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400 parole:
Fandom: Harry Potter
Slice of life
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Forse la magia esiste davvero


Harry posò lo straccio e osservò la cucina splendente dei Dursley orgoglioso. Sognante, pensò a quanto la sua vita sarebbe stata diversa se solo fosse stato possibile usare la magia, magari anche solo per pulire le case.
Scosse la testa, ritornando alla cruda realtà, poi prese il suo libro dallo scaffale dove zia Petunia l’aveva lasciato con la minaccia di farlo sparire se non avesse finito di pulire prima di ricacciare il naso su quelle pagine ingiallite.
Storie di maghi che lo allontanavano dalla realtà e che gli zii per qualche motivano odiavano in modo esagerato. Harry sapeva che invece non erano niente di importante. Leggere La spada nella roccia o Il mago di Oz non gli avrebbe permesso di cambiare la sua vita, ma lo faceva sentire meglio. Sognava che la casa dei Dursley fosse rapita da un tornado e portata in un mondo magico nel quale lui sarebbe stato in grado di cambiare le sorti del mondo. Erano solo sogni e non avevano niente a che fare con la realtà.
Mentre si dirigeva verso la sua camera, se così poteva chiamare il suo letto nel sottoscala, Harry ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse guardando. Si avvicinò alla finestra del soggiorno nel buio della sera. Sapeva che non erano i Dursley, erano usciti per un gelato e non c’era ancora traccia dell’automobile. Scostò la tenda e vide solo un gatto grigio tigrato che sembrava osservare proprio lui. D’istinto, Harry aprì la finestra e chiamò il gatto allungando la mano, porgendogli uno dei due biscotti che gli erano stati dati dalla zia. L’animale zampettò sicuro verso di lui.
“Ciao,” gli disse allungando la mano per accarezzarlo. “Sai, potremmo diventare amici se solo io potessi tenere un gatto. Purtroppo però non me lo permetterebbero mai.” Il felino miagolò e si strusciò sulla sua guancia destra. Poi gli mise una zampa sulla mano in un gesto che a Harry sembrò quasi consolatorio. Per un attimo incrociò lo sguardo col gatto, occhi severi e amorevoli. I fari dell’automobile apparvero in lontananza e l’animale corse via. Il bambino chiuse la finestra proprio quando l’auto dei Dursley imboccò il vialetto di casa.
Sospirò, pensando che preferiva non incontrarli. Mentre chiudeva la porta del sottoscala dietro di sé, pronto a sognare un futuro diverso da quello che gli si prospettava davanti, pensò “Forse la magia esiste davvero”.
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Fandom: Persona 5
200 parole
Personaggi: Sojiro Sakura
Slice of life
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Nostalgia


Ormai era passato un mese da quando Ren era tornato a casa. Era la cosa giusta per lui, Sojiro ne era convinto, ma doveva ammettere di sentire la mancanza del ragazzo che aveva cambiato la sua vita, permettendo a lui e a Futaba di iniziare a vivere nel presente, senza più rimorsi. A volte quando entrava al LeBlanc la mattina, cercava di non fare rumore per non svegliarlo, per poi ridere nel ricordare che non c’era nessuno.
Stava davvero invecchiando.
Rimase per un attimo ai piedi della scala, la mano posata sulla parete e la sensazione di non volere entrare in un luogo privato, che non gli apparteneva più del tutto.
Che sciocchezza, pensò, questo posto è mio.
Una volta nella stanza, aprì la finestra per lasciare entrare la luce e per cambiare l'aria. Avrebbe fatto bene a pulire ogni tanto, per non doverlo fare quando Ren avesse deciso di tornare a Tokyo per qualche giorno, perché lì sarebbe sempre stato il benvenuto.
Le sue tracce erano ancora presenti: i libri sugli scaffali, una vecchia console e delle cartucce vintage con un biglietto per Futaba, e la pianta. "A Sojiro, ora prenditi cura di lei. Grazie di tutto, Ren."
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Fandom: Persona 5
One Shot
Slice of life
Prompt: Monopoly
Parole: 1514
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La scatola dei ricordi


Quando Futaba aveva visto la scatola vecchia e impolverata sullo scaffale del negozio, aveva urlato di gioia ed era corsa a prenderlo, spaventando Ren a morte.

“Questo è Monopoly, ci giocavo sempre con la mamma quando ero piccola!” Si era voltata a guardare il suo amico con la scatola di una vecchia edizione del gioco in mostra, stretta tra le mani, la speranza negli occhi: “Lo compriamo? Ci giochiamo insieme?”

Lui aveva provato a rifiutare la proposta, poiché nei suoi ricordi quello non era esattamente un gioco nelle sue corde, ma non sembrava che Futaba avrebbe accettato un no, infatti prima ancora di ascoltare la risposta, era già partita verso la casa con la scatola stretta tra le braccia.

“Torno questa sera che facciamo una partita!” Aveva proposto, o meglio, aveva deciso.

Rassegnato, Ren aveva accettato. “Magari chiamo qualcun altro, almeno ci provo…” Era piuttosto sicuro che nessuno dei Phantom Thieves avrebbe accettato di andare da lui a giocare. Forse avrebbe potuto provare a sentire Hifumi, ma non credeva fosse una buona idea, dal momento che lei e Futaba non si conoscevano e non era molto semplice stare con Futaba, soprattutto quando si lasciava andare alle dinamiche delle sfide, anche quando erano rappresentate da semplici giochi in scatola, visto quanto si era dimostrata competitiva, non accettava la sconfitta senza prima combattere con tutte le sue forze.

“Stasera chi c’è per una partita a Monopoly con me e con Futaba?” aveva tentato, cercando di suonare affabile.

“No, grazie. Devo studiare.” La risposta di Makoto era arrivata all’istante.

“Che cos’è Monopoly?” Yusuke, fuori dal mondo come sempre.

“Tu no, Inari. Stai a disegnare le tue cose.” Almeno lui aveva una scusa, pensò Ren senza tentare di convincerlo a partecipare alla serata, meglio che ne approfittasse.

“Io ci sto! Arrivo alle otto, è da tantissimo che non gioco.” Ann era sempre una buona compagnia e sapeva mettere Futaba a suo agio, non sarebbe stato male giocare con lei.

Nell’attesa della risposta di Ryuji, Ren era sceso ad aiutare Sojiro e a prendersi un caffè. “Futaba mi ha detto che stasera ha impegni.”

“Sì, ti ha detto del suo nuovo, fantastico acquisto?”

“No… devo preoccuparmi?”

“Io devo preoccuparmi, credo. Ha comprato Monopoly, mi ha anche spiegato che ci giocava con Wakaba e che ne ha un bel ricordo.”

Sojiro aveva iniziato a ridere a crepapelle. “Certo che me lo ricordo. Non vorrei essere inopportuno, ma posso unirmi a voi stasera?”

Ren era rimasto spiazzato dalla richiesta, ma aveva annuito. Aveva scritto semplicemente “Trovato il quarto giocatore!” nella chat, per poi continuare a lavare le tazze sporche del LeBlanc.

“Sarà interessante.” Aveva aggiunto Morgana, mentre si grattava la testa.

Quando Futaba entrò, facendo trillare il campanello della porta di ingresso del locale, ad accoglierla c’erano già tutti i partecipanti alla gara serale. Sojiro aveva preparato una cena per tutti. “Ti stavamo aspettando.” Le aveva detto, i piatti pronti da riempire e la tavola già pronta.

Avevano cenato con calma, chiacchierando del recente problema che aveva causato Medjed con quelle strane richieste ai Phantom Thieves.

