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fandom: originale
partecipa al COWT 14
prompt: la porta tra i mondi
One shot


La chiave per Eltra

Aveva trovato la chiave in soffitta, ma Alessia non aveva idea di cosa aprisse. Non ne aveva mai vista una simile: era in un metallo scuro, quasi nero, ed era incurvata al punto che la ragazza si chiese se sarebbe mai potuta entrare davvero in una serratura. Sua nonna l’aveva mandata in soffitta proprio a cercare una chiave e, stando alla descrizione che le aveva dato, poteva essere quella giusta.

La casa della nonna era sempre stata piena di misteri: stanze chiuse a chiave, rumori inspiegabili e passi che finivano nel nulla. Investigava spesso, con la sua lente di ingrandimento e il suo cappello, ma non era mai riuscita a trovare la fonte di quelle stranezze. Di fronte alle sue domande più volte, con occhi vivaci, la nonna le aveva detto che loro due si somigliavano come gocce d’acqua e che prima o poi avrebbe avuto le sue risposte. “Noi siamo diverse dai tuoi genitori e da tuo fratello, vedrai: un giorno vivrai delle splendide avventure!”

Le chiedeva sempre quando le avrebbero vissute, da piccola era sempre a cercare nuove sfide, a esplorare ogni luogo che visitavano. “Un giorno ci andrai, te lo prometto.”

Con l’andare degli anni la ragazza aveva iniziato a passare in quella casa sempre meno tempo e si era dimenticata di quei discorsi che da piccola la affascinavano e catturavano i suoi sogni.

In quel periodo Alessia passava molto tempo lì, perché sua nonna Erminia si era rotta il femore e lei stessa si era offerta di prendersi cura di lei nel corso di quell’estate. Prese la chiave e la portò con sé. 

“Ci beviamo un tè?” Propose all’anziana donna una volta arrivata nella stanza.

“Sì, ma vorrei berlo in soggiorno, se non ti dispiace.”

La nipote annuì, prese la sedia a rotelle e aiutò Erminia a salirci sopra con movimenti calcolati e sicuri. La mise dentro l’ascensore che avevano fatto costruire per il nonno qualche anno prima e insieme scesero al piano terra. 

Il salone era arredato con mobili in legno scuro, tipici degli anni in cui erano stati acquistati. Una della parete era cosparsa di specchi con larghe cornici di legno intarsiate che da piccola avevano sempre affascinato Alessia. Era lì che giocava alla scuola di ballo e recitava fingendosi una famosa attrice.

Andò in cucina a preparare il tè e sistemò le tazze sul vistoso vassoio di argento antico che da sempre utilizzavano per servire bevande calde. 

Lo sistemò sul tavolino dove la nonna la aspettava, sembrava seria.

“Oh, tieni la chiave!” Annunciò Alessia, porgendogliela.

L’anziana donna prese invece la tazza calda con entrambe le mani. “Quella è tua ora. Dovrai usarla con molta attenzione e donarla a chi tu riterrai tuo successore nel custodirla.” 

Alessia piegò la testa di lato, forse la nonna aveva qualche piccolo problema di demenza. “Perché? Che chiave è?”

“Quella è la chiave della porta tra due mondi. Unisce il nostro a un mondo che presto conoscerai.” Sorrideva, negli occhi un’espressione vivace e nostalgica. “La città dove arriverai si chiama Eltra, in realtà è più un piccolo villaggio, ma la porta è ben custodita, vedrai. Potrai dire ai custodi il mio nome e loro ti accoglieranno. Ho vissuto splendide avventure nei dintorni di Eltra. Usa la catena per mettere la chiave intorno al collo e quando aprirai la porta la vedrai scomparire. Appena tornerai alla porta dall’altra parte essa riapparirà e potrai tornare a casa.”

La ragazza rise, nervosa. “Mi stai prendendo in giro, nonna?!

Erminia però alzò le spalle. “Anch’io ho reagito così quando l’ho ricevuta. Ho dovuto vedere. Alzati.”

Alessia pensò che assecondandola non sarebbe accaduto nulla di male, quindi seguì l’ordine.

“Metti al collo la chiave e vai verso lo specchio.” La ragazza continuò a obbedire, “Ora prendi in mano la chiave e chiedi di entrare.”

“Cosa devo fare? Dire io chiedo alla chiave di aprire la porta per Eltra e di farmi entrare?” Appena finì di pronunciare quelle parole, sentì un rumore simile a quello del vento tra i rami di un albero. Rimase a bocca aperta mentre lo specchio si apriva per rivelare una porta. 

“Bastava dire io chiedo di entrare. Per tornare basta chiedere di tornare.” La ragazza toccò la porta appena rivelatasi sotto i suoi occhi, poi tornò a rivolgere la sua attenzione alla nonna. 

“M- Ma allora è vero?”

“Ma certo che è vero. Non ti racconterei storie. Ora vai, fai il tuo primo giro. Puoi dire che li saluto, ma che dovranno venire loro a salutarmi, io non posso più viaggiare.”

“È un viaggio pericoloso?”

“No. Potresti vivere qualche avventura, ma non preoccuparti. Mi racconterai quando tornerai a casa. Ti aspetto qui.”

Alessia estrasse la chiave.“Hai mantenuto la tua promessa. Grazie.” Varcò la porta e svanì nel nulla, pronta alla prima delle sue avventure ad Eltra.


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Originale
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Prompt: il castello abbandonato 
Avventura

Il viaggio di Daniel


Il viaggio di Daniel si stava rivelando più lungo del previsto. Era partito parecchie ore prima dal suo paese natale per portare il carico al porto, ma sulla strada non aveva incontrato anima viva. 

Era la prima volta che usciva dal villaggio e tutti si erano impegnati a dispensargli buoni consigli prima della sua partenza. Questo però non l’aveva aiutato a prendere la strada giusta, a quanto pareva, perché sembrava proprio che lì intorno non ci fosse alcun porto, tantomeno il mare. Aveva avuto qualche dubbio, in effetti, soprattutto quando si era trovato a passare sul ponte di legno mezzo scassato, rischiando anche di perdere carro e carico lungo la strada. E poi non aveva incontrato villaggi, né viandanti, né altri carri.

Si grattò il mento, lo faceva sempre quando pensava, e decise che la cosa migliore da fare fosse portare il carro nel punto più alto raggiungibile, solo che senza strade era un po’ difficile far salire il carro, perciò quando arrivò ai piedi di una ripida collina, legò il cavallo a un albero e iniziò a salire. Da lassù fu certo che era finito in mezzo al nulla. 

Gira a destra, poi segui le indicazioni per il porto, andrai in discesa, così gli avevano detto. A pensarci bene lui era andato in salita, e non poco dall’inizio del viaggio. Forse si era sbagliato di nuovo a distinguere destra e sinistra. Schioccò le dita, lo faceva sempre quando era dispiaciuto. Iniziò a scrutare la boscaglia e le campagne intorno a lui in cerca di una capanna, di fumo o un qualunque segno di vita, ma non c’era anima viva, solo corvi in cielo e rumori di qualche animale tra gli alberi dietro di lui.

Si grattò la fronte e pensò che tornare indietro ormai fosse fuori discussione, presto sarebbe stato buio e il cavallo era già stanco. Sua madre gli diceva sempre che lui non era il coltello più affilato del cassetto, ma quello lo capiva bene. aggirò il boschetto per vedere dall’altro lato dell’altura poiché era certo che quella fosse la direzione giusta: da qualche parte doveva pur esserci un villaggio.
Batté le mani, lo faceva sempre quando esultava, quando notò il castello, le mura coperte di edera lo mimetizzavano tra gli alberi del bosco che lo circondava, ma da lassù Daniel aveva notato il fossato e le torri. Scese veloce e liberò il cavallo, chiedendosi cosa avrebbe trovato ad attenderlo. Sua madre gli aveva detto di raccontare sempre che veniva dal villaggio di Velda, perché tutti amano i Veldani, sono sempre amichevoli e vendono le stoffe a tutti. Il ragazzo sperò che, magari in cambio di alcune delle stoffe che portava nel carro, sarebbe stato accolto e rifocillato per la notte. Il giorno seguente se ne sarebbe andato, non avrebbe arrecato troppo disturbo. Sarebbe stato ancora meglio se avesse trovato un piccolo villaggio nel quale vendere le sue stoffe, pensò grattandosi la spalla, così non sarebbe dovuto andare di nuovo fino al porto, sarebbe solo tornato a casa.

Il cavallo aveva approfittato della breve sosta per mangiare e per riposare un po’, quindi ripartì senza troppe preghiere, Daniel invece cominciava a sentirsi davvero stanco, era quasi il tramonto e lui non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti.

Daniel fischiettava sul carro, lui e Zampebianche si avvicinavano al castello a ritmo veloce, però, più andava avanti, più si rendeva conto che qualcosa non quadrava: sembrava che quella strada non venisse percorsa molto spesso, gli alberi erano grandi, l’erba alta e i campi non sembravano coltivati. Le stesse mura del castello, a cui si stava avvicinando, erano coperte di edera completamente. 

Il ponte sopra il fossato era abbassato e l’accesso all’interno appariva libero. La realtà era che non c’era proprio una porta.

Daniel si grattò il mento e si chiese quale scelta avesse. Non era mai stato un grande pensatore, nessuno gli rivolgeva mai domande importanti, semplicemente gli dicevano cosa fare e lui eseguiva. “Se non c’è nessuno, posso dormire tranquillo. Se c’è qualcuno magari trovo compagnia.” Disse, più rivolto a se stesso che al suo cavallo, che comunque non lo avrebbe capito, in effetti.

Il ragazzo staccò l’animale dal carro e portò il suo fido destriero a quella che un tempo era la stalla. Fu felice nel notare il rubinetto a leva di un pozzo, che azionò più e più volte, fino a quando l’acqua non prese a scorrere. Riempì un secchio al suo cavallo, bevve un po’ d’acqua anche lui, si riempì la borraccia e chiuse il recinto. 

“Ora penso a me. A dopo, Zampebianche.”

Si guardò intorno. Era ormai l’imbrunire e se qualcuno fosse stato nel castello, di certo Daniel avrebbe visto una candela o magari sentito delle voci che gli avrebbero rivelato la presenza di un uomo o una donna.

“C’è qualcuno?” Urlò, le mani a conca ai lati della bocca per amplificare il suono.

Rimase in attesa per qualche istante. “Se c’è qualcuno, non è che mi risponde?” Provò di nuovo, nessuna risposta. “Per favore!” Ma a quanto pareva, non sempre la gentilezza serviva, al contrario di come gli aveva insegnato sua madre.


Daniel si guardò intorno e si grattò la testa, pensò che per trovare un letto e qualcosa da mettere sotto i denti sarebbe stato opportuno esplorare gli edifici lì intorno, quindi decise di iniziare da quello più vicino. 

La porta era aperta, ma l’edificio era del tutto vuoto.

Il ragazzo uscì, non aveva senso restare lì se non c’era niente, e continuò a cercare il luogo adatto per riposare.

Gli sembrava un po’ strano che lì non ci fosse proprio nessuno, ma sua madre gli aveva detto di non farsi troppe domande, gli aveva spiegato tante volte che lui era più bravo a fare che a pensare, quindi proseguì. Entrò in altri tre edifici, tutti piccoli, nella zona di ingresso del castello. Nel primo c’erano dei sacchi pieni di semi, uno di essi conteneva della frutta secca. Era stato abbastanza fortunato, perché non era la cena migliore del mondo, ma avrebbe mangiato qualcosa almeno. Raccattò delle noci e alcune nocciole, poi proseguì fino al secondo. Lì c’erano alcuni mobili che, se avesse avuto il carro vuoto, forse si sarebbe anche portato a casa: un bel tavolo con quattro massicce sedie di legno e una grossa stufa da cucina. L’ultimo stabile invece conteneva solo alcune armi, che però non gli servivano, quindi le lasciò lì, anche se aveva sempre desiderato avere una spada. Sua madre però gli diceva sempre che non voleva che lui si facesse male, era sicuro che lei avrebbe preferito che non le toccasse neanche, quindi si allontanò.


Si avviò in salita verso il complesso principale del castello. “C’è qualcuno?” Chiese di nuovo. Ma ancora nessuno gli rispose. Poco male, pensò: ho un castello tutto per me. 

Riuscì a entrare dal portone senza difficoltà, perché di nuovo la porta era aperta. Che strano, pensò grattandosi il mento: perché avevano lasciato tutto lì dentro senza neppure chiudere a chiave? La stanza del trono era lunga almeno come un campo, alta più di una quercia, tutta in pietra, con enormi stendardi consumati e lerci che scendevano giù dalle pareti. Daniel osservò i due troni rivestiti di bellissimo velluto, un tempo era rosso, constatò. A terra c’era un tappeto lungo tutta la sala e ai due lati di esso alcuni candelabri alti almeno quanto lui. A Daniel sarebbe sempre piaciuto sedersi su un trono, quindi con il suo sacchettino pieno di frutta secca si avviò verso la sedia regale ridacchiando e battendo le mani.

Si fermò un istante prima di prendere posto e gonfiò il petto con aria solenne. “Re Daniel è arrivato!” 

Una volta seduto, finse di ascoltare sognante gli applausi di tutto il suo popolo, che lo amava. Sua madre gli diceva sempre che era una persona buona e che era facile volergli bene.

Rimase lì a sognare conversazioni di ogni tipo con i suoi consiglieri, pensò che i cuochi gli avrebbero cucinato dello stufato di carote, che era il suo preferito, e magari anche del pane fresco.

Dopo un po’, Daniel decise che era ora di alzarsi e procedette verso il grande tavolo dietro i due troni. Si sedette e iniziò a mangiare la sua frutta secca. Per romperla utilizzò uno strano oggetto grosso e pesante di forma sferica che stava su un piedistallo di fianco al tavolo. Continuò a mangiare fino a quando non fu sazio, solo che nel rompere le ultime nocciole la sfera si ruppe in mille pezzi, rilasciando una strana polverina viola. 

Daniel tossì e schioccò le dita. “Proprio con l’ultima nocciola, che sfortuna!" 

Si alzò e si diresse verso le stanze reali. Lì c’erano i letti ancora belli fatti, solo che erano un po’ sporchi, pensò mentre si grattava la pancia. Sua madre gli diceva sempre che non sarebbe stato qualche germe a ucciderlo, quindi il ragazzo alzò la coperta e controllò che sotto non ci fossero ragni, quelli non gli piacevano molto e in effetti era pieno di ragnatele, osservò.

