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fandom: originale
partecipa al COWT 14
prompt: la porta tra i mondi
One shot


La chiave per Eltra

Aveva trovato la chiave in soffitta, ma Alessia non aveva idea di cosa aprisse. Non ne aveva mai vista una simile: era in un metallo scuro, quasi nero, ed era incurvata al punto che la ragazza si chiese se sarebbe mai potuta entrare davvero in una serratura. Sua nonna l’aveva mandata in soffitta proprio a cercare una chiave e, stando alla descrizione che le aveva dato, poteva essere quella giusta.

La casa della nonna era sempre stata piena di misteri: stanze chiuse a chiave, rumori inspiegabili e passi che finivano nel nulla. Investigava spesso, con la sua lente di ingrandimento e il suo cappello, ma non era mai riuscita a trovare la fonte di quelle stranezze. Di fronte alle sue domande più volte, con occhi vivaci, la nonna le aveva detto che loro due si somigliavano come gocce d’acqua e che prima o poi avrebbe avuto le sue risposte. “Noi siamo diverse dai tuoi genitori e da tuo fratello, vedrai: un giorno vivrai delle splendide avventure!”

Le chiedeva sempre quando le avrebbero vissute, da piccola era sempre a cercare nuove sfide, a esplorare ogni luogo che visitavano. “Un giorno ci andrai, te lo prometto.”

Con l’andare degli anni la ragazza aveva iniziato a passare in quella casa sempre meno tempo e si era dimenticata di quei discorsi che da piccola la affascinavano e catturavano i suoi sogni.

In quel periodo Alessia passava molto tempo lì, perché sua nonna Erminia si era rotta il femore e lei stessa si era offerta di prendersi cura di lei nel corso di quell’estate. Prese la chiave e la portò con sé. 

“Ci beviamo un tè?” Propose all’anziana donna una volta arrivata nella stanza.

“Sì, ma vorrei berlo in soggiorno, se non ti dispiace.”

La nipote annuì, prese la sedia a rotelle e aiutò Erminia a salirci sopra con movimenti calcolati e sicuri. La mise dentro l’ascensore che avevano fatto costruire per il nonno qualche anno prima e insieme scesero al piano terra. 

Il salone era arredato con mobili in legno scuro, tipici degli anni in cui erano stati acquistati. Una della parete era cosparsa di specchi con larghe cornici di legno intarsiate che da piccola avevano sempre affascinato Alessia. Era lì che giocava alla scuola di ballo e recitava fingendosi una famosa attrice.

Andò in cucina a preparare il tè e sistemò le tazze sul vistoso vassoio di argento antico che da sempre utilizzavano per servire bevande calde. 

Lo sistemò sul tavolino dove la nonna la aspettava, sembrava seria.

“Oh, tieni la chiave!” Annunciò Alessia, porgendogliela.

L’anziana donna prese invece la tazza calda con entrambe le mani. “Quella è tua ora. Dovrai usarla con molta attenzione e donarla a chi tu riterrai tuo successore nel custodirla.” 

Alessia piegò la testa di lato, forse la nonna aveva qualche piccolo problema di demenza. “Perché? Che chiave è?”

“Quella è la chiave della porta tra due mondi. Unisce il nostro a un mondo che presto conoscerai.” Sorrideva, negli occhi un’espressione vivace e nostalgica. “La città dove arriverai si chiama Eltra, in realtà è più un piccolo villaggio, ma la porta è ben custodita, vedrai. Potrai dire ai custodi il mio nome e loro ti accoglieranno. Ho vissuto splendide avventure nei dintorni di Eltra. Usa la catena per mettere la chiave intorno al collo e quando aprirai la porta la vedrai scomparire. Appena tornerai alla porta dall’altra parte essa riapparirà e potrai tornare a casa.”

La ragazza rise, nervosa. “Mi stai prendendo in giro, nonna?!

Erminia però alzò le spalle. “Anch’io ho reagito così quando l’ho ricevuta. Ho dovuto vedere. Alzati.”

Alessia pensò che assecondandola non sarebbe accaduto nulla di male, quindi seguì l’ordine.

“Metti al collo la chiave e vai verso lo specchio.” La ragazza continuò a obbedire, “Ora prendi in mano la chiave e chiedi di entrare.”

“Cosa devo fare? Dire io chiedo alla chiave di aprire la porta per Eltra e di farmi entrare?” Appena finì di pronunciare quelle parole, sentì un rumore simile a quello del vento tra i rami di un albero. Rimase a bocca aperta mentre lo specchio si apriva per rivelare una porta. 

“Bastava dire io chiedo di entrare. Per tornare basta chiedere di tornare.” La ragazza toccò la porta appena rivelatasi sotto i suoi occhi, poi tornò a rivolgere la sua attenzione alla nonna. 

“M- Ma allora è vero?”

“Ma certo che è vero. Non ti racconterei storie. Ora vai, fai il tuo primo giro. Puoi dire che li saluto, ma che dovranno venire loro a salutarmi, io non posso più viaggiare.”

“È un viaggio pericoloso?”

“No. Potresti vivere qualche avventura, ma non preoccuparti. Mi racconterai quando tornerai a casa. Ti aspetto qui.”

Alessia estrasse la chiave.“Hai mantenuto la tua promessa. Grazie.” Varcò la porta e svanì nel nulla, pronta alla prima delle sue avventure ad Eltra.


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Fandom: Persona 5
Personaggi: Chihaya Mifune
Prompt: chiaroveggente, prima persona
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One shot
La verità

In molti tra i clienti ai quali predico il futuro mi ripetono continuamente quanto io sia fortunata a vedere il mio destino e quello delle persone intorno a me. Magari fosse così semplice… All’inizio non lo è stato perché venivo evitata, è successo sin da quando ero una ragazzina, quando mi davano della strega e mi tenevano a distanza per paura che predicessi disgrazie. Come se fosse cambiato qualcosa. Nella mia città natale non riuscivano neppure a comprendere la differenza tra premonizione e capacità di alterare il destino. Il risultato è stato che ho imparato a tenermi dentro le risposte, anche se a volte proprio non ci riesco.


Il caso del giovane Ren mi sta mandando in crisi, perché il suo futuro è incerto e da quando lui è entrato nella mia vita anche il mio è diventato impossibile da decifrare. I tarocchi, che mi hanno sempre dato risposte, mi ignorano ogni volta che lui è parte delle mie domande. Quel ragazzo mi ha messa di fronte alle mie scelte discutibili e mi ha costretta a vedere ciò che ero diventata: una ciarlatana che avrebbe predetto qualunque sciocchezza in cambio di qualche soldo.

Quante volte nel passato ho maledetto il mio dono, pregando la natura di riprenderselo e di permettermi di vivere serenamente giorno dopo giorno, senza l’onere di dover portare nel mio cuore segreti, a volte difficili da tenere nascosti.

Qui a Tokyo non sono che una chiaroveggente di strada, per molti un momento di divertimento nel grigiore della vita di tutti i giorni.

Non so fare altro. Al mio arrivo nella capitale ho provato a ricominciare da zero, con persone nuove, lavorando in un ristorante e anche come commessa, ma sono sempre stata bollata come strana e infine licenziata. Bastavano poche parole dette senza troppo peso per fare sì che la mia fama di strega tornasse a colpirmi forte come un colpo di martello. Una maledizione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Ho ricominciato a sfruttare il mio dono di chiaroveggente per sopravvivere e perché è l’unica cosa che so fare. Mi ero sempre detta che lo faccio per dare speranza, almeno fino a quando quel ragazzino non mi ha messa di fronte alla realtà: ero diventata il circo di strada che odiavo.

Devo ritrovare me stessa e la mia integrità per tornare la Chihaya innocente e pura a cui il dono è stato regalato dalla dea Fortuna.

Ci sto provando. Questa sera spero che Ren venga a trovarmi. Sarò sincera con lui come non lo sono stata neppure con me stessa nell’ultimo periodo e gli dirò ciò che vedo: lui è parte del mio destino, così come io sono parte del suo.


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Originale
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Prompt: il castello abbandonato 
Avventura

Il viaggio di Daniel


Il viaggio di Daniel si stava rivelando più lungo del previsto. Era partito parecchie ore prima dal suo paese natale per portare il carico al porto, ma sulla strada non aveva incontrato anima viva. 

Era la prima volta che usciva dal villaggio e tutti si erano impegnati a dispensargli buoni consigli prima della sua partenza. Questo però non l’aveva aiutato a prendere la strada giusta, a quanto pareva, perché sembrava proprio che lì intorno non ci fosse alcun porto, tantomeno il mare. Aveva avuto qualche dubbio, in effetti, soprattutto quando si era trovato a passare sul ponte di legno mezzo scassato, rischiando anche di perdere carro e carico lungo la strada. E poi non aveva incontrato villaggi, né viandanti, né altri carri.

Si grattò il mento, lo faceva sempre quando pensava, e decise che la cosa migliore da fare fosse portare il carro nel punto più alto raggiungibile, solo che senza strade era un po’ difficile far salire il carro, perciò quando arrivò ai piedi di una ripida collina, legò il cavallo a un albero e iniziò a salire. Da lassù fu certo che era finito in mezzo al nulla. 

Gira a destra, poi segui le indicazioni per il porto, andrai in discesa, così gli avevano detto. A pensarci bene lui era andato in salita, e non poco dall’inizio del viaggio. Forse si era sbagliato di nuovo a distinguere destra e sinistra. Schioccò le dita, lo faceva sempre quando era dispiaciuto. Iniziò a scrutare la boscaglia e le campagne intorno a lui in cerca di una capanna, di fumo o un qualunque segno di vita, ma non c’era anima viva, solo corvi in cielo e rumori di qualche animale tra gli alberi dietro di lui.

Si grattò la fronte e pensò che tornare indietro ormai fosse fuori discussione, presto sarebbe stato buio e il cavallo era già stanco. Sua madre gli diceva sempre che lui non era il coltello più affilato del cassetto, ma quello lo capiva bene. aggirò il boschetto per vedere dall’altro lato dell’altura poiché era certo che quella fosse la direzione giusta: da qualche parte doveva pur esserci un villaggio.
Batté le mani, lo faceva sempre quando esultava, quando notò il castello, le mura coperte di edera lo mimetizzavano tra gli alberi del bosco che lo circondava, ma da lassù Daniel aveva notato il fossato e le torri. Scese veloce e liberò il cavallo, chiedendosi cosa avrebbe trovato ad attenderlo. Sua madre gli aveva detto di raccontare sempre che veniva dal villaggio di Velda, perché tutti amano i Veldani, sono sempre amichevoli e vendono le stoffe a tutti. Il ragazzo sperò che, magari in cambio di alcune delle stoffe che portava nel carro, sarebbe stato accolto e rifocillato per la notte. Il giorno seguente se ne sarebbe andato, non avrebbe arrecato troppo disturbo. Sarebbe stato ancora meglio se avesse trovato un piccolo villaggio nel quale vendere le sue stoffe, pensò grattandosi la spalla, così non sarebbe dovuto andare di nuovo fino al porto, sarebbe solo tornato a casa.

Il cavallo aveva approfittato della breve sosta per mangiare e per riposare un po’, quindi ripartì senza troppe preghiere, Daniel invece cominciava a sentirsi davvero stanco, era quasi il tramonto e lui non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti.

Daniel fischiettava sul carro, lui e Zampebianche si avvicinavano al castello a ritmo veloce, però, più andava avanti, più si rendeva conto che qualcosa non quadrava: sembrava che quella strada non venisse percorsa molto spesso, gli alberi erano grandi, l’erba alta e i campi non sembravano coltivati. Le stesse mura del castello, a cui si stava avvicinando, erano coperte di edera completamente. 

Il ponte sopra il fossato era abbassato e l’accesso all’interno appariva libero. La realtà era che non c’era proprio una porta.

Daniel si grattò il mento e si chiese quale scelta avesse. Non era mai stato un grande pensatore, nessuno gli rivolgeva mai domande importanti, semplicemente gli dicevano cosa fare e lui eseguiva. “Se non c’è nessuno, posso dormire tranquillo. Se c’è qualcuno magari trovo compagnia.” Disse, più rivolto a se stesso che al suo cavallo, che comunque non lo avrebbe capito, in effetti.

Il ragazzo staccò l’animale dal carro e portò il suo fido destriero a quella che un tempo era la stalla. Fu felice nel notare il rubinetto a leva di un pozzo, che azionò più e più volte, fino a quando l’acqua non prese a scorrere. Riempì un secchio al suo cavallo, bevve un po’ d’acqua anche lui, si riempì la borraccia e chiuse il recinto. 

“Ora penso a me. A dopo, Zampebianche.”

Si guardò intorno. Era ormai l’imbrunire e se qualcuno fosse stato nel castello, di certo Daniel avrebbe visto una candela o magari sentito delle voci che gli avrebbero rivelato la presenza di un uomo o una donna.

“C’è qualcuno?” Urlò, le mani a conca ai lati della bocca per amplificare il suono.

Rimase in attesa per qualche istante. “Se c’è qualcuno, non è che mi risponde?” Provò di nuovo, nessuna risposta. “Per favore!” Ma a quanto pareva, non sempre la gentilezza serviva, al contrario di come gli aveva insegnato sua madre.


Daniel si guardò intorno e si grattò la testa, pensò che per trovare un letto e qualcosa da mettere sotto i denti sarebbe stato opportuno esplorare gli edifici lì intorno, quindi decise di iniziare da quello più vicino. 

La porta era aperta, ma l’edificio era del tutto vuoto.

Il ragazzo uscì, non aveva senso restare lì se non c’era niente, e continuò a cercare il luogo adatto per riposare.

Gli sembrava un po’ strano che lì non ci fosse proprio nessuno, ma sua madre gli aveva detto di non farsi troppe domande, gli aveva spiegato tante volte che lui era più bravo a fare che a pensare, quindi proseguì. Entrò in altri tre edifici, tutti piccoli, nella zona di ingresso del castello. Nel primo c’erano dei sacchi pieni di semi, uno di essi conteneva della frutta secca. Era stato abbastanza fortunato, perché non era la cena migliore del mondo, ma avrebbe mangiato qualcosa almeno. Raccattò delle noci e alcune nocciole, poi proseguì fino al secondo. Lì c’erano alcuni mobili che, se avesse avuto il carro vuoto, forse si sarebbe anche portato a casa: un bel tavolo con quattro massicce sedie di legno e una grossa stufa da cucina. L’ultimo stabile invece conteneva solo alcune armi, che però non gli servivano, quindi le lasciò lì, anche se aveva sempre desiderato avere una spada. Sua madre però gli diceva sempre che non voleva che lui si facesse male, era sicuro che lei avrebbe preferito che non le toccasse neanche, quindi si allontanò.


Si avviò in salita verso il complesso principale del castello. “C’è qualcuno?” Chiese di nuovo. Ma ancora nessuno gli rispose. Poco male, pensò: ho un castello tutto per me. 

Riuscì a entrare dal portone senza difficoltà, perché di nuovo la porta era aperta. Che strano, pensò grattandosi il mento: perché avevano lasciato tutto lì dentro senza neppure chiudere a chiave? La stanza del trono era lunga almeno come un campo, alta più di una quercia, tutta in pietra, con enormi stendardi consumati e lerci che scendevano giù dalle pareti. Daniel osservò i due troni rivestiti di bellissimo velluto, un tempo era rosso, constatò. A terra c’era un tappeto lungo tutta la sala e ai due lati di esso alcuni candelabri alti almeno quanto lui. A Daniel sarebbe sempre piaciuto sedersi su un trono, quindi con il suo sacchettino pieno di frutta secca si avviò verso la sedia regale ridacchiando e battendo le mani.

Si fermò un istante prima di prendere posto e gonfiò il petto con aria solenne. “Re Daniel è arrivato!” 

Una volta seduto, finse di ascoltare sognante gli applausi di tutto il suo popolo, che lo amava. Sua madre gli diceva sempre che era una persona buona e che era facile volergli bene.

Rimase lì a sognare conversazioni di ogni tipo con i suoi consiglieri, pensò che i cuochi gli avrebbero cucinato dello stufato di carote, che era il suo preferito, e magari anche del pane fresco.

Dopo un po’, Daniel decise che era ora di alzarsi e procedette verso il grande tavolo dietro i due troni. Si sedette e iniziò a mangiare la sua frutta secca. Per romperla utilizzò uno strano oggetto grosso e pesante di forma sferica che stava su un piedistallo di fianco al tavolo. Continuò a mangiare fino a quando non fu sazio, solo che nel rompere le ultime nocciole la sfera si ruppe in mille pezzi, rilasciando una strana polverina viola. 

Daniel tossì e schioccò le dita. “Proprio con l’ultima nocciola, che sfortuna!" 

Si alzò e si diresse verso le stanze reali. Lì c’erano i letti ancora belli fatti, solo che erano un po’ sporchi, pensò mentre si grattava la pancia. Sua madre gli diceva sempre che non sarebbe stato qualche germe a ucciderlo, quindi il ragazzo alzò la coperta e controllò che sotto non ci fossero ragni, quelli non gli piacevano molto e in effetti era pieno di ragnatele, osservò.

Sbatté qualche volta il cuscino per togliere la polvere e si mise a letto. Si addormentò subito.


Il mattino dopo si risvegliò fresco e riposato, intorno a lui non c’era più la stanza abbandonata nella quale si era addormentato, ma una camera regale verniciata di fresco, con mobili nuovi e lenzuola linde. Si grattò la fronte: era sicuro di non aver preso sonno in quella stanza e lui non era un sonnambulo, sua madre gli diceva sempre che di notte lui non muoveva un muscolo, al punto che sembrava quasi morto.


Sentì delle voci e pensò che era ora che arrivasse qualcuno, così si diresse al piano inferiore, dove trovò almeno una trentina di persone che si zittirono appena lui varcò la soglia. 


“Eccolo, ecco l’eroe!”

Daniel era un po’ preoccupato, si indicò con il dito per capire se era proprio di lui che stavano parlando. “Io sono Daniel.” Riferì. 

Un uomo elegante con dei baffetti corti e un aspetto trafelato gli corse incontro: “Hai spezzato la maledizione, hai rotto la sfera! Come posso ringraziarti?”

Il ragazzo non sapeva cosa dire. Fu portato in festa per tutto il castello e a lui e al suo cavallo furono offerti oro e ricchezze, lui in cambio lasciò le sue stoffe e il nome del suo villaggio. Lo invitarono a tornare, dicendogli che gli sarebbero stati per sempre grati. 


Così Daniel tornò a casa con il titolo di cavaliere dato dal re in persona, più ricco di quanto avrebbe sperato. Sua madre forse non immaginava che proprio lui sarebbe stato chiamato eroe da qualcuno. Era fiero di se stesso. 



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Originale Capitolo 2

Partecipa al COWT 14

Prompt: bad ending

 

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.

Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.


Il viaggio verso l'Isola di Hermann - capitolo 2 Originale


Il mare era calmo, il relitto ondeggiava leggero seguendo la corrente.

Lucilla si svegliò di colpo. Era ancora notte. Era probabile che avesse dormito poco più di un’ora, forse solo alcuni minuti. Aveva passato tutta la giornata sotto il calore del sole, senza cibo né qualcosa da bere e la voglia di rifocillarsi con l’acqua del mare aperto aveva continuato a tentarla per tutto il tempo. Nonostante l’estate non fosse ancora arrivata, aveva sofferto il caldo sotto i raggi del sole. Le aveva scottato la pelle, l’aveva fatta sudare. Per cercare di risolvere il problema la donna aveva messo in acqua i suoi stracci e si era coperta, ma il sale sulla pelle arrossata bruciava persino di più.

Continuò a osservare intorno a lei in cerca di un qualunque segnale di presenza umana. Non ve n’era traccia. Nessuna isola all’orizzonte, nessuna nave. Resistette fino alla sera passando di frequente dal sonno alla veglia.


Preferì la notte al giorno. Si sentiva ancora più sola, ma nel buio stava riuscendo a riposare un po’ di più, le si erano anche schiariti i pensieri. 

Le sue speranze erano delicate come un bicchiere di cristallo sull’orlo di un precipizio, ma Lucilla pensava che la sua sopravvivenza al naufragio fosse un segno del destino. Perché il fato avrebbe dovuto salvarla da morte certa per lasciarla lì in mezzo al mare. Non aveva senso.