“È la prima volta che ceniamo tutti insieme,” aveva osservato Ann. “E anche la prima volta che giochiamo tutti insieme, solo che non ho capito chi è il quarto…” Aveva guardato Morgana, che però aveva scosso la testa, ridacchiando.

“Giochiamo con Sojiro.” Ren aveva pronunciato la frase tra un boccone e l’altro, senza neppure sollevare la testa.

Futaba aveva lanciato un urlo di gioia, terrorizzando la povera Ann che non si era ancora abituata alle reazioni di entusiasmo della sua nuova amica. “Che bello, come ai vecchi tempi!”

Il gruppo aveva ripulito, mentre Futaba aveva iniziato a preparare la plancia di gioco.

“A me piacerebbe questo funghetto!” Ann aveva preso la pedina e l’aveva posizionata di fronte al suo posto.

“La mamma usava sempre la pera, io la mela. Perché lei era più alta e io più piccola. Le dicevo sempre così.” Futaba aveva preso entrambe le pedine e poi aveva posizionato la mela sulla plancia. “Questa la tengo come portafortuna.”

“Io invece usavo il fiaschetto.” Aggiunse Sojiro, scegliendo la pedina.

“Questo significa che io posso essere la candela, oppure questa bella piantina. Il verde porta bene, dicono. Pianta sia.”

La partita era iniziata in modo tranquillo: tutti compravano sistematicamente le proprietà sulle quali capitavano, sperando poi di riuscire ad accaparrarsi almeno un gruppo di proprietà complete sulle quali costruire le proprie case e poi gli alberghi.

Ren amava la competizione, ma quel genere di gioco non l’aveva mai attirato. Non gli piaceva l’idea di dovere fare aste per vincere le proprietà, come non amava il pensiero di guadagnare soldi alle spese di altri partecipanti basandosi sulla fortuna dei dadi. Lui amava la strategia e proprio perché conosceva le caratteristiche di Futaba si era chiesto come mai la sua nuova amica, così abile nell’uso delle sue doti tattiche, aveva scelto proprio un gioco basato sulla persuasione e sulle doti sociali, più che sulla strategia pura e mentale.

La partita era stata tutto sommato noiosa, fino a quando Ann non aveva convinto Sojiro a venderle Parco della Vittoria al costo nominale della proprietà, alla quale lei aveva aggiunto viale Costantino, sostenendo che gli sarebbe potuta essere utile per il futuro. Le capacità di persuasione della ragazza avevano avuto effetto, proprio come lo avevano sulle Ombre che combattevano ogni volta che andavano nel Metaverso, e in breve Ann aveva iniziato ad arricchirsi, grazie alle case e agli alberghi che aveva iniziato a costruire in tutte le sue proprietà.

Ren tutto sommato se la stava cavando discretamente, ma tra Sojiro e Futaba era in corso una sorta di guerra tra poveri. Come immaginava, Futaba al contrario di Ann non possedeva tecniche di persuasione adatte al gioco, la sua strategia non poteva avere effetto per il semplice fatto che non aveva mai avuto le carte per riuscire a vincere la partita e i dadi le erano stati tutt’altro che amici nel corso dei primi giri di gioco.

Nell’ipotecare una proprietà, Futaba aveva sbuffato sonoramente. “Questo gioco non è divertente come me lo ricordavo. Ed è anche parecchio lungo.”

Ann, al contrario, appariva così a suo agio nella sua ricchezza da sembrare una principessa malvagia. Morgana la stava osservando con adorazione, in silenzio per una volta.

Sojiro ridacchiava ogni volta che qualcuno capitava su una delle sue proprietà e chiedeva i soldi con fare solenne, perfettamente calato nella parte.

“Ho perso.” Aveva constatato Futaba nel tentare di vendere l’ultima delle sue proprietà. A quel punto i giocatori si erano guardati e avevano convenuto che la partita fosse durata abbastanza.

Ann si era proclamata vincitrice e Futaba le aveva regalato il gioco, sostenendo che non fosse stato divertente, ma accettando di fare una nuova partita insieme a lei in futuro, “Quando sarò più allenata a trattare con le persone.” Aveva proposto.

Sojiro si era offerto di accompagnare a casa la ragazza, dal momento che si era fatto tardi, e Futaba era rimasta rannicchiata sulla panca del LeBlanc.

“Bevi qualcosa prima di tornare a casa?” Le aveva chiesto Ren.

“Sai, quando ero piccola non giocavo così a Monopoly all’inizio. Le prime volte usavo le vie per inventarmi storie e la mamma le ascoltava.”

“Te ne ricordi qualcuna?” Le aveva chiesto.

“No. Ricordo poco di quel periodo, ma so che le mie pedine preferite erano sempre la mela e la pera, e so anche che la mamma all’inizio non voleva che giocassi così perché il gioco non era suo. Ora credo che fosse di Sojiro. Lui però non mi ha mai detto niente di male. Non si è mai lamentato.”

Ren si era seduto di fronte a lei. “Ti è dispiaciuto giocare così? Con le regole?”

Lei aveva scosso la testa. “No, dopo un po’ la mamma mi ha insegnato le regole giuste. A me non piacevano e ne avevo proposte di migliori, ma lei mi ha convinto a stare alle regole come tutti, anche se non mi piacevano.”

“Credo sia una cosa importante.”

“Tu le assomigli, sai?”

Ren non sapeva cosa dire. “A Wakaba?”

“Sì, perché mi proteggi da quello che mi fa paura e mi aiuti ad accettarlo. Anche adesso coi Phantom Thieves mi stai aiutando a prendermi cura di voi, usando i miei punti di forza per la squadra. Io sono contenta di poter stare insieme a voi, di combattere insieme.”

“Non c’è niente di male a voler passare del tempo seguendo le proprie regole, a volte.”

“No, lo so. Infatti mi sono un po’ pentita di avere lasciato il gioco a Panther. Quasi quasi domani glielo chiedo indietro per farmi una partita come quando ero piccola. O semplicemente per inventarmi delle regole migliori.”

“Oppure potremmo fare un altro gioco, uno adatto ai tuoi punti di forza.”

“Come il gioco dei mimi!” Aveva proposto scherzando Futaba. “O Pictionary, quello che piacerebbe tanto a Inari dove si fanno i disegni!” Futaba aveva sollevato l’indice. “Ho un’idea…”

Quando Sojiro era tornato, pochi minuti dopo, li aveva trovati seduti sul tavolo a scrivere una lunga lista. Il titolo era GIOCHI DA PROVARE CON REN E SOJIRO.
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Prompt: Forza 4
Orignale
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Slice of life
Parole: 1120