Sbatté qualche volta il cuscino per togliere la polvere e si mise a letto. Si addormentò subito.


Il mattino dopo si risvegliò fresco e riposato, intorno a lui non c’era più la stanza abbandonata nella quale si era addormentato, ma una camera regale verniciata di fresco, con mobili nuovi e lenzuola linde. Si grattò la fronte: era sicuro di non aver preso sonno in quella stanza e lui non era un sonnambulo, sua madre gli diceva sempre che di notte lui non muoveva un muscolo, al punto che sembrava quasi morto.


Sentì delle voci e pensò che era ora che arrivasse qualcuno, così si diresse al piano inferiore, dove trovò almeno una trentina di persone che si zittirono appena lui varcò la soglia. 


“Eccolo, ecco l’eroe!”

Daniel era un po’ preoccupato, si indicò con il dito per capire se era proprio di lui che stavano parlando. “Io sono Daniel.” Riferì. 

Un uomo elegante con dei baffetti corti e un aspetto trafelato gli corse incontro: “Hai spezzato la maledizione, hai rotto la sfera! Come posso ringraziarti?”

Il ragazzo non sapeva cosa dire. Fu portato in festa per tutto il castello e a lui e al suo cavallo furono offerti oro e ricchezze, lui in cambio lasciò le sue stoffe e il nome del suo villaggio. Lo invitarono a tornare, dicendogli che gli sarebbero stati per sempre grati. 


Così Daniel tornò a casa con il titolo di cavaliere dato dal re in persona, più ricco di quanto avrebbe sperato. Sua madre forse non immaginava che proprio lui sarebbe stato chiamato eroe da qualcuno. Era fiero di se stesso. 



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Fandom: Originale
Prompt: l'eco senza volto
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L'eco, Lana e la grotta profonda


La grotta era profonda come il mare e buia come la notte.

Una miniera scavata nell’antichità dentro la montagna, un labirinto di cunicoli stretti e profondi.

Lana era entrata per sfuggire ai soldati che l’avevano rapita dopo avere saccheggiato il suo villaggio, ma iniziava a pensare che forse il suo destino non sarebbe stato migliore ora che era imprigionata lì sotto, incapace di trovare una via di fuga. 

L’avevano seguita, era arrivata a sentire il loro fiato sul collo mentre correva nella foresta, i piedi leggeri nonostante fosse stata legata per ore prima della fuga. 

Alzati in piedi e corri, è la tua unica speranza. 

Una voce dentro di lei le aveva ordinato di scattare lontano e lei l’aveva ascoltata, poi la stessa voce le aveva detto di girare verso il bosco. Chiunque l’avesse osservata saltare le radici degli alberi e correre sicura nella foresta fitta avrebbe giurato che lei conoscesse bene il bosco, invece era la prima volta che lo percorreva. Arrivata di fronte alla grotta aveva esitato, ripensando alle leggende sugli spiriti che abitavano i luoghi sperduti sotterranei, ma le voci alle sue spalle l’avevano convinta a continuare a correre. Non pensare, entra nella grotta: è l’unica via di uscita.

Così aveva varcato la soglia e aveva corso fino a quando non era rimasta senza fiato. Solo allora si era resa conto di non sapere dove fosse.

Quanti bivi aveva preso? Quanti cunicoli aveva attraversato? Non lo ricordava, non ne aveva idea.

Sospirò e sentì un’eco, un rumore provenire da poco lontano. Si nascose chiedendosi cosa fosse in agguato nell’oscurità. Non vedeva quasi niente, ma a pensarci anche la flebile luce che le permetteva di vedere attorno a lei così in profondità non era normale. Che fosse finita nella caverna di un essere magico? Si chiese.

Al pensiero di ciò che avrebbero potuto farle i soldati, pensò che non sarebbe stato poi male essere mangiata da un ragno gigante, da un orso o da un goblin. Avrebbe di certo sofferto meno che tra le mani di quegli uomini.

Rimase in silenzio, le orecchie tese in ascolto, ma non udì altri rumori. Forse era stata lei stessa a causare l’eco. Si chiese se attendere ancora, ma presto sarebbe stata notte e lei non aveva cibo né acqua non sarebbe sopravvissuta a lungo nelle profondità oscure della terra.

Si rialzò e iniziò a camminare in silenzio. I suoi piedi scalzi non facevano molto rumore, ma, abituati com’erano alle scarpe,  erano sanguinanti e dolenti dopo la lunga corsa tra gli ostacoli della natura.

Si fermò: non aveva senso muoversi alla cieca, rischiava di andare sempre più a fondo nella grotta., quindi si chiese quale fosse il modo più efficiente per muoversi verso l’uscita della grotta. Utilizzò il suo naso per trovare traccia degli odori del bosco, i suoi occhi, per osservare raggi di luce nella quasi totale oscurità della grotta e il tatto per scovare qualche segnale scavato in giro. Non sapeva cosa fare.

“Ora la voce mi farebbe comodo.” Osservò, ma non c’era alcun suono a guidarla.

La luce pareva permeare dalle rocce intorno a lei, era la stessa in ogni direzione guardasse, al punto che Lana si immaginò di essere morta e che quello fosse il suo viaggio nella ricerca del luogo in cui avrebbe riposato per l’eternità.

Ripensò a lungo ai suoi passi e infine decise di procedere verso la salita. Nulla lungo il suo cammino le era familiare. 

Si lasciò guidare dall’istinto, cercando di ricordare le strane rocce che incontrava e le caratteristiche delle diramazioni e delle grotte.

Ora sei vicina. Continua.

Di nuovo l’eco. Lo sentiva vicino. Non era certa di potersi fidare di quella voce, ma che scelta aveva? La seguì.

Di qua, Lana.

Sentirsi chiamare per nome la fece rabbrividire.

Non avere paura, mi prenderò cura di te.

Le ultime parole suonarono come una minaccia, ma non aveva scelta.

Scese lungo una ramificazione stretta e tortuosa, riusciva a vedere il riverbero di una luce, creato dai cristalli sul soffitto della grotta: uno spettacolo che non avrebbe mai potuto immaginare e che per un istante le permise di dimenticare la fatica, il sonno, la sete e la fame che provava. Più si avvicinava e più sentiva il cuore batterle con forza nel petto. Paura e speranza erano unite in lei, mescolate in un vortice. 


La luce verso la quale si stava dirigendo non era simile a quella del sole: era bianca e fredda, pareva artificiale. Il cunicolo si allargò in una stanza larga e alta, cosparsa di cristalli bianchi. Al centro c’era un grande tavolo con una caraffa colma d’acqua, un bicchiere e un piatto coperto.

Benvenuta, Lana.

Di spalle, dall’altro lato della stanza, c’era una sagoma femminile coperta da un mantello scuro e ampio, con un cappuccio sulla testa. La ragazza era quasi certa che non fosse umana. “Grazie per avermi guidata.”

Bevi, mangia. Devi riprendere le forze.

La voce non proveniva dalla figura, era un'eco che rimbombava per la stanza, senza fonte visibile.

Lana tremava di terrore. Si sedette e prese la caraffa cercando di non versare l’acqua sul tavolo. Riempì il bicchiere e ne bevve il contenuto, sentendosi subito meglio.

Temevi che volessi avvelenarti? Se desiderassi la tua morte ti avrei lasciata vagare per i cunicoli, proprio come stanno facendo i soldati che ti hanno catturata. Loro sentono ciò che voglio e stanno percorrendo vicoli ciechi. Lo faranno fino all’ultimo respiro.

Mangia, non fare complimenti.

Lana prese il piatto e tolse il coperchio: conteneva frutta fresca. La ragazza sentì lacrime di sollievo scorrerle lungo le guance mentre addentava la pesca matura, ringraziando l’eco per la sua benevolenza.

Svuotò il piatto lasciando solo i noccioli. “Ti ringrazio.”

La figura, fino a quel momento immobile, iniziò a camminare lungo la parete della grotta, sempre dandole le spalle. Se tu potessi esprimere un desiderio, quale sarebbe?

Lana sospirò. In quel momento desiderava solamente uscire. Una parte di lei bramava la vendetta, ma a quella stava già lavorando l’eco. “Non… non ho un desiderio.”

Certo che ce l’hai. La figura era ormai vicina.

Non devi dirmelo. Fai spazio nei tuoi pensieri, rilassati. Quando mi volterò, guardami e io saprò cosa donarti.

Lana respirava affannosamente. La donna a pochi metri da lei sembrava attendere il momento giusto.

Ti darò il tempo che ti serve per liberare la mente.

Chiuse gli occhi, cercò di regolare il suo respiro e di pensare alla sua vita, da sempre segnata dalla cattiva sorte. 

Un desiderio: avrebbe voluto ricominciare daccapo, da quando era una bambina innocente.

Se solo sua sorella fosse stata con lei, se sua madre fosse vissuta. Avrebbe tanto desiderato aiutare persone innocenti a non soffrire. 

Aprì gli occhi. Di fronte a lei c’era la figura, una sciarpa a coprirle il volto. Con la mano, la donna iniziò a svolgerla. Sotto non un viso, ma il vuoto: niente occhi, né bocca, né guance o fronte. Solo una luce scura, dolorosa, sempre più forte e diretta verso di lei. Lana non riusciva a smettere di guardarla. 

Si sentì leggera come aria, volò lontano da lì in un soffio dolce.

Nel suo viaggio incorporeo vide una donna e la sua sofferenza. Conobbe la sua storia. Sentì il potere del suo desiderio di vendetta, la forza della risoluzione nella sua mente: avrebbe passato il resto della sua esistenza difendendo gli innocenti; avrebbe sterminato gli assassini e i malviventi che le sarebbero capitati a tiro. Sarebbe rimasta nella grotta, usando il suo potere dare una possibilità agli innocenti, costringendo i colpevoli a pagare il prezzo per i desideri che avrebbbero espresso al suo cospetto. Teri la reietta avrebbe sacrificato la propria umanità per cambiare i destini tristi dei meritevoli in nome della sua vendetta eterna.


Lana era nel suo letto, solo una bambina. Al suo fianco dormiva la sua sorella minore e in cucina si poteva sentire la madre che finiva di sistemare le pentole cercando di fare meno rumore possibile.

Le sue memorie erano intatte: Lana sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco ed era pronta a fare in modo che loro non le trovassero. Sarebbero scappate subito e avrebbero raggiunto il Tempio, lì era certa che le avrebbero aiutate, perché la prima volta avevano dato asilo a lei senza fare domande.

Si alzò di scatto, conscia che quella era la notte in cui avrebbe cambiato il suo destino e quello della sua famiglia.

Ringraziò nel suo cuore la valorosa Teri, ora conosciuta come l’eco senza volto, per la seconda opportunità che le aveva offerto. Non l’avrebbe sprecata.


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Prompt: The Islander - Nightwish

L'isola della Tempesta


An old man by a sea shore at the end of day

gazes the horizon with sea winds in his face

Tempest-tossed island, seasons all the same

anchorage unpainted and a ship without a name




Era ormai l’imbrunire. Il vecchio stregone Genfir osservava il mare che solo pochi minuti prima appariva calmo, iniziava ormai a vedersi la tempesta, ancora lontana. L’aveva sentita arrivare ore prima nell’odore del vento, anche se per lui non era una sorpresa poiché l’aveva predetta pochi giorni prima. Mettetevi al sicuro, ormeggiate le barche e raccogliete quanto maturo, ci aspettano giorni difficili.

Nessuno gli aveva creduto, a quel tempo. “Non è stagione per la tempesta, vattene a casa a riposare, vecchio!”

Era vero, le tempeste erano rare in quel periodo dell’anno, ma non era sempre stato così. Anni e anni prima, quando lui e il suo equipaggio erano arrivati all’isola all’epoca disabitata, le stagioni erano tutte uguali, tutte avvolgevano l’isola in tempeste violente e invalicabili. Del resto lui era vivo da quasi duecento anni e aveva visto cose che loro non erano neppure in grado di immaginare, loro erano solo umani, semplici e comuni umani. Era certo che la maggior parte di essi fosse stata sulla terraferma solo per andare ad acquistare prodotti a Markensfeld, dove attraccavano le imbarcazioni che navigavano tra il la terraferma e l’isola.

Era probabile che nessuno di loro avesse davvero viaggiato nel continente o sulle coste fuori dall'isola, al contrario di lui che da giovane aveva conosciuto e visto tutto il mondo.

Sì, le stagioni erano tutte uguali lì. Le tempeste potevano arrivare quando lo desideravano.


Il vento sui capelli lunghi di Genfir era ancora piacevole. Sapeva di sale, di pioggia e di sabbia. Il vecchio si chiese quanto tempo avrebbe avuto a disposizione per ammirare le nubi lontane e il cielo che si colorava di nero prima di dover tornare all’interno della sua abitazione. Tra le mura non si sarebbe potuto dire al sicuro, ma di certo sarebbe stato più protetto che all’esterno. 

Lo stregone sapeva che le origini del villaggio erano state dimenticate alla morte della prima generazione di abitanti, così come le sue origini. La magia era diventata qualcosa di remoto, confinato alle regioni ricche del sud e alla città di Magana dove quasi tutti gli stregoni e le streghe vivevano. Al di fuori restavano solo pochi sciamani o guaritori erranti, ancora fedeli ai principi che un tempo avevano governato il loro popolo. Lui era rimasto al villaggio, celato al ricordo del mondo dalla sua apparenza di vecchio. Dimenticato dai suoi simili e da chi abitava l’isola.

All’orizzonte vide delle vele, ma non riconobbe la nave. 

“Stiamo aspettando dei carichi?” Chiese Lania, la governatrice del villaggio, arrivata alle sue spalle.

“No, ma potrebbe essere qualche commerciante.” Il vecchio si alzò e si voltò verso la donna, sembrava preoccupata, conscia di ciò che stava per accadere.

“Non ha scelto un buon momento, la tempesta sembra essere forte, speriamo che la nave riesca ad arrivare illesa.”

Genfir le andò di fronte. “Questo è l’inizio, lo sai, vero?”

Lania scosse la testa. “Sono leggende, non credi?”

Lei non sapeva la verità, che la leggenda dell’isola della tempesta si riferiva proprio alla loro casa: un luogo impossibile da lasciare o da raggiungere, costantemente tenuto in scacco dalle correnti circolari che non permettono alle navi di attraccare. Un luogo protetto e isolato da una maledizione.

“Voi siete ancora giovani. Lania, pensi che io sia un anziano consigliere, ma da quanto tempo mi conosci?”

