sentisse, ma non c’era anima viva lì intorno. La speranza aveva iniziato ad abbandonarla, ma non tutto era ancora perduto. Raggiunse il citofono e cercò il codice per chiamare l'ingresso della scuola, ma con orrore si rese conto che anche quello era stato staccato. Era persino peggio: non c'era corrente in palestra. Presto sarebbe calata la sera e lei non aveva modo di uscire.

Si sedette di fianco al citofono e si lasciò andare alla disperazione. Pianse di rabbia e di frustrazione. Pianse contro Natsuki, che l'aveva messa in quella condizione, ma anche contro se stessa, perché era stata una stupida ad averle creduto, si era messa in pericolo con le sue stesse azioni sconsiderate. Pianse perché sapeva che i suoi genitori non l'avrebbero cercata. Quel fine settimana sarebbero stati fuori città per una conferenza e in genere non la chiamavano, quindi era possibile che non si sarebbero accorti della sua assenza fino al lunedì successivo, quando si sarebbero resi conto che non era tornata a scuola.

Non aveva con sé un orologio, né aveva idea di che ora fosse quando finalmente riuscì a trovare la forza di guardarsi di nuovo attorno e di valutare le sue opzioni.

"Ridimensiona, Fuuka," si disse, sentendosi meglio nel riuscire a verbalizzare i suoi pensieri a voce alta: "Sei nella palestra della scuola. È vero che sei bloccata qui, ma hai tutto quello che ti serve per sopravvivere fino a lunedì: hai un bagno, puoi perfino farti una doccia, hai coperte, perfino medicinali, in più nei cassetti dell'infermeria ci sono le barrette energetiche che ha messo qui Nishiwaki per il team di atletica. Hai un buon libro da leggere, cibo da mangiare e acqua da bere. Puoi stare tranquilla: sei in completo controllo della situazione."

Non ci credeva, come era ovvio, ma era altrettanto ovvio che le sue considerazioni fossero sensate: non correva rischi immediati e non avrebbe avuto problemi a stare lì dentro in solitudine fino a quando qualcuno non fosse venuto a prenderla. Era anche possibile che una guardia passasse a controllare l'edificio scolastico nel corso della notte e la trovasse lì. In quel caso il problema più grande sarebbe stato spiegare al vigilante cosa ci facesse lì e sperare che le credesse. Era tutto così assurdo…

Doveva credere nella buona sorte e sperare, di sicuro chiusa lì dentro era più sicura che in giro per le strade della città.

Cenò con un paio di barrette e cercò un luogo dal quale poter avere una buona visuale sulla palestra in cui riposarsi per la notte. Trascinò uno dei materassi in gommapiuma, in genere utilizzati per il salto in alto, vicino alla porta di emergenza e si stese lì, dove la luce del sole stava lasciando il posto alla semioscurità della notte di luna quasi piena.

Fuuka pensava che non sarebbe riuscita a dormire, invece dopo qualche ora cedette al sonno.

Fu al suo risveglio che iniziò a vivere l'inferno.

All’improvviso udì un fischio forte e gracchiante. Si sentì risucchiare nelle pareti della palestra, il suo corpo si sollevò e Fuuka si aggrappò d'istinto al pesante materasso e alla coperta che aveva preso dall'infermeria. Cosa stava accadendo? Era forse un sogno?

Intorno a lei la palestra si stava trasformando: le pareti alte e bianche si stavano restringendo, il colore sempre più vicino a quello del sangue. Sentiva un lamento intorno a lei, come un pianto cantilenante che sembrava provenire dall'interno delle pareti, dalle quali stavano iniziando a uscire escrescenze che ben presto assunsero le sembianze di nasi, occhi, bocche e interi volti umani. Il vortice di energia prese forza e la ragazza lasciò andare il materasso.


L'anno prima Fuuka si era recata a un parco dei divertimenti insieme ai suoi amici, insieme avevano deciso di fare un giro sull'ottovolante. Ricordava la sensazione di paura mentre osservava dritto di fronte a lei e il senso di nausea e impotenza mentre il suo vagone si muoveva veloce lungo i binari, la sua testa che sbatteva contro la protezione imbottita, la sensazione di sentirsi spinta in ogni direzione, di non avere controllo sulle proprie sensazioni, mescolate nel vortice di adrenalina. Era scesa con addosso un senso di libertà che non riusciva a definire, aveva lo stomaco sottosopra, ma era felice per avere affrontato le sue paure e per avere vissuto quell'esperienza, nonostante tutto aveva promesso a se stessa che non l'avrebbe mai più ripetuta.


In quel momento si sentiva come allora, ma ogni sensazione negativa era amplificata all'impossibile. Aveva sbattuto contro il pavimento con forza, come se qualcosa l'avesse lanciata a terra. Le braccia e le ginocchia le dolevano, tentò di muoversi e a un primo esame pensò di non avere ossa rotte. Si mise seduta e osservò il luogo in cui si trovava, pensò che fosse una sorta di casa degli orrori. Una luce viola fioca illuminava le pareti, ricoperte da volti mostruosi, per il resto pareva di essere all'interno del corpo di una creatura gigante: escrescenze simili a tendini si snodavano attraverso le pareti, a tratti occupando anche il pavimento. Non c'era ordine, solo caos inumano. Dal pavimento salivano quelle che Fuuka avrebbe potuto definire candele accese di luce viola, formate da venature fini che parevano organiche.

Non era in grado di descrivere ciò che aveva intorno, perché non aveva mai visto niente del genere in vita sua.

"Deve essere un sogno..." Sussurrò.

Prese a camminare lenta, cercando di fare meno rumore possibile. Avvicinò una mano a una delle escrescenze luminose provando a comprenderne la consistenza. Tutto in quel luogo era inquietante e impossibile: la luce viola non era una fiamma, né una lampadina. Era sbagliata: era come se qualcuno avesse tentato di riprodurre una lampadina senza averne mai vista una e il risultato era qualcosa di singolare che le fece venire la pelle d'oca. Non si fidò a toccare quello strano oggetto luminoso, ma posò le dita sulla base sottostante, la cui consistenza era tiepida, quasi simile alla pelle umana.

Che fosse stata ingoiata da un mostro?

Tartarus.

La parola le risuonò nella mente.

Ora ti devi muovere, qui non è sicuro, loro stanno arrivando.

La voce era dentro di lei. Fuuka si guardò intorno per qualche istante.

Forza, scappa! Non farti vedere da loro.