Competizione e collaborazione


Sin da quando erano piccoli, fino a quando avevano compiuto cinque anni, i giochi di competizione tra Miriam e Leonardo erano sempre finiti male. Chiunque dei due vincesse, era sempre certo che l’altro si sarebbe arrabbiato e qualcuno avrebbe avuto un occhio nero, un graffio o un bernoccolo da qualche parte.
“È normale che vogliate vincere tutti e due, ma l’importante è che vi divertiate nel corso della partita, poi quando litigate finisce che nessuno dei due si diverte, non è forse così?” Chiedeva loro la mamma, per trovarsi di fronte gli occhioni smarriti e pentiti dei due bambini, che in seguito riprendevano il loro conflitto da dove si era interrotto. Proprio per questo i genitori avevano cercato di evitare di acquistare giochi uno contro uno, in modo da permettere ai due di avere momenti più sereni insieme. “Con il tempo questa conflittualità passerà, è solo questione di un paio di anni.” dicevano tutti. “Per i fratelli è così, ci sono sempre litigi per cose futili come questa, ma impareranno a volersi bene.”
La scuola aveva insegnato loro che molto spesso l’alleanza ha un valore molto importante e i due, con riluttanza, avevano scelto di essere alleati anziché avversari, per aiutarsi coi compiti, con le coperture coi compagni e anche per farsi compagnia nei momenti più difficili. Anche di fronte alla famiglia avevano dovuto ammettere che era bello avere un amico al loro fianco.
Per questo, quando il giorno del loro compleanno i due avevano trovato un pacco a forma di parallelepipedo con scritti sopra entrambi i loro nomi, erano stati felici di trovare un gioco in scatola di nome forza 4.
“Ci dovete promettere che non litigherete, però. Altrimenti lo chiudiamo nell’armadio e non lo rivedete per altri cinque anni.” Il papà aveva un tono severo, anche se nei suoi occhi i bambini vedevano che in fondo anche lui desiderava che andassero d’accordo e che giocassero insieme. Non avrebbe preso il gioco altrimenti, in effetti.
“Possiamo usarlo adesso?” Avevano chiesto. “Promettiamo che non litighiamo…” Avevano aggiunto all’unisono in tono mellifluo, come attori provenienti da uno show televisivo.
“Certo, andiamo insieme che vi spiego le regole. Fate tutti e due la prima partita con me.”
I due bambini avevano ascoltato le regole con attenzione, elettrizzati all’idea di giocare col padre. “È facile.” Aveva liquidato Miriam alzando le spalle. Ma poi, dopo soli tre turni, aveva capito di avere perso la partita. Forse il loro amore per la vittoria e quel senso irrefrenabile di rabbia che arrivava con la sconfitta veniva proprio dal loro papà, che sorrideva con fare maligno ogni volta che li batteva al nuovo gioco.
Alla seconda sconfitta della giornata, Leonardo aveva sentito l’impulso di lanciare il nuovo gioco a terra, ma il desiderio di riprovare a vincere aveva avuto la meglio su di lui.
“Fate le vostre mosse in modo troppo frettoloso: dovete pensare, ragionare, altrimenti non riuscirete mai a batterlo.” Aveva affermato la mamma, dopo avere visto una velocissima partita. “Potreste provare a parlarne tra voi e a cercare una soluzione per sconfiggerlo, almeno una volta.”
Il piano dei genitori era proprio di costringerli a fare squadra, così come succedeva a scuola, per consentire loro di capire che la competizione poteva essere vissuta in modo più sano anche a casa, quando a partecipare erano solo loro.
Miriam aveva osservato il fratello, poco convinta. “Va bene, ci sto.”
“Prendiamo le pedine rosse.” Aveva aggiunto Leonardo, allungando le gialle a suo padre.
“Prego, iniziate pure.”
I due bambini non riuscivano ad accordarsi sulla prima mossa. “Il papà di solito la mette in centro o nei due spazi vicino al centro.”
“Ma secondo me potremmo metterla anche di lato, in fondo lì.” Non sembravano giungere a un accordo, ma alla fine stupirono i genitori: “Facciamo che io decido la prima mossa, tu la seconda e poi andiamo avanti così?” Aveva proposto Miriam, trovando in quel modo l’accordo col fratello.
La pedina era quindi scesa lungo la terza corsia. L’adulto aveva risposto bloccando la corsia centrale.
“Adesso mettiamo la pedina sopra la sua.” Aveva proposto Miriam.
Ma il fratello non era molto d’accordo: “Io continuerei sul lato.”
“Ma poi sul lato ci blocca, se andiamo in alto possiamo vincere meglio.” Leonardo aveva ascoltato la sorella e alla fine aveva posto la sua pedina sopra quella del padre, che immediatamente aveva lasciato cadere la sua seconda pedina sopra la prima che avevano giocato i bambini.
“E adesso?” Miriam non era sicura della mossa che doveva fare.
“La mettiamo lì,” Il fratello aveva indicato la corsia vuota, la quinta. Non pareva una brutta mossa e, anche se non era convinta, Miriam aveva accettato la proposta.
La partita era stata più lunga delle precedenti, procedendo in modo più o meno lineare. I due gemelli avevano sventato almeno tre tentativi di vittoria del padre. Ragionare insieme aveva insegnato loro a osservare con pazienza, prendendo il tempo necessario per tentare di prevenire il gioco dell’avversario e, anche se non conoscevano ancora trucchi e tecniche per vincere in modo sistematico, sentivano di avere almeno qualche possibilità.
Dopo avere riempito più di mezza scacchiera in una partita molto più lunga delle precedenti, i due avevano sogghignato insieme. “Ce l’abbiamo fatta.” Aveva detto Leonardo infilando la pedina nella quinta corsia. “Ora se metti la pedina per fermarci qui, noi facciamo quattro sopra!” Aveva spiegato al padre, che aveva un’espressione stranamente divertita.
“Allora finiamo la partita.” Si era rassegnato il papà. “Bravi, avete unito le forze e avete vinto.” Aveva lasciato cadere la sua pedina per bloccare il primo quattro dei figli, per vedere subito la figlia infilare il gettone rosso e realizzare la mossa della vittoria.
“Sì! Evviva! Abbiamo fatto quatris!” I due bambini si erano abbracciati dopo essersi dati il cinque.
“Ma che bravi.” Aveva aggiunto la mamma.
I due bambini non si erano accorti degli sguardi di approvazione e di complicità tra i genitori. Anche se c’era la possibilità che il padre li avesse lasciati vincere ai due non importava. Stavano gustando il profumo della vittoria, insieme.
“Adesso una bella fetta di torta e poi giocate tra voi, se promettete di fare i bravi.”
“Torta!” Leonardo era partito di corsa verso il soggiorno.
“E poi partita, senza litigare.” Aveva aggiunto Miriam correndo dietro al fratello, che subito aveva echeggiato la sua frase.
I genitori, rimasti indietro, si erano guardati con complicità. “Avevi la partita in pugno.” Aveva detto la mamma. “Per un attimo ho pensato che non li avresti fatti vincere.”
“Ci ho pensato anche io, ma l’ho fatto per noi, per tutti. Un sacrificio per la famiglia.”
Sua moglie aveva riso. “Chissà da dove arriva questa smania per la competizione, eh? Meglio mangiare la torta.”
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Fandom: Originale
Prompt: Dama
Parole: 883
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La scacchiera

A casa dei nonni, nella piccola taverna dove Claudia andava spesso a giocare, c’era una scacchiera. Da piccola non sapeva cosa fosse, né a cosa servissero tutte quelle pedine bianche e nere e quindi le tirava fuori tutte e le metteva sulla scacchiera per giocare a modo suo: gli scacchi erano i suoi personaggi: la mamma, i bambini, il papà e i nonni, mentre le pedine piatte erano i mobili della casa, le macchine o le alte torri che costruiva per poi farle buttare giù durante i giochi dei bambini o combattimenti tra regine e alfieri.

Un giorno la nonna era entrata in taverna e si era schiarita la voce per attirare la sua attenzione. Claudia aveva posizionato come sempre tutte le pedine sulla scacchiera e stava facendo un gioco di equilibrio, cercando di incastrare e impilare tra loro scacchi e dame, insieme alle carte da scopa del nonno.

“Che gioco stai facendo?” le aveva chiesto la nonna mentre si avvicinava alla scacchiera.