La donna aggrottò la fronte. “Da sempre. Cosa vuoi dire?”

Genfir rise. “E da sempre ti appaio come un vecchio, vero? Perché sono qui dal giorno in cui il villaggio fu fondato. È incredibile come sia facile dimenticare chi si ha di fronte, quando si ha una vita davanti e molte responsabilità. Sono sempre stato un vecchio. Lo sono da almeno un centinaio di anni.”

“Sei davvero uno stregone?” Chiese, un sorriso abbozzato, quasi a deriderlo.

“Arrivai qui centoquarantasei anni fa.” Ammise. “All’epoca l’isola era deserta, ma quando la esplorai fu chiaro che qualcuno prima di me l’avesse visitata, ma anche abitata. C’erano vecchie abitazioni semidistrutte, strutture che in tempi più antichi di me funsero da porto, da mercato. La banchina era grezza, sembrava essere stata costruita in fretta. Non era dipinta. Fu in una sera come questa che arrivammo su una nave senza nome per cercare il tesoro dell’Isola della Tempesta. Giurammo tutti di proteggere questo luogo, senza sradicare inutilmente gli alberi o rovinarne le sinuose coste, senza avvelenare il fiume o varcare le soglie della grotta proibita.  Il mare ci lasciò arrivare e ci permise di restare. Protessi la nave con la magia, usando formule e cospargendo materiali incantati che avevo raccolto e conosciuto nel corso dei miei viaggi. Si dice che viaggiare su una nave senza nome porti sfortuna, io e i miei quattro accompagnatori scegliemmo di scommettere il contrario, dal momento che nessuna imbarcazione era attraccata sull’isola in decenni.  Pensai che il nome della nave potesse essere visto dal vento e dal mare come una dichiarazione, una prevaricazione sul luogo sacro in cui viviamo.

Sembrò che il nostro arrivo avesse mitigato i forti venti e le correnti. Restammo sull’isola, iniziammo a cercare il tesoro, ma col tempo fummo catturati dalla bellezza del paesaggio, dalla ricchezza della natura e dai frutti della terra.

Il clima sembrava essersi mitigato, quindi fondammo il villaggio.”

Lania si sedette di fianco a Genfir. “Ricordo che raccontavi ai bambini del villaggio queste leggende. Forse sei solo un cantastorie.” Si voltò a guardarlo. “In molti ti considerano strano, ma mio padre, e mio nonno prima di lui, mi avevano avvisata: se tu mai avessi dato consigli, io avrei dovuto ascoltarti. Parlavano di te come un vecchio amico.”

“Lo era. Tuo nonno era con me quando fondammo il villaggio. Tuo nonno era un giovane marinaio con il desiderio di trovare una casa, io all’epoca ero già maturo. Sono passati almeno un centinaio di anni da allora. Decidemmo di tenere la nave senza nome attraccata tra le insenature, nelle profondità del fiume per proteggerci. Il villaggio è ancora giovane, la terza generazione ha iniziato ad abitare le sue rive e il rispetto per l’isola si sta dimenticando. È compito tuo rafforzare la memoria della storia. Solo così le tempeste si placheranno.”

Lania annuì. “Cosa pensi che accadrà ora? Credi che torneremo a essere isolati?”

“Nessuno può dirlo. Io posso solo darti consigli e cercare di proteggere l’isola coi miei incantesimi. Ho giurato che nel momento in cui gli uomini avessero iniziato a non mantenere la promessa fatta il giorno della fondazione me ne sarei andato. Forse le cose hanno già iniziato a cambiare, ma possiamo ancora recuperare.”

“Non sarà facile…”

“Con lo sviluppo della tecnologia in molti cominciano a dimenticare il rapporto che in passato gli uomini avevano con la natura. Qualche giovane imprudente si può essere introdotto nella grotta, se così fosse è necessario che io rimetta i sigilli al loro posto.”

“In molti pensano che queste siano leggende, la curiosità è umana e giovane come i ragazzi che non credono nelle mistiche divinità della natura.” Li difese la donna.

“Mi piace pensare che ci sia ancora qualcosa da fare per dimostrare che qui gli uomini siano diversi. Ti aiuterò.”

Genfir e Lania si diressero insieme verso la piazza cittadina e suonarono la campana per radunare gli abitanti. Avevano un allarme da dare e un’importante storia da raccontare.


Il villaggio sull’Isola della Tempesta prosperò finché lo stregone Genfir percorse le sue strade, indolcendo la natura e piegando il volere degli uomini che la abitavano. 

Alla sua morte la nave senza nome fu abbattuta, la grotta fu saccheggiata e delle case del villaggio non rimasero che rovine. La banchina che un tempo era grezza, ora dipinta con vernice bianca fu lasciata a scrostarsi e a distruggersi in balia del vento e delle onde del mare in tempesta, che non permisero più a umani ingrati di vivere nella casa degli dei. 

quistisf: (Default)
Fandom: originale
Prompt: storia con due finali
Wordcount: Cap. 1 - Routine - 2004
Finale 1 - Seguire il sogno - 2078
Finale 2 - Seguire il cuore - 2070

Capitolo 1 - Routine



Spense la sveglia con una mano, prima ancora che iniziasse a suonare. Non aveva dormito bene, ma non era una sorpresa, le capitava spesso di passare le notti a rigirarsi nel letto. A volte quando non riusciva a prendere sonno si rifugiava nel suo smartphone e iniziava a scorrere video e immagini cercando di svuotare la mente carica di pensieri, ma non funzionava, anzi: come aveva sentito in programmi TV pomeridiani di dubbia serietà e letto in seguito anche da fonti più attendibili, quella non era una soluzione, ma un’amplificazione del problema. 

Infatti continuava a  passare le notti fissando il buio della sua stanza, svegliandosi in piena notte senza apparente ragione.


Si alzò sbadigliando, col collo dolorante per la posizione sbagliata - era ora di provare anche a cambiare il cuscino -, si infilò le ciabatte alla cieca e si diresse in cucina dove la aspettava il suo caffè del mattino.


“Devo smettere di bere tutto questo caffè.” Si disse senza convinzione, perché sapeva che era probabile che nel corso della giornata ne avrebbe bevuto parecchio. Alzò le spalle, rassegnata, mentre si specchiava sull’immagine distorta che vedeva riflessa sul vetro del forno. “Magari dalle cinque del pomeriggio non ne bevo più, prima faccio quel che posso.”

Accese la macchina e inserì una capsula. Posizionò la tazzina pensando che quella fosse una azione poco sostenibile. “Oggi vado a comprare le capsule compostabili.” Di nuovo era rivolta al suo riflesso. Doveva smetterla di parlare da sola, ma non era abituata a stare da sola e non era facile passare la giornata in silenzio.

Sei mesi fa se n’era andato lui, e da qualche settimana sua sorella si era anche ripresa il gatto. Il suo unico compagno in quella casa troppo grande.

Le mancava, del resto l’aveva tenuto solo per sessantacinque giorni, il tempo necessario perché la ristrutturazione a casa di sua sorella fosse conclusa, non poteva pretendere di rubare il suo gatto.

Premette il pulsante e osservò il liquido scuro scendere e il fumo alzarsi intorno alla tazza. Si sedette sul divano, la tazzina in una mano e una fetta biscottata nell’altra. “Ma così cadono le briciole!” Disse in tono canzonatorio, ormai non le importava delle briciole e comunque quella sera avrebbe pulito, quindi non era un problema. Fece colazione pensando a Paki e al suo pelo sparso in giro per l’appartamento, a quanto all’inizio le aveva dato fastidio. Ora le mancava il piccolo Pachino.

“Magari mi prendo un gatto.” Sorrise, il pensiero la fece sentire un po’ meno sola.

O forse no, pensò inclinando la testa di lato. Doveva prepararsi per andare al lavoro, non era il momento di prendere decisioni così importanti, soprattutto non quella mattina e non mentre era così assonnata.



Celeste aveva studiato a ragioneria. Non per sua scelta, più per decisione dei suoi genitori che le avevano spiegato quanto quella fosse la decisione più conveniente per il suo futuro. Lei aveva tentato di lamentarsi agitando di fronte a loro con la sua debole convinzione i test attitudinali che dimostravano il suo interesse per l’ambiente umanistico o turistico. Sua madre le aveva strappato i fogli dalle mani liquidandoli come “Le sciocchezze che vi mettono in testa a scuola” e suo padre si era limitato a ripetere “Hai bisogno di qualcosa che ti permetta di lavorare dopo le superiori, ti iscriviamo lì.” 

Avrebbe voluto puntare i piedi e anche le braccia per convincerli a iscriverla al turistico o a un liceo linguistico, ma aveva rinunciato, non aveva la forza di opporsi a loro. Con un sospiro aveva immaginato tutta la sua vita, l’aveva vista passarle davanti agli occhi: i viaggi, il lavoro in giro per il mondo. Avrebbe conosciuto persone interessanti e culture distanti. Avrebbe imparato a parlare perfettamente inglese, tedesco e magari anche una lingua orientale come il cinese o il giapponese. Forse si sarebbe trasferita distante e avrebbe rivisto i suoi solo a Natale, a volte sarebbero andati loro a trovarla nella sua casa piccola, ma ben organizzata.

I pensieri erano scivolati via, ma a volte tornavano, soprattutto quando ascoltava le lezioni di economia aziendale senza alcun interesse e si perdeva in se stessa cercando di non addormentarsi.

Faceva il suo dovere, ma non riusciva a immaginarsi una vita intera a parlare di bilanci e di conti. Pensava che piuttosto avrebbe preferito un lavoro più umile, ma meno noioso.

A casa i suoi invece avevano continuato a parlare del suo futuro roseo e sicuro in una delle aziende lì intorno. “Con le conoscenze di papà troverai subito un buon posto, vedrai!” Le diceva la mamma sorridendo entusiasta, una mano posata sulla spalla di Celeste, che sospirava sentendosi invisibile.

La scuola era finita e suo padre l’aveva accompagnata al primo colloquio in un’azienda di amici di famiglia. Era stata assunta subito come apprendista e non si era lamentata, anzi. Era felice all’inizio, perché avere una busta paga le permetteva di comprarsi ciò che desiderava, di uscire coi suoi amici. Un giorno avrebbe usato i suoi risparmi per andare in vacanza per conto suo, forse in giro per il mondo.


Aveva conosciuto Stefano mentre camminava per il centro in un pomeriggio di primavera. Era in compagnia di una sua amica che le aveva chiesto di accompagnarla in un’uscita a quattro. “L’amico di Luca e simpatico, vedrai: ti piacerà!”

Celeste si era fatta trascinare, la sua vita era una deriva durante la quale le decisioni continuavano a essere prese da altri per lei, ma in fondo non le dispiaceva, perché non stava poi così male, anzi: il lavoro non la faceva impazzire, ma le dava da vivere e si era anche potuta mettere da parte un piccolo gruzzoletto che le avrebbe permesso di comprarsi un appartamento, quello che i suoi consideravano “un punto di partenza per il futuro”, non era ancora andata a fare il suo viaggio intorno al mondo, ma forse sarebbe andata in Giappone in vacanza quell’estate insieme a un gruppo di amici. Stefano era in effetti simpatico e aveva dimostrato da subito un particolare interesse per il lavoro di Celeste. Non le era dispiaciuto passare del tempo insieme, quindi si era lasciata convincere a uscire con lui e in breve avevano iniziato a fare progetti a cui la ragazza non aveva mai pensato prima di allora.


Quell’estate non era andata in vacanza, perché lei e il suo fidanzato avevano in programma di mettere su una famiglia, quindi si dovevano impegnare a risparmiare per il futuro. Celeste aveva tentato una volta di più di organizzare comunque un viaggio, alla fine si erano concessi una settimana al mare e lei si era rassegnata a trarne il più possibile. 

Quando compreremo la casa, quando ci sposeremo, quando avremo abbastanza da parte… c’era sempre una condizione fuori posto per il suo viaggio dei sogni, al punto che Celeste si era messa il cuore in pace e aveva smesso di chiedere.


Avevano cercato casa insieme, ma al momento della formulazione della proposta immobiliare lei si era resa conto che Stefano avesse parlato tanto di risparmi, ma non avesse in realtà fatto azioni concrete per potersi permettere l’acquisto della casa di cui avevano parlato.

“Per ora perché non andate a stare dalla nonna? Tanto lei è in casa di riposo e non ci vive nessuno, è la soluzione migliore.” Le aveva proposto sua madre. Come tutti si aspettavano, la nonna le aveva fatto preparare un regolare contratto di affitto che la nipote e il suo compagno pagavano regolarmente ogni mese.


La vita insieme si era rivelata meno romantica di quanto Celeste aveva sempre immaginato: Stefano era disordinato e non aveva i suoi stessi standard di pulizia. La ragazza era cresciuta in una casa splendente in cui ogni faccenda andava sbrigata appena possibile. Non c’erano scuse per evitare di fare la propria parte per nessun membro della famiglia. Il suo fidanzato invece se ne stava sul divano e la invitava a fargli compagnia. “Facciamo dopo, adesso rilassati.”

Solo che dopo un po’ di tempo si era resa conto che era sempre e solo lei a fare ciò che serviva. Stefano lavorava e tornava stanco: “Puoi preparare tu la cena stasera?”

Così lei preparava la cena, teneva in ordine, puliva e lavorava. Metteva in ordine i vestiti e spolverava, pagava le bollette e teneva sotto controllo la burocrazia, del resto era il suo lavoro, quindi era più brava di lui.


Ricordava ancora il giorno in cui si era resa conto di non essere felice. Era a passeggio con la sua amica Silvia per le vie del centro città, quando lei si era fermata di fronte alla vetrina di un negozio specializzato in colori artistici: “Vorrei tanto regalare a Luca quel set, gli piace così tanto dipingere e sta aspettando perché costa troppo. Spero di poterlo prendere per il suo compleanno.” Celeste aveva osservato gli occhi della sua amica brillare di orgoglio e di amore e si era chiesta cosa avrebbe potuto regalare a Stefano. Si era resa conto che lui non faceva niente di interessante, quando l’aveva conosciuto almeno giocava a calcio, non le piaceva, ma almeno era un impegno, ora nemmeno più quello, guardava solo le partite. Lei stessa non faceva più niente di interessante. Un brivido gelido le era corso lungo la schiena e aveva smesso di ascoltare la storia divertente che la sua amica stava raccontando.

La vita di Celeste era vuota. La realizzazione la lasciò distrutta.