Quando sorse il sole, seppe che non avrebbe superato la giornata. Tentò di alzarsi per guardare meglio all’orizzonte, ma barcollò e cadde sulle tavole della sua scialuppa di fortuna. Doveva bere, la gola le ardeva e le sue labbra erano secche e rotte dal calore, dal sale e dalla disidratazione. Solo un po’ di acqua, un bicchiere, un sorso. Ormai era un pensiero continuo che non era più in grado di scacciare. Era quasi ironico morire di sete in mezzo a tutta quell’acqua. Si trascinò fino al bordo del suo relitto lasciò che una mano toccasse il mare. Con tutta la sua forza si spinse ancora più vicina al bordo della zattera e lasciò che la sua mano galleggiasse. Passò qualche minuto ad ascoltare il rumore del mare intorno a lei, a guardare la sua mano scavare nella superficie cristallina del mare e tornare fuori senza fatica. Bevve un sorso, uno solo non le avrebbe fatto male.


Si addormentò numerose volte nel corso della giornata. Fu svegliata dal suono di una tromba. Si alzò di scatto e salutò la nave, rinvigorita dalla certezza che l’avrebbero salvata. Un giovane marinaio vestito di bianco scese lungo una scala di corda con una borraccia e la invitò a bere, poi la legò a una corda, che l’equipaggio issò a bordo in pochi minuti. Le diedero cibo e acqua in abbondanza e la accompagnarono in una cabina, nella quale dopo giorni poté dormire un sonno lungo e riposante. Era stata a pochi passi dalla morte, ma aveva ragione: il destino non l’aveva abbandonata.


Il relitto apparve sulla sponda a est dell’Isola di Hermann solo quattro giorni dopo il naufragio della Dama Enrica. Sull’ammasso di assi che un tempo erano state parte della nave giaceva una ragazza che fu in seguito riconosciuta come la contessina Lucilla De Cornieri. Fu trovata dal giardiniere della residenza estiva della famiglia, che subito avvisò la famiglia. La giovane aveva in volto un’espressione serena. Probabilmente se n’era andata nel sonno.


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Fandom: Originale
Prompt: l'eco senza volto
Partecipa al COWT 14

L'eco, Lana e la grotta profonda


La grotta era profonda come il mare e buia come la notte.

Una miniera scavata nell’antichità dentro la montagna, un labirinto di cunicoli stretti e profondi.

Lana era entrata per sfuggire ai soldati che l’avevano rapita dopo avere saccheggiato il suo villaggio, ma iniziava a pensare che forse il suo destino non sarebbe stato migliore ora che era imprigionata lì sotto, incapace di trovare una via di fuga. 

L’avevano seguita, era arrivata a sentire il loro fiato sul collo mentre correva nella foresta, i piedi leggeri nonostante fosse stata legata per ore prima della fuga. 

Alzati in piedi e corri, è la tua unica speranza. 

Una voce dentro di lei le aveva ordinato di scattare lontano e lei l’aveva ascoltata, poi la stessa voce le aveva detto di girare verso il bosco. Chiunque l’avesse osservata saltare le radici degli alberi e correre sicura nella foresta fitta avrebbe giurato che lei conoscesse bene il bosco, invece era la prima volta che lo percorreva. Arrivata di fronte alla grotta aveva esitato, ripensando alle leggende sugli spiriti che abitavano i luoghi sperduti sotterranei, ma le voci alle sue spalle l’avevano convinta a continuare a correre. Non pensare, entra nella grotta: è l’unica via di uscita.

Così aveva varcato la soglia e aveva corso fino a quando non era rimasta senza fiato. Solo allora si era resa conto di non sapere dove fosse.

Quanti bivi aveva preso? Quanti cunicoli aveva attraversato? Non lo ricordava, non ne aveva idea.

Sospirò e sentì un’eco, un rumore provenire da poco lontano. Si nascose chiedendosi cosa fosse in agguato nell’oscurità. Non vedeva quasi niente, ma a pensarci anche la flebile luce che le permetteva di vedere attorno a lei così in profondità non era normale. Che fosse finita nella caverna di un essere magico? Si chiese.

Al pensiero di ciò che avrebbero potuto farle i soldati, pensò che non sarebbe stato poi male essere mangiata da un ragno gigante, da un orso o da un goblin. Avrebbe di certo sofferto meno che tra le mani di quegli uomini.

Rimase in silenzio, le orecchie tese in ascolto, ma non udì altri rumori. Forse era stata lei stessa a causare l’eco. Si chiese se attendere ancora, ma presto sarebbe stata notte e lei non aveva cibo né acqua non sarebbe sopravvissuta a lungo nelle profondità oscure della terra.

Si rialzò e iniziò a camminare in silenzio. I suoi piedi scalzi non facevano molto rumore, ma, abituati com’erano alle scarpe,  erano sanguinanti e dolenti dopo la lunga corsa tra gli ostacoli della natura.

Si fermò: non aveva senso muoversi alla cieca, rischiava di andare sempre più a fondo nella grotta., quindi si chiese quale fosse il modo più efficiente per muoversi verso l’uscita della grotta. Utilizzò il suo naso per trovare traccia degli odori del bosco, i suoi occhi, per osservare raggi di luce nella quasi totale oscurità della grotta e il tatto per scovare qualche segnale scavato in giro. Non sapeva cosa fare.

“Ora la voce mi farebbe comodo.” Osservò, ma non c’era alcun suono a guidarla.

La luce pareva permeare dalle rocce intorno a lei, era la stessa in ogni direzione guardasse, al punto che Lana si immaginò di essere morta e che quello fosse il suo viaggio nella ricerca del luogo in cui avrebbe riposato per l’eternità.

Ripensò a lungo ai suoi passi e infine decise di procedere verso la salita. Nulla lungo il suo cammino le era familiare. 

Si lasciò guidare dall’istinto, cercando di ricordare le strane rocce che incontrava e le caratteristiche delle diramazioni e delle grotte.

Ora sei vicina. Continua.

Di nuovo l’eco. Lo sentiva vicino. Non era certa di potersi fidare di quella voce, ma che scelta aveva? La seguì.

Di qua, Lana.

Sentirsi chiamare per nome la fece rabbrividire.

Non avere paura, mi prenderò cura di te.

Le ultime parole suonarono come una minaccia, ma non aveva scelta.

Scese lungo una ramificazione stretta e tortuosa, riusciva a vedere il riverbero di una luce, creato dai cristalli sul soffitto della grotta: uno spettacolo che non avrebbe mai potuto immaginare e che per un istante le permise di dimenticare la fatica, il sonno, la sete e la fame che provava. Più si avvicinava e più sentiva il cuore batterle con forza nel petto. Paura e speranza erano unite in lei, mescolate in un vortice. 


La luce verso la quale si stava dirigendo non era simile a quella del sole: era bianca e fredda, pareva artificiale. Il cunicolo si allargò in una stanza larga e alta, cosparsa di cristalli bianchi. Al centro c’era un grande tavolo con una caraffa colma d’acqua, un bicchiere e un piatto coperto.

Benvenuta, Lana.

Di spalle, dall’altro lato della stanza, c’era una sagoma femminile coperta da un mantello scuro e ampio, con un cappuccio sulla testa. La ragazza era quasi certa che non fosse umana. “Grazie per avermi guidata.”

Bevi, mangia. Devi riprendere le forze.

La voce non proveniva dalla figura, era un'eco che rimbombava per la stanza, senza fonte visibile.

Lana tremava di terrore. Si sedette e prese la caraffa cercando di non versare l’acqua sul tavolo. Riempì il bicchiere e ne bevve il contenuto, sentendosi subito meglio.

Temevi che volessi avvelenarti? Se desiderassi la tua morte ti avrei lasciata vagare per i cunicoli, proprio come stanno facendo i soldati che ti hanno catturata. Loro sentono ciò che voglio e stanno percorrendo vicoli ciechi. Lo faranno fino all’ultimo respiro.

Mangia, non fare complimenti.

Lana prese il piatto e tolse il coperchio: conteneva frutta fresca. La ragazza sentì lacrime di sollievo scorrerle lungo le guance mentre addentava la pesca matura, ringraziando l’eco per la sua benevolenza.

Svuotò il piatto lasciando solo i noccioli. “Ti ringrazio.”

La figura, fino a quel momento immobile, iniziò a camminare lungo la parete della grotta, sempre dandole le spalle. Se tu potessi esprimere un desiderio, quale sarebbe?

Lana sospirò. In quel momento desiderava solamente uscire. Una parte di lei bramava la vendetta, ma a quella stava già lavorando l’eco. “Non… non ho un desiderio.”

Certo che ce l’hai. La figura era ormai vicina.

Non devi dirmelo. Fai spazio nei tuoi pensieri, rilassati. Quando mi volterò, guardami e io saprò cosa donarti.

Lana respirava affannosamente. La donna a pochi metri da lei sembrava attendere il momento giusto.

Ti darò il tempo che ti serve per liberare la mente.

Chiuse gli occhi, cercò di regolare il suo respiro e di pensare alla sua vita, da sempre segnata dalla cattiva sorte. 

Un desiderio: avrebbe voluto ricominciare daccapo, da quando era una bambina innocente.

Se solo sua sorella fosse stata con lei, se sua madre fosse vissuta. Avrebbe tanto desiderato aiutare persone innocenti a non soffrire. 

Aprì gli occhi. Di fronte a lei c’era la figura, una sciarpa a coprirle il volto. Con la mano, la donna iniziò a svolgerla. Sotto non un viso, ma il vuoto: niente occhi, né bocca, né guance o fronte. Solo una luce scura, dolorosa, sempre più forte e diretta verso di lei. Lana non riusciva a smettere di guardarla. 

Si sentì leggera come aria, volò lontano da lì in un soffio dolce.

Nel suo viaggio incorporeo vide una donna e la sua sofferenza. Conobbe la sua storia. Sentì il potere del suo desiderio di vendetta, la forza della risoluzione nella sua mente: avrebbe passato il resto della sua esistenza difendendo gli innocenti; avrebbe sterminato gli assassini e i malviventi che le sarebbero capitati a tiro. Sarebbe rimasta nella grotta, usando il suo potere dare una possibilità agli innocenti, costringendo i colpevoli a pagare il prezzo per i desideri che avrebbbero espresso al suo cospetto. Teri la reietta avrebbe sacrificato la propria umanità per cambiare i destini tristi dei meritevoli in nome della sua vendetta eterna.


Lana era nel suo letto, solo una bambina. Al suo fianco dormiva la sua sorella minore e in cucina si poteva sentire la madre che finiva di sistemare le pentole cercando di fare meno rumore possibile.

Le sue memorie erano intatte: Lana sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco ed era pronta a fare in modo che loro non le trovassero. Sarebbero scappate subito e avrebbero raggiunto il Tempio, lì era certa che le avrebbero aiutate, perché la prima volta avevano dato asilo a lei senza fare domande.

Si alzò di scatto, conscia che quella era la notte in cui avrebbe cambiato il suo destino e quello della sua famiglia.

Ringraziò nel suo cuore la valorosa Teri, ora conosciuta come l’eco senza volto, per la seconda opportunità che le aveva offerto. Non l’avrebbe sprecata.


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Fandom: Murder, she wrote - La signora in giallo
Partecipa al COWT 14,
prompt: racconto in prima persona, chiaroveggente.
Destino segnato

Quando la fiera arrivò in città, mi sentii subito felice. Avevo sempre amato le ruote panoramiche dalle quali vedere dall’alto l’Oceano a Cabot Cove e per la prima volta contavo di andarci con un ragazzo.

Io: Jessica Fletcher, il topo da biblioteca, avevo un appuntamento.

Mi ero vestita in modo sobrio, ma elegante. Mia madre mi aveva costretta a comprare un abito a fiori che consideravo un po’ troppo appariscente, ma quando l’avevo indossato al negozio avevo da subito dovuto darle ragione: mi stava bene e mi piaceva, così come il cappello abbinato che avevo dovuto indossare nonostante le mie rimostranze, dal momento che sarei andata alla fiera nel corso della sera: che senso aveva il cappello la sera d’estate? Preferivo sentire il vento tra i capelli, che la costrizione di un cappello.

Avevo comunque approfittato della gioia di mia madre per la mia uscita serale. Will era passato a prendermi e insieme avevamo raggiunto il luogo della fiera. La musica mi aveva messa subito di buon umore. C’erano bancarelle che vendevano cibo e oggettistica di ogni tipo, c’erano lampade elettriche coperte di conchiglie e ogni genere di attrazione per chi voleva passare una serata allegra.


Ero subito stata attratta da un tendone rotondo dai drappeggi viola e rossi, sull’insegna all’ingresso era scritto “La divina Marina: scopri il tuo futuro.”

Mi ero avvicinata per osservare meglio la palla di cristallo che era stampata sul cartellone: “Che assurdità!” Avevo detto con convinzione a Will, ricominciando a camminare verso i banchi seguenti.

“Ma come, non vuoi farti predire il futuro? Può essere divertente, non credi?”

Non avevo mai considerato quel ragazzo una cima, ma non pensavo fosse tanto sciocco da credere a tali sciocchezze. “La divinazione non esiste, non c’è nessuno che può prevedere il futuro.” Avevo risposto, sperando che il mio discorso lo convincesse.

“Non è vero, Dio prevede il futuro.”

Di fronte a un’affermazione del genere annuii. Non valeva la pena tentare di rispondere. Tanto valeva entrare, avevo pensato, poteva essere divertente.

“Vuoi provare?” Gli avevo chiesto.

Lui aveva battuto le mani e si era avviato saltellando verso la tenda. Un ragazzo immaturo, un credulone, così l’avevo definito. “E sia, va bene.” La serata sarebbe stata lunga, tanto valeva provare a passare il tempo in modo creativo.


Una volta nella tenda, ci accolse un profumo di incenso e di qualcos’altro che non identificai, forse un particolare legno profumato come il sandalo. 

Una donna con un copricapo velato e ricco di gemme ci fece strada verso il banchetto coperto da una tovaglia di organza blu. Il viso rugoso e i capelli argentati dimostravano la sua età matura, ma gli occhi apparivano ricchi di vitalità.

La mistica chiuse la tenda con uno scatto, lasciandoci alla luce flebile delle candele accese tutto intorno.

“Benvenuti dalla divina Marina. Chi desidera conoscere il proprio futuro?”

Will alzò subito la mano, felice come un bambino. Si sedette su uno dei due scomodi sgabelli di legno e mi fece cenno di fare lo stesso.

Sospirando, accettai il suo invito. “Eh, va bene.” Intorno a noi la stanza era scura e i lumi traballanti formavano ombre sinistre, sembrava tutto estremamente polveroso. La mancanza di luce forse avrebbe dovuto simulare qualcosa di mistico e ignoto, in realtà il risultato dava un senso di mal tenuto e polveroso.

La donna si sedette di fronte a noi. “Tarocchi o sfera di cristallo?”

“Quale è più affidabile? Chiese Will, con tono allegro.

“L’affidabilità dipende da chi li legge. Sono strumenti diversi: la sfera può dare informazioni precise, ma sceglie lei cosa dire, ai tarocchi possiamo fare una domanda, invece.” La donna aveva un’aria misteriosa, probabilmente parte del personaggio. Mentre parlava, faceva ondeggiare lentamente le mani come a volerci ipnotizzare. Mi schiarii la voce, sperando che Will si sbrigasse a decidere e ci permettesse di abbandonare questo circo in miniatura.

“Hai un’idea, Jessica?”

Io alzi le spalle. “Sfera?” Proposi, immaginando che fosse la scelta più veloce.

“Sfera, allora!” Esclamò quindi il mio accompagnatore battendo di nuovo le mani.

La donna prese la sfera e la spostò al centro del tavolo. Iniziò poi a mugugnare e a fare strani versi. “Spirito che tutto conosce, dammi un segno che mi ascolti.”

Le sue mani ondeggiavano insieme alle braccia e al suo intero corpo in una sorta di danza ritmica priva di musica. “Oh, spirito, raccontami il futuro di questa coppia di giovani.” Continuando a ondeggiare, la donna alzò lo sguardo su di noi. “Avete una domanda, potrebbe rispondere.”

Incantata, continuavo a osservare la sfera, avrei potuto giurare di aver visto una luce brillare al suo interno, ma era sciocco. “Cosa mi riserva il futuro?” Chiesi, incerta.

“Morte.” Una sola parola. La donna si fermò per un istante, gli occhi sconvolti, la danza meno naturale. Un brivido mi percorse la schiena. Mi voltai d’istinto, poi mi soffermai su Will, che osservava la sfera a bocca aperta, l’espressione a metà tra la paura e la sorpresa.

“La sfera mi dice che sarai sempre seguita dalla morte.” Continuò la Divina Marina con una voce priva di teatralità. “Mi dispiace… Non mi aspettavo una previsione del genere.”

Io tentai di ridere, ma non mi sentivo tranquilla. “Si vede che la sfera sa che vorrei lavorare in polizia.” Dissi, cercando di sdrammatizzare.

La mistica sospirò. “Presto avrai il primo incontro con la morte, ma non ti devi spaventare. Non credo che sarai tu a morire. Ti capiterà spesso, però… di continuo. La vedo ovunque…”

Mi alzai dalla sedia. “Per me è sufficiente.” Dissi, tirando fuori dalla borsa due dollari. “La ringrazio, divina. Non si preoccupi, me ne farò una ragione.” Presi Will per il braccio e lo trascinai fuori. Era difficile ammettere con me stessa che quei discorsi insensati mi avevano turbata. Il mio accompagnatore appariva ancora più preoccupato. 

“Potrei essere io, sappiamo di certo che non sei tu.” Disse in cima alla ruota panoramica. Io sospirai, pensando che il tramonto sul mare fosse quanto di più romantico era possibile, il fatto che lui non avesse provato neppure a tenermi la mano significava che l’appuntamento stava andando davvero male.

Pazienza, mi dissi, fosse morto la serata almeno si sarebbe un po’ ravvivata.

Scendemmo dalla ruota panoramica e mi chiesi se non fosse il caso di chiudere la serata. “Dove andiamo ora?” Domandò. “Scusa se sono stato un po’ nervoso, i discorsi della Divina Marina mi hanno un po’ turbato. Ora mi sento uno sciocco.” Confessò.

Io tirai un sospiro di sollievo, meno male che aveva ricominciato a ragionare.

“Allora continuiamo il giro, abbiamo altro da vedere,” gli presi il gomito cercando un contatto. Era l’ultima possibilità.


Mi vinse un piccolo peluche dimostrando di non avere una gran mira con la pistola. “Però, hai visto, non ho ucciso nessuno,” rise. L’atmosfera era rilassata, finalmente. Di buon umore, ci recammo insieme verso il parcheggio per andare a recuperare l’auto, con la promessa che l’indomani ci saremmo rivisti, senza previsioni del futuro questa volta.

Fu allora che vedemmo il fumo: corremmo in direzione della zona da cui proveniva, sussultai quando vidi la tenda rotonda della Divina Marina avvolta dalle fiamme. In molti la circondavano, i pompieri presto furono lì per spegnere il fuoco.

“Purtroppo la Divina non ce l’ha fatta.” Sentii dire a un uomo dall’aria affranta. 

Mi sentivo distrutta. Era forse colpa mia? Era questo il mio destino?

“Quindi ha letto il suo stesso futuro…” Osservò Will, stringendomi con dolcezza. “Hai visto? Non era di te che parlava.” Pensai a tutte quelle candele accese senza alcuna protezione e mi chiesi se il suo non fosse stato un atto deliberato, oppure un dispetto da parte della morte, chiamata in causa dalla donna.

Io e Will Tornammo a casa in silenzio. 


Da quel giorno pensai spesso alla Divina Marina e alla sua previsione. Io e Will non uscimmo più insieme, ma lui si sposò pochi anni dopo con una donna molto più adatta di me a una vita fatta di casa e figli.

Io viaggiai e diventai una scrittrice.

In seguito capii che era rivolta proprio a me. Ebbi a che fare con la morte molto più spesso rispetto a una persona comune, ma fui in grado di sfruttare la mia maledizione per scrivere, per raccontare la morte e renderla meno terrificante. 