“Gioco a scacchi, carte e dama insieme.” Aveva risposto la nipote.

“Non ti piacerebbe imparare davvero a usare queste pedine?” Aveva domandato la nonna, prendendo una dama bianca.

Claudia si era rivolta a lei con occhi luccicanti di gioia. “Posso davvero?”

La nonna aveva annuito e si era seduta di fronte alla scacchiera dal lato opposto rispetto alla nipote, che nel mentre aveva iniziato a dividere le pedine e a mettere in ordine le carte. “Cominciamo con la dama, che è un pochino più semplice degli scacchi.”

Insieme avevano riposto gli scacchi nei contenitori della scacchiera, poi la nonna aveva iniziato a mettere le dame nere sui quadrati neri della scacchiera. “Vanno posizionate tutte in questi quadrati dello stesso colore, vedi? Ce ne stanno quattro per fila.” Nell’imitarla la nipote aveva iniziato a imitare la nonna, ponendo le dame bianche negli spazi bianchi.

La nonna aveva sorriso “No, giochiamo tutte e due con questi spazi della scacchiera.” con pazienza, aveva spostato le pedine della nipote. Poi l’aveva guardata con un sorriso e aveva iniziato a spiegarle le regole del gioco. Claudia aveva fatto una moltitudine di domande, spesso non inerenti al gioco. Ma la donna aveva risposto, ammirata di fronte all’interesse sincero della bambina, che aveva solo sei anni, ma che desiderava imparare a giocare e vincere.

“Quindi io devo portare le pedine dal tuo lato per avere quella doppia e muovermi dove voglio.”

“In pratica sì, ma iniziamo a giocare, così capiamo meglio. Inizi tu che hai il bianco.”

La bambina aveva pensato che per imparare ogni mossa sarebbe stata buona, quindi senza pensarci troppo aveva mosso una delle pedine al centro della scacchiera. La nonna invece subito aveva spostato una della sue sullo scacco laterale. “Se la metto così, non me la puoi mangiare.” le aveva spiegato.

Con la seconda mossa, Claudia aveva perso la prima delle sue pedine, ma nel mangiarla, la pedina della nonna era finita in una posizione scomoda. “Ma se fai così perdi quella lì! Posso rubartela, vero?”

La nonna aveva annuito. “ Questo è proprio il gioco: vedi, ora tu puoi recuperare, anzi: devi mangiare la mia pedina, come io ero obbligata a fare lo stesso con la tua anche se sapevo che poi l’avrei persa. Molto spesso nel gioco si porta l’avversario a scoprire parti della scacchiera per provare a vincere.”

La nipote aveva ogni consiglio della nonna e, anche se la partita si era conclusa con la sua sconfitta, esattamente come si aspettava, si era divertita molto a imparare le regole.

Quel giorno avevano fatto ben cinque partite e la nonna ne aveva vinte quattro. Nel corso della seconda, Claudia era riuscita a fare la sua prima dama e aveva iniziato a utilizzarla per muoversi in giro per la scacchiera. Il senso di potere che aveva provato era stato quasi inebriante. Il gioco le piaceva.

Quando aveva vinto la partita, l’ultima, le era venuto il dubbio che sua nonna avesse fatto qualche errore di troppo e l’avesse lasciata vincere. “No, non lo farei mai, è più bello giocare insieme mettendoci tutto l’impegno possibile, non sei d’accordo?” Le aveva detto. “Ti stai divertendo, vero?”

Era così: Claudia si era divertita, si era sentita più grande a vedere finalmente quel gioco per quello che era, a giocarlo da adulta seguendone le regole corrette.

Ci erano volute molte partite perché lei imparasse a giocare davvero. Tante visite dai nonni durante le quali lei aspettava con fervore l’arrivo in taverna di sua nonna, la scacchiera pronta a quel momento intimo tra loro due che ormai era diventato una consuetudine.

Erano passati ormai trent’anni da quel giorno. Ormai Claudia aveva due figli suoi ai quali aveva già insegnato a giocare a dama. L’aveva fatto ricordando quelle sue prime partite e soprattutto la nonna, che ormai da qualche anno aveva dovuto smettere di giocare. La scacchiera era ancora lì, nella taverna che presto sarebbe rimasta vuota. Claudia aveva chiesto ai parenti di lasciarla a lei perché la voleva a casa. Aveva già scelto il posto che avrebbe occupato: a vista ogni giorno sul tavolino tra le due poltrone del salotto, in modo da permetterle di ricordare ogni giorno quelle giornate, che rappresentavano il suo legame profondo con la signora Lina, la sua maestra di dama e di scacchi.
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Originale
Slice of life
Prompt: Briscola
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Tradizioni di famiglia



Dopo ogni pranzo coi nonni, c’era la piccola tradizione alla quale Giulia ed Edoardo non potevano sottrarsi: la partita a briscola con il nonno e il papà. A briscola si gioca in quattro. Diceva il nonno, che era il promulgatore della tradizione e che teneva a mantenerla nel tempo. Appena i nipoti avevano avuto l’età per partecipare, la zia era stata ben felice di sottrarsi al gioco, non perché non le piacesse, ma perché il nonno prendeva la cosa molto sul serio e lei non era mai stata una persona competitiva.
I due bambini avevano sentimenti ambivalenti sul gioco: se da una parte si sentivano felici di passare del tempo con i due uomini adulti della famiglia, dall’altra sapevano che la possibilità di sbagliare a capire quale carta dovessero buttare sul tavolo li avrebbe messi nella condizione di essere rimproverati, anche se in modo giocoso. Il nonno in particolare aveva tutta una serie di segnali che prima della partita ripassava con il suo compagno di squadra, che rendevano le partite peggio di un’interrogazione a scuola.
“Se mi tocco la guancia col pollice, devi buttare carichi.” Disse il nonno a Giulia, dopo averla presa da parte in modo che gli altri non li sentissero.
Lei annuì in modo diligente. “Carichi pesanti?” Chiese.
“Sì: carichi, i più pesanti che hai. Se invece mi tocco la fronte, butta scartine, spazzatura.”
“E se non ho scartine, cosa faccio?”
Il nonno allargò le braccia. “Pensaci bene, come si risponde?”
“Devo fare l’occhiolino?”
“No, quello è per dire che hai briscole in mano!”
“Ah, giusto, devo grattarmi il naso!”
Il nonno sorrise soddisfatto. “Vedi che ti ricordi? Adesso ripetiamo tutto e poi andiamo a giocare. Non importa se perdiamo, ma dobbiamo capirci bene.”
Giulia sapeva che al nonno importava eccome di vincere, così come sapeva che sbagliare un gesto l’avrebbe messa nella lista nera dei compagni di squadra (lista che comprendeva ormai tutta la famiglia), ma le importava poco perché vedere la passione che lui metteva nelle loro partite insieme e avere la possibilità di condividere questi momenti con lui la faceva sentire felice. Era mentre giocavano che sentiva il loro legame farsi più forte.
Si sedettero al tavolo e il nonno, come sempre, fece le carte per primo, “Briscole di bastoni,” dichiarò girando la carta e mettendola bene in vista in fondo al mazzo. L’atmosfera era tesa e silenziosa. I partecipanti guardavano le carte con attenzione e si osservavano a vicenda, nel tentativo di cogliere gesti o espressioni che aiutassero a prevedere in qualche modo il gioco dell’avversario. Giulia nella prima mano aveva pescato due assi e una briscola. Una mano carica e difficile: non poteva scartare il quattro di bastoni, perché il nonno avrebbe emesso uno dei suoi lamenti di disappunto. Lo guardò fisso negli occhi e gli fece un occhiolino. Lui annuì.
“Avanti tranquilla.” Disse.
La bambina buttò il suo asso vicino al quattro di spade del padre, Edo sbuffò e scelse un sei di danari. Il nonno allora aggiunse all’asso un fante e le passò le carte: la prima mano era andata.
La prima partita proseguì tranquilla e alla fine fu vinta da Giulia e dal nonno. La ragazzina sentiva di aver fatto un buon lavoro ed era orgogliosa di se stessa. Vedeva lo stesso orgoglio in suo nonno, che appariva rilassato e sembrava aver fiducia in lei.
Al termine della quarta mano, però, si ritrovarono con due punti a squadra. La quinta, come sempre, era la mano decisiva, e a dare le carte sarebbe stato come sempre il nonno.
“Questa è la bella, l’unica che conta.” Esclamò divertito, sbattendo il mazzo di carte sul tavolo.
Era difficile per Giulia spiegare l’espressione di suo nonno mentre giocava. I suoi occhi si illuminavano e il suo aspetto sembrava ringiovanire, fino ad avere venti anni in meno. Sorrideva con gioia e pareva dimenticarsi dei suoi dolori, delle malattie che lo avevano colpito nel corso degli ultimi anni e della stanchezza, della quale si sarebbe tornato a ricordare appena la partita fosse finita. Avrebbe giocato ogni giorno, se avesse potuto. I nipoti sapevano che se il nonno fosse vissuto nella loro epoca sarebbe stato un grande appassionato di videogiochi o di giochi in scatola di ogni tipo, invece era cresciuto con le carte e, per fortuna, aveva scelto di restare fedele alla sua passione. Era stato lui a insegnare ai nipoti a giocare a dama e a scacchi, sempre in modo severo, ma con l’orgoglio di chi crede che impegnarsi nella vita, in ogni suo aspetto, sia importante per vivere bene.
Per questo i nipoti amavano giocare con lui. Alla fine non importava che vincessero o perdessero, perché nonostante il nonno si arrabbiasse, alla fine ciò che per tutti rimaneva era il ricordo di un bel momento condiviso tra tutti. Avrebbero giocato insieme fino a quando fosse stato possibile farlo. Fino a quando il nonno non fosse stato più in grado di tenere le carte in mano e di fare i suoi segnali.
“Briscola di spade,” disse, grattandosi il mento, negli occhi un’espressione divertita. Giulia sorrise, pensando che avrebbero vinto.
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Fandom: FF VII
Personaggi: Cloud, Zack, Soldati
Prompt: Poker
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Slice of life