Non era certa di chi fossero loro, ma sapeva che avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio. Si fece forza e riprese a camminare. Sapeva d'istinto dove andare. Fece qualche passo in direzione di una rientranza nella parete le lo vide: la creatura strisciante era una sorta di fantasma: un'ombra scura simile a un ammasso di petrolio viscido con lunghe braccia minacciose protese verso l'alto. I suoi grandi occhi bianchi avevano le pupille tonde dilatate, ma non parevano vederla, sembrava costretto a un movimento maledetto, a vagare all'infinito nell'inferno in cui era finita anche Fuuka stessa. Si chiese se prima o poi non sarebbe finita anche lei con l'assomigliargli.

Resta nascosta.

Di nuovo quella voce. Fuuka restò immobile, nascosta nel punto più oscuro di quel luogo terrorizzante.

Non è un sogno, devi stare nascosta.

Si chiese di chi fosse quella voce. Capì il gesto che spesso aveva visto nei film, quando i protagonisti si davano un pizzicotto sul braccio per capire se fossero svegli oppure no. Ci provò anche lei, domandandosi se il dolore che sentiva fosse in effetti reale oppure se anche quello facesse parte dell'incubo che, ne era ancora quasi certa, stava vivendo.

Una parte di lei portò alla sua mente l'idea di chiamare uno di quei mostri e sfidarlo.

No, non è saggio. Non potrei difenderti...

L'amarezza nella voce la convinse a continuare a stare nascosta.

"Devo trovare un'uscita..." sussurrò, sperando in una risposta.

Così non riuscirai a uscire, devi prima accettare la realtà, accettare che io faccio parte di te.

Fuuka non capiva il significato di quelle parole. "Ma tu chi sei?"

Io sono te. Non posso dirti il mio nome, lo devi trovare da sola.


Un rintocco risuonò tutto intorno a lei e il muro che aveva di fronte a sé si aprì in un lungo corridoio. Le pareti che fino a prima apparivano solide avevano preso vita, alla sua sinistra sentì un forte lamento e la ragazza fece un salto in avanti quando notò che la parete si era protesa verso di lei e un grumo di filamenti simili a un ammasso venoso stava salendo dal terreno in sua direzione. Non doveva farsi prendere. Prese a camminare lenta, tenendosi per quanto possibile distante dalle pareti.

Attenta! C'è un'ombra, è dietro l'angolo.

Fuuka la sentiva, tornò indietro e continuò a camminare in cerca di una via di uscita. I corridoi terminavano quasi tutti in vicoli ciechi e più di una volta Fuuka fu costretta a nascondersi in anfratti stretti, cosparsi di bolle simili a materiale purulento.

L'odore negli stretti corridoi a volte però non era così terribile, le ricordava quello della sua stessa scuola: lungo un corridoio aveva sentito il profumo del grande cachi situato fuori dalla palestra, uno dei vicoli ciechi invece le avevano portato alla mente le tempere e gli acquerelli che utilizzavano al club artistico.

I piedi le facevano male, il dolore alle ginocchia la costringeva a trascinarsi più che a camminare, ma Fuuka continuava a provare, doveva esserci una via di uscita. Quando arrivò ai piedi di una scala, si chiese se avesse senso provare a salire. A pensarci bene, quello le sembrava un luogo sotterraneo, quindi decise di tentare.

Percorse i gradini lentamente, cercando di percepire eventuali ombre celate intorno a lei, che si sentiva vulnerabile in quel luogo aperto, dal quale poteva vedere l'immensità del labirinto dall'alto.

Appena giunse in cima, fece qualche passo in avanti. Si guardò intorno: era tutto identico al piano inferiore. Percepì un rumore alle sue spalle e si rese conto che le scale non c'erano più. Erano state sostituite da un ammasso di venature e ingranaggi sgangherati.

"Cosa..."

Non fermarti qui, non è sicuro.

Cauta, esplorò il piano del labirinto in cui era capitata, che cambiò di nuovo sotto i suoi occhi allo scoccare del rintocco. Fuuka iniziò a pensare che le modifiche alla struttura del labirinto fossero legate al passare del tempo, anche se le pareva scorrere più lento in quel luogo maledetto.


All'ennesimo rintocco, Fuuka si chiese se non avrebbe fatto meglio a sedersi e attendere che una delle ombre la trovasse. Aveva sete, era stanca e, se i suoi calcoli erano esatti, era lì dentro da almeno sei ore. Se ancora non aveva trovato un'uscita, forse doveva arrendersi alla realtà che non ce ne fosse una, era possibile che sarebbe morta lì dentro. Che senso aveva continuare a sopravvivere?

D’improvviso seppe che non era più la sola umana in quel luogo desolato, percepì una variazione nella struttura alla base, come se qualcuno l’avesse attraversata con consapevolezza. Ebbe la certezza di dove fosse l’uscita - alla base della torre - e dell’aspetto del Tartarus, come l’aveva chiamato la voce.

Sono arrivati, sono qui vicino...

Li sentiva: altri esseri umani erano intorno a lei, poteva percepirne i movimenti sotto di lei. Non erano vicinissimi, ma si muovevano in fretta e stavano salendo. Erano almeno in quattro.

Ti troveranno, vedrai.

Fuuka continuò a restare nascosta, muovendosi tra le ombre ed evitandole grazie al suo sesto senso e a quella voce nella sua testa. Una luce guida che l'aveva protetta nel suo girovagare inconcludente nel labirinto.

"Mitsuru, non riesco a sentirti... Hai detto che è qui vicina?"

Una voce maschile, non le suonava nuova. La ragazza iniziò a camminare con prudenza verso di lui.

"Mitsuru, dove dobbiamo andare?"

Esistevano davvero. Di fronte a lei c'erano quattro ragazzi in divisa. "Yamagishi, sei tu? Stai bene?"

Erano lì perché cercavano lei? Significava che loro conoscevano la strada per uscire dal labirinto?

"Non so cosa... Voglio solo tornare a casa."

"Ora andiamo, resta con noi. Ci sono alcune cose che devi sapere."


Questo è il tuo destino.


Di nuovo quella voce, Fuuka sapeva che le stava dicendo la verità e presto avrebbe compreso meglio a cosa si riferiva. In quel momento però desiderava solo tornare a casa.


quistisf: (Default)
 
Originale
Partecipa al COWT 14
Prompt: orizzonte

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.
Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.