Mi segue ancora e io la scrivo.


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Fandom: originale
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Prompt: The Islander - Nightwish

L'isola della Tempesta


An old man by a sea shore at the end of day

gazes the horizon with sea winds in his face

Tempest-tossed island, seasons all the same

anchorage unpainted and a ship without a name




Era ormai l’imbrunire. Il vecchio stregone Genfir osservava il mare che solo pochi minuti prima appariva calmo, iniziava ormai a vedersi la tempesta, ancora lontana. L’aveva sentita arrivare ore prima nell’odore del vento, anche se per lui non era una sorpresa poiché l’aveva predetta pochi giorni prima. Mettetevi al sicuro, ormeggiate le barche e raccogliete quanto maturo, ci aspettano giorni difficili.

Nessuno gli aveva creduto, a quel tempo. “Non è stagione per la tempesta, vattene a casa a riposare, vecchio!”

Era vero, le tempeste erano rare in quel periodo dell’anno, ma non era sempre stato così. Anni e anni prima, quando lui e il suo equipaggio erano arrivati all’isola all’epoca disabitata, le stagioni erano tutte uguali, tutte avvolgevano l’isola in tempeste violente e invalicabili. Del resto lui era vivo da quasi duecento anni e aveva visto cose che loro non erano neppure in grado di immaginare, loro erano solo umani, semplici e comuni umani. Era certo che la maggior parte di essi fosse stata sulla terraferma solo per andare ad acquistare prodotti a Markensfeld, dove attraccavano le imbarcazioni che navigavano tra il la terraferma e l’isola.

Era probabile che nessuno di loro avesse davvero viaggiato nel continente o sulle coste fuori dall'isola, al contrario di lui che da giovane aveva conosciuto e visto tutto il mondo.

Sì, le stagioni erano tutte uguali lì. Le tempeste potevano arrivare quando lo desideravano.


Il vento sui capelli lunghi di Genfir era ancora piacevole. Sapeva di sale, di pioggia e di sabbia. Il vecchio si chiese quanto tempo avrebbe avuto a disposizione per ammirare le nubi lontane e il cielo che si colorava di nero prima di dover tornare all’interno della sua abitazione. Tra le mura non si sarebbe potuto dire al sicuro, ma di certo sarebbe stato più protetto che all’esterno. 

Lo stregone sapeva che le origini del villaggio erano state dimenticate alla morte della prima generazione di abitanti, così come le sue origini. La magia era diventata qualcosa di remoto, confinato alle regioni ricche del sud e alla città di Magana dove quasi tutti gli stregoni e le streghe vivevano. Al di fuori restavano solo pochi sciamani o guaritori erranti, ancora fedeli ai principi che un tempo avevano governato il loro popolo. Lui era rimasto al villaggio, celato al ricordo del mondo dalla sua apparenza di vecchio. Dimenticato dai suoi simili e da chi abitava l’isola.

All’orizzonte vide delle vele, ma non riconobbe la nave. 

“Stiamo aspettando dei carichi?” Chiese Lania, la governatrice del villaggio, arrivata alle sue spalle.

“No, ma potrebbe essere qualche commerciante.” Il vecchio si alzò e si voltò verso la donna, sembrava preoccupata, conscia di ciò che stava per accadere.

“Non ha scelto un buon momento, la tempesta sembra essere forte, speriamo che la nave riesca ad arrivare illesa.”

Genfir le andò di fronte. “Questo è l’inizio, lo sai, vero?”

Lania scosse la testa. “Sono leggende, non credi?”

Lei non sapeva la verità, che la leggenda dell’isola della tempesta si riferiva proprio alla loro casa: un luogo impossibile da lasciare o da raggiungere, costantemente tenuto in scacco dalle correnti circolari che non permettono alle navi di attraccare. Un luogo protetto e isolato da una maledizione.

“Voi siete ancora giovani. Lania, pensi che io sia un anziano consigliere, ma da quanto tempo mi conosci?”

La donna aggrottò la fronte. “Da sempre. Cosa vuoi dire?”

Genfir rise. “E da sempre ti appaio come un vecchio, vero? Perché sono qui dal giorno in cui il villaggio fu fondato. È incredibile come sia facile dimenticare chi si ha di fronte, quando si ha una vita davanti e molte responsabilità. Sono sempre stato un vecchio. Lo sono da almeno un centinaio di anni.”

“Sei davvero uno stregone?” Chiese, un sorriso abbozzato, quasi a deriderlo.

“Arrivai qui centoquarantasei anni fa.” Ammise. “All’epoca l’isola era deserta, ma quando la esplorai fu chiaro che qualcuno prima di me l’avesse visitata, ma anche abitata. C’erano vecchie abitazioni semidistrutte, strutture che in tempi più antichi di me funsero da porto, da mercato. La banchina era grezza, sembrava essere stata costruita in fretta. Non era dipinta. Fu in una sera come questa che arrivammo su una nave senza nome per cercare il tesoro dell’Isola della Tempesta. Giurammo tutti di proteggere questo luogo, senza sradicare inutilmente gli alberi o rovinarne le sinuose coste, senza avvelenare il fiume o varcare le soglie della grotta proibita.  Il mare ci lasciò arrivare e ci permise di restare. Protessi la nave con la magia, usando formule e cospargendo materiali incantati che avevo raccolto e conosciuto nel corso dei miei viaggi. Si dice che viaggiare su una nave senza nome porti sfortuna, io e i miei quattro accompagnatori scegliemmo di scommettere il contrario, dal momento che nessuna imbarcazione era attraccata sull’isola in decenni.  Pensai che il nome della nave potesse essere visto dal vento e dal mare come una dichiarazione, una prevaricazione sul luogo sacro in cui viviamo.

Sembrò che il nostro arrivo avesse mitigato i forti venti e le correnti. Restammo sull’isola, iniziammo a cercare il tesoro, ma col tempo fummo catturati dalla bellezza del paesaggio, dalla ricchezza della natura e dai frutti della terra.

Il clima sembrava essersi mitigato, quindi fondammo il villaggio.”

Lania si sedette di fianco a Genfir. “Ricordo che raccontavi ai bambini del villaggio queste leggende. Forse sei solo un cantastorie.” Si voltò a guardarlo. “In molti ti considerano strano, ma mio padre, e mio nonno prima di lui, mi avevano avvisata: se tu mai avessi dato consigli, io avrei dovuto ascoltarti. Parlavano di te come un vecchio amico.”

“Lo era. Tuo nonno era con me quando fondammo il villaggio. Tuo nonno era un giovane marinaio con il desiderio di trovare una casa, io all’epoca ero già maturo. Sono passati almeno un centinaio di anni da allora. Decidemmo di tenere la nave senza nome attraccata tra le insenature, nelle profondità del fiume per proteggerci. Il villaggio è ancora giovane, la terza generazione ha iniziato ad abitare le sue rive e il rispetto per l’isola si sta dimenticando. È compito tuo rafforzare la memoria della storia. Solo così le tempeste si placheranno.”

Lania annuì. “Cosa pensi che accadrà ora? Credi che torneremo a essere isolati?”

“Nessuno può dirlo. Io posso solo darti consigli e cercare di proteggere l’isola coi miei incantesimi. Ho giurato che nel momento in cui gli uomini avessero iniziato a non mantenere la promessa fatta il giorno della fondazione me ne sarei andato. Forse le cose hanno già iniziato a cambiare, ma possiamo ancora recuperare.”

“Non sarà facile…”

“Con lo sviluppo della tecnologia in molti cominciano a dimenticare il rapporto che in passato gli uomini avevano con la natura. Qualche giovane imprudente si può essere introdotto nella grotta, se così fosse è necessario che io rimetta i sigilli al loro posto.”

“In molti pensano che queste siano leggende, la curiosità è umana e giovane come i ragazzi che non credono nelle mistiche divinità della natura.” Li difese la donna.

“Mi piace pensare che ci sia ancora qualcosa da fare per dimostrare che qui gli uomini siano diversi. Ti aiuterò.”

Genfir e Lania si diressero insieme verso la piazza cittadina e suonarono la campana per radunare gli abitanti. Avevano un allarme da dare e un’importante storia da raccontare.


Il villaggio sull’Isola della Tempesta prosperò finché lo stregone Genfir percorse le sue strade, indolcendo la natura e piegando il volere degli uomini che la abitavano. 

Alla sua morte la nave senza nome fu abbattuta, la grotta fu saccheggiata e delle case del villaggio non rimasero che rovine. La banchina che un tempo era grezza, ora dipinta con vernice bianca fu lasciata a scrostarsi e a distruggersi in balia del vento e delle onde del mare in tempesta, che non permisero più a umani ingrati di vivere nella casa degli dei. 

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Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Heismay Noctule
Prompt: il guerriero errante 
Partecipa al COWT 14

Un destino di solitudine

 









Era chiaro a tutti che Heismay fosse entrato nella Guardia Reale grazie alle sue capacità in combattimento: era un guerriero agile, in grado di muoversi silenziosamente e con velocità. Inoltre le caratteristiche proprie della razza degli Eugief facevano comodo in battaglia: l’udito fine, la leggerezza del passo, la stazza minuta e all’apparenza innocua gli permettevano di agire senza quasi essere notato. Nonostante chi lo conoscesse di persona lo ammirasse, però, si trovava continuamente a essere osservato con sospetto dalla gente comune, che bisbigliava attorno a lui parole che gli causavano grande dolore.

Pipistrello, animale, bestia. Molto spesso si era trovato a pensare con sollievo alla sua famiglia, che se ne stava al sicuro nel piccolo villaggio abitato quasi solo dagli Eugief, dove potevano vivere in tranquillità. Sognava un futuro migliore per suo figlio, per questo continuava a combattere per mantenere il suo posto nell’onorevole Guardia Reale.

Nell’ultimo periodo però aveva iniziato a rispondere a tono ai commenti di alcuni sciocchi che commentavano la sua stazza o le sue origini quando lo vedevano in mezzo agli altri soldati. Per gli Eugief niente era semplice e in quanto tale si era dovuto guadagnare la sua posizione con il duro lavoro e l’impegno costante. Chi la pensava diversamente apparteneva a razze che non potevano capire la discriminazione.

Heismay si era isolato, passava le serate libere bevendo e pensando a quanto fosse stanco di essere continuamente messo in discussione. Si aspettava che prima o poi sarebbe stato invitato a entrare nella Shadowguard e ne fu lieto perché per lui stare lontano dal centro dell’attenzione e agire nascosto nell’ombra era un’opportunità, era nato per questo.


Il giorno in cui suo figlio morì, Heismay era in missione. Aveva in programma di tornare a casa entro pochi giorni e di passare un po’ di tempo in famiglia, non fece in tempo.

La notizia lo raggiunse durante la cena in taverna, proprio mentre festeggiava con il gruppo l’imminente ritorno a casa dopo il successo appena ottenuto.

Anche dopo anni lo considerava il giorno peggiore della sua vita.

Nonostante tutto quello che aveva fatto nell’esercito e nella Guardia Reale, non gli avevano neppure mandato un messaggero ufficiale. Una semplice pergamena inviata dalla Chiesa Santista. Un biglietto indirizzato a lui, scritto in fretta, senza sigilli ufficiali.


Sir H. Noctule

Siamo dolenti di informarla che suo figlio è in condizioni critiche dopo una rissa. 


Neppure una firma, solo poche parole. Heismay pensò subito che si trattasse di un malinteso: suo figlio era un pacifista nato: troppo tranquillo, troppo giovane. Non aveva mai neppure giocato a combattere con lui.

Più volte padre e figlio avevano parlato del senso del combattimento, del ruolo della Guardia e del ricorso alla violenza da parte della società, che per suo figlio non poteva mai essere accettabile.


Heismay si era precipitato al villaggio con un cavallo preso in prestito dal Santista, che si era premurato di farsi ringraziare per la gentile concessione.

Nella stanza della clinica c’era odore di disinfettante. La dottoressa aveva accolto l’Eugief con aria molto triste. “Non ci sono speranze, purtroppo. Ha una grande forza di volontà e sta provando a resistere, ma il suo giovane corpo è in condizioni disperate.”

Gli si era avvicinato trattenendo le lacrime e si era seduto al suo fianco. Il ragazzo era disteso, coperto di steccature, fasce, ematomi e disinfettante. Sembrava addormentato, ma si poteva notare la tensione del dolore nei suoi lineamenti. Heismay pensò che avrebbe desiderato prendere tutto il suo dolore e portarlo via, sostenerlo lui al suo posto oppure darlo ai suoi aggressori.

Gli posò una mano sul braccio con delicatezza, sperando che nel sonno clinico percepisse la sua presenza.. “Sono orgoglioso di te, non ti lascerò mai.” Gli disse. Il figlio rispose stringendo la sua mano, incapace di parlare. 

Heismay rimase fermo ad attendere, a pregare in un miracolo. 

Non ce ne fu alcuno. Ci vollero ore perché lui cedesse alla morte.


Dopo la madre, anche il figlio.

Era troppo. Intorno a sé non vedeva che odio. Lo sentiva, lo vedeva e lo annusava intorno a lui. Non ne poteva più.

Al diavolo tutto, pensò. Aveva passato anni della sua vita lontano dal villaggio, dal figlio che adorava e prima ancora dalla moglie che amava con tutto se stesso. Per cosa? Per difendere un popolo che disprezzava lui e tutti gli Eugief? Per causare ulteriore dolore in nome della pace?

Aveva sempre vissuto da ultimo, con la convinzione morale che tutti fossero uguali, ma faticava a pensare ai Parypus come suoi pari ora che a causa loro aveva perso l’unica persona che considerava importante.

Rimase al villaggio giusto il tempo per organizzare la cremazione. 


Non tornò alla Shadowguard.

Iniziò il suo esilio volontario. Heismay vagava per i boschi, per i villaggi. Si era dato lo scopo di difendere i deboli, di eliminare le ingiustizie e di vendicare, un giorno, la morte del suo unico figlio. 


Da solo, senza radici, senza qualcosa per cui vivere. Non gli importava del proprio futuro, desiderava solamente che nessun altro subisse il suo stesso destino.


Un guerriero errante a caccia di avventure, non con l’obiettivo di ottenere fama e gloria, ma con il desiderio di espiare la sua colpa, di fare in modo che anche se era stato assente con suo figlio, non lo sarebbe stato con altri figli sofferenti, impedendo a padri e madri che a volte non erano in grado di farlo, di prendersi cura di loro.

Proteggere i deboli, gli indifesi. I giusti. In nome di suo figlio.


Viaggiava di notte, osservava e ascoltava nascosto nelle ombre e in pochi lo vedevano. Se c’era una cosa che sapeva fare era scomparire nel buio. 

Una notte si appostò ai margini di un piccolo villaggio abitato quasi unicamente da Parypus. Sentì i brividi salirgli lungo la schiena al pensiero dei delinquenti che avevano picchiato a morte il suo innocente ragazzo e si chiese quale fosse il loro aspetto. Più volte aveva pensato che avrebbe potuto incontrarli, forse rivolgere loro la parola o aiutarli, difenderli. Per questo li evitava, ignorava le loro difficoltà e si limitava a occuparsi dei loro torti, rispondendo con violenza al dolore che gli avevano causato.


Era appostato nel bosco, stava su un albero a mangiare frutta fresca raccolta lungo il cammino quando sentì un urlo. Non era distante. Tese subito le orecchie per individuare la direzione da cui proveniva. Quando udì il secondo grido planò giù dall’albero e, veloce e silenzioso, corse. Con una mano impugnava la spada, pronto a sguainarla quando necessario. 

Si fermò all’ombra di una capanna e li vide: tre giovani all’apparenza alticci stavano strattonando una coppia di Parypus poco più che ragazzini. 

“Dammi le tue monete, che abbiamo finito i soldi.” Ordinò uno di loro ai ragazzini, che continuavano ad arretrare. 

“Vi abbiamo già detto che non ne abbiamo.” Heismay strinse l’impugnatura della spada sentendo la voce tremante della ragazza.

“In qualche modo ci dovrete pagare. Dove abitate?” 

“Già! Potete ospitarci per la notte.” Una minaccia velata nascosta sotto un tono vellutato. Il guerriero uscì dalle ombre in silenzio, un passante all’apparenza innocuo che dichiarò la sua presenza canticchiando piano mentre camminava in loro direzione.

Solo uno dei tre malviventi prestò attenzione a lui. Heismay sapeva che la maggior parte della popolazione reagiva alla violenza con indifferenza, perché lui avrebbe dovuto essere diverso? Persino i soldati spesso chiudevano entrambi gli occhi quando non erano in servizio, così come le guardie cittadine che a volte erano parte del problema. Era un mondo al contrario e lui sapeva che non avrebbe mai potuto cambiarlo, ma stava facendo la sua piccola parte.

L’Eugief si fermò a pochi passi dal gruppo. “Va tutto bene?” Chiese, con fare innocente.

“Non impicciarti, bestia.” La risposta lo fece innervosire. Per un istante pensò che avrebbe ucciso tutti e si dovette sforzare per resistere all’impulso di sguainare la sua spada.

“È strano che mi chiamiate bestia, quando è così che tutti chiamano voi. Noi siamo i mostri, giusto?”

I malviventi si voltarono a guardarlo. Aveva la loro attenzione. “Non fareste meglio a trovarvi un impiego anziché fare gli sbruffoni violenti?”

Il leader del gruppo strinse i pugni e iniziò a camminare verso di lui. Heismay non se ne preoccupò. “Immagino non ne vogliate parlare.” 

Gli si scagliarono contro, ma il guerriero schivò i loro attacchi senza troppi problemi l’alcool che avevano consumato rallentava i loro movimenti, rendendoli goffi e prevedibili. Uno di loro teneva in mano un coltello, un altro aveva un tirapugni coperto di pungiglioni di metallo.

Non riuscivano a toccarlo. Poteva sentire la loro frustrazione crescere: la vedeva nei loro movimenti sempre più lenti e insicuri, la sentiva nel loro respiro pesante. Impugnò la spada e colpì uno di loro al braccio. Il giovane urlò e arretrò, il terrore negli occhi. 

Gli altri due continuarono a tentare di colpirlo. Un altro fendente nella parte bassa della gamba. Heismay osservò il Parypus cadere a terra e tenersi la zona ferita. L’ultimo non cedeva. 

“Prima o poi ti colpisco!” Gli urlò. 

Il guerriero emise una lunga risata. “Certo, è possibile. Però preferisco chiuderla qui.” Lo colpì prima a un piede, poi al braccio destro. “Non oggi, temo.”

I due ragazzini erano scomparsi, fuggiti al sicuro. 

I malviventi invece erano a terra, sconfitti. Heismay li osservò, chiedendosi se avrebbe avuto pietà delle loro vite o se si sarebbe un giorno tramutato in un giustiziere, un assassino senza pietà, né anima.

Rivolse loro la domanda che faceva a tutti. “Siete mai stati al villaggio degli Eugief, vicino a Martira?”

“Perché lo vuoi sapere, mostro?”

Nonostante fossero a terra, quegli sciocchi continuavano a istigare la sua rabbia. “Rispondi o ti uccido.” Gli disse calmo, puntando la spada al suo collo fragile e indifeso.

“No, siamo arrivati dal nord.” Rispose il primo che aveva colpito.

Erano troppo giovani per essere loro i responsabili della morte di suo figlio. Era probabile che stessero dicendo la verità. “Cosa volevate fare a quei due giovani?”

“Noi… volevamo solo soldi.”

Heismay sbuffò. “Pensate forse che la violenza sia accettabile? Se desiderate vivere facendo del male al prossimo, sono pronto a uccidervi qui.”

Uno dei giovani stava piangendo. “Mi fa male la ferita.”
“Non sarà quella a ucciderti. Pensate al dolore che avete inflitto, alla paura che sentite ora e ditemi cosa fareste al mio posto.”

Il guerriero poteva osservare la paura nei loro sguardi. La odorava sulla loro pelle. La paura però non aiuta il pentimento, lo sapeva. La scelta di uccidere non era mai facile e si chiese se vista la loro giovane età avrebbe fatto bene a risparmiarli. “Avete mai ucciso qualcuno?”