La fortuna del novellino

Mentre camminava lungo le strade polverose di Mideel, Cloud all’improvviso si trovò di fronte un edificio familiare. Entrò nella taverna senza pensarci e si sedette a uno dei tavoli. “Un piatto unico di mare.” Chiese, con la certezza di sapere cosa stavano per portargli. I ricordi sfumati in una nebbia che gli faceva dolere la testa.
Solo quando vide il piatto, la voce di Zack gli tornò alla mente. Era stata una notte molto diversa dal solito. La notte della sua prima partita a poker con un amico. L’unica che avevano giocato insieme.
Cloud osservò il piatto che gli era stato servito dal cameriere della taverna con riluttanza. Non era abituato alla cucina di quella regione e gli pareva ancora strana. Zack, di fronte a lui, ne addentò una forchettata. “Fidati: anche se l’aspetto non è molto invitante vedrai che è buonissimo, non potrai più farne a meno.”
Il suo amico aveva ragione, perché Cloud dovette ammettere che, anche se non avrebbe saputo riconoscerne gli ingredienti, il piatto era saporito. Mangiarono in silenzio, affamati dopo la lunga giornata passata a combattere.
“Domani niente lavoro, cosa farai, Soldato?” Nonostante fosse superiore a lui di grado, Zack aveva dimostrato in molte occasioni di aver preso Cloud in simpatia. Lo trattava da amico, più che da sottoposto.
“Pensavo di andare a riposare e di fare un po’ di allenamento.” Si sentiva stanco e sapeva di avere bisogno di un po’ di riposo, “Forse farò un giro in città.” Per comprare qualcosa per la mamma e per Tifa.
Zack sbuffò, un po’ deluso, non sembrava impressionato dalle sue risposte. “Dovresti divertirti ora che puoi. La vita che facciamo è dura e non riuscirai a resistere a lungo senza impazzire se non ti concedi del tempo per te stesso e per rilassarti. Per esempio: vedi Martin, laggiù? Lui gioca a poker a volte. Ti fai una partita con noi, novellino?”
Il ragazzo scosse la testa, non era certo di volere ammettere che non aveva idea di come si giocasse.
“Coraggio, andiamo insieme.” Zack si alzò e lo trascinò prendendolo per il braccio. “Eccoci, Martin. Possiamo iniziare.”
Martin era un soldato esperto, dall’aria seria e dura. “Sedetevi. Iniziamo con 10, così facciamo un giro di riscaldamento.”
Zack, Martin e un tizio con cui non aveva mai parlato di persona di nome Luis lanciarono le loro monete sul tavolo, imitati con un lieve ritardo da Cloud, che cercava di far intendere a tutti di sapere ciò che stava facendo.
“Sai giocare?” Chiese Martin osservandolo di sbieco.
“È da tanto che non faccio una partita,” Mentì Cloud sperando di non essere colto nella bugia.
“Prima lezione: quando racconti una balla, cerca di farlo in modo convincente. Nel poker le balle si chiamano bluff. Nessuno sa che carte hai in mano, fingi di avere roba buona e ti porti a casa il piatto, fatti beccare o trova qualcuno che ha davvero carte buone e perdi tutto quello che punti.” Martin proseguì elencando velocemente il valore delle combinazioni possibili, poi iniziò a distribuire le carte.
Cloud osservò la sua mano con attenzione: due dieci, un asso, un re e un nove.
Gli altri tre giocatori lanciarono un’altra moneta sul tavolo. Zack quindi proseguì con la spiegazione. “Questa serve per giocare: se giochi puoi cambiare alcune delle carte che hai in mano e poi puntare ancora per accaparrarti il piatto o per vedere la mano di un avversario.”
Lanciò la sua moneta.
"Quante carte?” Gli chiese quindi Martin.
Confuso, Cloud pensò che gli conveniva provare a tenere i dieci e a cambiare le altre per sperare in un tris. “Tre.” Disse, passando le carte coperte al mazziere imitando il comportamento dei giocatori che lo avevano preceduto. Prese un re, un asso e un dieci. Non era andata così male. Ricordando le regole del gioco, tentò di apparire triste.
“Io punto cento.” Dichiarò Martin. A quel punto Zack e Luis lanciarono le loro carte nella pila degli scarti e Cloud si ritrovò addosso gli occhi di tutti. “Cosa fai, novellino? Vuoi vedere le mie carte, rilanciare o lasciare tutto a me?”
Il giovane soldato prese un respiro profondo e cercò di pensare a quante probabilità avesse di vincere. Giunse alla conclusione che non erano altissime, ma l’adrenalina e la curiosità lo spinsero a giocare: “Rilancio di altri cento.”
Martin si lasciò scappare una risata. “Vedo, novellino.”
Cloud, dopo un’occhiata di conferma, lasciò cadere le sue carte per rivelare il tris di dieci. Martin lo guardava con aria di rimprovero. Gettò le sue carte nel mucchio degli scarti e passò il mazzo a Luis. “Questa si chiama fortuna del principiante. Ora comincia il gioco vero.”
Zack e Cloud uscirono dalla taverna per ultimi, ridendo come due vecchi amici. Si erano divertiti e Cloud aveva vinto un piccolo gruzzoletto, che gli avrebbe fatto comodo per scegliere i regali che aveva deciso di spedire a casa senza pensare troppo al costo. “Non immaginavo che tu fossi così portato per il poker, è chiaro che quella tua faccia impassibile ti abbia aiutato. Li hai spolpati! Meno male che non siamo in gruppo con quei due, almeno per ora.”
“Non l’ho fatto di proposito, e comunque è un gioco.”
Il suo superiore continuava a ridere. “Sei proprio un tipo unico. Stavo scherzando, lo sappiamo tutti che è un gioco. Preparati comunque perché la prossima volta potrebbe andare male. Non a me, io ho il mio portafortuna. Dovresti procurartene uno anche tu.”
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Fandom: Persona 5
Personaggi: Ryuji, Makoto, Ann, Yusuke
Genere: Slice of life
Prompt: Cluedo
Partecipa al COWT 13