Il viaggio verso l'Isola di Hermann - capitolo 1

Il rumore delle onde che si infrangevano contro la sua imbarcazione di fortuna la svegliarono. Lucilla tentò di sollevarsi e si rese conto di essere del tutto priva di energie. Ogni muscolo le doleva, si sentiva pesante e stanca nonostante avesse dormito per ore. Il suo abito era ancora bagnato, sentiva il freddo penetrarle nelle ossa e brividi gelidi le percorrevano la schiena. Era ancora viva, almeno.

Alzò lo sguardo: era ancora buio, anche se dal colore del cielo si capiva che stava per albeggiare. Si guardò intorno sperando di scorgere una luce, magari un faro o una nave in lontananza, ma niente: acqua. Solo acqua.

Ovunque si voltasse non vedeva altro. Si trovava in balia delle correnti su un insieme di travi inchiodate che un tempo era stato parte della nave sulla quale viaggiava.

Si trascinò al centro del relitto, cercando un punto più stabile. Urlò, disperata, consapevole che nessuno l’avrebbe sentita, né vista.

Si lasciò andare alla disperazione e pianse fino a quando non si sentì svuotata di lacrime, incapace di resistere al terribile pensiero che non aveva una via di uscita.


Solo poche ore prima vestiva un abito elegante in broccato, lavorato con seta e filo di argento, decorato con merletti di burano. Durante la cena rideva spensierata in compagnia dei suoi genitori, servita al tavolo da camerieri in divisa, mangiando prelibatezze cotte da un cuoco professionista, degne del suo rango nobiliare. Le tempeste arrivano sempre all’improvviso, almeno così aveva riferito il capitano ai passeggeri, quando li aveva congedati per la notte, dopo avere visto le nuvole e i lampi all’orizzonte.


La nave era possente: in legno verniciato di bianco e azzurro, si chiamava “Dama Enrica”, in onore di sua nonna e la prima volta che l’aveva vista Lucilla ne era rimasta impressionata. Non era molto grande, ma sembrava solida ed era stata costruita trent’anni prima da una ditta specializzata di Venezia, che poi l’aveva portata fin da loro, percorrendo tutto il mediterraneo. Un gioiello. Un’imbarcazione di lusso che serviva i nobili della zona e dava anche la possibilità a chi lavorava tra l'isola e la terra ferma di avere un trasporto sicuro e veloce. La nave avrebbe dovuto portarli all’isola di Hermann, dove la famiglia di Lucilla aveva una tenuta estiva che avrebbero visitato per la prima volta per quell’annata. I passeggeri paganti oltre a loro erano poco più di una decina: la sua famiglia alloggiava nelle stanze dedicate ai nobili, mentre le cabine inferiori, più spartane, erano occupate da un altro gruppo di viaggiatori diretti all'isola per lavori temporanei ai campi e nei locali per turisti. 

Lucilla non aveva neppure parlato all'equipaggio, non si era impegnata a conoscerli, né aveva dimostrato loro il rispetto che avrebbero meritato per il loro impegno nel servire lei e i suoi genitori. 


Se ne pentiva, avrebbe desiderato interessarsi alle loro vite anziché ignorarli. Si sentiva una sciocca ragazzina viziata, ormai era tardi però, erano quasi di sicuro tutti ormai defunti e non c’era niente che lei potesse fare per loro. Non era mai stata brava a parlare con gli estranei, le era persino più difficile farlo con chi era obbligato a servirla, perché erano tutti estremamente gentili con lei e rendevano le chiacchierate artefatte e vuote. Lucilla non aveva interesse nell’essere perennemente compiaciuta.

Quella sera, dopo cena era salita sul ponte e aveva visto delle nuvole all'orizzonte. Si era fermata a guardarsi intorno e a prendere un po' di aria, poiché non si sentiva stanca. Il cameriere che li aveva serviti a cena l'aveva seguita per soddisfare le sue richieste nonostante lei l'avesse congedato. Il ragazzo doveva seguire gli ordini, quindi Lucilla lasciò perdere e si limitò a ignorarlo. Camminava a pochi passi da lei, seguendola come un’ombra, senza mai alzare lo sguardo per non metterla a disagio. A guardarlo bene poteva avere la sua stessa età, ma non gli aveva fatto domande.


Era rimasta a osservare la nave che si allontanava dalle nubi, accese dai lampi di tanto in tanto. Un temporale, meno male che si stava muovendo in direzione opposta a loro, ricordava di avere pensato.

Osservare l'orizzonte la faceva sentire piccola. Si era sporta in avanti, protetta dal parapetto, e aveva immaginato i pesci che nuotavano seguendo le correnti del mare e le piccole imbarcazioni dei pescatori, che le erano parse così fragili quando le avevano incrociate quella mattina, fuori dal porto.

“Stia attenta, il mare è agitato questa sera.” Lucilla aveva annuito sbuffando, senza rispondere al suo guardiano, gli avrebbe detto che non era una bambina ed era in grado di occuparsi di sé stessa, ma era certa che la sua sarebbe apparsa come una rimostranza da ragazzina ricca, quindi era rimasta in silenzio.

Dopo aver fatto il giro del ponte, era scesa nella sua cabina personale, dal cui oblò poteva vedere il mare sul lato della nave e anche da lì aveva osservato l'orizzonte nella notte illuminata dalla luna piena.

In principio si era proposta di scrivere una lettera o di leggere il libro che si era portata per il viaggio, ma poi aveva pensato di evitare lettura per quella notte, poiché non si fidava molto ad accendere la lampada a olio con il mare mosso, nonostante i suoi genitori le avessero ripetuto che non ci sarebbero stati problemi, un senso di inquietudine continuava ad affacciarsi tra i suoi pensieri.


Si era addormentata a fatica, poi all'improvviso aveva sentito il boato e le urla dell’equipaggio. Si era chiesta cosa stesse accadendo e aveva cercato di svegliare sua madre, che però l’aveva scacciata con la mano, minimizzando. “Vedrai che è tutto sotto controllo. Abbiamo viaggiato spesso su questa tratta, se ci fossero problemi, l’equipaggio ci chiamerebbe."

Lucilla però non si sentiva tranquilla. Si era infilata una vestaglia, aveva legato i capelli, aveva percorso lo stretto corridoio ed era salita lungo la scala ripida. Arrivata al ponte si era resa conto che la situazione non era per niente sotto controllo.

"Torni giù, signorina!" La voce del capitano era ferma, nonostante la nave apparisse danneggiata. Lucilla si chiese cosa avesse causato quello squarcio all'altezza del ponte: le assi di legno erano rotte come se qualcosa di molto pesante le avesse colpite, solo che non c’era niente in vista.