Il pianto crebbe. “No! Abbiamo solo derubato… abbiamo picchiato…” Un’ombra di pentimento nella sua voce lo riportò verso la lucidità. Abbassò la spada osservandoli per ciò che erano: ragazzini impauriti senza una guida.


In quel momento Heismay sentì voci e passi provenienti dal villaggio, un gruppo di abitanti accompagnati guidati dai due ragazzini che aveva aiutato e da alcune guardie stava correndo in lodo direzione

“Eccolo! È lui che ci ha aiutati!”

Le guardie apparvero sorprese nel trovarsi di fronte lo Eugief illeso e i tre malviventi a terra, doloranti. “Non sono feriti gravemente, si riprenderanno.” Dichiarò riponendo la spada sperando che le guardie comprendessero le sue buone intenzioni.

Le guardie parvero rilassarsi e rivolsero le loro lance in direzione dei tre ragazzi a terra. “Li cercavamo da un po’, sono accusati di omicidio.” 

“C’è una taglia sulle loro teste, fresca fresca di giornata.” 

Heismay si voltò mentre le guardie trafiggevano i giovani, chiedendosi se davvero fossero assassini, in quel caso forse il mondo sarebbe stato un posto migliore senza di loro. Il dubbio però restava: erano dei ragazzi, il mondo ancora da scoprire, forse necessitavano solo di una guida. 

Non provava pietà, ma dispiacere: se era la morte il loro destino, forse avrebbe potuto esercitarla lui e sentirsi un po’ meno in guerra col mondo intero. Probabilmente però si sarebbe sentito solo più vuoto. La sua anima si sarebbe frantumata in modo definitivo e lui non avrebbe più provato il desiderio di vivere in mezzo a quella società in rovina.

“Una parte della ricompensa è tua, Eugief.” Disse il capo delle guardie. “Seguici, mio figlio ci tiene a darti ospitalità per la notte. 

Suo figlio. Heismay li seguì cercando di provare orgoglio nella sua missione. Quella notte sarebbe stato ringraziato e considerato un eroe, ma l’indomani sarebbe partito in cerca di altri figli da proteggere. Prima o poi avrebbe ottenuto anche la sua vendetta.


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Fandom: 13 Sentinels Aegis Rim
Prompt: Tempo
Personaggi: Ryoko Shinonome, Ei Sekigahara
Partecipa al COWT 14
Genere: introspettivo, malinconico
one shot

Loop





Quando aprì gli occhi, Ryoko vide un lungo neon acceso sul soffitto bianco. Pensò subito di non essere nel posto giusto, ma dov’era? 

Quando era? A quella domanda però si era già data risposta osservando la stanza e l'illuminazione: erano di certo gli anni ottanta.

Cercò di sollevare la testa, ma un dolore improvviso la costrinse a portarsi le mani alle tempie. Richiuse gli occhi e si voltò sul lato, cercando di non fissare la luce e tentò nuovamente di alzarsi. Doveva fare in fretta. C’era qualcosa che doveva fare in fretta.

“Shinonome, come ti senti?”

“Mi fa male la testa. Cosa mi è successo?”

I ricordi tornavano come gocce, uno alla volta: Ei, il suo unico amico, poteva percepirne la presenza al suo fianco, era lui che aveva parlato?

No, lui era… ricercato? 426 era un criminale pericoloso. Ei Sekigahara era 426.

Era accaduto tutto a causa sua.

Ryoko riaprì gli occhi e si trovò di fronte il viso gentile della signorina Morimura. “Stai tranquilla, non alzarti troppo in fretta.” Ryoko si sollevò lentamente. “Ricordi che anno è?” chiese l’infermiera.

La ragazza scosse la testa.

“Shinonome, devi riposare ancora.”

“Che anno è? Mi puoi rispondere per favore.” Un tono di urgenza nella sua voce.

“Va bene, certo: è il 1985.” La donna annuì. Osservava Ryoko con uno sguardo di compatimento, le tendeva la mano in un gesto quasi materno.

“Devo, devo tornare.” Ecco cosa doveva fare: tornare nel futuro e catturare 426, l’assassino, il suo nemico.

Perché si sentiva così confusa?

C’era stato un incidente. Sekigahara aveva trasmesso un’anomalia alla sua sentinella e a quella di Juro. Li aveva attaccati, li aveva derubati dei loro ricordi e del loro stesso futuro.

“Non puoi tornare adesso, devi prima riprenderti. Prendi queste pillole quando il dolore diventerà più forte.” La vista del flacone la fece tornare al presente.

Le pillole. Quante ne aveva consumate nel corso di quell’ultimo periodo? Aprì il contenitore e contò: una, due. Se le rovesciò sul palmo e le prese a secco in un movimento ormai meccanico.

“Juro…” Cercò di ricordare, ma tutto era estremamente confuso. Juro era morto? Era ancora nel futuro? Era aggrappato alla vita come lei, in cerca di vendetta.

“Non esagerare, Shinonome.” La voce della signorina Morimura era vellutata. Quante volte le aveva ripetuto quella stessa frase.

La nebbia nella sua testa iniziò a diradarsi, segno che le due pastiglie stavano facendo effetto. Non devi prendere le pillole, Ryoko.

Di nuovo la voce di Ei. La ragazza scosse la testa, chiedendosi dove si fosse nascosto 426. L’ultima volta era abbastanza sicura di averlo trovato nel 2065, ma lei non poteva permettersi di andare per tentativi, non aveva tempo. 

Avrebbe cominciato cercando Juro: lui l’avrebbe aiutata.



Era distesa sul pavimento di un luogo buio. Sentiva intorno a lei odore di legno e di cera, la stanza era impolverata, forse abbandonata da tempo.

Ryoko si alzò con fatica. Il dolore alla testa le fece salire un conato di vomito. Respirò profondamente prima di mettersi seduta. Prese il flacone che conteneva le sue pillole e se le versò sulla mano: una, due. Di nuovo le ingoiò senza fatica e osservò il contenitore; era già vuoto, eppure la signorina Morimura gliel’aveva consegnato solo poche ore prima, come era successo?


Cercò di capire dove si trovasse e si alzò in piedi, si sentiva affaticata, come se avesse corso per una giornata intere. Intorno a lei lo stabile era in stato di completo abbandono, guardò fuori e vide luci bianche illuminare la strada. Che anno poteva essere? Forse era ancora nel 1985?

Si portò una mano alla tempia: cosa ci faceva lì dentro? 

Ryoko aveva una missione: doveva trovare 426, il suo nemico. Lo stava cercando. Ma 426 era Ei, ed Ei era suo amico, era davvero stato lui?

Un fischio le risuonò nella testa e si sentì svenire. Chiuse gli occhi, strinse i denti e respirò profondamente. 


Nella nebbia della sua memoria, le tornò in mente quel pomeriggio, prima che lei, Ei e Juro salissero sulle Sentinelle per combattere.

Era quasi il tramonto, lei ed Ei stavano camminando l’uno di fianco all’altra. A un tratto lui si era fermato, osservava l’orizzonte. “Come vorrei che non fossimo compatibili…” Con una mano aveva sfiorato lo starter con il quale poteva invocare la sua sentinella. Ryoko sapeva quanto lui odiasse combattere e quanto gli costasse. “Ogni volta che pilotiamo le Sentinelle mi sento come se fosse tutto inutile. E poi… non voglio che ti accada qualcosa di male. È un pericolo continuo.”

La ragazza ripeté le parole del signor Ida, il suo mentore. “Dobbiamo fare ciò che possiamo per il bene di tutti.”

"Ryoko, io ti volevo parlare di Ida, lui..." Ma non fece in tempo a finire la frase, lei comunque non lo avrebbe ascoltato perché non aveva motivo di dubitare del suo mentore, l’uomo che lei avrebbe amato e protetto per sempre.

In quel momento ricevettero il segnale d’allarme. "Ne parleremo la prossima volta." Ryoko annuì mentre si chinava a sfiorare il suo ginocchio destro per invocare la sua Sentinella. 

Solo lì dentro Ryoko si sentiva utile. Combattere per salvare il mondo era il suo destino e lei non capiva come mai Ei non si sentisse altrettanto onorato per questa possibilità: potevano proteggere chi amavano.

Insieme, si precipitarono alla zona di combattimento. “Sentinella 14, operativa. Sono in direzione della zona rossa.” Come le aveva chiesto Ida, avrebbe dato il massimo per la missione. Non avrebbe permesso ai Kaiju di distruggere la città.

Si mosse più veloce che poteva, seguita dalla Sentinella numero 11, più lenta, pilotata dal suo amico, una macchina offensiva di prima generazione. Presto individuarono Juro ed entrambi si mossero in copertura.

“Bene, vedo che siamo in tre.” Ei rise, mentre raggiungeva la prima linea.

Il combattimento procedeva in modo serrato, ma senza particolari difficoltà. I nemici erano ormai pochi e diradati. Gli attacchi corpo a corpo di Ei e il suoi missili a lungo raggio li avevano decimati. 

A un tratto però Juro aveva chiuso i contatti con la base. “Mi dispiace… Ma deve finire tutto.”

Ryoko si era chiesta cosa intendesse: all’inizio pensò che volesse sacrificarsi, ma non ce n’era ragione, stavano vincendo. 

In quel momento sentì un suono assordante nell’abitacolo. Perse il controllo della Sentinella che iniziò a muoversi pericolosamente verso il centro della città. Il suono prese un’intensità ancora maggiore e la Sentinella si fermò in mezzo alla zona di combattimento. Gli scudi si disattivarono e un fischio assordante le risuonò in testa. Tentò di alzare un braccio, ma si rese conto di non riuscirci.

Sentì la voce di Ei. “Non è possibile, cosa sta succedendo? Ryoko? Ryoko, rispondi!”

Ma non ci riusciva. I danni subiti dalla Sentinella erano stati gravi, ma il virus aveva danneggiato qualcosa di più profondo. La ragazza non riusciva a parlare, si portò le mani alla testa e per un istante il contatto con l'esterno della Sentinella si interruppe. Si guardò intorno: la cabina di pilotaggio era una sorta di capsula di salvataggio, osservò i tubi di alimentazione attaccati alle sue braccia e pensò di staccarli, ma qualcosa in lei le diceva di non farlo. "Sono stata io. È tutta colpa mia... Ho riattivato i codici Deimos e ho costretto tutti a vivere nel loop temporale… Ida, lui mi ha tradita..."


Non era stato Ei, lui non aveva colpe. Juro non era certo innocente, ma lei era la vera colpevole. La nemica della colonia: colei che aveva condannato tutti alla ripetizione del loop temporale nel quale stavano vivendo, chissà quante volte erano stati clonati ormai.


Ryoko si rese conto di avere sempre conosciuto la verità. Come aveva potuto costringere tutti loro a una vita di combattimento, di sofferenza? Cosa le era accaduto per spingerla a condannare l'intera colonia? Ida l'aveva tradita, ma non era la sua la colpa più grande. 

Juro, anche lui doveva conoscere la verità, altrimenti cosa avrebbe potuto indurlo a introdurre il virus?

Ryoko si rese conto anche che non sarebbe sopravvissuta per molto. Era condannata, ma non le importava. Doveva fare in fretta, tutti loro dovevano conoscere la verità, perché quel mondo non era reale, i viaggi nel tempo non erano reali, le persone con le quali interagivano ogni giorno non esistevano, erano solo personaggi di una simulazione: intelligenze artificiali che avevano come scopo la riproduzione di un mondo che loro non avevano mai visto.

Il senso di colpa la schiacciava e il dolore alla testa era sempre più forte. 

Non aveva altre pillole, doveva trovare Ei e dirgli che le dispiaceva.. Si mise a correre fuori dall'edificio in disuso in cerca di qualcuno a cui riferire quanto aveva scoperto: Jakushiji, Kisaragi oppure Ei, Juro o… Un’altra stilettata. Si portò le mani alla testa. 

Non ce l’avrebbe fatta.

Cadde a terra, poi il buio.



"Shinonome, come ti senti?" La ragazza era in una stanza illuminata da un neon bianco, distolse lo sguardo per lenire il fastidio. Shinonome era il suo nome, era certa di questo, ma dov’era?

"Mi fa male la testa, cosa mi è successo?"

Che anno era?


quistisf: (Default)
Fandom: Metaphor- Refantazio
Prompt: Viaggio
Personaggi: vari

Gallica - 100
Will - 100

Gallica

Da quando erano saliti sul carro, Gallica si sentiva nervosa. Ogni volta che guardava Will aveva l'impressione di essersi dimenticata qualcosa di molto importante, vitale per la missione, se solo fosse riuscita a ricordarsi cosa. 

"è la prima volta che fai un viaggio?" Gli chiese, anche se sapeva già la risposta.

Lui annuì. "Non sono mai uscito dal villaggio prima."

"Giusto, sei stato sempre col principe." 

Will e il principe sono una cosa sola. 

Ma che sciocchezza! Forse stava invecchiando, si disse, più probabilmente era solo stanca.

Però gli assomigliava. WIll e il principe come erano due gocce d'acqua.



Will

Le spine gli premettero contro la gola e il Principe ansimò, prendendo fiato a fatica.

Nell'ultimo periodo anche pochi passi lo stancavano, tutto ciò che poteva fare era leggere il suo libro e dormire.

In sogno egli si vedeva come un giovane dai capelli blu con occhi eterocromi e due gambe agili che gli permettevano di correre. 

L'altro se stesso era partito per un viaggio per salvare il povero Principe che, debole e indifeso, non aveva possibilità di sopravvivere.

Si rese conto di non riuscire a svegliarsi. Poco male: quell'avventura era più interessante della sua triste vita.



quistisf: (Default)
Drabble
Partecipano al COWT 14
Prompt: VIAGGIO
Fandom: Persona 5



La cosa più importante - 100
Il profumo - 100
Il libro - 100
Il mentore - 100
Morgana - 100
Nuova dimensione - 100
Un abbraccio freddo - 100
Sorelle - 100










La cosa più importante

Era dall'inizio dell'anno scolastico che Ann aspettava il momento della partenza per le Hawaii: la spiaggia, il mare, la natura selvaggia, la vita da turista.

Mentre preparava la valigia, però, si rese conto che la destinazione non le importava più come prima.

La cosa che desiderava di più era condividere quell'esperienza con Ren, poter visitare un nuovo luogo insieme, vivere per una volta lontana dal caos di Tokyo e dal loro... impegno sociale.

Sorrise mentre finiva di scegliere i vestiti, gli accessori e i costumi. Forse, di fronte al mare, sarebbe riuscita a confessargli i suoi pensieri.




Il profumo

Ryuji aveva impiegato la settimana precedente alla partenza a cercare il profumo giusto da portare in viaggio.
Vista la sua sfortuna con le ragazze era giunto alla conclusione che gli mancasse qualcosa. Ann gli aveva dato l'idea quando aveva parlato di un profumo che le faceva girare la testa. Ecco come avrebbe ottenuto il suo primo successo con una donna.
Era certo di avere trovato il profumo giusto: era maturo e speziato, lo faceva sentire più adulto, più sicuro di sè.
Aprì la valigia e... ma dov'era?
"Non ci credo. Che idiota!" Esclamò. A casa, ecco dov'era.






Il libro

Ogni volta che era andata in viaggio, Makoto aveva iniziato a preparare la valigia scegliendo quali libri portare con sé. Per la prima volta, però si era trovata in difficoltà. Arrossì pensando a quanto le scarpe eleganti che aveva tra le mani sarebbero state bene con l'abito azzurro che aveva scelto per la serata libera. Si domandò se lui le avrebbe notate, se si sarebbe complimentato con lei per l'abbinamento con la borsa e il bracciale che le aveva regalato pochi giorni prima.

Non aveva poi così tanto tempo, pensò, un solo libro sarebbe stato più che sufficiente.





Il mentore


Yusuke aveva sempre seguito Madarame nei viaggi durante i quali promuoveva la sua arte. In genere passava il suo tempo da solo ad ammirare le opere esposte nelle gallerie e nei musei in cui il suo mentore veniva accolto con tappeti rossi e applausi.

Il ragazzo si chiedeva se sarebbe mai riuscito a raggiungere il livello di quell'uomo che tanto ammirava, che l'aveva preso sotto la sua ala protettiva e gli dava la possibilità di accompagnarlo.

Per lui era un onore e gli andava bene così, anche se avrebbe tanto desiderato essere considerato e ammirato insieme a lui.




Morgana

"I gatti non viaggiano in aereo." Stupido Ryuji, pensò Morgana.

Quando riprenderò la mia vera forma gli farò vedere io come sono perfettamente in grado di viaggiare.

Non sono un gatto, ma non sono neanche un umano come lui. Zittì il pensiero, non sopportava sentirsi così confuso.

Lui desiderava solo vivere quelle esperienze in compagnia di Lady Ann, starle vicino di fronte all'oceano e proteggerla anche dall'altra parte del globo terrestre.

Non gli importava il viaggio in sé.

"Taci, Ryuji!" Ann gli accarezzò la testa, "La prossima volta andiamo più vicino, così vieni con noi. Non ti arrabbiare."




Nuova dimensione

La stanza era buia, Futaba accese una torcia ed entrò. Al suo interno uno scrigno richiedeva il codice di apertura. La ragazza lo digitò con sicurezza e in pochi istanti si ritrovò catapultata in una nuova stanza: aveva trovato un portale grazie al quale aveva viaggiato in un mondo nuovo.

Si guardò intorno, non aveva mai visto niente del genere, era al settimo cielo. Utilizzò le shortcut da tastiera per salvare, ma non sembravano funzionare.

Sentì un brivido scenderle lungo la schiena mentre leggeva le parole scritte in basso a sinistra sullo schermo: connection error, the game will now close.





Un abbraccio freddo

Viaggiare in prima classe la faceva sentire diversa. Quando arrivava in aereo accompagnata da personale dedicato attirava sempre l'attenzione su di sé e a lei questo non piaceva. Aveva chiesto a suo padre di permetterle di sedere insieme ai suoi compagni di classe in occasione del viaggio alle Hawaii e quando lui l'aveva accontentata la ragazza gli era saltata al collo, in un abbraccio affettuoso, proprio come faceva da bambina.
Lui l'aveva allontanata con un'espressione fredda. "Non mi sembra qualcosa di cui andare fieri."
Haru si era sentita sola, come sempre. Non riconosceva più suo padre.


Sorelle

Kasumi e Sumire erano arrivate stremate all'hotel riservato alle concorrenti.

Il viaggio delle due sorelle era stato costellato di ritardi e imprevisti, ma appena avevano chiuso la porta e si erano rifugiate nella loro stanza si erano subito sentite meglio. Avevano richiesto una cena in camera e si erano addormentate vicine, rinfrancate l'una dalla presenza dell'altra.

Kasumi come sempre aveva dato una grande dimostrazione di carattere e di competenza tecnica. Esibirsi dopo di lei la metteva sempre un po' a disagio. Ma ogni volta bastava il suo sorriso a incoraggiarla: "Vai e fai il tuo meglio, Sumi!"


quistisf: (Default)
Fandom: originale
Prompt: storia con due finali
Wordcount: Cap. 1 - Routine - 2004
Finale 1 - Seguire il sogno - 2078
Finale 2 - Seguire il cuore - 2070

Capitolo 1 - Routine



Spense la sveglia con una mano, prima ancora che iniziasse a suonare. Non aveva dormito bene, ma non era una sorpresa, le capitava spesso di passare le notti a rigirarsi nel letto. A volte quando non riusciva a prendere sonno si rifugiava nel suo smartphone e iniziava a scorrere video e immagini cercando di svuotare la mente carica di pensieri, ma non funzionava, anzi: come aveva sentito in programmi TV pomeridiani di dubbia serietà e letto in seguito anche da fonti più attendibili, quella non era una soluzione, ma un’amplificazione del problema. 

Infatti continuava a  passare le notti fissando il buio della sua stanza, svegliandosi in piena notte senza apparente ragione.


Si alzò sbadigliando, col collo dolorante per la posizione sbagliata - era ora di provare anche a cambiare il cuscino -, si infilò le ciabatte alla cieca e si diresse in cucina dove la aspettava il suo caffè del mattino.


“Devo smettere di bere tutto questo caffè.” Si disse senza convinzione, perché sapeva che era probabile che nel corso della giornata ne avrebbe bevuto parecchio. Alzò le spalle, rassegnata, mentre si specchiava sull’immagine distorta che vedeva riflessa sul vetro del forno. “Magari dalle cinque del pomeriggio non ne bevo più, prima faccio quel che posso.”