Quella sera era arrivata a casa e aveva lanciato le chiavi sulla cassettiera. Si era distesa sul divano scalza e aveva acceso la televisione, l’aveva lasciata andare senza ascoltare, utilizzandola come sottofondo ai suoi pensieri che non le stavano dando pace.

Stefano era arrivato canticchiando dall’uscita coi suoi amici e aveva lanciato le chiavi al suo stesso modo. “Ho già mangiato.” Aveva detto togliendosi le scarpe di fianco alla porta e poi se n’era andato in bagno, probabilmente per farsi una doccia. Lei era rimasta lì immobile. Era ancora invisibile, evidentemente.


Si erano lasciati poche settimane dopo. Era bastato che lei smettesse di legarli perché ciascuno di loro iniziasse a percorrere la propria strada. Stefano all’inizio ci era rimasto male, ma non era riuscito a rispondere alle domande di Celeste: cosa facciamo insieme? Perché vuoi stare con me? Cosa mi piace? Chi sono io, lo sai?


Era convinta che fosse stato meglio così, ma era rimasta sola. Aveva passato i primi quindici giorni a piangere, poi aveva iniziato a notare alcuni fattori positivi: la casa era più ordinata e Celeste ora poteva comprare ciò che voleva da mangiare. Non si sentiva in colpa nel prendersi il suo tempo e non provava più la necessità di cercare sempre e comunque la perfezione. L’aveva detto ai suoi genitori dopo qualche giorno e per loro era stato più difficile accettare la situazione, ma non c’erano alternative, la decisione era definitiva.

Poi era arrivato Paki, il suo miglior coinquilino fino a quel momento.



Uscì dalla porta vestita come sempre: pantaloni sobri, scarpe nere, comode ed eleganti, maglioncino leggero adatto all’ufficio e un cappotto nero come il suo umore.

Prese l’automobile e si recò al lavoro. Era incredibile come col tempo avesse iniziato a riconoscere gli altri lavoratori che incrociava ogni mattina, sempre alla stessa ora: C’era l’uomo stempiato sempre di fretta che sembrava imprecare ogni volta che un semaforo diventava rosso, poi la donna che sbadigliava di continuo. C’era quello che cercava sempre di sorpassare e tallonava chi gli stava di fronte e la signora che rallentava di proposito per farlo passare, che ogni volta gli rivolgeva insulti dopo il sorpasso.

Forse qualcuno avrebbe potuto definire Celeste quella che non ride mai, oppure quella invisibile.

In ufficio in genere era da sola. Era considerata affidabile, almeno così le avevano detto i capi in occasione dell’incontro annuale nel quale non davano mai alcun bonus, ma facevano sempre un sacco di complimenti.

Entrò con un sorriso salutando i colleghi, almeno avrebbe dovuto fare meno ore del solito.






FINALE 1 - Seguire il sogno -


 
 

Quel pomeriggio uscì dall’ufficio alle tre del pomeriggio. Non era solita avere del tempo libero così presto nei giorni feriali, quindi decise di non andare direttamente a casa. 

Si sentiva molto stanca a causa del mancato sonno della notte precedente ma pensò che fare una passeggiata prima di tornare a  casa l’avrebbe aiutata a riposare meglio durante la notte e non nel pomeriggio, anche perché era certa che se fosse tornata a casa subito avrebbe passato il tempo pulendo in giro o si sarebbe fatta un bel pisolino. 

Si domandò se chiamare Silvia, ma poi ripensò a quanto Luca e Stefano fossero amici e lasciò perdere, forse ci sarebbe voluto un po’ di tempo in più per parlare con lei liberamente. Non credeva che l’amica le avrebbe negato la sua compagnia, ma era certa che il suo ex fidanzato, avvelenato dalla rottura, avesse passato parecchio tempo con la coppia in quel periodo a raccontare quanto lui fosse triste e quanto Celeste fosse stata cattiva. Poteva immaginarlo mentre si dipingeva da vittima innocente della situazione anziché prendersi le proprie responsabilità. Si è in due in una coppia, sia quando le cose vanno bene, che quando le cose finiscono.

In tutta onestà Celeste era convinta che Stefano avrebbe potuto recuperare il rapporto con lei se solo si fosse impegnato un po’ e che la maggior parte dell’impegno nella coppia l’avesse da sempre messo lei, ma si stava sforzando di non recriminare.

 

Pazienza, pensò, avrebbe fatto un giro per il centro da sola. In fin dei conti era ancora presto e lei aveva proprio bisogno di comprarsi qualcosa per tirarsi su il morale, fosse stata anche una pizza per cena, ci avrebbe pensato al bisogno.

 

Girò per le vie in cerca di un parcheggio e fu fortunata, perché ne trovò uno proprio dove sperava, di fronte all’agenzia di viaggi di cui osservava sempre la vetrina quando passava di lì. Scesa dall’auto si chiese se fosse stato il destino a farla parcheggiare proprio lì. Si fermò a osservare le proposte e le immagini di luoghi esotici in vetrina, incantata. Le sue stesse parole le riecheggiarono nella mente: “A cosa serve ormai una agenzia viaggi? Con internet si può organizzare tutto da soli.” Lo pensava davvero, ma si chiese se avrebbe avuto l’energia per farlo davvero. Senza neppure rendersene conto si ritrovò dentro l’ufficio.

 

La donna al bancone le sorrise: “Buonasera, come posso esserle utile?”

Celeste si schiarì la voce. “Veramente… io non ho molte idee, è da tanto che voglio fare una bella vacanza… però non so cosa… neanche dove in realtà.” Rise, imbarazzata.

L’impiegata però continuò a sorridere come se fosse abituata a incontrare potenziali clienti come lei: persone un po’ perse, che cercano risposte alle loro vite vuote in agenzia viaggio: “Io sono Elena. Ora ho tempo, se vuole posso rispondere a tutte le sue domande, oppure le posso lasciare qualche opuscolo da guardare.” Le indicò la sedia di fronte a lei con fare quasi materno.

A Celeste sembrò quasi che la vedesse per com’era veramente e accettò l’invito, “Mi chiamo Celeste, può darmi del tu.” la ragazza si sedette e iniziò a osservare i depliant sul tavolo. La donna invece restò in piedi, con il suo sorriso smagliante le puntò contro l’indice: “Ho un’idea!” 

Si allontanò e tornò indietro con un mappamondo grande poco più di una palla da calcio. Lo posò di fronte a lei trionfante. “Dove vuoi andare?” 

Celeste ripensò al suo passato: a tutte le volte che aveva sognato di partire per un lungo viaggio itinerante con una valigia da riempire nel corso della sua avventura con i ricordi di ciò che avrebbe vissuto, dei luoghi che avrebbe visitato. Aveva immaginato di incontrare persone nuove, che sarebbero diventate nuovi amici nel villaggio globale che il mondo intero stava diventando.

“Non lo so.” Disse, facendo ruotare il mappamondo con la mano. Chiuse gli occhi e puntò il dito a caso, come immaginava nel mezzo dell’Oceano Pacifico. Pensò che ne avrebbe comprato uno decorativo da mettere in salotto, uno di quelli grandi e pesanti col supporto in legno. “Però vorrei andare al caldo.” Rise. “Devo fare il passaporto,” realizzò e guardò preoccupata la donna: “Quanto tempo ci vuole?”

Lei scosse la testa. “Non si preoccupi per quello, le spiegherò tutto. Dobbiamo pensare a una cosa alla volta e per ora possiamo lasciare perdere la burocrazia.”

“Allora da dove cominciamo?” 

“Dalle mie domande. La prima è semplice: hai date flessibili o ci sono giorni precisi in cui vorresti andare in viaggio?”

Celeste ci pensò un attimo. “In agosto l’ufficio chiude, ma posso prendere ferie anche in altri momenti, anche perché lo fanno tutti gli altri. Flessibili, quindi.”

“Benissimo, allora seconda domanda: quanto tempo vuoi stare in viaggio?”

“Due settimane, oppure tre.” Non dovette pensare, il problema era che nella sua testa aveva già organizzato talmente tanti viaggi da non riuscire a decidere il luogo di destinazione. Ogni viaggio che aveva immaginato però era lungo abbastanza da permetterle di esplorare il territorio, di riposare e di fermarsi a osservare e conoscere le tradizioni, di assaggiare i cibi tipici e vivere esperienze distanti da quelle proposte ai turisti veloci, che viaggiano da un luogo all’altro scattando foto e correndo da una destinazione all’altra.

“Molto bene, preferisci un villaggio vacanze o qualcosa di più libero?”

Celeste sospirò. “Dipende dalla zona, vorrei sentirmi al sicuro perché devo viaggiare da sola…”

Lo sguardo dell’impiegata cambiò all’improvviso: “Potrebbe interessarti un viaggio di gruppo tra sconosciuti?”

La ragazza esitò. “Io… non lo so, forse preferisco andare da sola questa volta.”

La tour operator alzò le spalle. “Certo, va benissimo, era solo una proposta che in genere piace alle ragazze, perché dà un po’ di sicurezza in più, ma possiamo trovare una soluzione, più di una in realtà.”

“Grazie, a me basta non andare in crociera, mi terrorizzano.” Ammise Celeste ridacchiando in modo nervoso, domandandosi perché non avesse messo prima questo paletto.

“Dunque, ricapitolando: vorresti viaggiare per due settimane in un luogo caldo, in agosto ti sarebbe comodo, ma puoi considerare altri periodi.  Per te è importante che la destinazione ti faccia sentire al sicuro.” riportò in un foglio l’elenco puntato delle caratteristiche del viaggio, poi iniziò a far sbattere il tappo della penna sul tavolo, sembrava immersa nei pensieri. “Ultima domanda: quale è stato il tuo viaggio preferito, in tutta la vita?”

Celeste prese fiato, ma non sapeva cosa rispondere. “A dire la verità non ho viaggiato molto. Con i miei genitori, quando ero piccola, ogni anno per due settimane andavamo al mare qui vicino, sempre nello stesso appartamento e con le stesse persone nel condominio vicino alla spiaggia. Non sembrava neanche una vacanza negli ultimi anni, era più una routine estiva. Io qualche anno fa sono andata a visitare Roma con una mia amica e con la scuola l’ultimo anno siamo stati in gita a Praga. Lì mi sono divertita perché era tutto organizzato,  abbiamo visitato musei e luoghi interessanti nella città. Mi piace l’arte e mi sono divertita anche con la classe, gente della mia età.” Si fermò e osservò l’agente turistica che scriveva ancora. “Camminare mi piace, ma non in montagna, anche perché non sempre c’è molto da vedere. E poi non sono molto allenata” ammise.

“Ti muoveresti volentieri in treno o in metropolitana?” Chiese.

“Sì, in treno soprattutto.”

La donna si fermò. “Allora ti dico quello che farei io, ti do qualche alternativa e poi tu decidi cosa fare.”

Le consigliò un viaggio nel sud della Spagna, all’insegna della scoperta dei luoghi della storia, tra Siviglia e Granada. Lì sarebbe stata più libera di muoversi in autonomia e con comodità, inoltre si sarebbe sentita più a casa e a suo agio anche con la lingua. 

Poi le propose una vacanza incentrata sul relax a Cipro, dove avrebbe avuto il tempo di rilassarsi e di immergersi nella storia tra i templi di Nicosia e di Paphos e le chiese bizantine. 

La sua ultima proposta consisteva in un viaggio di gruppo in Giappone, organizzato in modo da visitare Tokyo e la zona di Kyoto. “So che hai detto no ai viaggi di gruppo, ma puoi stare in stanza singola e con gruppi di persone della tua età, o comunque molto vicini al tuo gruppo. Io penso che sia una buona occasione per conoscere gente nuova con la tua stessa passione e anche per viaggiare in modo più sicuro e controllato. Pensaci.” 

Le diede alcuni riferimenti e un sito dal quale prendere qualche informazione in più. Non le fece firmare niente, e la cosa un po’ la stupì. “Spero di rivederti, ricorda che per il Giappone avrai bisogno del Passaporto, quindi ricordati di metterti in movimento il più in fretta possibile per fare in tempo. In genere consentono le prenotazioni a chi ha un volo prenotato, io posso aiutarti se dovessi averne bisogno, basta che torni, quando vuoi. Chiama il numero nel biglietto da visita se vuoi un appuntamento.”

 

Celeste salutò l’agente turistica, grata di avere sognato ancora. Una volta fuori si sentiva allegra: era come se un pezzo del puzzle della sua vita finalmente avesse trovato la posizione giusta, era il primo, ma c’era ancora molto da fare.

Aveva passato un’ora all’agenzia, quindi prese qualcosa per cena e tornò direttamente a casa. Dopo averci pensato tanto nell’ultimo periodo, decise che era ora di trovare una coinquilina per quella grande casa nella quale era deprimente passare le giornate da sola a parlare con il proprio riflesso. Sperava in un gatto, ma pensò di iniziare a far girare la voce in ufficio, ne avrebbe parlato il giorno seguente, magari per una volta avrebbe fatto la famosa pausa caffè coi colleghi che nell’ultimo periodo aveva accuratamente evitato.

Quella sera dormì sognando il Giappone e i fiori di ciliegio in fiore; i mari azzurri di Cipro e il clima caldo e allegro della Spagna. Nel suo sogno i paesaggi erano nitidi come cartoline o fotografie coi colori accesi delle riviste di viaggio che aveva sfogliato poche ore prima. Passava da una cartolina all’altra come solo in un sogno era possibile fare. 

 

Per la prima volta da quando Paki non viveva più con lei, si svegliò riposata e si alzò canticchiando. In macchina scelse di ascoltare della musica al posto dei soliti podcast e cantò a squarciagola fino all’arrivo all’ufficio. Scese sorridente con l’idea di chiedere subito quale fosse disponibilità per le sue ferie quell’estate.

Si stupirono della sua richiesta di tre settimane, ma accettarono senza farle troppe domande. “Ormai pensavamo che non saresti mai partita per uno di questi viaggi di cui parli sempre, era ora!” Lei sapeva già quali erano i periodi più pesanti per l’ufficio e non aveva intenzione di partire durante quei lassi di tempo. Rassicurata, mandò un messaggio all’agenzia appena fuori dal lavoro.

Era vero: a volte al lavoro si annoiava e spesso pensava che probabilmente non sarebbe rimasta lì per sempre, ma in fondo non si trovava così male, anzi: i suoi capi erano persone oneste e si erano sempre comportati bene con lei e coi colleghi, li rispettava.

L’azienda era seria e affidabile. Poteva ritenersi fortunata.