Fece qualche passo indietro per osservare la situazione mentre il capitano comandava le operazioni di recupero. Pensò di tornare giù, ma non riusciva a muoversi. Era aggrappata alla porta principale e osservava l'equipaggio correre da una parte all'altra cercando di limitare i danni.

Un senso di panico si impossessò di lei, perché non riusciva a trovare un senso alla situazione. Alzò gli occhi per rendersi conto che vedeva ancora sia la luna che le stelle. Non stava piovendo, quindi non c’era la tempesta. Non vedeva altre navi, né sentiva rumori all’esterno. Cosa poteva essere accaduto?

Un altro tonfo, la nave sobbalzò, lei si aggrappò alla porta con entrambe le mani e rimase in piedi.

"Ci ha colpito di nuovo!" La voce di un marinaio sul ponte della nave.

Lucilla osservò la scena terrorizzata, poi lo vide: un tentacolo gigante, e scuro, alto almeno quanto la nave. Lucilla urlò, immobilizzata dalla paura. Sentì voci alle sue spalle, gli ospiti stavano salendo sul ponte. "La nave imbarca acqua!" Uno dei passeggeri si mise a correre lungo il ponte, per poi fermarsi a bocca aperta a osservare il tentacolo del mostro alto sulla nave. In pochi istanti la creatura colpì di nuovo e il ponte si spezzò.

Non c'era salvezza. la nave era perduta e, se anche fossero stati vicino alla terraferma, il mostro non avrebbe lasciato loro possibilità di fuga.

Lucilla rimase lì, attaccata alla porta per qualche istante, chiedendosi quale sarebbe stata la morte meno dolorosa, poi qualcuno la prese per il braccio e la strattonò fino alla prua della nave. Mentre si precipitavano lungo il ponte, la loro corsa sulla nave, pianeggiante sul mare, si era trasformata in una salita, la parte centrale della nave stava affondando sotto il peso dell'acqua.

La bestia marina attaccò di nuovo, per loro fortuna dal lato opposto rispetto a quello in cui si trovavano. Il ragazzo si muoveva frenetico intorno a lei, che si appese al ramo della nave cercando di non cadere.

"Resisti, possiamo sopravvivere. Devi lottare, non mollare." Le aveva preso il viso tra le mani guardandola negli occhi con convinzione, tanto che per un attimo Lucilla si era sentita al sicuro.

La ragazza chiuse gli occhi, del tutto inerme in quella situazione. Pensò che era molto probabile che i suoi genitori ormai fossero morti annegati, se non erano stati mangiati dal mostro marino.

Poi un altro colpo e la ragazza cadde in acqua. L'impatto la risvegliò dallo stato di panico in cui si sentiva. La ragazza aprì gli occhi e cercò la luce. Iniziò a nuotare verso quella che credeva fosse la superficie, ma le sembrava di restare immobile. Era certa che sarebbe morta lì sotto. Che tutti i suoi sogni di una vita diversa da quella di sua madre, di libertà, di conoscenza, sarebbero svaniti insieme al ricordo della sua esistenza. I suoi cugini avrebbero ereditato la tenuta e i possedimenti della famiglia. Loro sarebbero stati dimenticati.


Non ricordava come avesse fatto a salvarsi, era convinta che qualcuno l'avesse aiutata a salire sul relitto, che l'avesse guidata nuotando al suo fianco e che l'avesse messa al sicuro, cantandole una canzone che l'aveva aiutata a calmarsi e a dormire.

La sensazione che provava era di calore al pensiero, ma i suoi ricordi erano ancora annebbiati.


In ogni caso non aveva tempo per concentrarsi sul passato, poiché il presente era abbastanza problematico: non aveva con sé alcun tipo di provvista ed era consapevole che presto sarebbe morta, se qualcuno non l’avesse trovata in fretta.

Si alzò in piedi, cercando di restare in equilibrio nonostante il movimento oscillatorio del mezzo precario su cui stava viaggiando.

L'acqua era il problema principale, perché una volta che il sole avesse iniziato a battere sulla sua testa, avrebbe avuto necessità di bere.

Non c’era traccia di altri pezzi della nave intorno a lei, il mare era calmo e la luce del giorno aveva iniziato a illuminare il cielo e l’acqua. A est, Lucilla vide la prima porzione del sole rosso apparire e cercò di capire verso che direzione si stesse muovendo.

Era difficile senza riferimenti, in più lei non era esperta in materia, sapeva solo da che punto sorgesse il sole. Chiuse gli occhi e si concentrò sulle sue sensazioni, ma non era certa di aver capito. Osservò le onde e sospirò, speranzosa. Se davvero stava andando verso nord, il relitto l'avrebbe portata prima o poi in vista dell'isola.

Osservò il mare in cerca di altri pezzi di legno o persone, sperando di vedere le provviste di cui la nave era carica, ma anche se avesse identificato un barile o una cassa, lei non sarebbe mai stata in grado di scendere dal relitto e raggiungerle. Si spogliò, mise ad asciugare gli abiti ancora bagnati e si rimise addosso la vestaglia che un tempo era la sua preferita, ora era a brandelli. 

Un pensiero frivolo, lo riconosceva, del resto doveva pensare a essere decorosa, quando l'avessero ritrovata morta sul relitto intendeva essere il più presentabile possibile.

Constatato che non ci fosse niente intorno a lei, la ragazza decise di concentrarsi sull'orizzonte. Non intendeva passare le sue ultime ore dormendo, forse anche avesse voluto, non ce l’avrebbe fatta.

Il sole non era troppo caldo, anzi, era mite e l'aveva aiutata a scaldarsi. Pensò che probabilmente aveva la febbre visti i brividi, ma a causarli poteva essere anche la sete. Non importava in fin dei conti.

Il mare le era sempre piaciuto, ma promise a se stessa che se fosse sopravvissuta non avrebbe mai più preso una nave in vita sua.

Doveva solo attendere, osservando l'orizzonte, di conoscere il futuro che le aveva riservato il destino.


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Fandom: Persona 5
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Articolo di giornale


La cattura di Joker

Tokyo, 17 Marzo 2020

Phantom Thieves: svolta nelle indagini.

La popolazione è divisa di fronte alle dichiarazioni appena rilasciate dalle forze dell'ordine giapponesi: pare infatti che il leader dei Phantom Thieves sia stato finalmente catturato.