Una partita seria

Intorno al tavolo la tensione si poteva tagliare con un coltello, cosa che in effetti stava cercando di fare Ann che agitava il pugnale di plastica in dotazione col gioco in direzione di Yusuke, il quale osservava rapito i dettagli poco definiti del candeliere. Makoto invece stava osservando le gocce di sudore sulla fronte di Ryuji, che pareva confuso. “Hm, Hm…” Si schiarì la voce per ricordare all’amico che era il suo turno.
Lui annuì e si asciugò la fronte con una mano. Dopo qualche altro secondo di silenzio colpì il tavolo con la mano. Prese un oggetto dalla plancia di gioco e lo posizionò di fianco al suo investigatore. “È stata la rossa, intendo dire Scarlett, con il tubo di ferro in veranda!” Affermò con convinzione Ryuji. Makoto sospirò e gli passò una carta dalla sua mano.
“No! Ma questa l’avevo già vista…”
“Non è colpa mia se non hai ancora capito il gioco, Sakamoto.” La ragazza sembrava quasi irritata, al punto che Ryuji si sentì in obbligo di scusarsi. “Vuoi scriverti negli appunti che carta ti ho dato o pensi di chiamarla di nuovo al prossimo giro?”
Lui afferrò la penna e, tentando di tenere nascosto il foglio, scrisse qualcosa.
“Tocca a me!” Ann impiegò qualche secondo per confrontare le sue note con le carte che aveva in mano. “Secondo me è stato Mustard, in veranda, con la rivoltella!”
“E invece no!” Ryuji le passò una delle sue carte, sospirando nel tentativo di imitare Makoto. “Ma io non sono in biblioteca…” Gli rispose Ann bisbigliando, lui imprecò e le passò un’altra carta.
“Chi è che ha scelto questo gioco?” Domandò Yusuke, annoiato.
“L’ho scelto io!” Affermò Ann alzando la mano. “È divertente! Almeno quando non gioca questo idiota.”
Ryuji si lasciò sfuggire un lamento sconsolato. “Non è facile come sembra e questa è la prima volta che gioco.” Osservò tutti i suoi amici intorno al tavolo in cerca di un po’ di compassione, ma non raccolse molta compassione, in effetti sembravano quasi arrabbiati.
“Non ci vuole molto, basta mettere un po’ di serietà nel seguire le regole.” Il tono di Yusuke era sempre solenne, particolarmente adatto alla dichiarazione dell’investigatore.
“Da adesso faccio sul serio, lo prometto.”
Yusuke sollevò una mano attirando l’attenzione su di sé: “Ma ora la parola al detective Kitagawa: dichiaro che la Signorina Scarlett, conscia del tradimento dell’uomo che amava con Mrs Peacock, si è recata in sala da ballo e ha discusso con lui in modo animato, venendo alle mani prima di ucciderlo in uno scatto d’ira con la rivoltella che aveva portato con sé.”
“Complimenti per l’interpretazione, io non ho niente.” Ann si voltò verso Ryuji, che scosse la testa. “Neppure io.”
“Hai controllato bene?” Chiese allora Yusuke, dando voce al dubbio di tutti gli altri partecipanti.
“Sì, non sono un completo idiota. Ho detto che faccio sul serio, lasciatemi in pace.”
“Ne ho una io.” Makoto gli passò una carta coperta, la mano tesa a recuperarla in fretta. Aveva preso la partita a Cluedo con una serietà che gli altri non si aspettavano.
A dire la verità fino in fondo, quando Ann aveva proposto di fare una partita tutti insieme avevano pensato tutti che Makoto, da studentessa seria e impegnata, avrebbe salutato tutti per correre a studiare qualcosa di troppo complicato persino da spiegare ai suoi compagni di squadra. Quando però la sua amica aveva menzionato Cluedo, gli occhi di Makoto si erano illuminati e lei si era offerta di preparare un tè caldo da bere tutti insieme nel corso della partita.
Era inusuale che loro quattro si incontrassero insieme, soprattutto a casa di Ann e in assenza di Ren, ma quel pomeriggio si dovevano accordare su una piccola sorpresa per il loro leader, i cui preparativi si erano conclusi prima del previsto, lasciando loro sufficiente tempo libero da passare insieme prima di tornare a casa.L’idea del gioco era stata di Ryuji, che però non si aspettava di dover ragionare così tanto. Mi è venuto mal di testa da quanto ho pensato… Sarebbe stato più facile proporre di studiare qualcosa. Aveva confessato, dopo il primo giro di gioco. Makoto, al contrario, aveva mantenuto un’espressione compiaciuta sin da quando le erano state consegnate le sue carte. Dal primo istante, tutti loro sapevano che la loro amica avrebbe vinto. Se non per le sue buone doti di concentrazione e di deduzione, anche per l’impegno che stava mettendo nella partita.
“Ora tocca a me. È ora di finire la partita.” Makoto si alzò in piedi e puntò il dito contro la pedina di Scarlett. “Il detective Sakamoto era quasi arrivato alla soluzione del caso, ma non si è accorto di un piccolo particolare: Certo che è stata la signorina Scarlett. La sua sola presenza nella villa di Mr. Black avrebbe dovuto far suonare qualche campanello di allarme nelle teste di voi detective. Così come è certo che l’omicidio è avvenuto in veranda. L’arma del delitto invece, quella era stata indovinata dagli altri due detective: era una rivoltella. Sarebbe bastato osservare il cadavere del signor Black con un po’ più di attenzione per trovare la risposta.”
I tre ragazzi, che non si aspettavano che la loro amica si calasse nel ruolo di detective e stesse al gioco in modo così convincente, rimasero in silenzio per qualche istante prima di confermare di non avere le carte richieste da Makoto in mano.
Lei quindi prese la busta dal centro della plancia e mostro loro la soluzione del caso. “Come tutti si aspettavano la grande detective White, detta Queen, chiude il caso.” Makoto sollevò le braccia in un gesto di esultanza.
“Brava Queen!” La incitò Ann.
“Facciamo un’altra partita?” Chiese quindi la vincitrice.
“Io sì, per favore” Accettò Ryuji. “Questa volta giuro che mi impegno, lo prometto.”
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Partecipa al COWT11, il prompt è la citazione (prima frase del testo)
Fandom: Originale
Slice of life, fluff
A Natale siamo tutti più buoni



 A short stranger will soon enter your life with blessings to share.

 

Elisa aveva letto il biscotto della fortuna sorridendo.