Si era sempre lasciata trascinare dalla vita per evitare discussioni, per non far sentire chi le stava intorno in colpa o per semplice codardia. Non sapeva per quanto tempo avrebbe mantenuto quel desiderio di migliorare la sua vita e di vivere i suoi sogni e la risoluzione di cui aveva bisogno per cambiare in concreto la sua vita. 

Non le importava. Le bastava iniziare dal primo passo: partire per il primo dei tanti viaggi della sua vita. 

Mentre cercava le chiavi dell’auto sentì una voce alle sue spalle. “Ho sentito che cerchi una coinquilina!” 

“Oh, ciao Ambra, mi hai spaventato!” L’aveva sempre considerata una ragazza simpatica, ma non le aveva mai davvero parlato di qualcosa che non fosse relativo al lavoro. “Cerchi casa?”

“Sì, ormai è da un po’ che penso di andare via dall’appartamento dei miei, solo che continuo a rinviare perché non trovo niente di interessante. Se ti va possiamo parlarne, conoscerci meglio.”

Celeste annuì. “Sì, magari facciamo un giro in centro uno di questi giorni, così ne parliamo. Conosco un posto carino per farci un aperitivo!”

Un passo alla volta avrebbe realizzato tutti i suoi sogni, il primo l’aveva fatto, gli altri erano dietro l’angolo.


 
 


FINALE 2 - Seguire il cuore -

Quel pomeriggio uscì dall’ufficio prima del solito. Il direttore aveva mandato tutti a casa per una questione aziendale di cui Celeste aveva scelto di non informarsi, visto che non era necessario. Era il giorno giusto per uscire presto, pensò sbadigliando: si sentiva stanchissima, ma nonostante questo non aveva alcun desiderio di andare a casa perché sapeva che avrebbe finito con l’andare a dormire quasi subito e avrebbe buttato tutto il pomeriggio. Osservò il sole alto nel cielo di marzo e pensò che non avesse senso lasciarsi scappare l’opportunità di passeggiare per il centro in quella splendida giornata quasi tiepida di fine inverno.

Aprì la porta dell’automobile e rimase per un istante a chiedersi se chiamare o no la sua amica Silvia, ma pensò che non fosse il caso vista l’amicizia che condivideva con il suo ex fidanzato. Quel pomeriggio si sentiva stanca e priva di filtri, non voleva rischiare di dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentita.

“Celeste, sei ancora qui?” Immersa nei suoi pensieri com’era, la ragazza non sentì arrivare la collega alle sue spalle. Si spaventò d’istinto e lasciò cadere le chiavi sull’asfalto tra il marciapiede e l’auto.

“Scusa, non pensavo di spaventarti!” Rise Ambra, la sua collega del reparto commerciale, per poi chinarsi a raccogliere il mazzo di chiavi.

Celeste si chinò insieme a lei, imbarazzata. “Grazie, non serviva! Tanto le chiavi non si rompono.” 

“Oh, figurati, pensavo stessi aspettando qualcuno, eri lì ferma, in piedi.”

“No, mi stavo solo chiedendo dove andare oggi pomeriggio visto che è una bella giornata.”

Ambra annuì, sorridente “Hai ragione! Perché non vai al nuovo negozio di vestiti che hanno aperto in centro in via Pascoli? Ho visto il volantino e mi sembra il tuo stile!” 

A Celeste scappò una risata. “Il mio stile? Quindi noioso? Scuro e cupo, sempre tutto uguale?” 

La collega fece un passo indietro, il volto arrossito per il disagio. “Io… intendevo che è elegante…”

“No, scusa,” La ragazza agitò le braccia per scusarsi. “Hai ragione, sono io che mi vesto così per… per lavoro. Però mi piacerebbe provare qualcosa di diverso, magari più colorato, mi piace come ti vesti tu, magari puoi… aiutarmi? Se ti va.”

Ambra aveva più o meno la stessa età di Celeste, ma aveva uno stile completamente diverso anche sul lavoro: si poteva considerare piuttosto elegante, ma abbastanza giovanile. Spesso indossava abiti sobri, con una punta di colore che li rendeva interessanti. Era in grado di far trasparire la sua personalità anche da come si vestiva, almeno questo era il pensiero di Celeste, che in effetti non la conosceva bene come avrebbe voluto. Forse perché lei ha una personalità, per questo ti sembra che ce l’abbiano i suoi vestiti, sciocca che non sei altro,  si disse la ragazza, sospirando.

“Io ti ringrazio. Io non faccio niente di speciale, non ho neanche un negozio preferito a dire la verità e non ho mai dato consigli, anzi… però se vuoi una volta possiamo andare insieme a fare shopping, non siamo mai andate da nessuna parte insieme fuori dal lavoro.”

Era vero: Celeste non era mai andata da nessuna parte con gli altri dipendenti dell’ufficio. Al mattino lei entrava nel suo cubicolo, un luogo chiuso nel quale aveva a che fare solo con se stessa e sentiva i suoi colleghi solo via email, era raro che si vedessero di persona perché Celeste preferiva stare rintanata lì anziché uscire, dove il rumore di fondo di chiacchiere e risate le impediva di concentrarsi e di fare il suo dovere.

Forse le sue abilità sociali erano regredite al punto che si poteva considerare davvero un caso disperato. Non sarebbe rimasta ad aspettare ancora, però. “Perché non andiamo oggi?” Chiese, pentendosi immediatamente della sua proposta.

Ambra restò per un istante a bocca aperta, poi osservò l’orologio e Celeste si domandò se stesse trovando un modo per declinare con gentilezza. “Oggi? Adesso? …Si può fare, certo! Però ho un piccolo problema.” La collega arricciò il naso. “Oggi non ho la macchina, dovevo prendere l’autobus, quindi… io sono felice dell’invito, ma mi dovrai portare a casa.”

La ragazza si sentiva al settimo cielo. Era da tanto che si chiedeva se non fosse ora di fare nuove conoscenze, ma nell’ultimo periodo si era resa conto di essere più ombrosa del solito e di trovare più fatica nelle relazioni sociali. “Oh, questo non è un problema,” indicò la sua automobile. “Ho la mia fidata Fiat Punto di quasi nove anni che ci porterà ovunque! Basta che non sia troppo lontano.”

Le due ragazze salirono in macchina e Celeste si rese conto che nonostante si conoscessero da ormai tre anni, non erano mai state insieme da sole come in quel momento. La ragazza si sentiva tesa, soprattutto perché si era resa conto di non conoscere la collega.

“Celeste, dove vuoi andare?” 

Il sorriso di Ambra la aiutò a ricordare che in fondo non stavano facendo niente di strano, forse la troppa solitudine l’aveva resa paranoica. Mise in moto e si voltò a guardare la nuova potenziale amica. “Boh, non so. A me basta stare fuori, è una bella giornata.”

“Allora facciamo un giro in centro, un po’ di shopping e se vuoi anche un aperitivo, io sono liberissima oggi! Dipende da quando ti vorrai liberare di me. Ora che sono in macchina, ti tocca sopportarmi un po’!”

“Centro sia!” Esclamò Celeste alzando un braccio in un segno di vittoria. 


Faticò un po’ a trovare parcheggio, seguì il consiglio di Ambra e si infilò in una via laterale, dove trovarono un posto di fronte al cancello di quella che pareva una casa abbandonata. “Qui di fianco c’è uno dei localini che preferisco per fare gli aperitivi, è un posto un po’ piccolo, ma sono sicura che ti piacerà, se vuoi poi ci fermiamo lì così ti offro qualcosa per ripagarti del passaggio. Ti dico la verità: avevo proprio voglia di fare un giro!” Propose Ambra.


Le due ragazze passeggiarono fino a raggiungere la via principale del centro, dove entrarono in un negozio di articoli di cancelleria, stupendosi di avere in comune l’interesse per i pastelli colorati, con i quali entrambe amavano fare disegni e colorarli. A dire la verità Celeste mentì quando le disse di averli utilizzati parecchio, ne aveva comprata una scatola insieme a un blocco da disegno quando era andata a vivere con Stefano, ma le aveva usate una volta sola e poi messe da parte. Si era quasi dimenticata che esistessero, ma aveva tutte le intenzioni di mettere in pratica le proprie parole e di tirarle fuori dallo sgabuzzino quella sera stessa.

Ambra accompagnò la nuova amica anche in un negozio di accessori piccolo e ben fornito, che la ragazza non conosceva. Decise di comprare una borsa arancione con dei fiori in stoffa applicati. Qualcosa di appariscente che le sarebbe sempre piaciuto avere, ma che non aveva mai avuto il coraggio di acquistare.


In seguito si fermarono in uno dei piccoli locali del centro a bere un aperitivo, scaldate dai grossi funghi posizionati di fianco ai tavoli. 

Sedute all’aperto, Celeste si sentì libera di essere onesta. Le confessò della sua recente rottura sentimentale e di come si fosse resa conto di essere stata spinta ad andare avanti per inerzia in quegli ultimi anni. Le raccontò dei suoi sogni, dei viaggi mai realizzati e della sua difficoltà nel ricominciare a vivere, ora che era da sola.

“Mi dispiace per Stefano,” le disse allora la Collega. “Ma sono felice che ora tu abbia iniziato a pensare un po’ di più a te stessa.” 

A Celeste sembrava quasi impossibile avere trovato qualcuno che la facesse sentire così a suo agio. Una persona che aveva a pochi metri di distanza ogni giorno, tra l’altro.

Ambra le raccontò della sua vita a casa con i suoi e di come non ne potesse più di vivere con loro e restasse per necessità e comodità, ma anche di come ricordava con nostalgia il periodo che aveva passato da fuori sede all’università, conclusosi solo pochi mesi prima. Celeste non si era neanche resa conto che lavorasse insieme a lei da meno di un anno.


“Quindi il tuo più grande sogno quale sarebbe?” chiese Ambra. 

“Viaggiare,” Confessò Celeste.

“Allora viaggia. C’è un’agenzia qui vicino, anzi, ce ne sono tante. Puoi anche organizzarti con internet, però dovresti farlo, se puoi permettertelo.”

La ragazza annuì. “E il tuo sogno più grande, qual è?"

Ambra sorrise. “Non è che hai una stanza? Così tengo pulito mentre viaggi.”



Il pomeriggio si era rivelato migliore di quanto Celeste avrebbe mai potuto sperare. Sentiva di avere trovato un’amica con la quale presto avrebbe formato un legame forte e profondo, molto più di quanto avrebbe mai sperato di ottenere con una collega.

“Grazie di cuore per essere stata con me oggi.”

“Sono contenta, era da tanto che speravo di conoscerti un po’ meglio, pensavo di starti un po’ antipatica.” Rise.

“Ma no!” Celeste sentiva che ormai il gelo iniziale si era completamente sciolto. “L’antipatica sono io, o meglio, non ho mai fatto niente per non esserlo.” 

Le due continuarono a parlare mentre si avvicinavano all’automobile, sotto la luce del lampione. In quel momento lo videro: un gatto nero con una macchia bianca sul muso li stava fissando seduto sul muretto di fronte alla casa abbandonata. 

“Lo vedi anche tu?” Chiese Ambra, rallentando cauta. 

“Sì, non sta andando via.” Era strano: i gatti in genere scappano, pensò.

Celeste si avvicinò lenta e gli porse la mano. Il gatto la annusò e si strusciò piano.”

“Penso sia di qualcuno, altrimenti sarebbe fuggito.” Osservò Ambra, “Spero non si sia perso.”

“Oh, no! Non dire così, non ti porto più a casa, sai, resto qui con lui fino a quando qualcuno non se lo prende.”

Il gatto non pareva preoccupato per la presenza delle due ragazze. “Sembra piuttosto magro,” constatò Celeste. “Che peccato non avere niente da dargli da mangiare.”

Ambra fece qualche passo verso la casa e poi tornò indietro. Celeste la osservò mentre premeva i campanelli del condominio lì di fianco. 

“Buonasera, per caso sapete di chi è il gatto bianco e nero che c’è qui sotto?” La sentì chiedere, ma non riuscì a recepire la risposta.

La sua amica tornò camminando lenta. “Una signora mi ha risposto, ha detto che è lei che gli dà da mangiare perché è il gatto del signore che viveva qui che però adesso è morto. In pratica l’hanno abbandonato… Comunque adesso sta scendendo.”

Un paio di minuti dopo, una signora sulla cinquantina scese in ciabatte con una confezione di croccantini per gatti in mano. Appena la vide, il gatto miagolò e alzò la coda, per poi avvicinarsi a lei e strusciarsi sulle sue gambe.

“Abitava lì, da Luigi Visantini” disse la signora indicando la casa alle loro spalle. “I figli l’hanno portato in casa di riposo e poi non lo so se è morto, ma il gatto è questo, è rimasto qui. Quando li ho visti la settimana scorsa ho detto che io non lo posso tenere in casa. Pensate che mi hanno detto anche grazie che gli do da mangiare. Ma io non so se è possibile… Comunque per me non è un peso, ma il piccoletto qui viveva in casa, vorrebbe stare al comodo, se lo vuoi puoi prenderlo.” 

Ambra si voltò a guardare Celeste con un sorriso aperto sul volto. “Cosa dici? Lo prendi?”

La ragazza osservò il gatto che mangiava con gusto leccandosi i baffi di tanto in tanto. “Ha un nome?”

“Lo chiamava Felice, come il gatto della scatola delle pappe.”

“E se lo cercasse qualcuno?”

La signora scosse la testa. “Sono passati due mesi, e anche freddi. Nessuno lo ha cercato.”

Celeste si inginocchiò e avvicinò una mano a Felice. “Allora mi sa che oggi vieni a casa con me, Felicetto!”

Ambra lanciò un gridolino soffocato per non spaventare il gatto. “Che bello! Adesso sì che andiamo a fare un po’ di shopping interessante!”

Le due ragazze misero il gattone bianco e nero in un cartone bucherellato fornito dalla signora, fecero tappa nel negozio di animali lungo la strada, dove Celeste acquistò al volo tutto ciò che aveva restituito a sua sorella quando si era ripresa Paki.

Insieme lo portarono nella sua nuova casa. 

La vita di Celeste era cambiata, si chiese se quella notte avrebbe dormito, finalmente. Di certo nel suo futuro vedeva meno solitudine: aveva il suo coinquilino e, forse, anche una nuova amica.





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 Fandom: Originale
 Prompt: Sure Grandma, let's get you to bed
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Zia Eleonora.

L’anziana signora si trascinava avanti col deambulatore un passo alla volta in movimenti irregolari e scattosi. 