Per mesi si è dibattuto sull'esistenza effettiva e sui metodi utilizzati dai Ladri di Cuori per fare confessare le vittime e portarle al pentimento.

Chi si aspettava che a inviare le calling card e a smuovere la coscienza cittadina fosse un'organizzazione formata da esperti ladri e hacker, sarà sorpreso nel sapere che in realtà il leader dei Phantom Thieves, di cui per ora non si conosce il nome, è un ragazzo ancora minorenne.

Fonti attendibili vicine alla squadra che ha partecipato all'arresto riportano: "I Phantom Thieves hanno perpetrato numerosi crimini, tra i quali vi è anche il sospetto di omicidio, viste le numerosi morti misteriose e gli incidenti avvenuti a seguito di collassi mentali nel corso degli ultimi mesi. Anche se le loro modalità operative restano tuttora sconosciute, siamo fiduciosi nell'affermare che la loro attività sia conclusa per sempre."

La cattura è stata possibile grazie alla presenza di un infiltrato, che ha lavorato a stretto contatto con Joker, questo il nome in codice del ragazzo, e che ha permesso di cogliere il gruppo di hacker dei cuori con le mani nel sacco, sebbene le forze dell’ordine abbiano rifiutato di rilasciare dettagli sul luogo dell’arresto.

Nonostante tutto, in molti sostengono che non sarà possibile accusare formalmente Joker di alcun reato, poiché i Phantom Thieves non hanno mai davvero compiuto furti. Non ci sono prove, ad oggi, della loro partecipazione agli omicidi e ai collassi mentali. Si può accusare forse qualcuno di aver mosso le coscienze di alcuni criminali e di averli convinti a confessare crimini reali? Così facendo non si metterebbe in discussione anche la carriera professionale di psicologi e terapeuti?

Alla domanda: "Credi che i Phantom Thieves siano giusti?" Il 67% della popolazione ha risposto di sì, a dimostrazione che la gente comune li vede come eroi moderni, mossi dal desiderio di migliorare la società e di far sì che le persone corrotte e i criminali si prendano la responsabilità delle proprie azioni e facciano parte del cambiamento al fine di rendere il Giappone un luogo più sicuro per tutti i suoi abitanti.

Agli occhi del cittadino medio, Joker appare come un idealista, più che un assassino. La popolazione non ha accolto la cattura del ladro in modo del tutto positivo.

Dal canto mio, io credo che a volte il fine giustifichi le azioni, anche quando sono in una linea di confine tra legalità e crimine.

Credo nella sua innocenza e confido, un giorno, in un'intervista per raccontare cosa abbia spinto i Phantom Thieves a farsi portatori di questo messaggio di giustizia e di etica.


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Fandom: Persona 5
Personaggi: Goro Akechi, Ren Amamiya
Prompt: risonanza
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Il numero uno


Goro stava osservando l’espressione concentrata di Ren, che con attenzione si era chinato sul tavolo da biliardo per studiare la giusta traiettoria da imprimere alla biglia battente per mettere in buca la palla. Che sciocco: non si era accorto che non era quello il colpo più facile? Sospirò con impazienza, sperando che questo avrebbe innervosito il suo avversario.

“Quello è il prossimo tiro,” aveva detto Joker, indicando la biglia che il ragazzo stava fissando. “Prima metto in buca questa.” E aveva tirato, sicuro come sempre, con quell’insopportabile sorrisetto stampato sul viso. “Ecco, visto?” gli aveva ammiccato.


Aveva fatto un gran tiro, era l’unico avversario al suo livello. Goro in questi momenti provava pena per lui, in un certo senso lo riteneva una vittima collaterale. Il suo piano però aveva bisogno che lui lo diventasse, era necessario per il suo fine ultimo. 

Ren aveva messo in buca anche la seconda palla, infondendo in Goro un senso di fastidio che cresceva, lasciando poco spazio al rimorso e alla pena.Si somigliavano, più di quanto entrambi volessero ammettere. 

Per cominciare potevano controllare più di una Persona. Akechi ne aveva soltanto due, ma a dirla tutta non aveva davvero mai provato ad aumentarne il numero, Loki e Robin Hood erano più che sufficienti. 

Con l’ultima palla il suo rivale aveva concluso la partita. Un po’ di gioia prima di morire, pensò Goro. “Complimenti, sei destinato a essere il numero uno.”


Il numero uno. Parole che risuonavano nella sua mente di continuo. 

La prima persona che gli aveva promesso il successo era stata sua madre: una donna che aveva avuto l’esistenza che meritava, incapace di prendersi cura di lui e di dargli un padre. L’aveva invece costretto a vivere nella menzogna. Per lei, Goro era il numero uno perché capiva quando se ne doveva andare da casa e non diceva una parola. Obbediente, remissivo come lei desiderava. Parole a cui la donna aveva tolto il significato per sostituirlo con una bugia, come faceva con ogni aspetto della sua vita.


Il numero uno, il migliore. L’Ace Detective di cui Sae e il dipartimento di polizia avevano bisogno per l’operazione sotto copertura per catturare i Phantom Thieves. Colui che aveva risolto casi impossibili, raccolto l’ammirazione del pubblico e delle forze dell’ordine, che si era fatto notare da fan che lo cercavano e lo fotografavano di nascosto. Il numero uno.

Il compiacimento, la dimostrazione di ciò che Goro poteva fare grazie alle sue doti naturali.


Il numero uno, il primo in grado di offrire a suo padre qualcosa che nessun altro avrebbe mai potuto donargli: la volontà del popolo, la mente di chi gli si opponeva. Se solo glielo avesse chiesto, il ragazzo avrebbe messo ai piedi di Shido l’intero Giappone. Il numero uno nel risolvere le situazioni spiacevoli, così l’aveva chiamato, e Goro si era sentito finalmente apprezzato dall’uomo che l’aveva abbandonato molti anni prima, che si stava infine appoggiando al figlio reietto, seppure inconsapevolmente.


Solo di fronte a Ren non si sentiva il numero uno. Con lui era destinato a un ruolo marginale. Chiunque avesse osservato le loro azioni e conosciuto la loro storia avrebbe visto in Goro un antagonista, un personaggio mosso dall’invidia e dal desiderio di dimostrare il proprio valore in una lotta impari, nella quale sarebbe sempre risultato sconfitto se avesse lottato ad armi pari. L’uso dell’astuzia e dell’inganno gli poteva permettere di sfruttare un vantaggio e di vincere.