Magari, aveva pensato: avrebbe avuto proprio bisogno di una bella benedizione, qualcosa che le migliorasse un po’ l’umore, perché la giornata era stata pessima a dire poco.

Sotto Natale la gente impazziva e lei, che incartava pacchetti al centro commerciale, stava cominciando a pensare che l’egoismo fosse un tratto innato di tutti gli esseri umani.

 

Negli ultimi giorni, presi dalla frenesia degli acquisti degli ultimi giorni, erano tutti di corsa, nervosi e carichi di pacchetti pieni di oggetti di ogni tipo: dalle console tanto richieste dai ragazzi ai profumi di marchi conosciuti,  dai libri più conosciuti alle cornici in legno e in ceramica per custodire i ricordi più belli.

 

Nessuno le lasciava più del minimo necessario per il suo lavoro di volontaria, ma tutto sommato le piaceva osservare gli sguardi amorevoli dei nonni che facevano incartare giocattoli e vestiti per i loro nipoti, e quelli orgogliosi dei bambini che avevano preso i regali per i fratellini più piccoli che ancora credevano a Babbo Natale.

Era proprio a un bambino ad averle passato una grossa scatola contenente una  bambola di pezza. “Ciao! Di che colore mettiamo la carta?”

“È per mia sorella, le piace il verde!” 

“Allora verde con le farfalle? Ti piace?”

Il bambino aveva annuito. “Io sono grande, lo so che Babbo Natale non esiste, ma mia sorella no perché è piccola.”

“È fortunata ad avere un Babbo Natale come te, però, le hai preso proprio un bel regalo!”

Il bambino aveva gonfiato il petto, orgoglioso di se stesso. “Sono stato bravo. La mamma le ha preso una macchinetta col radiocomando come la mia, così possiamo giocare insieme!”

“Brava anche la tua mamma! Nastro color oro, ti piace?”

“Sì!”

“Ottima scelta! Sono sicura che sei un bravissimo fratello.”

“E a te cosa regala la tua famiglia a Natale?”

“A me… Non lo so, la mia mamma e il mio papà sono lontani, li vedrò dopo Natale.”

Il bambino sembrava essersi intristito. Elisa aveva salutato lui e la madre e aveva continuato a lavorare.

Dopo una decina di minuti i due si erano ripresentati al suo banco con una scatola anonima di cartoncino riciclato.

“Ciao! Questa volta che colore facciamo?”

“Ti piace il rosso?” Aveva chiesto il bambino, un po’ emozionato.

“Il rosso è bellissimo a Natale!”

Il bambino aveva battuto le mani, soddisfatto. “Col nastro d’oro!” Aveva esclamato felice.

La sua mamma stava a pochi metri di distanza, sorrideva orgogliosa di quel ragazzino così dolce ed educato.

“Ecco fatto!” Elisa gli aveva passato il regalo. “Buon Natale.”

Il bambino aveva preso dalla tasca una busta. “Che Dio ti benedica!” le aveva detto.

“Il regalo è per te, per aprirlo a Natale. E e questo è il bigliettino.” Il bambino era un po’ emozionato, ma Elisa di certo lo era di più. Aveva sentito un calore improvviso sulla pelle e sapeva di essere arrossita. 

“Ma… N- non dovevi!”

La madre del bambino si era avvicinata e gli aveva posato le mani sulle spalle. “È solo un pensierino, ma Lorenzo ci teneva tanto, ha detto che sei stata gentile. Buon Natale.”

“G- grazie.” Elisa era rimasta a fissare mamma e figlio che si allontanavano, Lorenzo saltellava felice e la madre rideva.

“Buon Natale!” Aveva esclamato, sperando che la sentissero.

Poi si era messa a ridere osservando il pacchettino, ancora emozionata. I biscotti funzionano, e chi l’avrebbe detto.

 

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Fandom: Originale
Slice of life
Prompt: accidia
Partecipa al COWT11

 
As I am


Il cellulare di Claudio aveva vibrato di nuovo e il ragazzo l’aveva osservato per qualche istante prima di decidersi a leggere il messaggio.

 

Hai da fare stasera? Ci troviamo da Fil alle 8. Ci facciamo una pizza?

 

Claudio aveva sospirato lasciando cadere il cellulare sul divano. Sì: una pizza gli andava, ma non aveva proprio voglia di uscire.

Si era buttato sul divano e aveva chiuso gli occhi pensando a quanto quella giornata fosse già stata abbastanza lunga: la sveglia presto, il compito di matematica, il lento ritorno a casa con l'autobus, il pranzo. Non aveva molto da fare, come ogni sabato pomeriggio, e la cosa non gli dispiaceva per niente.

Non pensava di dormire, solo di riposare un attimo e di riflettere. Aveva bisogno di un po’ di tempo per decidere, poi avrebbe risposto al messaggio.

 

Alla fine aveva dormito. Si era alzato dopo quaranta minuti più stanco di prima e aveva osservato di nuovo il cellulare. Ne sentiva la presenza minacciosa che lo chiamava, invitandolo a prendere una decisione. L'aveva ignorato per il momento, voleva mangiare qualcosa.

 

A scuola stavano studiando l’inferno di Dante e lui si era rivisto nel girone degli accidiosi, al punto che aveva sognato di correre a perdifiato, scontando il contrappasso che lo scrittore aveva riservato a chi, come lui, lasciava che la vita gli accadesse intorno senza cercare di ottenere il massimo della gioia dai piccoli momenti di ogni giorno.

C’erano peccati peggiori, di questo era certo. La superbia era peggio, anche l'avarizia. E lui si riteneva un bravo ragazzo nonostante le sue scelte fossero a volte poco comprensibili da chi gli stava intorno.

La sua era una attesa, una vita di piccole rare gioie intervallate dalla noia totale, come per quella serata: Claudio sapeva che se fosse uscito si sarebbe divertito almeno un po', ma non ne aveva voglia. 

 

Poteva prevedere con certezza come sarebbe andata la serata: si sarebbero trovarti da Fil alle otto e mezza passate, perché tra loro nessuno era puntuale. Sarebbero arrivate le pizze, anche quelle in ritardo, e lui si sarebbe seduto a mangiare, a ridere delle battute stupide di Alberto e delle sue imprese amorose. Tutti sapevano che si inventava la metà di quello che diceva, ma le storie, per quanto false o liberamente ispirate a qualche film, erano divertenti e lui le sapeva raccontare.

Anche a Claudio sarebbe piaciuto raccontare qualche storia, riuscire a tenere i suoi amici incollati alle sedie ad aspettare in silenzio, sulle spine, pronti a ridere all’arrivo della cosiddetta punch line.

Ma sapeva anche cosa avrebbe fatto lui: si sarebbe seduto in disparte sul grande tavolo e sarebbe stato lì a fingere che gli importasse qualcosa di tutti i loro discorsi, poi avrebbe cercato una scusa per tornare a casa appena possibile e si sarebbe messo a letto a giocare col cellulare senza impegno, magari pensando a quanto fossero stupide quelle serate senza senso. La pizza gli sarebbe rimasta sullo stomaco e avrebbe passato la notte a rigirarsi nel letto, non gli piaceva neanche quella della pizzeria vicino casa di Fil. Quella vicino a casa sua era molto meglio.

 

Sua madre continuava a ripetergli che si stava lasciando andare, che doveva vivere, uscire, divertirsi. L'adolescenza arriva una volta sola e devi approfittarne. 