Il ragazzo la osservava seduto dall’altro lato della strada, all’inizio gli era venuto da ridere, perché si era reso conto che la vecchia stava andando il più veloce possibile, ma la realtà era che gli ricordava una lenta tartaruga. Poi però si era sentito in colpa: poteva avere bisogno di aiuto e lui non era senza cuore.

Filippo si alzò e attraversò la strada. Più si avvicinava a lei, però, più si rendeva conto che la sua impressione era fondata: qualcosa non andava. Iniziò a notare il sudore sulla sua fronte, l’espressione nei suoi occhi, che avrebbe definito terrore puro. Il fiato corto.

“Tutto bene, signora?” Le chiese, mettendosi di fronte a lei.

“No, non è tutto bene.” Gli fece cenno di avvicinarsi e si guardò intorno con circospezione. “Quelli vogliono uccidermi. Vogliono la mia casa.” 

Filippo continuò a guardarla negli occhi, incerto su cosa fare. L’anziana donna aveva una fierezza nello sguardo che a tratti sembrava prendere il sopravvento sulla sua paura. Una parte di lui credeva che la donna fosse pazza, forse inferma di mente, ma il suo istinto gli diceva di crederle.

“Non sono chi dicono di essere. Non farti prendere per il naso anche tu da loro.” Lo stringeva talmente forte che il ragazzo non riusciva a liberarsi. “Via Pasini numero 8. Mi chiamo Eleonora Contini.”

“A- Andiamo alla polizia?” Chiese lui. Ma la donna non fece in tempo a rispondere, perché una coppia di mezza età arrivò alle loro spalle. 

“Mamma? Mamma, cosa ci fai qui, torna a casa, dai!” Disse la donna con tono mellifluo. Aveva lunghe unghie laccate, i capelli raccolti senza eleganza in una coda mezza sformata e abiti semplici, ma decorosi. L’uomo indossava un paio di jeans e una camicia a scacchi. Si mordeva un labbro e lo guardava incerto.

“Aiuto, aiutatemi!” Urlò la signora attirando l’attenzione dei pochi passanti.

Filippo si guardò intorno, incerto su cosa fare. I due sembravano assomigliarle parecchio. “Zia, non preoccuparti, ti accompagno anche io a casa.” La donna si fermò un istante. Sorpresa. “E tu chi saresti? Mia madre non mi ha parlato di te.”

“Sono Serena, la sua prima figlia, mi sto prendendo cura io di lei in questo periodo.” 

Il ragazzo si chiese dove fosse andato a incastrarsi, ma vista la gentilezza con la quale la donna gli stava sorridendo pensò che in fondo non avrebbe corso grossi rischi nell’andare in via Pasini 8 a casa dell’anziana signora a controllare che tutto fosse in ordine.

“Andiamo a casa, zia, ti portiamo a riposare e magari ci beviamo un tè insieme.”

Filippò cercò di ritrovare nella sua memoria il nome e il cognome della signora di cui si stava fingendo il nipote, Eleonora qualcosa… era un bel nome per una donna della sua età, si ritrovò a pensare.

Notò che la coppia restava indietro, lasciando che fosse lui a guidarli verso la casa. 

“Da quanto tempo siete a casa con la zia?” Chiese, cercando di prendere tempo mettendosi al loro fianco. Via Pasini era lì vicino, quello era certo, ma non si ricordava dove di preciso. 

“Solo da due giorni, siamo arrivati perché mio marito ha insistito perché le parlassi di nuovo dopo tutti questi anni di lontananza. Volevo solo passare per salutarla e per dirle che mi dispiace per come è andata, ma ho visto che non sta bene.” Lo prese da parte mentre l’uomo ed Eleonora continuavano lungo la strada. “Da quanto tempo ha problemi di memoria?”

Filippo iniziò a preoccuparsi, la donna gli pareva abbastanza sincera e poteva essere veramente la figlia di quella donna. Invece lui? Che scusa aveva lui per introdursi nella casa di una donna anziana con problemi di demenza senile? Se fossero arrivati altri parenti cosa avrebbero potuto dirgli? L’avrebbero denunciato? Scacciato in malo modo? Preso a pugni? 

D’altro canto, se l’anziana gli aveva detto la verità, significava che era in pericolo… poteva davvero abbandonarla lì inerme quando lei aveva riposto in lui la sua fiducia?

“Da- da un pezzo ormai…” Mentì. “Ha cominciato un paio di anni fa con i primi sintomi, ma io non vado a trovarla spesso a essere sincero.”

La donna gli sorrise, più serena. “Ovvio, tu sei giovane, perché dovresti andare a trovare la zia. Ha anche dei figli, no?”

Filippo approfittò della chiamata che proprio in quel momento stava ricevendo per concentrarsi sul suo smartphone, sperando così di lasciare decadere la domanda. “Un attimo, rispondo e vi seguo.”

Fece qualche passo indietro. “Pronto, Sabrina?” Si rivolse verso la donna indicando il telefono e si allontanò ancora di qualche passo. “Farò un po’ tardi, sono con la mia cara zia Eleonora.”

“La zia che? Mi prendi in giro? Io ti sto aspettando, perché non eri sull’autobus.”

“Non pensavo di passare da lei, ma l’ho trovata in giro per strada e sai com’è… con i suoi problemi di memoria ho pensato di accompagnarla a casa.”

“Che hai bevuto? Stai parlando in codice?”

“Ma no, non è niente! Sai com’è la zia, sto lì giusto per un tè e me ne vado. Comunque sì, hai ragione.” Rise.

“Vuoi che venga da te?”

“No, non la zia che sta vicino alla stazione, lei abita in via Pasini. Sai, vicino alla fermata dove prendo l’otto.”

Filippo osservava la donna con attenzione. Camminava lenta, in silenzio, le orecchie chiaramente tese all’ascolto. Quando sentì il nome della via sembrò rilassarsi e accelerare per un attimo il passo.

“Fil, dimmi se devo chiamare la polizia.” La voce di Sabrina al telefono era allarmata. Se solo avesse potuto, le avrebbe detto di farlo. “Puoi condividermi la posizione?”

“Ecco, questo sì che posso farlo. Stai tranquilla che arrivo presto, ci vediamo a cena, salutami la mamma.” Attaccò e attivò la condivisione della posizione. Scrisse due messaggi nei quali spiegava grossomodo la situazione e raggiunse la signora Eleonora.




Via Pasini 8, dice che pericolo vita.

Help.


Sabrina osservò il telefono incredula e subito decise di chiamare la polizia.  Spiegò la situazione come meglio potè, pregandoli di recarsi all’indirizzo per un controllo.


Li trovarono in casa che bevevano il loro tè. 

Il ragazzo appariva confuso almeno quanto la vecchia signora.


Il giorno seguente i giornali pubblicarono un articolo che descrisse l’accaduto in modo chiaro e conciso:


Giovane eroe salva una donna da tentativo di truffa.


Ieri, lungo una laterale di via Pasini, un ragazzo di diciannove anni ha soccorso un’anziana signora che era riuscita a sfuggire a una coppia di truffatori nota alle forze dell’ordine.

I due malviventi, accusati di furto aggravato e omicidio, in passato hanno estorto ingenti somme in contati a numerose anziane vittime ignare, una delle quali è deceduta a causa delle sostanze a lei somministrate dai due ladri. 

Il loro modus operandi consiste nel fingersi parenti lontani degli anziani che scelgono di truffare e nel farsi aprire le porte delle loro case, per poi incapacitare le vittime attraverso l’uso di medicinali e sostanze stupefacenti.

Il ragazzo afferma di avere visto la donna in difficoltà e di averle offerto il suo aiuto. “Mi è sembrato che sapesse quello che mi stava dicendo, le ho creduto. La coppia intervenuta per riportarla a casa invece era sospetta.”

La signora Eleonora Contini ha deciso di ringraziare pubblicamente il giovane F. P. e di donargli un premio per la sua prontezza di spirito, grazie alla quale la signora si è ora ripresa completamente.



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Originale
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Prompt: orizzonte

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.
Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.

Il viaggio verso l'Isola di Hermann - capitolo 1

Il rumore delle onde che si infrangevano contro la sua imbarcazione di fortuna la svegliarono. Lucilla tentò di sollevarsi e si rese conto di essere del tutto priva di energie. Ogni muscolo le doleva, si sentiva pesante e stanca nonostante avesse dormito per ore. Il suo abito era ancora bagnato, sentiva il freddo penetrarle nelle ossa e brividi gelidi le percorrevano la schiena. Era ancora viva, almeno.

Alzò lo sguardo: era ancora buio, anche se dal colore del cielo si capiva che stava per albeggiare. Si guardò intorno sperando di scorgere una luce, magari un faro o una nave in lontananza, ma niente: acqua. Solo acqua.

Ovunque si voltasse non vedeva altro. Si trovava in balia delle correnti su un insieme di travi inchiodate che un tempo era stato parte della nave sulla quale viaggiava.

Si trascinò al centro del relitto, cercando un punto più stabile. Urlò, disperata, consapevole che nessuno l’avrebbe sentita, né vista.

Si lasciò andare alla disperazione e pianse fino a quando non si sentì svuotata di lacrime, incapace di resistere al terribile pensiero che non aveva una via di uscita.


Solo poche ore prima vestiva un abito elegante in broccato, lavorato con seta e filo di argento, decorato con merletti di burano. Durante la cena rideva spensierata in compagnia dei suoi genitori, servita al tavolo da camerieri in divisa, mangiando prelibatezze cotte da un cuoco professionista, degne del suo rango nobiliare. Le tempeste arrivano sempre all’improvviso, almeno così aveva riferito il capitano ai passeggeri, quando li aveva congedati per la notte, dopo avere visto le nuvole e i lampi all’orizzonte.


La nave era possente: in legno verniciato di bianco e azzurro, si chiamava “Dama Enrica”, in onore di sua nonna e la prima volta che l’aveva vista Lucilla ne era rimasta impressionata. Non era molto grande, ma sembrava solida ed era stata costruita trent’anni prima da una ditta specializzata di Venezia, che poi l’aveva portata fin da loro, percorrendo tutto il mediterraneo. Un gioiello. Un’imbarcazione di lusso che serviva i nobili della zona e dava anche la possibilità a chi lavorava tra l'isola e la terra ferma di avere un trasporto sicuro e veloce. La nave avrebbe dovuto portarli all’isola di Hermann, dove la famiglia di Lucilla aveva una tenuta estiva che avrebbero visitato per la prima volta per quell’annata. I passeggeri paganti oltre a loro erano poco più di una decina: la sua famiglia alloggiava nelle stanze dedicate ai nobili, mentre le cabine inferiori, più spartane, erano occupate da un altro gruppo di viaggiatori diretti all'isola per lavori temporanei ai campi e nei locali per turisti. 

Lucilla non aveva neppure parlato all'equipaggio, non si era impegnata a conoscerli, né aveva dimostrato loro il rispetto che avrebbero meritato per il loro impegno nel servire lei e i suoi genitori. 


Se ne pentiva, avrebbe desiderato interessarsi alle loro vite anziché ignorarli. Si sentiva una sciocca ragazzina viziata, ormai era tardi però, erano quasi di sicuro tutti ormai defunti e non c’era niente che lei potesse fare per loro. Non era mai stata brava a parlare con gli estranei, le era persino più difficile farlo con chi era obbligato a servirla, perché erano tutti estremamente gentili con lei e rendevano le chiacchierate artefatte e vuote. Lucilla non aveva interesse nell’essere perennemente compiaciuta.

Quella sera, dopo cena era salita sul ponte e aveva visto delle nuvole all'orizzonte. Si era fermata a guardarsi intorno e a prendere un po' di aria, poiché non si sentiva stanca. Il cameriere che li aveva serviti a cena l'aveva seguita per soddisfare le sue richieste nonostante lei l'avesse congedato. Il ragazzo doveva seguire gli ordini, quindi Lucilla lasciò perdere e si limitò a ignorarlo. Camminava a pochi passi da lei, seguendola come un’ombra, senza mai alzare lo sguardo per non metterla a disagio. A guardarlo bene poteva avere la sua stessa età, ma non gli aveva fatto domande.


Era rimasta a osservare la nave che si allontanava dalle nubi, accese dai lampi di tanto in tanto. Un temporale, meno male che si stava muovendo in direzione opposta a loro, ricordava di avere pensato.

Osservare l'orizzonte la faceva sentire piccola. Si era sporta in avanti, protetta dal parapetto, e aveva immaginato i pesci che nuotavano seguendo le correnti del mare e le piccole imbarcazioni dei pescatori, che le erano parse così fragili quando le avevano incrociate quella mattina, fuori dal porto.

“Stia attenta, il mare è agitato questa sera.” Lucilla aveva annuito sbuffando, senza rispondere al suo guardiano, gli avrebbe detto che non era una bambina ed era in grado di occuparsi di sé stessa, ma era certa che la sua sarebbe apparsa come una rimostranza da ragazzina ricca, quindi era rimasta in silenzio.

Dopo aver fatto il giro del ponte, era scesa nella sua cabina personale, dal cui oblò poteva vedere il mare sul lato della nave e anche da lì aveva osservato l'orizzonte nella notte illuminata dalla luna piena.

In principio si era proposta di scrivere una lettera o di leggere il libro che si era portata per il viaggio, ma poi aveva pensato di evitare lettura per quella notte, poiché non si fidava molto ad accendere la lampada a olio con il mare mosso, nonostante i suoi genitori le avessero ripetuto che non ci sarebbero stati problemi, un senso di inquietudine continuava ad affacciarsi tra i suoi pensieri.


Si era addormentata a fatica, poi all'improvviso aveva sentito il boato e le urla dell’equipaggio. Si era chiesta cosa stesse accadendo e aveva cercato di svegliare sua madre, che però l’aveva scacciata con la mano, minimizzando. “Vedrai che è tutto sotto controllo. Abbiamo viaggiato spesso su questa tratta, se ci fossero problemi, l’equipaggio ci chiamerebbe."

Lucilla però non si sentiva tranquilla. Si era infilata una vestaglia, aveva legato i capelli, aveva percorso lo stretto corridoio ed era salita lungo la scala ripida. Arrivata al ponte si era resa conto che la situazione non era per niente sotto controllo.

"Torni giù, signorina!" La voce del capitano era ferma, nonostante la nave apparisse danneggiata. Lucilla si chiese cosa avesse causato quello squarcio all'altezza del ponte: le assi di legno erano rotte come se qualcosa di molto pesante le avesse colpite, solo che non c’era niente in vista.