Lui però non aveva intenzione di dimostrargli lealtà. Stare con Ren era stimolante, era vero, ma ogni momento in sua presenza gli era sempre più difficile mantenere addosso la sua maschera.

“Fai qualcosa, salvati! Non vedi che ti sto prendendo in giro?” Avrebbe desiderato dirgli. “Ti credi tanto furbo, sostieni di essere il leader, invece sei solo una marionetta.”

Ren era sempre così difficile da comprendere, al punto che Akechi si era chiesto se non stesse indossando anche lui una maschera.


Non era possibile, lui era sempre un passo avanti.

Avrebbe ucciso il leader dei Phantom Thieves con le sue mani, proprio come aveva deciso quando aveva iniziato a pianificare il suo piano, mesi prima. Non uno speciale, solo una delle tante vittime del killer vestito di nero. Alzò lo sguardo su Haru, intenta a giocare a freccette con gli altri patetici ragazzini del gruppo e pensò a Okumura, a come ne aveva eliminato la versione cognitiva e a quanto le sue azioni non gli avessero impedito di passare del tempo con la figlia, senza alcun rimorso. Ricordava di quando le aveva anche confessato quanto la capisse, come anche lui in passato avesse perso il padre, come la sua vita fosse stata difficile, ma anche come tutto il suo dolore l’avesse reso forte.


Era il numero uno anche nel nascondersi, nel proteggere il suo grande piano di conquista del mondo senza fatica.

“Domani sarà una giornata importante, cercate di riposare.” Aveva suggerito ai Phantom Thieves nel congedarli.


Il giorno della verità: la cattura del tesoro nel Palazzo contorto di Sae Niijima. 

Sarebbe stato il giorno della sua consacrazione a numero uno, quando il suo rivale avrebbe finalmente riconosciuto la grandezza dell’intelligenza del celebre Ace Detective che lui continuava a trattare come suo pari.


Mentre tornava a casa, Goro si fermò a un telefono pubblico e compose il numero.

Al quarto squillo una voce conosciuta rispose. “Pronto?”

“Sono io.”

“Bene, parla.”

“Domani ci troveremo al Casinò. Entro due giorni la prima parte del piano sarà conclusa.”

Dall’altra parte, Shido stava in silenzio. Akechi poteva immaginarlo sorridere compiaciuto. “Mi farò vivo presto.”

“Fa’ in modo che le cose vadano come concordato.” L’uomo attaccò il telefono senza dargli la possibilità di salutare, come sempre.

Quanto avrebbe desiderato dirgli la verità. Spiegargli che ogni sua azione era un dono dal figlio rinnegato al padre. Una notte aveva sognato il momento della sua rivelazione. Nel sogno, Shido lo abbracciava, ringraziandolo per avere messo in pericolo la sua vita per lui, pregandolo di perdonare la sua assenza negli anni in cui avrebbe potuto fare la differenza.

Akechi posò la cornetta. Sapeva che quello era solo un sogno, che suo padre non si sarebbe scusato, né l’avrebbe abbracciato.

A lui bastava avere la sua riconoscenza, l’ammissione che Akechi era il numero uno.


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Fandom: Persona 3
Personaggi: Makoto Yuki
Prompt
 - singolarità: Il fatto di essere singolare, qualità di chi o di ciò che è singolare (nei varî sign. estens. e fig.); particolarità, eccezionalità, originalità, stranezza.

il carattere di irripetibilità, inconfondibilità, unicità, proprio del singolo, del soggetto personale

Partecipa al COWT 14 per M2


L'occhio del ciclone.

“Sei unico, il tuo è un potere speciale”.

Le parole di Mitsuru risuonavano nella sua mente senza tregua, ogni volta che viaggiava solo sulla funicolare.

Il primo giorno di scuola dopo le vacanze estive era ormai dietro l’angolo e lui aveva deciso di prendersi la giornata per girare senza meta, senza prendersi impegni particolari.

Il giorno precedente aveva incontrato Takaya al tempio. L’uomo gli aveva consegnato quel biglietto dal contenuto poco chiaro e Makoto si era chiesto di nuovo se Mitsuru e il capo gli stessero nascondendo più di quanto volesse ammettere.

Solo pochi giorni prima aveva combattuto al fianco di Takaya e ne aveva potuto osservare la potenza. Si era chiesto perché tutti i Persona User in grado di combattere fossero giovani come lui, per quale motivo non ci fossero altri adulti come Takaya a difendere la popolazione e a cercare di proteggere la popolazione. 

C’era qualcosa che non andava, ma per quanto si sforzasse, Makoto non riusciva a comprendere chi stesse guadagnando da quella situazione.

A volte si sentiva troppo stanco persino per alzarsi per andare a scuola, i rapporti con gli altri erano diventati più simili a impegni che a momenti piacevoli passati in compagnia di amici a cui si sentiva legato.

Makoto però sentiva di doversi sbrigare a formare legami con chi aveva intorno, doveva farlo prima che fosse troppo tardi.

Tardi per cosa? Si chiedeva quando il pensiero lo sfiorava, ma cercava di smettere di pensarci e si concentrava su pensieri concreti, tangibili, urgenti.

Mancavano ancora cinque ombre alla fine della loro avventura. Cinque mesi e il Tartarus sarebbe svanito per sempre, almeno così speravano tutti. La fine di una breve parentesi della sua vita.

Pharos gli era apparso in sogno la notte precedente e l’aveva avvertito di nuovo. 

Ogni volta che gli appariva, Makoto provava un enorme senso di inquietudine, perché ormai era certo che quel ragazzino fosse un messaggero oscuro che stava annunciando la fine della vita come sempre l’avevano vissuta, se non la fine del mondo intero e la distruzione totale dell’umanità.

Makoto sentiva di doversi sforzare sempre di più per trovare l’energia che tutti si aspettavano da lui: sempre a combattere, sempre in prima linea, ma la verità era che la motivazione lo stava abbandonando, il suo unico desiderio era riposare, smettere di pensare, ritirarsi e pensare alle frivolezze che i ragazzi della sua età consideravano importanti. 


La sua unicità l’aveva messo al centro della missione dei S.E.E.S., costringendolo a non avere la possibilità di mollare e di vivere in modo sereno la sua vita, come un normale studente. 

L’ultima volta che erano andati a combattere, Sanada era rimasto a casa a riposarsi dopo la sua ennesima vittoria in uno dei suoi  match di boxe. Si era concentrato sulla sua vita fuori dai S.E.E.S. e nessuno si aspettava che facesse diversamente.