Accese la macchina e inserì una capsula. Posizionò la tazzina pensando che quella fosse una azione poco sostenibile. “Oggi vado a comprare le capsule compostabili.” Di nuovo era rivolta al suo riflesso. Doveva smetterla di parlare da sola, ma non era abituata a stare da sola e non era facile passare la giornata in silenzio.

Sei mesi fa se n’era andato lui, e da qualche settimana sua sorella si era anche ripresa il gatto. Il suo unico compagno in quella casa troppo grande.

Le mancava, del resto l’aveva tenuto solo per sessantacinque giorni, il tempo necessario perché la ristrutturazione a casa di sua sorella fosse conclusa, non poteva pretendere di rubare il suo gatto.

Premette il pulsante e osservò il liquido scuro scendere e il fumo alzarsi intorno alla tazza. Si sedette sul divano, la tazzina in una mano e una fetta biscottata nell’altra. “Ma così cadono le briciole!” Disse in tono canzonatorio, ormai non le importava delle briciole e comunque quella sera avrebbe pulito, quindi non era un problema. Fece colazione pensando a Paki e al suo pelo sparso in giro per l’appartamento, a quanto all’inizio le aveva dato fastidio. Ora le mancava il piccolo Pachino.

“Magari mi prendo un gatto.” Sorrise, il pensiero la fece sentire un po’ meno sola.

O forse no, pensò inclinando la testa di lato. Doveva prepararsi per andare al lavoro, non era il momento di prendere decisioni così importanti, soprattutto non quella mattina e non mentre era così assonnata.



Celeste aveva studiato a ragioneria. Non per sua scelta, più per decisione dei suoi genitori che le avevano spiegato quanto quella fosse la decisione più conveniente per il suo futuro. Lei aveva tentato di lamentarsi agitando di fronte a loro con la sua debole convinzione i test attitudinali che dimostravano il suo interesse per l’ambiente umanistico o turistico. Sua madre le aveva strappato i fogli dalle mani liquidandoli come “Le sciocchezze che vi mettono in testa a scuola” e suo padre si era limitato a ripetere “Hai bisogno di qualcosa che ti permetta di lavorare dopo le superiori, ti iscriviamo lì.” 

Avrebbe voluto puntare i piedi e anche le braccia per convincerli a iscriverla al turistico o a un liceo linguistico, ma aveva rinunciato, non aveva la forza di opporsi a loro. Con un sospiro aveva immaginato tutta la sua vita, l’aveva vista passarle davanti agli occhi: i viaggi, il lavoro in giro per il mondo. Avrebbe conosciuto persone interessanti e culture distanti. Avrebbe imparato a parlare perfettamente inglese, tedesco e magari anche una lingua orientale come il cinese o il giapponese. Forse si sarebbe trasferita distante e avrebbe rivisto i suoi solo a Natale, a volte sarebbero andati loro a trovarla nella sua casa piccola, ma ben organizzata.

I pensieri erano scivolati via, ma a volte tornavano, soprattutto quando ascoltava le lezioni di economia aziendale senza alcun interesse e si perdeva in se stessa cercando di non addormentarsi.

Faceva il suo dovere, ma non riusciva a immaginarsi una vita intera a parlare di bilanci e di conti. Pensava che piuttosto avrebbe preferito un lavoro più umile, ma meno noioso.

A casa i suoi invece avevano continuato a parlare del suo futuro roseo e sicuro in una delle aziende lì intorno. “Con le conoscenze di papà troverai subito un buon posto, vedrai!” Le diceva la mamma sorridendo entusiasta, una mano posata sulla spalla di Celeste, che sospirava sentendosi invisibile.

La scuola era finita e suo padre l’aveva accompagnata al primo colloquio in un’azienda di amici di famiglia. Era stata assunta subito come apprendista e non si era lamentata, anzi. Era felice all’inizio, perché avere una busta paga le permetteva di comprarsi ciò che desiderava, di uscire coi suoi amici. Un giorno avrebbe usato i suoi risparmi per andare in vacanza per conto suo, forse in giro per il mondo.


Aveva conosciuto Stefano mentre camminava per il centro in un pomeriggio di primavera. Era in compagnia di una sua amica che le aveva chiesto di accompagnarla in un’uscita a quattro. “L’amico di Luca e simpatico, vedrai: ti piacerà!”

Celeste si era fatta trascinare, la sua vita era una deriva durante la quale le decisioni continuavano a essere prese da altri per lei, ma in fondo non le dispiaceva, perché non stava poi così male, anzi: il lavoro non la faceva impazzire, ma le dava da vivere e si era anche potuta mettere da parte un piccolo gruzzoletto che le avrebbe permesso di comprarsi un appartamento, quello che i suoi consideravano “un punto di partenza per il futuro”, non era ancora andata a fare il suo viaggio intorno al mondo, ma forse sarebbe andata in Giappone in vacanza quell’estate insieme a un gruppo di amici. Stefano era in effetti simpatico e aveva dimostrato da subito un particolare interesse per il lavoro di Celeste. Non le era dispiaciuto passare del tempo insieme, quindi si era lasciata convincere a uscire con lui e in breve avevano iniziato a fare progetti a cui la ragazza non aveva mai pensato prima di allora.


Quell’estate non era andata in vacanza, perché lei e il suo fidanzato avevano in programma di mettere su una famiglia, quindi si dovevano impegnare a risparmiare per il futuro. Celeste aveva tentato una volta di più di organizzare comunque un viaggio, alla fine si erano concessi una settimana al mare e lei si era rassegnata a trarne il più possibile. 

Quando compreremo la casa, quando ci sposeremo, quando avremo abbastanza da parte… c’era sempre una condizione fuori posto per il suo viaggio dei sogni, al punto che Celeste si era messa il cuore in pace e aveva smesso di chiedere.


Avevano cercato casa insieme, ma al momento della formulazione della proposta immobiliare lei si era resa conto che Stefano avesse parlato tanto di risparmi, ma non avesse in realtà fatto azioni concrete per potersi permettere l’acquisto della casa di cui avevano parlato.

“Per ora perché non andate a stare dalla nonna? Tanto lei è in casa di riposo e non ci vive nessuno, è la soluzione migliore.” Le aveva proposto sua madre. Come tutti si aspettavano, la nonna le aveva fatto preparare un regolare contratto di affitto che la nipote e il suo compagno pagavano regolarmente ogni mese.


La vita insieme si era rivelata meno romantica di quanto Celeste aveva sempre immaginato: Stefano era disordinato e non aveva i suoi stessi standard di pulizia. La ragazza era cresciuta in una casa splendente in cui ogni faccenda andava sbrigata appena possibile. Non c’erano scuse per evitare di fare la propria parte per nessun membro della famiglia. Il suo fidanzato invece se ne stava sul divano e la invitava a fargli compagnia. “Facciamo dopo, adesso rilassati.”

Solo che dopo un po’ di tempo si era resa conto che era sempre e solo lei a fare ciò che serviva. Stefano lavorava e tornava stanco: “Puoi preparare tu la cena stasera?”

Così lei preparava la cena, teneva in ordine, puliva e lavorava. Metteva in ordine i vestiti e spolverava, pagava le bollette e teneva sotto controllo la burocrazia, del resto era il suo lavoro, quindi era più brava di lui.


Ricordava ancora il giorno in cui si era resa conto di non essere felice. Era a passeggio con la sua amica Silvia per le vie del centro città, quando lei si era fermata di fronte alla vetrina di un negozio specializzato in colori artistici: “Vorrei tanto regalare a Luca quel set, gli piace così tanto dipingere e sta aspettando perché costa troppo. Spero di poterlo prendere per il suo compleanno.” Celeste aveva osservato gli occhi della sua amica brillare di orgoglio e di amore e si era chiesta cosa avrebbe potuto regalare a Stefano. Si era resa conto che lui non faceva niente di interessante, quando l’aveva conosciuto almeno giocava a calcio, non le piaceva, ma almeno era un impegno, ora nemmeno più quello, guardava solo le partite. Lei stessa non faceva più niente di interessante. Un brivido gelido le era corso lungo la schiena e aveva smesso di ascoltare la storia divertente che la sua amica stava raccontando.

La vita di Celeste era vuota. La realizzazione la lasciò distrutta.


Quella sera era arrivata a casa e aveva lanciato le chiavi sulla cassettiera. Si era distesa sul divano scalza e aveva acceso la televisione, l’aveva lasciata andare senza ascoltare, utilizzandola come sottofondo ai suoi pensieri che non le stavano dando pace.

Stefano era arrivato canticchiando dall’uscita coi suoi amici e aveva lanciato le chiavi al suo stesso modo. “Ho già mangiato.” Aveva detto togliendosi le scarpe di fianco alla porta e poi se n’era andato in bagno, probabilmente per farsi una doccia. Lei era rimasta lì immobile. Era ancora invisibile, evidentemente.


Si erano lasciati poche settimane dopo. Era bastato che lei smettesse di legarli perché ciascuno di loro iniziasse a percorrere la propria strada. Stefano all’inizio ci era rimasto male, ma non era riuscito a rispondere alle domande di Celeste: cosa facciamo insieme? Perché vuoi stare con me? Cosa mi piace? Chi sono io, lo sai?


Era convinta che fosse stato meglio così, ma era rimasta sola. Aveva passato i primi quindici giorni a piangere, poi aveva iniziato a notare alcuni fattori positivi: la casa era più ordinata e Celeste ora poteva comprare ciò che voleva da mangiare. Non si sentiva in colpa nel prendersi il suo tempo e non provava più la necessità di cercare sempre e comunque la perfezione. L’aveva detto ai suoi genitori dopo qualche giorno e per loro era stato più difficile accettare la situazione, ma non c’erano alternative, la decisione era definitiva.

Poi era arrivato Paki, il suo miglior coinquilino fino a quel momento.



Uscì dalla porta vestita come sempre: pantaloni sobri, scarpe nere, comode ed eleganti, maglioncino leggero adatto all’ufficio e un cappotto nero come il suo umore.

Prese l’automobile e si recò al lavoro. Era incredibile come col tempo avesse iniziato a riconoscere gli altri lavoratori che incrociava ogni mattina, sempre alla stessa ora: C’era l’uomo stempiato sempre di fretta che sembrava imprecare ogni volta che un semaforo diventava rosso, poi la donna che sbadigliava di continuo. C’era quello che cercava sempre di sorpassare e tallonava chi gli stava di fronte e la signora che rallentava di proposito per farlo passare, che ogni volta gli rivolgeva insulti dopo il sorpasso.

Forse qualcuno avrebbe potuto definire Celeste quella che non ride mai, oppure quella invisibile.

In ufficio in genere era da sola. Era considerata affidabile, almeno così le avevano detto i capi in occasione dell’incontro annuale nel quale non davano mai alcun bonus, ma facevano sempre un sacco di complimenti.

Entrò con un sorriso salutando i colleghi, almeno avrebbe dovuto fare meno ore del solito.






FINALE 1 - Seguire il sogno -


 
 

Quel pomeriggio uscì dall’ufficio alle tre del pomeriggio. Non era solita avere del tempo libero così presto nei giorni feriali, quindi decise di non andare direttamente a casa. 

Si sentiva molto stanca a causa del mancato sonno della notte precedente ma pensò che fare una passeggiata prima di tornare a  casa l’avrebbe aiutata a riposare meglio durante la notte e non nel pomeriggio, anche perché era certa che se fosse tornata a casa subito avrebbe passato il tempo pulendo in giro o si sarebbe fatta un bel pisolino. 

Si domandò se chiamare Silvia, ma poi ripensò a quanto Luca e Stefano fossero amici e lasciò perdere, forse ci sarebbe voluto un po’ di tempo in più per parlare con lei liberamente. Non credeva che l’amica le avrebbe negato la sua compagnia, ma era certa che il suo ex fidanzato, avvelenato dalla rottura, avesse passato parecchio tempo con la coppia in quel periodo a raccontare quanto lui fosse triste e quanto Celeste fosse stata cattiva. Poteva immaginarlo mentre si dipingeva da vittima innocente della situazione anziché prendersi le proprie responsabilità. Si è in due in una coppia, sia quando le cose vanno bene, che quando le cose finiscono.

In tutta onestà Celeste era convinta che Stefano avrebbe potuto recuperare il rapporto con lei se solo si fosse impegnato un po’ e che la maggior parte dell’impegno nella coppia l’avesse da sempre messo lei, ma si stava sforzando di non recriminare.

 

Pazienza, pensò, avrebbe fatto un giro per il centro da sola. In fin dei conti era ancora presto e lei aveva proprio bisogno di comprarsi qualcosa per tirarsi su il morale, fosse stata anche una pizza per cena, ci avrebbe pensato al bisogno.

 

Girò per le vie in cerca di un parcheggio e fu fortunata, perché ne trovò uno proprio dove sperava, di fronte all’agenzia di viaggi di cui osservava sempre la vetrina quando passava di lì. Scesa dall’auto si chiese se fosse stato il destino a farla parcheggiare proprio lì. Si fermò a osservare le proposte e le immagini di luoghi esotici in vetrina, incantata. Le sue stesse parole le riecheggiarono nella mente: “A cosa serve ormai una agenzia viaggi? Con internet si può organizzare tutto da soli.” Lo pensava davvero, ma si chiese se avrebbe avuto l’energia per farlo davvero. Senza neppure rendersene conto si ritrovò dentro l’ufficio.

 

La donna al bancone le sorrise: “Buonasera, come posso esserle utile?”

Celeste si schiarì la voce. “Veramente… io non ho molte idee, è da tanto che voglio fare una bella vacanza… però non so cosa… neanche dove in realtà.” Rise, imbarazzata.

L’impiegata però continuò a sorridere come se fosse abituata a incontrare potenziali clienti come lei: persone un po’ perse, che cercano risposte alle loro vite vuote in agenzia viaggio: “Io sono Elena. Ora ho tempo, se vuole posso rispondere a tutte le sue domande, oppure le posso lasciare qualche opuscolo da guardare.” Le indicò la sedia di fronte a lei con fare quasi materno.

A Celeste sembrò quasi che la vedesse per com’era veramente e accettò l’invito, “Mi chiamo Celeste, può darmi del tu.” la ragazza si sedette e iniziò a osservare i depliant sul tavolo. La donna invece restò in piedi, con il suo sorriso smagliante le puntò contro l’indice: “Ho un’idea!” 

Si allontanò e tornò indietro con un mappamondo grande poco più di una palla da calcio. Lo posò di fronte a lei trionfante. “Dove vuoi andare?” 

Celeste ripensò al suo passato: a tutte le volte che aveva sognato di partire per un lungo viaggio itinerante con una valigia da riempire nel corso della sua avventura con i ricordi di ciò che avrebbe vissuto, dei luoghi che avrebbe visitato. Aveva immaginato di incontrare persone nuove, che sarebbero diventate nuovi amici nel villaggio globale che il mondo intero stava diventando.

“Non lo so.” Disse, facendo ruotare il mappamondo con la mano. Chiuse gli occhi e puntò il dito a caso, come immaginava nel mezzo dell’Oceano Pacifico. Pensò che ne avrebbe comprato uno decorativo da mettere in salotto, uno di quelli grandi e pesanti col supporto in legno. “Però vorrei andare al caldo.” Rise. “Devo fare il passaporto,” realizzò e guardò preoccupata la donna: “Quanto tempo ci vuole?”

Lei scosse la testa. “Non si preoccupi per quello, le spiegherò tutto. Dobbiamo pensare a una cosa alla volta e per ora possiamo lasciare perdere la burocrazia.”

“Allora da dove cominciamo?” 

“Dalle mie domande. La prima è semplice: hai date flessibili o ci sono giorni precisi in cui vorresti andare in viaggio?”

Celeste ci pensò un attimo. “In agosto l’ufficio chiude, ma posso prendere ferie anche in altri momenti, anche perché lo fanno tutti gli altri. Flessibili, quindi.”

“Benissimo, allora seconda domanda: quanto tempo vuoi stare in viaggio?”

“Due settimane, oppure tre.” Non dovette pensare, il problema era che nella sua testa aveva già organizzato talmente tanti viaggi da non riuscire a decidere il luogo di destinazione. Ogni viaggio che aveva immaginato però era lungo abbastanza da permetterle di esplorare il territorio, di riposare e di fermarsi a osservare e conoscere le tradizioni, di assaggiare i cibi tipici e vivere esperienze distanti da quelle proposte ai turisti veloci, che viaggiano da un luogo all’altro scattando foto e correndo da una destinazione all’altra.

“Molto bene, preferisci un villaggio vacanze o qualcosa di più libero?”

Celeste sospirò. “Dipende dalla zona, vorrei sentirmi al sicuro perché devo viaggiare da sola…”

Lo sguardo dell’impiegata cambiò all’improvviso: “Potrebbe interessarti un viaggio di gruppo tra sconosciuti?”

La ragazza esitò. “Io… non lo so, forse preferisco andare da sola questa volta.”

La tour operator alzò le spalle. “Certo, va benissimo, era solo una proposta che in genere piace alle ragazze, perché dà un po’ di sicurezza in più, ma possiamo trovare una soluzione, più di una in realtà.”

“Grazie, a me basta non andare in crociera, mi terrorizzano.” Ammise Celeste ridacchiando in modo nervoso, domandandosi perché non avesse messo prima questo paletto.

“Dunque, ricapitolando: vorresti viaggiare per due settimane in un luogo caldo, in agosto ti sarebbe comodo, ma puoi considerare altri periodi.  Per te è importante che la destinazione ti faccia sentire al sicuro.” riportò in un foglio l’elenco puntato delle caratteristiche del viaggio, poi iniziò a far sbattere il tappo della penna sul tavolo, sembrava immersa nei pensieri. “Ultima domanda: quale è stato il tuo viaggio preferito, in tutta la vita?”

Celeste prese fiato, ma non sapeva cosa rispondere. “A dire la verità non ho viaggiato molto. Con i miei genitori, quando ero piccola, ogni anno per due settimane andavamo al mare qui vicino, sempre nello stesso appartamento e con le stesse persone nel condominio vicino alla spiaggia. Non sembrava neanche una vacanza negli ultimi anni, era più una routine estiva. Io qualche anno fa sono andata a visitare Roma con una mia amica e con la scuola l’ultimo anno siamo stati in gita a Praga. Lì mi sono divertita perché era tutto organizzato,  abbiamo visitato musei e luoghi interessanti nella città. Mi piace l’arte e mi sono divertita anche con la classe, gente della mia età.” Si fermò e osservò l’agente turistica che scriveva ancora. “Camminare mi piace, ma non in montagna, anche perché non sempre c’è molto da vedere. E poi non sono molto allenata” ammise.

“Ti muoveresti volentieri in treno o in metropolitana?” Chiese.

“Sì, in treno soprattutto.”

La donna si fermò. “Allora ti dico quello che farei io, ti do qualche alternativa e poi tu decidi cosa fare.”

Le consigliò un viaggio nel sud della Spagna, all’insegna della scoperta dei luoghi della storia, tra Siviglia e Granada. Lì sarebbe stata più libera di muoversi in autonomia e con comodità, inoltre si sarebbe sentita più a casa e a suo agio anche con la lingua. 

Poi le propose una vacanza incentrata sul relax a Cipro, dove avrebbe avuto il tempo di rilassarsi e di immergersi nella storia tra i templi di Nicosia e di Paphos e le chiese bizantine. 

La sua ultima proposta consisteva in un viaggio di gruppo in Giappone, organizzato in modo da visitare Tokyo e la zona di Kyoto. “So che hai detto no ai viaggi di gruppo, ma puoi stare in stanza singola e con gruppi di persone della tua età, o comunque molto vicini al tuo gruppo. Io penso che sia una buona occasione per conoscere gente nuova con la tua stessa passione e anche per viaggiare in modo più sicuro e controllato. Pensaci.” 

Le diede alcuni riferimenti e un sito dal quale prendere qualche informazione in più. Non le fece firmare niente, e la cosa un po’ la stupì. “Spero di rivederti, ricorda che per il Giappone avrai bisogno del Passaporto, quindi ricordati di metterti in movimento il più in fretta possibile per fare in tempo. In genere consentono le prenotazioni a chi ha un volo prenotato, io posso aiutarti se dovessi averne bisogno, basta che torni, quando vuoi. Chiama il numero nel biglietto da visita se vuoi un appuntamento.”