Fece qualche passo indietro per osservare la situazione mentre il capitano comandava le operazioni di recupero. Pensò di tornare giù, ma non riusciva a muoversi. Era aggrappata alla porta principale e osservava l'equipaggio correre da una parte all'altra cercando di limitare i danni.

Un senso di panico si impossessò di lei, perché non riusciva a trovare un senso alla situazione. Alzò gli occhi per rendersi conto che vedeva ancora sia la luna che le stelle. Non stava piovendo, quindi non c’era la tempesta. Non vedeva altre navi, né sentiva rumori all’esterno. Cosa poteva essere accaduto?

Un altro tonfo, la nave sobbalzò, lei si aggrappò alla porta con entrambe le mani e rimase in piedi.

"Ci ha colpito di nuovo!" La voce di un marinaio sul ponte della nave.

Lucilla osservò la scena terrorizzata, poi lo vide: un tentacolo gigante, e scuro, alto almeno quanto la nave. Lucilla urlò, immobilizzata dalla paura. Sentì voci alle sue spalle, gli ospiti stavano salendo sul ponte. "La nave imbarca acqua!" Uno dei passeggeri si mise a correre lungo il ponte, per poi fermarsi a bocca aperta a osservare il tentacolo del mostro alto sulla nave. In pochi istanti la creatura colpì di nuovo e il ponte si spezzò.

Non c'era salvezza. la nave era perduta e, se anche fossero stati vicino alla terraferma, il mostro non avrebbe lasciato loro possibilità di fuga.

Lucilla rimase lì, attaccata alla porta per qualche istante, chiedendosi quale sarebbe stata la morte meno dolorosa, poi qualcuno la prese per il braccio e la strattonò fino alla prua della nave. Mentre si precipitavano lungo il ponte, la loro corsa sulla nave, pianeggiante sul mare, si era trasformata in una salita, la parte centrale della nave stava affondando sotto il peso dell'acqua.

La bestia marina attaccò di nuovo, per loro fortuna dal lato opposto rispetto a quello in cui si trovavano. Il ragazzo si muoveva frenetico intorno a lei, che si appese al ramo della nave cercando di non cadere.

"Resisti, possiamo sopravvivere. Devi lottare, non mollare." Le aveva preso il viso tra le mani guardandola negli occhi con convinzione, tanto che per un attimo Lucilla si era sentita al sicuro.

La ragazza chiuse gli occhi, del tutto inerme in quella situazione. Pensò che era molto probabile che i suoi genitori ormai fossero morti annegati, se non erano stati mangiati dal mostro marino.

Poi un altro colpo e la ragazza cadde in acqua. L'impatto la risvegliò dallo stato di panico in cui si sentiva. La ragazza aprì gli occhi e cercò la luce. Iniziò a nuotare verso quella che credeva fosse la superficie, ma le sembrava di restare immobile. Era certa che sarebbe morta lì sotto. Che tutti i suoi sogni di una vita diversa da quella di sua madre, di libertà, di conoscenza, sarebbero svaniti insieme al ricordo della sua esistenza. I suoi cugini avrebbero ereditato la tenuta e i possedimenti della famiglia. Loro sarebbero stati dimenticati.


Non ricordava come avesse fatto a salvarsi, era convinta che qualcuno l'avesse aiutata a salire sul relitto, che l'avesse guidata nuotando al suo fianco e che l'avesse messa al sicuro, cantandole una canzone che l'aveva aiutata a calmarsi e a dormire.

La sensazione che provava era di calore al pensiero, ma i suoi ricordi erano ancora annebbiati.


In ogni caso non aveva tempo per concentrarsi sul passato, poiché il presente era abbastanza problematico: non aveva con sé alcun tipo di provvista ed era consapevole che presto sarebbe morta, se qualcuno non l’avesse trovata in fretta.

Si alzò in piedi, cercando di restare in equilibrio nonostante il movimento oscillatorio del mezzo precario su cui stava viaggiando.

L'acqua era il problema principale, perché una volta che il sole avesse iniziato a battere sulla sua testa, avrebbe avuto necessità di bere.

Non c’era traccia di altri pezzi della nave intorno a lei, il mare era calmo e la luce del giorno aveva iniziato a illuminare il cielo e l’acqua. A est, Lucilla vide la prima porzione del sole rosso apparire e cercò di capire verso che direzione si stesse muovendo.

Era difficile senza riferimenti, in più lei non era esperta in materia, sapeva solo da che punto sorgesse il sole. Chiuse gli occhi e si concentrò sulle sue sensazioni, ma non era certa di aver capito. Osservò le onde e sospirò, speranzosa. Se davvero stava andando verso nord, il relitto l'avrebbe portata prima o poi in vista dell'isola.

Osservò il mare in cerca di altri pezzi di legno o persone, sperando di vedere le provviste di cui la nave era carica, ma anche se avesse identificato un barile o una cassa, lei non sarebbe mai stata in grado di scendere dal relitto e raggiungerle. Si spogliò, mise ad asciugare gli abiti ancora bagnati e si rimise addosso la vestaglia che un tempo era la sua preferita, ora era a brandelli. 

Un pensiero frivolo, lo riconosceva, del resto doveva pensare a essere decorosa, quando l'avessero ritrovata morta sul relitto intendeva essere il più presentabile possibile.

Constatato che non ci fosse niente intorno a lei, la ragazza decise di concentrarsi sull'orizzonte. Non intendeva passare le sue ultime ore dormendo, forse anche avesse voluto, non ce l’avrebbe fatta.

Il sole non era troppo caldo, anzi, era mite e l'aveva aiutata a scaldarsi. Pensò che probabilmente aveva la febbre visti i brividi, ma a causarli poteva essere anche la sete. Non importava in fin dei conti.

Il mare le era sempre piaciuto, ma promise a se stessa che se fosse sopravvissuta non avrebbe mai più preso una nave in vita sua.

Doveva solo attendere, osservando l'orizzonte, di conoscere il futuro che le aveva riservato il destino.


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Originale
Prompt: una storia senza discorsi diretti o indiretti.
Partecipa al COWT 14

 

Yuki e la caccia alla pallina


Le orecchie bianche del gatto erano appiattite all’indietro, la lunga coda esile ondeggiava con aria curiosa, le zampe agili, tese in posizione di scatto e i due occhi: uno azzurro e uno verde osservavano con attenzione, fissi sulla piccola pallina di stoffa a righe blu e argento.

L’umano teneva l’oggetto stretto in una mano: lo faceva ondeggiare avanti e indietro, ripeteva il movimento con lentezza. Yuki non perdeva di vista l’oggetto. Il ragazzo tese il braccio all’indietro con rapidità, sempre seguito dallo sguardo dell’animale, per poi lanciare la palla nella direzione opposta. Yuki scattò per inseguirla con tutta la velocità che aveva. Il pavimento di legno verniciato dell’appartamento, liscio, non gli consentì uno scatto fulmineo: le sue zampe posteriori all’inizio scivolarono sulla superficie levigata, prima che lui riuscisse a muoversi in direzione del gioco, che aveva rimbalzato lungo il corridoio e oltre la porta.

Yuki non lo perse di vista: entrò nel salotto, dove inseguì la pallina sotto il divano e la agguantò con le zampe anteriori. La morse con forza, poi la lanciò con una zampa e la fissò mentre scivolava lenta verso il corridoio. Il piede dell’umano la rispedì contro di lui velocemente e Yuki la fermò con la zampa, per poi sedercisi sopra. 

Un rumore di plastica strappata si liberò nella stanza. Il gatto tese le orecchie e si alzò con lentezza, per quanto sotto il mobile non ci fosse spazio per camminare comodamente. La sua testa sbucò fuori da un lato del divano azzurro. L’umano teneva in mano una confezione di snack al salmone disidratati.

Yuki lasciò andare la pallina e uscì strisciando da sotto il divano. 

Il fornitore di cibo lanciò il premio nella sua direzione e Yuki corse ad agguantarlo. 

Inseguì lo snack correndo e lo fermò con una zampa per poi consumarlo immediatamente.

Si voltò sbadigliando e si avvicinò con lentezza al tiragraffi. La sua coda ondeggiava con grazia. Sollevò la testa, poi alzò una alla volta le zampe anteriori che appoggiò sul cilindro rivestito di corda. Sbadigliò di nuovo mentre si faceva le unghie. Poi saltò al primo piano del tiragraffi, sistemò il cuscino puntellandolo con le unghie delle zampe anteriori e si acciambellò. Il ragazzo lanciò il sacchetto di plastica con gli snack nel cassetto del salotto e uscì dalla stanza. Rimasto da solo nel silenzio Yuki, da sempre un maestro nell’arte del riposo, chiuse gli occhi e si mise a dormire.


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Originale
Prompt: Fossili
Partecipa al COWT 13
One shot


La gita al fiume

La prima volta che aveva visto un fossile, Giulio aveva sette anni.
Era molto probabile che gliene fossero passati altri sotto gli occhi, ma all’epoca un sasso valeva l’altro. A scuola poi però avevano parlato dell’origine dell’universo e l’idea che qualcosa potesse arrivare alle sue mani da un passato così lontano lo affascinava e attirava come una formica viene attirata dallo zucchero.
Doveva vederne uno anche lui, magari un po’ di più. Sognava di andare a caccia di fossili, perché la sua amica Alice gli aveva assicurato di averne visti almeno dieci mentre camminava lungo il fiume, tra i migliaia di ciottoli arrotondati dallo scorrere dell’acqua.

“Forse la tua amica ha esagerato un pochino,” aveva provato a convincerlo sua madre, ma Giulio non aveva voluto sentire ragioni e aveva usato tutte le armi a sua disposizione per cercare di farsi portare al fiume: li aveva pregati con occhi dolci e tristi, aveva promesso che si sarebbe impegnato a scuola come mai prima di allora e si era offerto di giocare con il suo fratello più piccolo senza lamentarsi come faceva di solito. La mamma non era apparsa impressionata da tutti i suoi tentativi, ma non aveva detto di no. “Giulio: non pensarci adesso che è lunedì, vediamo cosa succede fino a domenica, chissà quanto durerà quest’idea di cercare fossili.”

“No, mamma, ma è per la scuola, la maestra ha detto che non se ne trovano, ma Alice invece ne ha tanti.”

“Davvero? E come mai secondo te non ne ha portati?” Gli aveva chiesto, e la motivazione del bambino era improvvisamente calata.

Giulio aveva osservato il pavimento con intensità, aggrappandosi all’idea che la sua amica non gli avesse mentito, che ci fossero davvero. “Ma…”

La mamma allora aveva sospirato. “Non preoccuparti, magari non ne ha visti cento, ma due o tre e ha esagerato un pochino. Non aspettarti che se andiamo al fiume ci saranno fossili dappertutto, perché è una ricerca da fare con attenzione e non è detto che ne troveremo. E se dovesse piovere dovremo rimandare, lo sai?”

Il bambino aveva annuito, il volto illuminato da un sorriso. “Allora possiamo andare?”

“Per una volta che dici che ti vuoi impegnare per la scuola, come faccio a dirti di no?” Gli aveva risposto, chinandosi ad accarezzagli il capelli con una mano.

Giulio aveva urlato e le era saltato al collo. “Grazie, mamma!”

Il giorno seguente, a scuola, aveva rivelato le sue intenzioni alla maestra di storia, che aveva continuato a scrivere alla lavagna, ma gli era sembrata felice del suo interessamento al passato. “Ci racconterai come è andata, allora”

Per tutta la settimana, Giulio si era immaginato impegnato a controllare i sassi uno per uno. Nei suoi sogni era vestito di tutto punto, con una cintura col pennellino come gli archeologi e i paleontologi disegnati nel suo sussidiario. Una torcia per illuminare meglio i suoi reperti. Sognava di trovare trilobiti, felci e interi invertebrati visibili in modo perfetto e preciso, proprio come quelli che popolavano le pagine del suo sussidiario e dei libri che gli avevano regalato i genitori per aiutarli a rispondere alle continue domande di Giulio sul mondo preistorico, ormai quasi del tutto svanito.
Poi domenica era arrivata e, con suo grande disappunto il cielo era buio, carico di nuvole. Una fitta pioggia cadeva dal cielo. Niente fiume, niente fossili.

La mamma l’aveva chiamato per la colazione e lui si era diretto al tavolo mesto. Si era seduto e, giocherellando col cucchiaino, aveva guardato la tazza piena di latte e cacao senza il desiderio di mangiare.

“Hai visto, alla fine piove.”

Giulio aveva sospirato. “Non possiamo andare al fiume.”

“Chissà,” gli aveva risposto la mamma, dando al figlio un barlume di speranza. “Il fiume non è l’unico posto dove trovare dei fossili, lo sai?”

“E dove li posso prendere?”

“Prima di tutto, devo confessarti che trovare i fossili non è per niente facile. Quando ne trovi uno, lo devi consegnare, non te lo puoi tenere a casa. Resta il fatto che osservare le pietre è molto interessante, spesso dentro ci puoi trovare tracce degli insetti che le hanno percorse, il colore e la forma spesso ci raccontano dove le rocce e i sassi sono stati e la storia che hanno avuto. A te questo interessa, vero?”

“Sì! Per quello voglio vederle.”

“Perfetto! Allora non andiamo al fiume, ma al museo di storia naturale. Lì vedrai: si possono vedere tutti i fossili che vuoi, e poi ci sono anche le ossa di alcuni animali preistorici. In più ci sono anche tutte le spiegazioni, così a scuola poi magari non porti niente, ma puoi spiegare cosa hai visto ai tuoi compagni. Ti piacerebbe andarci?”

Il bambino piegò la testa, pensoso. Sapeva cos’è un museo, ma non era sicuro di volerci andare. Quando era stato al museo coi genitori, l’estate prima, avevano passato ore a guardare quadri tutti uguali e si era annoiato a morte. Da quella gita gli era rimasto solo un grande male ai piedi.

La madre parve leggergli nella mente. “Non preoccuparti, non è un posto grande come quello che abbiamo visto a Firenze. Questa volta andiamo insieme, solo io e te. Lasciamo a casa il papà e Filippo e noi cerchiamo di passare una bella giornata insieme, ti va?” Giulio corse ad abbracciarla. Aveva fiducia in lei ed era sicuro che non l’avrebbe preso in giro.

Arrivarono al museo dopo un lungo viaggio in automobile, durante il quale Giulio aveva studiato il suo libro sugli animali preistorici. Un po’ gli dispiaceva che il padre e il fratellino fossero rimasti a casa, ma la motivazione della mamma gli era sembrata più che valida: “Così possiamo andare con calma, perché sia il papà che Filippo non hanno molta pazienza, sei d’accordo?” Lo era.