Ma lui… Makoto non poteva sottrarsi al ruolo di leader che gli era stato assegnato all’inizio sulla base della sua abilità promettente nel combattimento. Decisione che in seguito era diventata un’imposizione quasi naturale per lui, che a detta di tutti. Lui, la singolarità, il prescelto tra i prescelti, che invocava ogni Persona con facilità,  grazie alle caratteristiche che tutti gli altri continuavano a definire uniche.

Pensò ad Aigis. Quando l’avevano incontrata gli aveva detto che lo stava cercando, che si era risvegliata proprio a causa della sua presenza, della sua vicinanza a lei, ma a Makoto questa dichiarazione aveva suscitato solo un profondo senso di inquietudine.

“Devo starti vicino e proteggerti sempre.” Gli aveva riferito. Aigis era diventata la sua ombra nel Tartarus, si risentiva sempre quando veniva lasciata indietro e i suoi occhi robotici lo cercavano in ogni istante, anche quando dormiva.

“Ti sento, so se stai bene. Il mio posto è sempre con te.”


Anche lei era unica: un essere senziente dalle sembianze simili a quelle di una ragazza, dalla mente robotica e razionale, dal corpo metallico e dotato di armi letali. Il cui scopo unico e dichiarato sarebbe dovuto essere quello di combattere le ombre, che invece era mossa dal desiderio incondizionabile di proteggere Makoto.


Perché proprio lui? Continuava a chiedersi senza che la risposta arrivasse.

Di nuovo, si era domandato cosa sarebbe successo se lui fosse sparito. Se avesse preso un treno per andare via da lì e non avesse dato spiegazioni. 

L’avrebbero cercato?
Sarebbero stati preoccupati per lui, o la loro priorità sarebbe stata la missione? 

Aigis l’avrebbe davvero trovato senza bisogno di sapere dove fosse?


Il treno aveva appena superato la fermata di Dekijima, presto sarebbe arrivato a Osaka.

Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa.

Si sentiva in colpa per essere partito, come se fosse fuggito dalle sue responsabilità coi S.E.E.S., anche se in fin dei conti non stava facendo altro che una breve gita.


Ricevette un messaggio da Junpei che gli chiedeva se stesse ancora dormendo. 

“No, sono in giro, sto andando a Osaka.”

Scrisse il messaggio, ma si fermò appena prima di inviarlo. Si morse un labbro mentre metteva in ordine i pensieri: Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa. 

Con un sospiro di liberazione premette il pulsante di invio.

“Wo! Osaka! La prossima volta ci andiamo insieme!”

Come immaginava, nessuno lo considerava un traditore.


Scese dal treno a Ebisucho, visto il caldo della giornata pensava che visitare il Santuario Sumiyoshi Taisha fosse la scelta migliore. La frescura dell’ombra del bosco gli avrebbe dato sollievo dal caldo torrido di Port Island.


Sperava anche che la calma del tempio lo aiutasse a sentirsi meno inquieto.

Meno necessario. Si sentiva come un eroe fragile, il punto fermo attorno a cui tutto stava accadendo.  L'occhio del ciclone attorno a cui tutto si distruggeva.

“Ti abbiamo aspettato per dieci anni,” così aveva dichiarato il capo. “Se non fossi arrivato tu, non ce l’avremmo mai fatta.”


Camminò fino al tempio, ne ammirò i quattro edifici antichi in legno, verniciati di rosso acceso come da tradizione, rialzati e protetti dalle caratteristiche ringhiere rosse. 

Si immaginò come sarebbe stato lui se avesse fatto parte della struttura del tempio: un edificio troppo grande, sghembo, costruito alla rovescia. Un elemento che avrebbe tolto armonia al luogo, catturando l’attenzione di tutti. 

L’armonia era nel gruppo di edifici uguali, nella ripetizione. La forza era nel gruppo.

Alzò lo sguardo: il bosco, fitto, permetteva ai fedeli di pregare, così come consentiva a lui di non soffrire troppo il caldo. Forse era quello il suo ruolo: essere il ristoro, contribuire nella sua singolarità a fare parte del gruppo, a proteggerli, a guidarli nella raggiunta della fine, qualunque essa fosse, così come loro proteggevano lui. 


Al suo ritorno al dormitorio si sentiva rinfrancato, pensando che ciascuno ha la parte che il destino gli riserva. A lui era stata destinata l’unicità che lo rendeva un buon leader e avrebbe fatto la sua parte.


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Partecipa al COWT 14
Prompt: Rinascita
Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Will, Principe, Gallica, Russell
One shot



Il potere della speranza

Quella mattina il principe si era svegliato tardi. Gruidae, che comandava il villaggio degli Elda, l’aveva accolto con la solita riverenza, accompagnandolo al tavolo dove lo aspettava una ricca colazione con tutto ciò che avrebbe mai potuto desiderare. Non aveva fame, ma come sempre si era sforzato di mangiare in modo da non deludere la governatrice Gruidae, poiché si rendeva conto che il solo fatto che lui continuasse a vivere dava speranza a tutti nel villaggio.

A volte pensava che quella vita al villaggio degli Elda fosse una prigionia dorata. Non gli era concesso di uscire, anche se sognava di viaggiare e avrebbe desiderato vedere il mondo. Purtroppo era ormai rassegnato al fatto che debole com’era passava le sue giornate seduto all’aperto, all’ombra degli alberi intorno alle fate a guardare i fiori ondeggiare sul manto erboso. Leggere il suo libro, eredità donata dai suoi genitori, e sognare erano le sue uniche occupazioni, e la sua salute stava peggiorando.

Lo notava negli occhi preoccupati dei suoi custodi, in particolare nella sempre più assidua presenza di Russel. Ne aveva conferma nei momenti in cui il dolore lo rendeva stanco e incapace di muoversi. “Posso andare a trovare mio padre?” Aveva chiesto subito dopo colazione, ma Gruidae aveva distolto lo sguardo con aria quasi colpevole. “Attendete, manca poco ormai, presto sarete libero.”

Si era chiesto in che senso la saggia Gruidae avesse usato la parola libertà: sarebbe morto? Si sarebbe liberato della maledizione? Oppure forse chi aveva già tentato di distruggere il villaggio sarebbe tornato a completare il lavoro?

Più cercava di scacciare la domanda, più la risposta gli appariva chiara: non aveva più tempo.

I suoi sogni sarebbero rimasti solo nella sua mente, avrebbe concluso la sua vita nel villaggio degli Elda e non avrebbe più rivisto suo padre.