 

Celeste salutò l’agente turistica, grata di avere sognato ancora. Una volta fuori si sentiva allegra: era come se un pezzo del puzzle della sua vita finalmente avesse trovato la posizione giusta, era il primo, ma c’era ancora molto da fare.

Aveva passato un’ora all’agenzia, quindi prese qualcosa per cena e tornò direttamente a casa. Dopo averci pensato tanto nell’ultimo periodo, decise che era ora di trovare una coinquilina per quella grande casa nella quale era deprimente passare le giornate da sola a parlare con il proprio riflesso. Sperava in un gatto, ma pensò di iniziare a far girare la voce in ufficio, ne avrebbe parlato il giorno seguente, magari per una volta avrebbe fatto la famosa pausa caffè coi colleghi che nell’ultimo periodo aveva accuratamente evitato.

Quella sera dormì sognando il Giappone e i fiori di ciliegio in fiore; i mari azzurri di Cipro e il clima caldo e allegro della Spagna. Nel suo sogno i paesaggi erano nitidi come cartoline o fotografie coi colori accesi delle riviste di viaggio che aveva sfogliato poche ore prima. Passava da una cartolina all’altra come solo in un sogno era possibile fare. 

 

Per la prima volta da quando Paki non viveva più con lei, si svegliò riposata e si alzò canticchiando. In macchina scelse di ascoltare della musica al posto dei soliti podcast e cantò a squarciagola fino all’arrivo all’ufficio. Scese sorridente con l’idea di chiedere subito quale fosse disponibilità per le sue ferie quell’estate.

Si stupirono della sua richiesta di tre settimane, ma accettarono senza farle troppe domande. “Ormai pensavamo che non saresti mai partita per uno di questi viaggi di cui parli sempre, era ora!” Lei sapeva già quali erano i periodi più pesanti per l’ufficio e non aveva intenzione di partire durante quei lassi di tempo. Rassicurata, mandò un messaggio all’agenzia appena fuori dal lavoro.

Era vero: a volte al lavoro si annoiava e spesso pensava che probabilmente non sarebbe rimasta lì per sempre, ma in fondo non si trovava così male, anzi: i suoi capi erano persone oneste e si erano sempre comportati bene con lei e coi colleghi, li rispettava.

L’azienda era seria e affidabile. Poteva ritenersi fortunata.

Si era sempre lasciata trascinare dalla vita per evitare discussioni, per non far sentire chi le stava intorno in colpa o per semplice codardia. Non sapeva per quanto tempo avrebbe mantenuto quel desiderio di migliorare la sua vita e di vivere i suoi sogni e la risoluzione di cui aveva bisogno per cambiare in concreto la sua vita. 

Non le importava. Le bastava iniziare dal primo passo: partire per il primo dei tanti viaggi della sua vita. 

Mentre cercava le chiavi dell’auto sentì una voce alle sue spalle. “Ho sentito che cerchi una coinquilina!” 

“Oh, ciao Ambra, mi hai spaventato!” L’aveva sempre considerata una ragazza simpatica, ma non le aveva mai davvero parlato di qualcosa che non fosse relativo al lavoro. “Cerchi casa?”

“Sì, ormai è da un po’ che penso di andare via dall’appartamento dei miei, solo che continuo a rinviare perché non trovo niente di interessante. Se ti va possiamo parlarne, conoscerci meglio.”

Celeste annuì. “Sì, magari facciamo un giro in centro uno di questi giorni, così ne parliamo. Conosco un posto carino per farci un aperitivo!”

Un passo alla volta avrebbe realizzato tutti i suoi sogni, il primo l’aveva fatto, gli altri erano dietro l’angolo.


 
 


FINALE 2 - Seguire il cuore -

Quel pomeriggio uscì dall’ufficio prima del solito. Il direttore aveva mandato tutti a casa per una questione aziendale di cui Celeste aveva scelto di non informarsi, visto che non era necessario. Era il giorno giusto per uscire presto, pensò sbadigliando: si sentiva stanchissima, ma nonostante questo non aveva alcun desiderio di andare a casa perché sapeva che avrebbe finito con l’andare a dormire quasi subito e avrebbe buttato tutto il pomeriggio. Osservò il sole alto nel cielo di marzo e pensò che non avesse senso lasciarsi scappare l’opportunità di passeggiare per il centro in quella splendida giornata quasi tiepida di fine inverno.

Aprì la porta dell’automobile e rimase per un istante a chiedersi se chiamare o no la sua amica Silvia, ma pensò che non fosse il caso vista l’amicizia che condivideva con il suo ex fidanzato. Quel pomeriggio si sentiva stanca e priva di filtri, non voleva rischiare di dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentita.

“Celeste, sei ancora qui?” Immersa nei suoi pensieri com’era, la ragazza non sentì arrivare la collega alle sue spalle. Si spaventò d’istinto e lasciò cadere le chiavi sull’asfalto tra il marciapiede e l’auto.

“Scusa, non pensavo di spaventarti!” Rise Ambra, la sua collega del reparto commerciale, per poi chinarsi a raccogliere il mazzo di chiavi.

Celeste si chinò insieme a lei, imbarazzata. “Grazie, non serviva! Tanto le chiavi non si rompono.” 

“Oh, figurati, pensavo stessi aspettando qualcuno, eri lì ferma, in piedi.”

“No, mi stavo solo chiedendo dove andare oggi pomeriggio visto che è una bella giornata.”

Ambra annuì, sorridente “Hai ragione! Perché non vai al nuovo negozio di vestiti che hanno aperto in centro in via Pascoli? Ho visto il volantino e mi sembra il tuo stile!” 

A Celeste scappò una risata. “Il mio stile? Quindi noioso? Scuro e cupo, sempre tutto uguale?” 

La collega fece un passo indietro, il volto arrossito per il disagio. “Io… intendevo che è elegante…”

“No, scusa,” La ragazza agitò le braccia per scusarsi. “Hai ragione, sono io che mi vesto così per… per lavoro. Però mi piacerebbe provare qualcosa di diverso, magari più colorato, mi piace come ti vesti tu, magari puoi… aiutarmi? Se ti va.”

Ambra aveva più o meno la stessa età di Celeste, ma aveva uno stile completamente diverso anche sul lavoro: si poteva considerare piuttosto elegante, ma abbastanza giovanile. Spesso indossava abiti sobri, con una punta di colore che li rendeva interessanti. Era in grado di far trasparire la sua personalità anche da come si vestiva, almeno questo era il pensiero di Celeste, che in effetti non la conosceva bene come avrebbe voluto. Forse perché lei ha una personalità, per questo ti sembra che ce l’abbiano i suoi vestiti, sciocca che non sei altro,  si disse la ragazza, sospirando.

“Io ti ringrazio. Io non faccio niente di speciale, non ho neanche un negozio preferito a dire la verità e non ho mai dato consigli, anzi… però se vuoi una volta possiamo andare insieme a fare shopping, non siamo mai andate da nessuna parte insieme fuori dal lavoro.”

Era vero: Celeste non era mai andata da nessuna parte con gli altri dipendenti dell’ufficio. Al mattino lei entrava nel suo cubicolo, un luogo chiuso nel quale aveva a che fare solo con se stessa e sentiva i suoi colleghi solo via email, era raro che si vedessero di persona perché Celeste preferiva stare rintanata lì anziché uscire, dove il rumore di fondo di chiacchiere e risate le impediva di concentrarsi e di fare il suo dovere.

Forse le sue abilità sociali erano regredite al punto che si poteva considerare davvero un caso disperato. Non sarebbe rimasta ad aspettare ancora, però. “Perché non andiamo oggi?” Chiese, pentendosi immediatamente della sua proposta.

Ambra restò per un istante a bocca aperta, poi osservò l’orologio e Celeste si domandò se stesse trovando un modo per declinare con gentilezza. “Oggi? Adesso? …Si può fare, certo! Però ho un piccolo problema.” La collega arricciò il naso. “Oggi non ho la macchina, dovevo prendere l’autobus, quindi… io sono felice dell’invito, ma mi dovrai portare a casa.”

La ragazza si sentiva al settimo cielo. Era da tanto che si chiedeva se non fosse ora di fare nuove conoscenze, ma nell’ultimo periodo si era resa conto di essere più ombrosa del solito e di trovare più fatica nelle relazioni sociali. “Oh, questo non è un problema,” indicò la sua automobile. “Ho la mia fidata Fiat Punto di quasi nove anni che ci porterà ovunque! Basta che non sia troppo lontano.”

Le due ragazze salirono in macchina e Celeste si rese conto che nonostante si conoscessero da ormai tre anni, non erano mai state insieme da sole come in quel momento. La ragazza si sentiva tesa, soprattutto perché si era resa conto di non conoscere la collega.

“Celeste, dove vuoi andare?” 

Il sorriso di Ambra la aiutò a ricordare che in fondo non stavano facendo niente di strano, forse la troppa solitudine l’aveva resa paranoica. Mise in moto e si voltò a guardare la nuova potenziale amica. “Boh, non so. A me basta stare fuori, è una bella giornata.”

“Allora facciamo un giro in centro, un po’ di shopping e se vuoi anche un aperitivo, io sono liberissima oggi! Dipende da quando ti vorrai liberare di me. Ora che sono in macchina, ti tocca sopportarmi un po’!”

“Centro sia!” Esclamò Celeste alzando un braccio in un segno di vittoria. 


Faticò un po’ a trovare parcheggio, seguì il consiglio di Ambra e si infilò in una via laterale, dove trovarono un posto di fronte al cancello di quella che pareva una casa abbandonata. “Qui di fianco c’è uno dei localini che preferisco per fare gli aperitivi, è un posto un po’ piccolo, ma sono sicura che ti piacerà, se vuoi poi ci fermiamo lì così ti offro qualcosa per ripagarti del passaggio. Ti dico la verità: avevo proprio voglia di fare un giro!” Propose Ambra.


Le due ragazze passeggiarono fino a raggiungere la via principale del centro, dove entrarono in un negozio di articoli di cancelleria, stupendosi di avere in comune l’interesse per i pastelli colorati, con i quali entrambe amavano fare disegni e colorarli. A dire la verità Celeste mentì quando le disse di averli utilizzati parecchio, ne aveva comprata una scatola insieme a un blocco da disegno quando era andata a vivere con Stefano, ma le aveva usate una volta sola e poi messe da parte. Si era quasi dimenticata che esistessero, ma aveva tutte le intenzioni di mettere in pratica le proprie parole e di tirarle fuori dallo sgabuzzino quella sera stessa.

Ambra accompagnò la nuova amica anche in un negozio di accessori piccolo e ben fornito, che la ragazza non conosceva. Decise di comprare una borsa arancione con dei fiori in stoffa applicati. Qualcosa di appariscente che le sarebbe sempre piaciuto avere, ma che non aveva mai avuto il coraggio di acquistare.


In seguito si fermarono in uno dei piccoli locali del centro a bere un aperitivo, scaldate dai grossi funghi posizionati di fianco ai tavoli. 

Sedute all’aperto, Celeste si sentì libera di essere onesta. Le confessò della sua recente rottura sentimentale e di come si fosse resa conto di essere stata spinta ad andare avanti per inerzia in quegli ultimi anni. Le raccontò dei suoi sogni, dei viaggi mai realizzati e della sua difficoltà nel ricominciare a vivere, ora che era da sola.

“Mi dispiace per Stefano,” le disse allora la Collega. “Ma sono felice che ora tu abbia iniziato a pensare un po’ di più a te stessa.” 

A Celeste sembrava quasi impossibile avere trovato qualcuno che la facesse sentire così a suo agio. Una persona che aveva a pochi metri di distanza ogni giorno, tra l’altro.

Ambra le raccontò della sua vita a casa con i suoi e di come non ne potesse più di vivere con loro e restasse per necessità e comodità, ma anche di come ricordava con nostalgia il periodo che aveva passato da fuori sede all’università, conclusosi solo pochi mesi prima. Celeste non si era neanche resa conto che lavorasse insieme a lei da meno di un anno.


“Quindi il tuo più grande sogno quale sarebbe?” chiese Ambra. 

“Viaggiare,” Confessò Celeste.

“Allora viaggia. C’è un’agenzia qui vicino, anzi, ce ne sono tante. Puoi anche organizzarti con internet, però dovresti farlo, se puoi permettertelo.”

La ragazza annuì. “E il tuo sogno più grande, qual è?"

Ambra sorrise. “Non è che hai una stanza? Così tengo pulito mentre viaggi.”



Il pomeriggio si era rivelato migliore di quanto Celeste avrebbe mai potuto sperare. Sentiva di avere trovato un’amica con la quale presto avrebbe formato un legame forte e profondo, molto più di quanto avrebbe mai sperato di ottenere con una collega.

“Grazie di cuore per essere stata con me oggi.”

“Sono contenta, era da tanto che speravo di conoscerti un po’ meglio, pensavo di starti un po’ antipatica.” Rise.

“Ma no!” Celeste sentiva che ormai il gelo iniziale si era completamente sciolto. “L’antipatica sono io, o meglio, non ho mai fatto niente per non esserlo.” 

Le due continuarono a parlare mentre si avvicinavano all’automobile, sotto la luce del lampione. In quel momento lo videro: un gatto nero con una macchia bianca sul muso li stava fissando seduto sul muretto di fronte alla casa abbandonata. 

“Lo vedi anche tu?” Chiese Ambra, rallentando cauta. 

“Sì, non sta andando via.” Era strano: i gatti in genere scappano, pensò.

Celeste si avvicinò lenta e gli porse la mano. Il gatto la annusò e si strusciò piano.”

“Penso sia di qualcuno, altrimenti sarebbe fuggito.” Osservò Ambra, “Spero non si sia perso.”

“Oh, no! Non dire così, non ti porto più a casa, sai, resto qui con lui fino a quando qualcuno non se lo prende.”

Il gatto non pareva preoccupato per la presenza delle due ragazze. “Sembra piuttosto magro,” constatò Celeste. “Che peccato non avere niente da dargli da mangiare.”

Ambra fece qualche passo verso la casa e poi tornò indietro. Celeste la osservò mentre premeva i campanelli del condominio lì di fianco. 

“Buonasera, per caso sapete di chi è il gatto bianco e nero che c’è qui sotto?” La sentì chiedere, ma non riuscì a recepire la risposta.

La sua amica tornò camminando lenta. “Una signora mi ha risposto, ha detto che è lei che gli dà da mangiare perché è il gatto del signore che viveva qui che però adesso è morto. In pratica l’hanno abbandonato… Comunque adesso sta scendendo.”

Un paio di minuti dopo, una signora sulla cinquantina scese in ciabatte con una confezione di croccantini per gatti in mano. Appena la vide, il gatto miagolò e alzò la coda, per poi avvicinarsi a lei e strusciarsi sulle sue gambe.

“Abitava lì, da Luigi Visantini” disse la signora indicando la casa alle loro spalle. “I figli l’hanno portato in casa di riposo e poi non lo so se è morto, ma il gatto è questo, è rimasto qui. Quando li ho visti la settimana scorsa ho detto che io non lo posso tenere in casa. Pensate che mi hanno detto anche grazie che gli do da mangiare. Ma io non so se è possibile… Comunque per me non è un peso, ma il piccoletto qui viveva in casa, vorrebbe stare al comodo, se lo vuoi puoi prenderlo.” 

Ambra si voltò a guardare Celeste con un sorriso aperto sul volto. “Cosa dici? Lo prendi?”

La ragazza osservò il gatto che mangiava con gusto leccandosi i baffi di tanto in tanto. “Ha un nome?”

“Lo chiamava Felice, come il gatto della scatola delle pappe.”

“E se lo cercasse qualcuno?”

La signora scosse la testa. “Sono passati due mesi, e anche freddi. Nessuno lo ha cercato.”

Celeste si inginocchiò e avvicinò una mano a Felice. “Allora mi sa che oggi vieni a casa con me, Felicetto!”

Ambra lanciò un gridolino soffocato per non spaventare il gatto. “Che bello! Adesso sì che andiamo a fare un po’ di shopping interessante!”

Le due ragazze misero il gattone bianco e nero in un cartone bucherellato fornito dalla signora, fecero tappa nel negozio di animali lungo la strada, dove Celeste acquistò al volo tutto ciò che aveva restituito a sua sorella quando si era ripresa Paki.

Insieme lo portarono nella sua nuova casa. 

La vita di Celeste era cambiata, si chiese se quella notte avrebbe dormito, finalmente. Di certo nel suo futuro vedeva meno solitudine: aveva il suo coinquilino e, forse, anche una nuova amica.





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 Fandom: Originale
 Prompt: Sure Grandma, let's get you to bed
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Zia Eleonora.

L’anziana signora si trascinava avanti col deambulatore un passo alla volta in movimenti irregolari e scattosi. 

Il ragazzo la osservava seduto dall’altro lato della strada, all’inizio gli era venuto da ridere, perché si era reso conto che la vecchia stava andando il più veloce possibile, ma la realtà era che gli ricordava una lenta tartaruga. Poi però si era sentito in colpa: poteva avere bisogno di aiuto e lui non era senza cuore.

Filippo si alzò e attraversò la strada. Più si avvicinava a lei, però, più si rendeva conto che la sua impressione era fondata: qualcosa non andava. Iniziò a notare il sudore sulla sua fronte, l’espressione nei suoi occhi, che avrebbe definito terrore puro. Il fiato corto.

“Tutto bene, signora?” Le chiese, mettendosi di fronte a lei.

“No, non è tutto bene.” Gli fece cenno di avvicinarsi e si guardò intorno con circospezione. “Quelli vogliono uccidermi. Vogliono la mia casa.” 

Filippo continuò a guardarla negli occhi, incerto su cosa fare. L’anziana donna aveva una fierezza nello sguardo che a tratti sembrava prendere il sopravvento sulla sua paura. Una parte di lui credeva che la donna fosse pazza, forse inferma di mente, ma il suo istinto gli diceva di crederle.

“Non sono chi dicono di essere. Non farti prendere per il naso anche tu da loro.” Lo stringeva talmente forte che il ragazzo non riusciva a liberarsi. “Via Pasini numero 8. Mi chiamo Eleonora Contini.”

“A- Andiamo alla polizia?” Chiese lui. Ma la donna non fece in tempo a rispondere, perché una coppia di mezza età arrivò alle loro spalle. 

“Mamma? Mamma, cosa ci fai qui, torna a casa, dai!” Disse la donna con tono mellifluo. Aveva lunghe unghie laccate, i capelli raccolti senza eleganza in una coda mezza sformata e abiti semplici, ma decorosi. L’uomo indossava un paio di jeans e una camicia a scacchi. Si mordeva un labbro e lo guardava incerto.

“Aiuto, aiutatemi!” Urlò la signora attirando l’attenzione dei pochi passanti.

Filippo si guardò intorno, incerto su cosa fare. I due sembravano assomigliarle parecchio. “Zia, non preoccuparti, ti accompagno anche io a casa.” La donna si fermò un istante. Sorpresa. “E tu chi saresti? Mia madre non mi ha parlato di te.”

“Sono Serena, la sua prima figlia, mi sto prendendo cura io di lei in questo periodo.” 

Il ragazzo si chiese dove fosse andato a incastrarsi, ma vista la gentilezza con la quale la donna gli stava sorridendo pensò che in fondo non avrebbe corso grossi rischi nell’andare in via Pasini 8 a casa dell’anziana signora a controllare che tutto fosse in ordine.

“Andiamo a casa, zia, ti portiamo a riposare e magari ci beviamo un tè insieme.”

Filippò cercò di ritrovare nella sua memoria il nome e il cognome della signora di cui si stava fingendo il nipote, Eleonora qualcosa… era un bel nome per una donna della sua età, si ritrovò a pensare.

Notò che la coppia restava indietro, lasciando che fosse lui a guidarli verso la casa. 

“Da quanto tempo siete a casa con la zia?” Chiese, cercando di prendere tempo mettendosi al loro fianco. Via Pasini era lì vicino, quello era certo, ma non si ricordava dove di preciso. 