Lui sapeva che aveva ragione, ma non gli importava neppure di questo. Saperlo non gli serviva, ma gli bastava a capire che solo lui poteva scegliere come vivere la sua vita.

La sua indolenza non era neppure un problema così grave, c'era di peggio:  non era malato, si comportava bene e  noia e indolenza erano molto meglio di tristezza, paura e solitudine.

In fin dei conti gli sembrava di fare tutto ciò che gli era richiesto: a scuola non andava male, anche se non era il primo della classe e aiutava a casa, sbuffando un po’ come tutti gli adolescenti. Spesso copiava i compiti la mattina, prima di entrare in classe, ma cercava di non farsi trovare impreparato e tutto sommato se la cavava. 

Il minimo che tu possa fare è studiare e andare almeno decentemente a scuola, ma esci un po’… vai a divertirti!

La voce di sua madre gli risuonava nella testa, nel ripensare alle sue parole Claudio aveva fatto roteare gli occhi. Lasciami fare quel che voglio e non preoccuparti.

Ma non ti annoi tutto il giorno a casa?

Sì, certo che mi annoio, ma saranno affari miei? Potrò decidere io cosa fare?

Aveva recuperato il cellulare e tra i messaggi ce n'era uno di sua madre:

 

Ciao Claudio, esci stasera? Altrimenti pizza?


Questa volta aveva esitato solo pochi secondi prima di rispondere:

 

No, sono a casa stasera
Ok per la pizza

Era stato facile scegliere, finalmente aveva risposto all'amico:

 

Scusa, ho da fare stasera, ci vediamo la prossima volta!

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Fandom: Persona 5
Genere/tipo: Flashfic, slice of life
Prompt: Luoghi di Nocturnia
Partecipa al COWT10!

Skull e la chitarra

 

Ryuji aveva desiderato una chitarra elettrica per molto tempo. 

Si era concentrato sulla corsa in quegli anni, ma ormai la scuola era finita, aveva iniziato a lavorare e lui finalmente si sentiva in diritto di comprarne una e di imparare a suonarla. 

Di fronte alla vetrina del negozio Brian e Matt strumenti musicali stava osservandole con bramosia, nell'attesa che il suo amico arrivasse per consigliarlo.

"Ma perché proprio una chitarra?" La voce dietro le sue spalle l'aveva terrorizzato sul momento. Yusuke pareva soddisfatto di essere riuscito a fargli quella bella sorpresa. 

"Una chitarra perché non posso comprare la batteria, non ci sta in casa."

"Ma perché non un clarinetto o un violino allora?"

Ryuji aveva guardato il suo amico di sottecchi, un po' pentito per aver chiesto a lui: all'artista, e non a Makoto o ad Ann che forse l'avrebbero aiutato di più.

"Entriamo..."

Una volta dentro erano subito stati colpiti dalla grande quantità di strumenti musicali appesi alle pareti, alcuni dei quali erano loro sconosciuti. 

"Buongiorno, sono Matt, come posso aiutarvi?"

"Buongiorno, vorrei una chitarra elettrica."

Il commesso aveva iniziato a camminare facendo loro cenno di seguirli: "Ha già tutto quello che serve oltre alla chitarra? Amplificatore, accordatore se è alle prime armi, poi magari una custodia di qualche tipo?"

Ryuji non aveva in effetti pensato a cosa gli sarebbe servito, ma era lì anche per farsi consigliare: "Non ho nulla." 

Matt si era diretto verso un palchetto al centro del negozio dal quale si notava una gigantografia dei proprietari con il motto usa gli strumenti giusti con Brian e Matt!

 

"Un bundle perfetto per voi, ecco qui: chitarra, corde di ricambio, plettri, supporto da pavimento o da parete per lo strumento, cavi e amplificatore. Offriamo anche un ottimo sconto sul totale e un accesso al nostro corso base di tecnica online e agli spartiti base per imparare."

Ryuji non aveva guardato altro: "Lo prendo!" Yusuke aveva tentato di convincerlo a guardarsi un po' attorno prima, ma aveva capito cosa l'avesse colpito a quel modo: L'amplificatore e la chitarra erano decorati con un'immagine che sembrava proprio Skull, sembravano fatte su misura per lui.

Erano stati nel negozio praticamente solo cinque minuti: Ryuji aveva dato il suo indirizzo e pagato immediatamente.

Una volta fuori dal negozio Ryuji aveva saltellato ridendo: "Hai visto, la chitarra con Skull, il più figo dei Phantom Thieves!" 

"Già, che fortuna... Neanche l'avessero fatto di proposito. Che bravi commercianti, davvero."

Già, non potevano davvero sapere chi fossero.

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Fandom: Persona 5
Genere/tipo: One shot, generale
Prompt: Luoghi di Nocturnia
Partecipa al COWT10!

In Cucina con Ale

 

Makoto in vacanza si sentiva libera. La parte di lei attenta a fare sempre la cosa giusta le lasciava la libertà di non preoccuparsi continuamente dei doveri e dello studio, in fin dei conti le vacanze erano fatte per rilassarsi e lei era umana come tutti.

 

Aveva deciso di viaggiare da sola e aveva scelto l'Italia, nonostante in molti le avessero detto che quasi nessun italiano parla inglese in modo comprensibile e lei odiava non riuscire a farsi capire. 

Aveva prenotato alcune esperienze, il sito del turismo le chiamava così. E quella sera era in attesa della più strana: Cucina con Ale al ristorante Cucina con Ale.

Stava rileggendo le regole con attenzione: vi sarà fornito un grembiule e un cappello, e in cucina troverete ogni tipo di utensile per dare sfogo alla vostra creatività culinaria.

 

Makoto non cucinava come una cuoca provetta, ma non era così incapace e desiderava affinare le sue doti nella cucina occidentale. Era stata accolta da un uomo affascinante: alto, coi capelli scuri e folti e gli occhi penetranti.

- Buonasera, io sono Ale - le aveva detto nel suo italiano sensuale e Makoto non aveva potuto far altro che sorridere come una sciocca e dire il suo nome.

Una volta in cucina, in un inglese fluido lui le aveva chiesto cosa lei desiderasse cucinare. Makoto gli aveva detto che aveva sempre voluto imparare a fare il risotto. 

- Molto bene, allora stasera faremo il risotto.

L'uomo le aveva spiegato tutto il procedimento in modo eccellente. Makoto aveva preso appunti e assaggiato i sapori sotto la sua guida di cuoco eccellente. Col piatto di risotto fumante, poi, lei era andata ad accomodarsi a uno dei tavoli, notando che in sala c'erano altri tre clienti che stavano chiacchierando tra loro, coi piatti vuoti di fronte. 

Dopo aver mangiato, la ragazza era andata a fare due chiacchiere con gli altri clienti, che le avevano confermato di aver comprato il suo stesso pacchetto. Le avevano spiegato che quella sera tutti insieme avrebbero cucinato i loro piatti per i clienti veri del ristorante, cosa che la ragazza aveva trovato un po' strana, quasi assurda: veramente aveva pagato per lavorare al ristorante di quell'Ale?

In effetti alla fine in cinque erano stati messi ciascuno nella propria postazione e sotto la guida costante di Ale avevano passato la serata a cucinare e ad assaggiare, a imparare e a ridere nella grande cucina professionale del ristorante. 

Makoto alla fine si era resa conto di aver passato una delle serate più divertenti della sua vita e, anche se un po' continuava a pensare che l'uomo li avesse sfruttati, non poteva non ammettere che l'avrebbe rifatto, pagando di nuovo. 

Finalmente sapeva come fare il risotto, e non solo quello.

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