Lesse qualche pagina del suo libro, la sua più importante possessione, ma fu costretto a smettere per il dolore agli occhi. Si addormentò a fatica, sforzandosi di scacciare le spine che si continuavano a fare strada sulle sue braccia, fino al collo e alle mani. Provò a concentrarsi su altro e si immaginò di fuggire da lì, pensò a Grand Trad e alle sue strade brulicanti di negozi, cittadini, attività e palazzi da vedere. Non per lui, non li avrebbe mai potuti vivere.

Chi avrebbe potuto prendere in giro? Forse anche solo pochi mesi prima avrebbe potuto tentare di fuggire, ma con le sue forze non aveva speranze neppure di uscire dal villaggio.

Quella notte sognò la libertà.

Fu un sonno sereno. Si vide diverso, più alto, la carnagione più rosea, i capelli corti più scuri. Magari fosse stato così: il portamento elegante e sicuro, gli occhi di colori differenti, gentili e ricchi di vitalità, il completo da viaggio comodo. Si sentì più forte, i rovi e le spine finalmente avevano lasciato il suo corpo e lui poteva correre per minuti interi, prendere fiato senza sentire dolore, persino maneggiare una spada.

Quando si svegliò pensò a quanto il sogno gli avesse mostrato una prospettiva più attraente rispetto alla realtà che stava vivendo.

Mangiò senza appetito, concentrandosi sulla lettura del suo inseparabile libro, l'utopia che lo spingeva a resistere nonostante il dolore sempre più pungente. Provava fatica anche solo a tenere gli occhi aperti e a respirare. Russel era al suo fianco, un'ombra che lo avrebbe protetto da chiunque avesse tentato di attaccarlo dall'esterno.

Il principe provava un'immensa gratitudine per lui e per tutti gli abitanti del villaggio, che gli erano sempre stati vicini con devozione.

"Grazie di tutto, Russel." Gli disse.

Il vecchio Eugief alzò la testa e sorrise con un'iniziale debolezza. "E di cosa, signore? È un onore per me essere al suo servizio."

"Sono grato di questo. Mi dispiace solo non riuscire a essere utile." Se solo avesse avuto la capacità di salvarsi con le sue forze, le cose sarebbero potute andare diversamente. "Ci tengo a ringraziare tutti. Lo faccia lei da parte mia, se non dovessi riuscirci."

Russel aprì la bocca, ma non parlò. Annuì, gli occhi fieri e consapevoli.

Il principe si alzò dal tavolo, prese il suolibro e fece pochi passi verso l’uscita, si sentì cadere. Crollare.

Mentre il corpo lo abbandonava, pensò che la sua mente invece era forte, che avrebbe ancora potuto salvarsi, come nel sogno. Concentrò tutte le sue energie nel pensiero che sarebbe stato egli stesso l'artefice del sue destino. Gli venne in mente sua madre, di cui non ricordava neppure il volto. Che l'avesse mai vista veramente prima di allora? In quel momento gli appariva nitida di fronte, come una guida nella nebbia del dolore, pronta a indicargli la via di uscita.





Gallica sentì il grido di dolore di Russel dal santuario nel quale stava parlando con Gruidae. Agitò le sue ali il più veloce possibile per correre a vedere cosa fosse accaduto e vide il principe a terra, esanime. Al suo fianco, dalla luce brillante dell'essenza del principe, un essere vivente stava prendendo forma. Il suo aspetto era così simile a quello del principe, che la Fairy si chiese se non stesse impazzendo. Poteva sentire il Magla convergere verso quella creatura, lo vedeva crescere e apparire sempre più tangibile. I capelli erano scuri, un occhio dorato, uno azzurro. La stessa età del principe. Due gocce d'acqua. Gallica lo osservò mentre prendeva forma, incapace di concentrarsi sul resto.

"Gallica, aiuto! Il principe non si sveglia!" Le parole di Russel echeggiavano nella sua testa senza apparente significato. Una missione, pensava: abbiamo una missione.

 

Sbatté le palpebre di nuovo e vide una moltitudine di persone che si affannavano intorno al corpo addormentato del principe. Il suo corpo fu posato nel santuario dai membri della guardia che ancora erano leali al gruppo di Russel, Gruidae appariva stremata dall'impossibilità di poterlo salvare.

Lo strano ragazzo osservava il principe in un pianto silenzioso, teneva in mano il suo libro e appariva ancora lucente di Magla. Gallica si diresse verso di lui, ma più si avvicinava, meno pensava che lui fosse un pericolo. Un amico, il suo amico. Abbiamo una missione.


La sera stessa Will e la Fairy partirono per la missione: l'infiltrazione nell'esercito per raggiungere Grius, l'assassinio di Louis Guiabern per salvare il principe.

Sei l'unica rimasta, gli aveva detto Russell. Invece erano in due. Per un attimo il dubbio la fece dubitare, ma poi guardò Will e le sue paure si dissiparono. Dovevano fare attenzione, l'unico obiettivo della missione era salvare il principe.




Il principe dormiva, in preda alla maledizione che l'aveva ridotto in fin di vita, eppure stava anche vivendo la sua avventura come Will: il corpo creato dalla sua speranza e dal suo desiderio di far parte di una società diversa.

Nel suo sonno incantato, il principe aveva incontrato persone di ogni tipo, aveva combattuto con Strohl, Hulkemberg, Heismay, Junah, Eupha e Basilio. Aveva parlato di uguaglianza e di rispetto e si era impegnato a vendicare la morte del Re, di suo padre, di loro padre.

La morte di Rella Cygnus l'aveva infine riportato alla veglia.

Il risveglio non fu semplice quanto aveva sperato. Il contatto con l'altro se stesso si interruppe di colpo quando la maledizione si spezzò, al punto che il principe si chiese se Will non fosse svanito nel nulla. Rimase fermo, disteso, incapace di muoversi.

"Le spine, sono svanite!" Un urlo di gioia echeggiò nel santuario e lui aprì gli occhi. Desiderò di toccare con le sue mani il muro della grande Cattedrale di Grand Trad, di solcare l'oceano sul Gauntlet Runner, di chiedere a Eupha cosa vedesse nel suo Magla. Seppure disteso, inerme, il principe sorrideva. Non sentiva dolore.

La rinascita era avvenuta.

Presto si sarebbe riunito con Will e, di nuovo uno, avrebbero guidato il regno di Euchronia. 

 

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