“Solo da due giorni, siamo arrivati perché mio marito ha insistito perché le parlassi di nuovo dopo tutti questi anni di lontananza. Volevo solo passare per salutarla e per dirle che mi dispiace per come è andata, ma ho visto che non sta bene.” Lo prese da parte mentre l’uomo ed Eleonora continuavano lungo la strada. “Da quanto tempo ha problemi di memoria?”

Filippo iniziò a preoccuparsi, la donna gli pareva abbastanza sincera e poteva essere veramente la figlia di quella donna. Invece lui? Che scusa aveva lui per introdursi nella casa di una donna anziana con problemi di demenza senile? Se fossero arrivati altri parenti cosa avrebbero potuto dirgli? L’avrebbero denunciato? Scacciato in malo modo? Preso a pugni? 

D’altro canto, se l’anziana gli aveva detto la verità, significava che era in pericolo… poteva davvero abbandonarla lì inerme quando lei aveva riposto in lui la sua fiducia?

“Da- da un pezzo ormai…” Mentì. “Ha cominciato un paio di anni fa con i primi sintomi, ma io non vado a trovarla spesso a essere sincero.”

La donna gli sorrise, più serena. “Ovvio, tu sei giovane, perché dovresti andare a trovare la zia. Ha anche dei figli, no?”

Filippo approfittò della chiamata che proprio in quel momento stava ricevendo per concentrarsi sul suo smartphone, sperando così di lasciare decadere la domanda. “Un attimo, rispondo e vi seguo.”

Fece qualche passo indietro. “Pronto, Sabrina?” Si rivolse verso la donna indicando il telefono e si allontanò ancora di qualche passo. “Farò un po’ tardi, sono con la mia cara zia Eleonora.”

“La zia che? Mi prendi in giro? Io ti sto aspettando, perché non eri sull’autobus.”

“Non pensavo di passare da lei, ma l’ho trovata in giro per strada e sai com’è… con i suoi problemi di memoria ho pensato di accompagnarla a casa.”

“Che hai bevuto? Stai parlando in codice?”

“Ma no, non è niente! Sai com’è la zia, sto lì giusto per un tè e me ne vado. Comunque sì, hai ragione.” Rise.

“Vuoi che venga da te?”

“No, non la zia che sta vicino alla stazione, lei abita in via Pasini. Sai, vicino alla fermata dove prendo l’otto.”

Filippo osservava la donna con attenzione. Camminava lenta, in silenzio, le orecchie chiaramente tese all’ascolto. Quando sentì il nome della via sembrò rilassarsi e accelerare per un attimo il passo.

“Fil, dimmi se devo chiamare la polizia.” La voce di Sabrina al telefono era allarmata. Se solo avesse potuto, le avrebbe detto di farlo. “Puoi condividermi la posizione?”

“Ecco, questo sì che posso farlo. Stai tranquilla che arrivo presto, ci vediamo a cena, salutami la mamma.” Attaccò e attivò la condivisione della posizione. Scrisse due messaggi nei quali spiegava grossomodo la situazione e raggiunse la signora Eleonora.




Via Pasini 8, dice che pericolo vita.

Help.


Sabrina osservò il telefono incredula e subito decise di chiamare la polizia.  Spiegò la situazione come meglio potè, pregandoli di recarsi all’indirizzo per un controllo.


Li trovarono in casa che bevevano il loro tè. 

Il ragazzo appariva confuso almeno quanto la vecchia signora.


Il giorno seguente i giornali pubblicarono un articolo che descrisse l’accaduto in modo chiaro e conciso:


Giovane eroe salva una donna da tentativo di truffa.


Ieri, lungo una laterale di via Pasini, un ragazzo di diciannove anni ha soccorso un’anziana signora che era riuscita a sfuggire a una coppia di truffatori nota alle forze dell’ordine.

I due malviventi, accusati di furto aggravato e omicidio, in passato hanno estorto ingenti somme in contati a numerose anziane vittime ignare, una delle quali è deceduta a causa delle sostanze a lei somministrate dai due ladri. 

Il loro modus operandi consiste nel fingersi parenti lontani degli anziani che scelgono di truffare e nel farsi aprire le porte delle loro case, per poi incapacitare le vittime attraverso l’uso di medicinali e sostanze stupefacenti.

Il ragazzo afferma di avere visto la donna in difficoltà e di averle offerto il suo aiuto. “Mi è sembrato che sapesse quello che mi stava dicendo, le ho creduto. La coppia intervenuta per riportarla a casa invece era sospetta.”

La signora Eleonora Contini ha deciso di ringraziare pubblicamente il giovane F. P. e di donargli un premio per la sua prontezza di spirito, grazie alla quale la signora si è ora ripresa completamente.



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Il giorno della partenza - Originale - 200
Un addio - Originale - 100
Il nido - Originale - 100
Memoria condivisa - Originale - 100
Bobby - Originale - 200
L'isola felice - Originale - 100

Prompt, per tutte, VIAGGIO
Partecipano al COWT 14


Il giorno della partenza

Erica cercò il telefono con la mano, cercando di interrompere il suono fastidioso della sveglia. Sbadigliò: come faceva a essere già ora?

Non era abituata ad alzarsi presto, ma quella mattina sarebbero dovuti partire per il viaggio che tanto avevano atteso.

Il telefono suonò di nuovo. Erica era confusa: perché la stavano chiamando? Poi vide l'ora e si alzò di scatto: non si era svegliata.

Saltò nella doccia a tempo di record e si lanciò sotto l'acqua gelida. Poco importava, l'importante era muoversi. Si lavò i denti mentre raccoglieva le poche cose che doveva ancora chiudere in valigia.

Di nuovo lo squillo insistente. "Pronto?" Il tono infastidito.

"Ma perché non rispondevi? Mi hai fatto preoccupare! Siamo da te tra cinque minuti, scendi!"

"Che poca fiducia, adesso scendo." Agganciò e sorrise. Facevano bene ad avere poca fiducia in lei, se non l'avessero chiamata a ripetizione probabilmente avrebbe perso l'aereo.

Infilò le scarpe e chiuse la valigia. Era probabile che avesse dimenticato qualcosa, visto che l'ultimo controllo che avrebbe fatto quella mattina ovviamente era saltato.

Scese in strada ad aspettare la macchina dei suoi amici. Forse si sarebbe lamentata: erano in ritardo di ben due minuti.



Un Addio

Era partito per il suo viaggio portando una piccola valigia, sarebbe stato via solo pochi giorni.

Aveva sempre considerato il mare un luogo in cui perdere i pensieri, ed era proprio ciò di cui Luca aveva bisogno.

Non c'era un'anima in vista. Con la giacca a vento, si sedette sulla sabbia umida del mattino invernale. Prese una manciata di sabbia e se la fece scivolare tra le dita, sperando che si portasse via un po' del suo dolore.

Pensò a come il tempo modificasse ogni cosa. Ce ne sarebbe voluto, ma un giorno avrebbe accettato la tua morte.




Il nido

Angela osservò le rondini volare nel nido, chiedendosi quanto mancasse alla loro partenza.

Pensare che la prima volta che avevano scelto la sua casa come nido lei si era arrabbiata. "Sporcano, se ne devono andare," aveva pensato. Ma poi le aveva osservate. La loro pazienza, la cura nella costruzione della piccola casa che le avrebbe ospitate. Da allora erano tornate ogni anno, al punto che ormai le considerava delle coinquiline. Le osservava, aveva messo in giardino a loro disposizione un abbeveratoio e del cibo.

Sentì il richiamo e le guardò spiccare il volo. "Buon viaggio, amiche mie, alla prossima primavera."



Memoria condivisa

Le ruote scivolavano veloci sulla ghiaia. Con lo zaino carico sulle spalle, Paolo avrebbe seguito il percorso e visitato tutte le tappe che indicava. Non aveva mai viaggiato in bicicletta prima.

Dopo venti chilometri si fermò e scese a prendere fiato, stanco e già dolorante. Non era molto in forma, era vero, ma aveva tutto il tempo per visitare le tappe senza fretta, perché si era ripromesso che quello sarebbe stato un viaggio lento, in memoria del suo caro fratello che l’anno prima aveva percorso quelle stesse strade. Per lui era un modo per ricordarlo, una chiusura, un addio.




Bobby

Bobby aveva aspettato il suo umano per tutto il pomeriggio. All'inizio scodinzolava al pensiero che sarebbe tornato a prenderlo, ma col passare delle ore aveva iniziato a pensare che forse qualcosa lo stesse tenendo distante da lui.

La casa in cui l'aveva lasciato gli era sconosciuta, ma le persone al suo interno lo continuavano a chiamare per nome mentre lui guardava la strada, sconsolato. Gli portavano il suo cibo preferito, ma lui non aveva appetito.

Bobby non aveva il concetto del passare dei giorni, main ogni momento di veglia teneva le orecchie tese, nella speranza di sentirlo.

Quando udì l'automobile che conosceva ormai così bene, sentì l'emozione crescere con una forza dirompente. Abbaiò fino a quando l'uomo che in quei giorni l'aveva nutrito non arrivò a liberarlo.

Il suo umano era di fronte a lui a braccia aperte. "Bobby! Come è stata la tua vacanza?" Lo chiamò. Il cane corse come il vento.

"Grazie per averlo tenuto, il viaggio è stato fantastico, ti racconterò. Bobby però mi è mancato tantissimo." Disse arruffandogli il pelo sul collo.

Il cane salutò gli umani che l'avevano ospitato e saltò nell'auto.

Non era stato abbandonato, sarebbe tornato a casa.



L'isola Felice

Anna diceva a tutti che amava viaggiare. Era convinta che questo la rendesse una persona interessante. Le dava anche parecchi spunti di conversazione a cui aggrapparsi quando si parlava del più e del meno.

La realtà era che preferiva starsene a casa sua, magari distesa sul divano con un pacchetto di snack a guardare serie TV intere senza dover pensare al lavoro o ad altri impegni sociali.

Quell'estate aveva deciso di non partire e aveva raccontato a tutti di quanto le dispiacesse dover rinunciare a causa di alcuni impegni che non aveva precisato.

Finalmente, pensò, posso starmene a casa.


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Fandom: Originale
Genere: fantasy, avventura, leggenda
Prompt: Il fuoco sacro
Partecipa al COWT 14

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.
Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.


Amtra e il Fuoco Sacro




Il Fuoco Sacro è situato nel grande tempio e arde dal giorno stesso in cui la città fu fondata dalla regina Amtra, che dà il proprio nome alla città, dopo che essa, una guaritrice, aveva salvato Orit, il Dio del Fuoco, da morte certa. 

La regina, mentre raccoglieva erbe sulla riva, aveva trovato quello che le era parso un uomo qualunque sulla sponda del fiume Parni, che attraversa la città snodandosi tra le vie in curve modellate dal tempo e dalla corrente.

Orit giaceva a terra: una freccia gli trapassava una spalla, altre gli trafiggevano la pancia e una gamba. Ella si era precipitata da lui e l'aveva soccorso come meglio aveva potuto, lavando le sue ferite al fiume e recitando le sue preghiere di guarigione, invocando gli dei perché concedessero la salvezza allo sconosciuto che aveva trovato a pochi passi dalla sua piccola capanna.

All'epoca essa non era infatti una regina, ma una reietta: una maga dagli occhi viola, considerata dagli abitanti del villaggio niente più di un cattivo presagio.

La donna portò il Dio alla guarigione e insieme essi fondarono la città, che da allora è benedetta dalla fiamma azzurra.






La città di Amtra era famosa nel regno di Ralonir per il Fuoco Sacro che bruciava nel tempio. Il giovane Elan era già stato in visita alla capitale, ma non si era mai recato al tempio prima di allora.

Quel giorno avrebbe iniziato il percorso di preparazione per diventare un protettore del tempio, finalmente avrebbe potuto ricevere le conoscenze in combattimento e in ogni altro ambito del sapere tramandate nel corso dei secoli dai Saggi e conoscere l’intera leggenda della città raccontata dal Sommo Templare in persona. Ciò che più desiderava, però, era avere l’occasione di fare la sua domanda al Fuoco Sacro, che gli avrebbe rivelato il suo destino. Tutto ciò che doveva fare era dichiarare che avrebbe protetto la fiamma azzurra a qualsiasi costo, anche se ciò avesse messo a rischio la sua stessa vita.

Il ragazzo attendeva con trepidazione di conoscere ciò che gli riservava il suo percorso di protettore del tempio e della fiamma sacra.

Era partito dal suo villaggio di prima mattina e per raggiungere Amtra si era aggregato a un carro di mercanti diretto lì vicino. Era arrivato nei pressi della porta est in anticipo. Era sceso dal carro e aveva percorso a piedi l’ultimo tratto di strada battuta che portava alla città attraversando i campi di grano. 

Prima ancora di varcare la porta di accesso ad Amtra, osservò alta nel cielo la fiamma azzurra che brillava alta sopra il tempio, convogliata lassù dall'alto camino di cemento costruito secoli prima dagli adoratori della fiamma sacra. Tra i visitatori, in molti vagavano tra le vie col naso all’insù, come ipnotizzati dal colore vivace della fiamma, simile a quello del cielo limpido del mattino, e dall’alone brillante che lasciava giorno e notte nel suo riverbero. Come un piccolo sole azzurro.


Al suo ingresso in città, Elan fu accolto da un’aria di festa: gli abitanti camminavano indaffarati lungo le strade impegnati a radunarsi in festa e a finire di appendere gli allegri festoni colorati alle pareti della case sulla via principale.

I tre carri che avrebbero accolto le nuove reclute attendevano parcheggiati sulle piazzette. Per l’occasione erano stati lavati e agghindati con lo stemma della fiamma azzurra e con comode sedute imbottite, le reclute avrebbero presto preso posto al loro interno, così da dare il via alla cerimonia di adunata.

Elan raggiunse il carro che gli era stato assegnato e si accomodò all’interno. Al suo fianco sedeva una ragazza coi capelli scuri legati in una treccia che stava scrivendo qualcosa in un taccuino. “Anche tu nella guardia?” Le aveva chiesto, amichevole.

“Che motivo avrei di essere qui, altrimenti?” Non aveva neanche alzato gli occhi, né fermato la sua penna rossa, che continuava a formare curve sul foglio.

“Giusto, domanda sciocca. Lo so che questo è il carro per i protettori.” Di fronte al suo silenzio Elan, imbarazzato, aveva abbassato lo sguardo sui sandali di pelle intrecciata che gli coprivano i piedi, era rimasto in silenzio a chiedersi perché non fosse mai in grado di stare in silenzio di fronte agli sconosciuti.

“Mi chiamo Shur, vengo dal nord.” La ragazza aveva alzato lo sguardo su di lui e gli sorrideva amichevolmente..

“Io sono Elan, molto piacere!”  Era vestita con una tunica di colore chiaro, il taglio era molto semplice, ma era elegante nei dettagli. Non era in grado di riconoscere il tessuto, ma immaginava fosse di pregio, lo si capiva dalle decorazioni a rilievo sul colletto quadrato e rigido e sulle maniche che arrivavano a metà del braccio. Calzava un paio di scarpe di cuoio di fattura elegante, che parevano comode e pratiche.

Gli occhi della ragazza erano di un viola acceso, segno che aveva dei poteri magici.

Elan avrebbe desiderato chiederle quali fossero, se si fossero già manifestati, ma immaginò che sarebbe stato inaccettabile da parte sua fare domande così private a qualcuno del suo rango, al punto che rimase a fissarla a bocca aperta come uno sciocco campagnolo, non abituato a vedere gli occhi viola dei maghi di Ralonir.

“Sono una guaritrice.” gli disse, rispondendo alla sua silente domanda. “Almeno per ora il mio potere si limita a questo. Sono qui per aiutare i Templari con un supporto protettivo, dovesse servire.” Strizzò un occhio, sorridendo.

Il ragazzo si rilassò nel constatare che la prima maga a cui aveva rivolto la parola non l’avesse trattato come un poveraccio.

“Sai leggere?” Gli chiese.

Lui scosse la testa e rispose con amarezza. “Sono andato a scuola e ho imparato un po’, ma non ho mai avuto occasione di allenarmi. Noi a casa non abbiamo libri.”

“Peccato, se vuoi fare carriera nei Templari devi studiare molto, sempre che tu voglia fare carriera. Spero tu decida di partecipare ai corsi di lettura, oltre che a quelli di combattimento. A che sezione vuoi unirti?”

Elan sospirò, pensando alle vicissitudini che l’avevano portato su quel carro. “Non ho una preferenza. La mia famiglia mi fatto scegliere se continuare a lavorare con loro alla fattoria o se partire, io ho deciso di provare a studiare al Tempio, per trovare la mia strada. Spero di riuscire a proteggerlo e di conoscere la vera storia del Fuoco Sacro.”

Shur osservò con sospetto l’accesso al carro, su cui fino a quel momento erano saliti solo loro. Gli si avvicinò e sussurrò: “Non dire in giro che vuoi la verità, in realtà credo non la conosca più quasi nessuno.” Lo sguardo di lei era serio e preoccupato, Elan si chiese cosa lei intendesse dire, ma tenne per sé la sua domanda, anche perché proprio in quel momento altre due reclute salirono sul carro e si sedettero sul lato opposto rispetto al loro.

Shur cambiò espressione e assunse un tono spensierato. "Quindi vorresti anche studiare, è saggio da parte tua. Credo sia importante imparare a conoscere la storia della nostra capitale.” Un sospiro. “Io invece sono qui perché non ho avuto scelta. Quando il potere si è manifestato mi hanno subito aggiunta alla lista. Non trovo niente di romantico o di interessante nel combattimento, ma il mio è un ruolo di vera protezione. Riconosco che i guaritori siano necessari in caso di attacco e che la città e il tempio debbano tentare di difendere se stessi e i cittadini di Amtra con ogni mezzo possibile.”

Uno dei ragazzi appena saliti rise. “Ma state tranquilli, non accadrà nulla! Non ci sono guerre da anni!”

“Vero,” convenne Shur, “Ma non usare il passato come esempio per il futuro, non è mai stato saggio farlo. Se anche non vediamo una guerra da molto, questo non significa che non ce ne saranno presto.”

Elan ebbe l’impressione che la maga sapesse qualcosa che stava tenendo nascosto, lo capì dallo sguardo infuriato che aveva rivolto al nuovo arrivato e dal nervosismo con cui aveva risposto alla sua osservazione, che per quanto fosse sciocca e immatura, non gli era parsa così grave. Shur si era quindi rimessa a scrivere i suoi appunti.

Ci volle un’ora perché tutte le reclute destinate al carro arrivassero e prendessero posto. Il mezzo partì e si avviò lentamente per il giro trionfale della città appena il rullo dei tamburi annunciò l’inizio della cerimonia di benvenuto per le reclute. La popolazione radunata fuori dalle case cantava il suo buon augurio ai futuri Templari, in molti battevano le mani e agitavano tessuti azzurri come il vessillo della città. I carri percorrevano lenti le vie di Amtra e gli abitanti depositavano sulle ceste appese intorno a essi le loro offerte per il tempio.

La città vista dal carro gli parve più piccola di come se la ricordava: le strade erano strette e tortuose, il passare del tempo si poteva notare su alcune delle case, che presentavano finestre rotte o la necessità di qualche lavoro, alcune erano state sistemate in modo precario, altre semplicemente chiuse con assi di legno inchiodate.

Un contrasto immenso con il tempio, le cui mura esterne di pietra bianca, lucidata e curata al punto da risultare quasi brillante. Tutto attorno alla porta principale, scene scolpite nel marmo bianco raccontavano la fondazione della città e la leggenda del Fuoco Sacro.

La grande porta di legno che portava al tempio si aprì davanti al carro per rivelare il grande giardino interno, adornato con alberi rigogliosi e fiori dai colori tenui, e la struttura principale: il tempio del Fuoco Sacro, la cui fiamma alta era visibile fino a fuori della città e attorniata da tutti gli altri piccoli edifici che costituivano il complesso del tempio: il palazzo dei Templari, la casa dei saggi del tempio e l’armeria, dove avevano sede anche la grande biblioteca e le sale d'insegnamento.

I tre carri entrarono uno dopo l’altro e tutte le reclute scesero, alcune emozionate, altre nervose, altre ancora indifferenti all’accoglienza.

I nuovi arrivati vennero subito divisi nei ranghi iniziali: Shur si sedette su una panca insieme all’unico altro mago presente e a un nobile, mentre gli altri tredici ragazzi furono lasciati in piedi, in fila per essere identificati e portati alle loro stanze.

Elan aveva sempre creduto che le reclute fossero centinaia ogni anno, vedere che invece il numero era così basso lo aveva confuso: forse vista l’assenza di guerre degli ultimi decenni non c’era necessità di nuovi Templari?

In quel momento però a occupare tutti i suoi pensieri c’era la grande fiamma azzurra: il Fuoco Sacro che bruciava in alto, in cima al camino lungo e affusolato del tempio. Elan immaginò il momento in cui sarebbe entrato all'interno e avrebbe finalmente potuto vedere dal vivo il Fuoco Sacro nel punto in cui si era originato. Una fiamma potente e magica, che ardeva da centinaia di anni senza necessità di legna, né olio.

Si chiese quale domanda avrebbe potuto rivolgerli. Se gli avrebbe rivelato il suo destino, come gli avevano detto i due saggi che erano andati a trovarlo a casa dopo che il ragazzo aveva presentato la domanda per entrare nella guardia del tempio.


Ricordava come fossero passate solo poche ore la coppia di uomini rugosi che avevano bussato alla porta. Elan era appena tornato dal campo insieme a sua madre, che aveva aperto con indosso ancora gli abiti sporchi di fango per il duro lavoro. “Stiamo cercando il signor Elan, della famiglia Luneis.”

Sua madre l’aveva indicato e si era congedata per preparare una bevanda calda e del cibo per i saggi, Elan li aveva fatti accomodare all’unico tavolo dell’umile casa della sua famiglia, sperando che portassero buone notizie.

“Siamo venuti a conoscere uno dei nostri potenziali Templari, l’unico che arriva da questa zona di campagna a est della capitale.” Il ragazzo ricordò di avere pensato che fosse strano che lui fosse l'unico in quella zona, ricca di piccoli villaggi in cui il culto del Fuoco Sacro era radicato, ma non aveva fatto domande, pensando che forse dipendesse dall'annata. Poco male, pensò, vorrà dire che sarò seguito meglio.

I due uomini avevano accettato quanto offerto dalla famiglia e gli avevano sottoposto un questionario piuttosto generico sulle motivazioni che l'avevano spinto a decidere di entrare nella guardia dei Templari.

"Per proteggere il Fuoco Sacro." Aveva ammesso, consapevole che era ciò che si aspettavano.

"E tu sai come è nata la fiamma azzurra, presumo." Gli aveva chiesto l'uomo più anziano con uno sguardo supponente. Elan conosceva la leggenda e, anche se non credeva che fosse legata alla realtà, aveva annuito convinto. I due, dopo il pasto, gli avevano lasciato una pergamena nella quale erano indicati il giorno e il luogo preciso in cui si sarebbe dovuto recare il giorno dell'arrivo delle reclute a Amtra. Quando chiuse la porta, Elan ripensò alla leggenda così come, ancora bambino, l'aveva sentita raccontare dal Saggio del villaggio.




Il Dio Orit si svegliò dal suo lungo sonno e vide la donna che dormiva sul pavimento al suo fianco. Tentò di sollevarsi, ma i bendaggi stretti attorno alla sua spalla glielo resero impossibile.

La donna nel sentirlo si sollevò di soprassalto. "Siete sveglio! Le mie preghiere hanno funzionato!"

Quando Amtra posò la sua mano tiepida silla fronte del Dio, egli vide le sue giornate, la fatica con cui l'aveva trascinato fino alla sua capanna, il pudore con cui aveva lavato le sue vesti e medicato le sue ferite per tre giorni interi prima che lui si risvegliasse.

In ogni momento, durante quelle giornate, era rimasta a vegliare su di lui, ripulendo le sue ferite, medicando il suo corpo e cantando i suoi incantesimi.

"Come ti chiami? Chi è stato a ferirti?"

"Sono un mercante, vengo da una città oltre il mare a sud. Alcuni briganti mi hanno aggredito e… sono stato derubato." Mentì.

La ascoltò mentre lei gli illustrava la gravità delle ferite che presentava: "Le frecce che vi hanno colpito erano avvelenate. Non sono stata in grado di riconoscere il veleno, ma l'ho visto nel vostro corpo e nel vostro sangue. Ho tentato di purificarlo con erbe e incanti, ma visto che continuavate a dormire temevo di non essere riuscita nel mio intento. Spero che quanto ho compiuto vi permetta di rimettervi in forze e di tornare in salute, anche se… non sono sicura che le ferite potranno guarire del tutto."

Orit provò un immenso senso di gratitudine per lei, ma anche se si fidava della donna aveva continuato a tenere segreta la sua vera natura. Quando lei gli aveva detto che si sarebbe recata alla città per vendere le uova delle sue galline e acquistare della farina, l'aveva pregata di non fare parola della sua presenza e del fatto che lui fosse ancora in vita. “Non voglio che i briganti si vendichino proprio di colei che mi ha restituito la possibilità di vivere.”

Amtra aveva continuato a prendersi cura di lui senza fargli altre domande. Il Dio Orit si stava riprendendo molto più in fretta di quanto avrebbe fatto un essere umano: nel giro di pochi giorni aveva iniziato ad alzarsi dal letto per aiutarla nel portare in casa la legna.

Per quanto la donna lo avesse pregato di riposarsi e di non fare fatica, Orit non l'aveva ascoltata, conscio del fatto che il suo corpo divino era già di nuovo forte e sarebbe di certo guarito del tutto. 

Nelle sere che avevano passato insieme le aveva raccontato una storia sul suo passato da mercante di stoffe, di come desiderasse aspettare prima di tornare a casa per essere sicuro di non imbattersi di nuovo in coloro che avevano attentato alla sua vita. Le aveva detto di chiamarsi Oreste e le aveva descritto il carro trainato dal cavallo pezzato che gli era stato rubato dai suoi attentatori. Menzogne ideate sulla base di uomini che il Dio aveva incontrato in passato, comode per rendere la sua immedesimazione in un essere umano più realistica.

Orit aveva imparato a conoscere la donna e si era rattristato quando ne aveva percepito l'immensa solitudine. 

Nonostante lei si sentisse abbandonata e debole, i suoi occhi viola ne indicavano la potenza. "Ti hanno allontanata perché non ti capiscono, temono ciò che va oltre le loro deboli menti."

"Forse hai ragione, ma le cose non cambieranno mai: la mia stirpe è destinata all'alienazione."

Il Dio non riusciva a comprendere gli esseri umani e la loro cecità di fronte a chi avrebbe potuto guidarli. La forza di individui come Amtra avrebbe potuto essere una risorsa, una grande ricchezza per il popolo di Ralonir, invece veniva percepita con paura e gli individui unici come lei venivano abbandonati in una sorta di esilio, proprio come era accaduto alla sua salvatrice.

Orit non era a conoscenza del mandante del proprio tentato deicidio. Sapeva che chiunque avesse tentato di ucciderlo l'aveva fatto sapendo chi fosse il destinatario delle frecce avvelenate.

"Le tue ferite stanno guarendo molto velocemente."

"Per merito tuo, mia cara salvatrice." Aveva percepito il dubbio nel tono di voce della donna, che aveva continuato a comportarsi con lui come aveva sempre fatto, senza mettere in discussione le sue parole.

Orit era rimasto con lei anche quando era completamente guarito. Prima di allora non aveva mai avuto interesse nelle condizioni del popolo degli umani, che aveva sempre considerato ignoranti e incapaci di prendere decisioni sensate. Con lei aveva conosciuto un aspetto dell'umanità che non immaginava potesse esistere: la gentilezza e il desiderio incondizionato di aiutare, anche uno sconosciuto come lui. Sapeva di non avere un aspetto raccomandabile: era alto, possente, con una folta barba scura e capelli corvini.

Il Dio aveva trovato nella donna un'amica e si abbandonava a intense conversazioni sui suoi pensieri sulla vita, sulla morte, sui poteri che le avevano segnato l'esistenza e sugli dei.

"Gli dei non sono poi così diversi dagli uomini: sono egoisti e fanno i loro interessi a scapito del fatto che potrebbero concederci una vita migliore, se solo agissero al nostro fianco e non si combattessero tra loro."

Orit fu costretto a trovarsi in accordo con lei su questo. Si era sempre occupato di se stesso, di divertirsi, di avere i favori degli uomini e di farsi adorare. Si sentiva cambiato, messo in discussione dal veleno che lo aveva reso vulnerabile come mai prima di allora.

Rendendosi conto di non essere immortale aveva abbracciato la sua parte meno divina.

Desiderava stare vicino ad Amtra molto più di quanto volesse tornare tra gli infidi e inviDiosi dei. In lei trovò una confidente saggia, una donna forte e coraggiosa, abituata a combattere.

Le chiese di restare insieme a lei.

I due iniziarono a vivere come sposi e stettero insieme per alcuni mesi, fino a quando Orit non decise che era tempo di trovare chi aveva attentato alla sua vita.

L'inverno era alle porte e la coppia aveva necessità di reperire sempre più risorse per vivere in modo sicuro e sereno la stagione fredda.

"Devo partire, ma tornerò presto," le promise un giorno il Dio del Fuoco. "Hai la mia parola."

"Dove devi andare?"

"È necessario che io mi occupi di miei attentatori, devo scoprire chi erano e quali motivazioni avevano."

La donna lo capiva. "Buon viaggio e buona fortuna." Gli augurò. "Pregherò per te in ogni momento di veglia."

Orit partì. Appena si lasciò alle spalle il capanno di Amtra, sentì la rabbia iniziare a crescergli dentro. Una sensazione che per qualche ragione in presenza della donna era riuscito a non provare per tutto quel tempo. Aveva un punto di partenza chiaro e definito. In principio chiese a Irna, la dea dell'acqua, se l'acqua del fiume avesse visto chi l'avesse colpito, ma non ricevetter risposta alcuna. Poi si recò da Lada, la dea del bosco sua amica da secoli, la quale riconobbe il suo veleno. "Questi sono gli alberi da cui si ricava. Le frecce avvelenate vengono ricavate dai suoi rami, mentre il veleno viene raccolto dalle sue radici, che vengono fatte bruciare e bruciare fino alla polvere. Si impregna la resina con la polvere e infine se ne cospargono le frecce. Sono in pochi a conoscere questo veleno. Ma credo di sapere chi ti ha colpito."

Lada si rifutò di preparare il veleno, ma decise di assistere Orit nella sua preparazione. Il Dio non utilizzò frecce, ma la sua ascia umana, l'arma che gli aveva donato Amtra per fare legna nel bosco.

Si sentiva un traditore nel prendere un oggetto di difesa e nel farne un'arma di offesa, ma non aveva scelta, perché era certo che se l'attentatore era chi lui e Lada credevano, non si sarebbe fermato una volta che avesse capito che il Dio era vivo.

L'uccisore di dei era un uomo. Uno dei signori della terra di Ralonir, donata proprio dagli stessi dei che ora lui cercava di uccidere. Orit si recò alla corte dell'uomo e offrì il suo servizio come taglialegna, come falegname. Con la sua ascia avvelenata fabbricò per il nobile ogni tipo di mobilia, entrò nelle sue camere e verniciò il suo letto. Conobbe sua moglie e le fabbricò uno specchio. La furia nel suo cuore era sempre più feroce, al punto che il Dio del Fuoco si sentiva ardere in modo così forte da non riuscire quasi a fermare le sue mani, che desideravano solo il sangue.

Aveva però promesso a Lada e, soprattutto, alla sua Amtra che lui avrebbe ucciso solo chi si era macchiato a sua volta di un delitto. Immaginò la sua cara moglie umana e i suoi occhi viola, sentì la sua voce lontana che lo avvolgeva in un canto di protezione che gli arrivava fino a laggiù, lontano chilometri da lei.

Era un Dio, ma si era nascosto come un umano qualunque. Aveva smesso le sue vesti pregiate per indossare lana di pecora e cotone ricavato dai fiori che crescevano nei campi. Non mangiava più ogni giorno leccornie degne del suo rango nel palazzo dove un tempo aveva vissuto. Sapeva che doveva avere pazienza. Infine fu ripagato per la sua perseveranza.

Il Dio Madunai arrivò al palazzo all'improvviso, discese dal cielo in una scia di polvere e fiamme rosse. Egli era il cugino di Orit, nonché il secondo tra gli dei del Fuoco.

Madunai consegnò al nobile beni di ogni tipo e prese la parola.

"Vi prego, oh popolo, di accogliere con gioia il vostro signore, e di prestare a lui fedeltà. Egli è protetto dal Dio Madunai, il primo tra gli dei del Fuoco. Mi ha dato prova della sua fedeltà e io lo ripago con la pace e la mia protezione."

Madunai accese una fiamma nella sua mano destra e con essa accese un bastone. "Fintanto che questo bastone brucerà, disse, io proteggerò questa città."

Orit restò in ombra, sperando che suo cugino non lo riconoscesse. A un tratto il Dio guardò in sua direzione, ma passò oltre il suo volto in cerca di altri fedeli da rendere devoti al suo nome.

Come è cieco alla realtà, si disse il Dio, proprio come lo ero io. Ma mai mi sarei sognato di uccidere uno di noi, mai mi sarei macchiato di sangue divino.

Orit faticava a contenere la rabbia. Si continuava a concentrare su Amtra per mantenere la calma. Avrebbe aspettato la notte per ottenere infine la sua dolce vendetta.


Madunai amava i banchetti, il vino, le donne umane e l'adulazione. Quella sera al palazzo nobiliare ebbe tutto ciò che desiderava. Era da mesi ormai che aveva realizzato il suo più grande desiderio: era diventato davvero il primo tra gli dei del Fuoco. Quando aveva proposto al ricco e sciocco nobile doni in cambio della vita di suo cugino, si era stupito che l'essere umano avesse accettato. Gli aveva spiegato per filo e per segno come causare la morte di Orit e l'uomo aveva preso appunti come uno scolaretto che impara a far di conto.

Essere secondo era una sensazione terribile, ogni volta che veniva presentato come "secondo dopo Orit" provava il desiderio di incenerire tutto ciò che lo circondava senza permettere la fuga.

Le cose però erano cambiate, finalmente.

Entrò nella stanza che gli era stata riservata e sbatté la porta dietro di sé. Era solo. Aveva lasciato i lacchè e le donne nella sala principale. Aveva bevuto parecchio anche per un Dio, al punto che desiderava soltanto riposare gli occhi.

Si tolse la giacca di lino e seta e slacciò i pantaloni coordinati. Le decorazioni tessute con filo d'oro brillavano alla debole luce della luna che entrava dalla finestra.

Madunai si stese sul letto e iniziò a ridere. Si sentiva inebriato di potere. Aveva finto di essere preoccupato per il suo futuro mentre se ne stava in alto nel suo palazzo insieme agli altri dei, ora non gli restava che godersi i frutti della sua opera, orchestrata con saggezza. Aveva persino dovuto uccidere gli altri due deucoli prima di Orit, ma erano soltanto vittime collaterali. Avrebbe tanto voluto dire loro che erano defunti solo perché a nessuno importava veramente di loro e di trovare i loro assassini.

Poi vide una sorta di lampo. Il dolore alla pancia lo colse di sorpresa. Ancora inebriato dalla serata, con una mano illuminò la stanza. Di fronte a lui: un fantasma.

Cercò di alzarsi, ma l'ascia piantata nelle sue viscere gli aveva reciso i muscoli.

"Resta pure fermo, sciocco Dio vanitoso."

"O- Orit, cosa ci fai qui? Te... Temevo fossi morto." La sua voce era già debole.

"Lascia perdere. Non ho pagato per un biglietto a teatro, ma per vedere la morte di un traditore."

"Tu, non hai prove."

Orit rise. "Prove? Le prove sono nell'altra stanza, quel nobile ha di certo già confessato tutto."

"Come...?"

"Lada, lei ti aveva insegnato a creare il veleno, vero?"

Madunai, la bocca piena di sangue, si era messo a ridere. "Credo di essere ubriaco."

"Una fine da vero Dio in declino. Non preoccuparti, il veleno farà effetto in fretta."



Orit osservò la vita abbandonare quello che un tempo era stato il suo protetto: il cugino a cui aveva insegnato a controllare le fiamme. Giovane, ambizioso, travolto dal suo desiderio di essere glorificato. Orit non ne sentiva più il bisogno.

Si alzò e attese che la delegazione entrasse nella stanza. Era stato lui a convocarli per raccogliere le testimonianze degli assassini. Tutti avevano confermato.

"Ora puoi tornare da noi." Gli aveva proposto Lada. "Sempre che tu non decida di restare per un po'." La dea aveva sorriso. Era l'unica che forse avrebbe potuto comprendere o condividere il suo desiderio di passare il tempo con gli umani. Lei passava quasi tutto il suo tempo sulla terra, in compagnia di ninfe, animali e umani abitanti dei boschi. Li proteggeva, li osservava e ne guidava il cammino. Fino a poco tempo pima Orit non la capiva, ma le cose erano cambiate.

Era mattina quando in una scia di Fuoco il Dio Orit si presentò alla capanna di Amtra, libero dal fardello della vendetta, pronto infine a svelarle chi fosse in realtà.



Elan era stato messo nella stessa stanza di un altro novellino di nome Arth, che aveva sempre vissuto ad Amtra. Aveva appreso che tutte le idee che si era fatto sui Templari erano state romanzate da anni di propaganda, in quanto in realtà l'Ordine militare non era che un piccolissimo gruppo di soldati che in caso di attacco avrebbe faticato a difendere anche solo la città.

Nonostante le sue aspettative fossero state disattese, aveva preso sul serio il suo impegno nello stuDio delle tecniche di combattimento insieme alle altre reclute e si impegnava anche a studiare in biblioteca ogni volta che ne aveva l'occasione. Shur era diventata per lui una guida nella comprensione dei volumi più complicati e spesso la cercava di sera, il libro carico di segnalibri: uno per ciascuna delle domande che le avrebbe rivolto, lei gli rispondeva sempre con serenità, ammettendo ciò che non sapeva e dimostrando una grandissima conoscenza.

I Maghi al tempio erano solamente cinque: Shur e Agi erano gli unici tra le reclute, vi era poi un uomo di mezza età e due anziani, ormai troppo persino per insegnare ai giovani, che passavano quasi tutto il loro tempo a viaggiare senza meta tra le terre del regno.

"Ormai non ci sono più molti maghi," gli aveva rivelato Shur. "Agi è l'unico della mia età che io abbia mai incontrato." Da come ne parlava, Elan aveva capito che la sua amica non si fidava molto del ragazzo, condividendo la sua stessa impressione.

I suoi poteri erano offensivi lui li usava senza neanche provare a contenerli, al punto che durante un combattimento di prova il mago aveva ferito una delle reclute, causandogli una ustione sul braccio col quale stava tenendo la spada.


Mancavano pochi giorni alla conclusione della prima parte dell’addestramento: presto sarebbero potuti entrare nel tempio e infine avrebbero avuto la possibilità di fare la loro domanda al Fuoco Sacro.

“Tu sai già cosa chiedere?” 

Shur scosse la testa. “Forse, ho un paio di domande in mente, ma non riesco proprio a decidermi… Tu invece?”

“Credo che improvviserò, non sono mai stato bravo a fare programmi, ogni volta che ci provo vanno a finire male.”





Shur era preoccupata. Gli addestramenti stavano andando per le lunghe e non era ancora riuscita a fare la sua domanda al Fuoco Sacro. Si era chiesta tante volte se tentare di entrare di nascosto nella sala della fiamma per accelerare i tempi, ma sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Era riuscita a tenere nascosti i suoi poteri offensivi e non poteva ancora scoprirsi. 

Sapeva che a tutti era consentita una sola domanda e lei in questo non era diversa dalle altre reclute. Conosceva già il quesito che avrebbe posto, era stato deciso nel momento stesso in cui la ragazza era nata. 

La sua missione era una sola ed era molto importante che lei la realizzasse il prima possibile: per la salvezza di Amtra e per il volere del Dio Orit, doveva spegnere il Fuoco Sacro.



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