Nei sogni del bambino, la ricerca dei fossili era poetica, come una caccia al tesoro divertente, come un gioco. La visita al museo invece fu molto diversa: fu un viaggio attraverso il tempo che lo portò a conoscere dettagli che alcuni dei suoi compagni di classe potevano sognarsi di conoscere. Era abbastanza sicuro che anche la maestra non fosse a conoscenza di tutto quello che Giulio aveva avuto la possibilità di imparare.

Vide scheletri quasi completi di animali che non esistevano più; ricostruzioni e video che li mostravano in movimento nell’ambiente nel quale vivevano.

Ammirò minerali, fossili e meteoriti dell’epoca dei dinosauri, che fino a quel momento aveva potuto osservare solo nei libri. Non aveva idea che così vicino a lui ci fossero tutte quelle cose meravigliose.

Nel corso della sua visita si immaginò da grande a studiare i reperti: geologia, paleontologia, zoologia, archeologia. Conosceva i nomi di tutte quelle scienze e sognava, un giorno, di potere dedicare la sua vita a studiare il passato.

Quando salirono in auto, Giulio si sentiva stremato dalla giornata intensa e dal carico di conoscenze che avrebbe portato con sé e che avrebbe condiviso con tutti i suoi compagni di classe. La sera raccontò al padre e al fratello tutto ciò che aveva visto, insieme promisero che sarebbero andati a visitare insieme il museo. “Quello o anche un altro,” propose Giulio, tentato dalla curiosità e dal desiderio di vedere di più.

Dopo cena andò a dormire e sognò il suo futuro da paleontologo: si vide a toccare, pulire, ricostruire i fossili. A raccontarne la storia e a scrivere libri che altri bambini un giorno avrebbero letto.

Forse non sarebbe stato il suo sogno per sempre, ma quella notte dormì sereno, come se avesse compiuto la prima parte del suo destino.
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Prompt: Tombola

La supertombola di Natale


La tombola era un evento che si ripeteva ogni anno a casa De Nardo. Nessuno dei presenti al pranzo di Natale aveva la possibilità di sottrarsi a questa tradizione, nè le scuse erano accettata dai nonni, che ogni anno preparavano premi per i nipoti e per i figli, spesso pescando tra i regali non graditi o tra i cimeli di famiglia accumulati nel corso degli anni.

Quella volta, però, Giulio aveva deciso di aiutare nella preparazione del montepremi, e per essere inserito nel ristretto comitato formato unicamente dai nonni aveva dovuto firmare un breve trattato di segretezza, che immaginava comunque più complesso di un qualunque accordo tra azienda e dipendenti.

“Tanto nessuno partecipa per i regali, state tranquilli che anche se dico che mettete in palio il vaso a nessuno verrà un colpo al cuore.” Aveva fatto notare, senza però ottenere l’effetto che sperava.

“Tu vuoi aiutarci a organizzare, dici, solo perché vuoi chiamare i numeri, di’ la verità.” L’indice puntato della nonna aveva su di lui lo stesso effetto che aveva da bambino. Lo metteva in soggezione e lo faceva sentire piccolo e sbagliato.

“No, solo per aiutarvi.” Mentì. Perché la verità era che avevano perfettamente ragione: lui voleva il ruolo della nonna. Desiderava chiamare i numeri, almeno per una parte della tombola. “Ma magari una volta…”

La realtà era che tutti i nipoti avevano tentato di partecipare al comitato, ma i più piccoli non avevano mai veramente avuto la minima possibilità di partecipare, mentre tra i più grandi la maggior parte mollava alla sedicesima richiesta insensata da parte degli organizzatori dell’evento, che sostenevano la serietà di quella tombola, la cui vera utilità era procurare i soldi per il pranzo di Natale.

In tutto i nonni raccoglievano, catalogavano e mettevano in palio ogni anno almeno un centinaio di premi, che poi sarebbero stati spartiti tra i tredici nipoti, una decina tra cugini e zii, i cinque figli coi rispettivi consorti e gli organizzatori stessi. In totale un paio di premi a testa.

Giulio aveva lavorato alacremente per portare a termine tutte le richieste dei nonni. In quel momento, prima del pranzo, era in taverna a sistemare i gruppi di regali divisi per le varie tombolate e a posizionare sedie e tavoli in modo da rendere il gioco più semplice da seguire. Sapeva bene che il nonno non gli avrebbe permesso di chiamare i numeri più di una volta, quindi aveva pensato di prendere una lavagna e di utilizzarla per scrivere i numeri man mano che uscivano, ovviando al problema delle continue richieste da parte dei più distratti.

“Così sembra proprio di essere al bingo o a una tombolata seria,” aveva detto la nonna, entusiasta dell’idea, e in quel momento Giulio aveva capito che i nonni avrebbero gestito da soli sia i numeri che la lavagna.

Non gli importava, però, perché lavorando al progetto aveva capito quanto ci fosse sotto quella preparazione a tratti maniacale e cioè l’amore per la famiglia intera che li spingeva a un impegno che andava oltre i soldi o i regali e che aveva lo scopo di renderli una famiglia.

Per i nonni quello era il momento da passare insieme, era un avvenimento che nel corso degli anni era cresciuto fino a diventare un momento di gioia condivisa, di speranza e di complicità che a volte veniva interrotto da futili battibecchi o da manifestazioni teatrali di invidia di fronte alla fortuna di uno o alla mancanza della stessa, ma che in ogni caso aveva creato ricordi che poi avevano accompagnato tutti loro nel corso degli anni.

Quando i parenti avevano iniziato a prendere posto sui tavoli, Giulio aveva dato il pennarello nero in mano al nonno. “In bocca al lupo, io vado a sedermi con gli altri.” Gli aveva detto. “Questa è la vostra tombola.” Aveva aggiunto di fronte allo sguardo un po’ confuso dell’anziano parente.

Il nonno aveva sorriso e aveva preso posto di fianco alla lavagna.

“Sarò il valletto oggi, perché grazie all’idea di Giulio abbiamo una bella lavagna che ci aiuterà a tenere traccia dei numeri.”

“E adesso, tutti seduti, che si inizia col numero…” E la nonna aveva frugato nel grande e usurato sacchetto che aveva cucito quasi mezzo secolo prima. “col numero 24!”

Come sempre, i commenti e le risate erano iniziati già a partire dal secondo numero e si erano mantenuti più o meno costanti fino alla fine della partita, quando i partecipanti avevano iniziato a tirare i bilanci della giornata.

Giulio alla fine non aveva chiamato i numeri, quando la nonna era andata a chiamarlo aveva detto che gli andava bene così, gli era bastato aiutarli coi preparativi. Quella sera sarebbe andato a casa con la sua piccola cornice con una foto della famiglia, un terno, unico premio che aveva vinto, ma si sentiva felice, perché finalmente aveva capito il vero significato della tombola.
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Prompt: Risiko


Una serata tra amici

Gabriele si fermò allo stop chiedendosi per un secondo se tornare a casa e fingere un improvviso mal di stomaco.
Con tutti i giochi che ci sono al mondo, proprio Risiko hanno scelto…
E pensare che era stato felice quando i suoi amici gli avevano proposto di incontrarsi per una partita a un gioco in scatola, proprio come facevano ai vecchi tempi. Era da così tanto tempo che non succedeva, che avrebbe accettato anche il gioco dell’oca, per quanto lo riguardava, ma Risiko no: era un gioco pericoloso per lui, perché gli faceva tornare alla mente brutti ricordi, ricordi di vere e proprie guerre durante la sua infanzia.
Parecchie volte, in passato, era riuscito a evitare di presentarsi quando i suoi amici ci giocavano. “Ho smesso,” scherzava, “è un gioco che mi fa diventare cattivo.”
Il problema era che non scherzava per niente. Non aveva mai capito quale fosse il motivo, ma giocare a Risiko lo rendeva davvero troppo competitivo. Gli dispiaceva soprattutto perché odiava farsi vedere così da Laura, che pareva avere una capacità di controllo sopra la norma, soprattutto quando si trovava a dover accettare una sconfitta.
Ormai sono cresciuto, prenderò la partita con estrema calma e non mi farò trasportare dal gioco, questa volta. Si era detto, promettendo a se stesso che non avrebbe ripetuto gli errori del passato. Ricordava ancora di quando si era lanciato sul tavolo, sopra la plancia di gioco contro suo fratello nel momento in cui un attacco di quest’ultimo era stato un po’ più fortunato del solito. I genitori li avevano dovuti staccare con la forza e solo dopo qualche ora finalmente Gabriele si era calmato e aveva deposto bandiera bianca. Poi era successo un’altra volta, l’ultima. Aveva lanciato la plancia contro la finestra aperta, facendo cadere alcune pedine. Poi era corso in camera sua urlando di rabbia per la sconfitta.
Il fatto era che il gioco era davvero stupido e, dopo aver provato e perso ad altri giochi in scatola, aveva finalmente la certezza che fosse poco bilanciato e basato un po’ troppo sulla fortuna. C’era di meglio e la serata passata a bisticciare per accaparrarsi obiettivi irrealizzabili e tutti uguali non era esattamente il suo ideale di “bel momento con gli amici.”
Prima di suonare il campanello di Laura, sospirò profondamente. “La prendo leggera, se perdo non importa,” ripeté a se stesso, con poca convinzione.
“Magari cambiamo, troviamo qualcosa di meglio o semplicemente non giochiamo.” continuò a pensare mentre saliva le scale.
Quando entrò dalla porta, sul tavolo c’era già la plancia di gioco. Dentro di sé, Gabriele sentì il desiderio di vincere farsi strada e cercò di strozzarlo, per non farlo arrivare in vista.
Laura lo abbracciò. “Quanto tempo è passato! Mettiti comodo e poi scegli, ordiniamo una pizza e la mangiamo in cucina.” Nel corso degli ultimi anni l’aveva vista poco, poi avevano recuperato i rapporti da quando si era lasciata con Samuele, il suo fidanzato storico. Era sempre stata la sua migliore amica nel gruppo e vederla finalmente sorridere di nuovo in modo sincero, non solo con le labbra, ma anche con gli occhi scuri e profondi, lo fece sentire bene, più tranquillo.
Massimo ed Elisa erano seduti sul divano, mentre Christian stava finendo di sistemare i piccoli carri armati di fronte alle varie postazioni di gioco. “Io prendo i neri.” Comunicò all’amico, che alzò le spalle con indifferenza. “Io prendo quello che avanza.” Non avrebbe ammesso che lui aveva sempre e solo giocato col verde e che avrebbe fatto fatica ad accettare che qualcuno glielo rubasse. “Non c’è Nicky?” cambiò discorso.
“Lei non ama Risiko, non gioca con noi. Viene per la pizza però.”
“Ah, era un’opzione, avrei potuto seguirla anche io.” Rise da solo per la sua battuta, pensando che a fingersi indifferente stava facendo una pessima figura.
“Pizza, devo ordinare perché altrimenti non ce la portano. Scegliete veloci." Laura era riapparsa. “Giallo per me!” La sentì dire mentre leggeva il listino per la cena. Un altro colore andato.
Aggiunse la sua preferenza al blocco notes sul tavolino e si versò un bicchiere d’acqua. Forse poi avrebbe preso una birra, al momento però si sentiva un po’ troppo nervoso per i suoi gusti.
Massimo ed Elisa presero i loro posti sul tavolo di fronte ai carri armati rispettivamente rossi e rosa. Gabriele ne approfittò per mettersi di fronte al suo colore. Era un segno, probabilmente indipendente dal fatto che ai suoi due amici importava poco del colore, a loro bastava sedersi l’uno di fianco all’altra.
“Manca qualcuno?” Chiese quindi Elisa.
“Dovrebbe arrivare Luca, ma è sempre in ritardo e non ha risposto al telefono, quindi tra dieci minuti iniziamo. Intanto ripassiamo un po’ le regole?”
Mentre l’amico spiegava i passaggi e tutti stavano in silenzio, Gabriele pensò agli stili di gioco degli avversari: Elisa non era temibile, giocava per stare in compagnia, ma in genere non amava la competizione e, conoscendola, distruggere un esercito nemico non le si addiceva per indole, quindi immaginava che non si sarebbe impegnata troppo. Christian era molto metodico, ma non aveva una grande fortuna coi dadi e spesso scopriva troppo le sue tattiche. Sarebbe stato semplice metterlo contro gli altri.
Massimo non era un grande stratega, le sue mosse spesso erano più dettate dalla foga del momento che dalle necessità di gioco. A preoccuparlo di più tra i presenti era Laura. La sua migliore amica non parlava molto, ma prendeva le partite sul serio ed era brava a bilanciare le sue tattiche in modo da massimizzare il risultato. Anche Luca poteva essere un problema, nel caso in cui fosse arrivato. Se la cavava bene quando era in giornata, ma spesso si distraeva.
“Un obiettivo potrebbe essere qualcosa come conquista diciotto territori, ciascuno con due armate, oppure conquista due continenti, o ancora potrebbe chiedere di distruggere un’armata avversaria.” Ecco: l’ultimo era quello che preoccupava Gabriele più degli altri. Sperava di cuore di non pescare uno di distruzione, perché l’ultima volta… non era andata bene.
Il campanello suonò e Luca salì le scale correndo. “Sei in ritardo.” Gli disse Laura appena entrò dalla porta. “Scegli la pizza e siediti che altrimenti non finiamo la partita.”
Luca si scusò per il ritardo con la frase che ripeteva ogni volta: ho avuto un imprevisto, volevo chiamare, ma tanto ero già per strada. Poi salutò gli amici e prese posto. “Volevo io i verdi!” Si lamentò.
“Chi tardi arriva, male alloggia.” Rispose Gabriele pensando che in fondo una piccola dose di fortuna l’aveva già avuta.
Sentì Laura parlare con la pizzeria mentre Luca sciorinava i suoi successi lavorativi e al pensiero che la partita stava per iniziare si sentì di nuovo nervoso. Il suo cuore iniziò a battere più velocemente mentre l’adrenalina gli arrivava alla testa. “Iniziamo?” Chiese quando la vide avvicinarsi al tavolo.
“Direi di sì.” Confermò la padrona di casa, che prese il mazzo degli obiettivi e lo mescolò, prima di distribuirne uno per ogni giocatore.
Gabriele raccolse la sua carta e la sollevò tenendola coperta con la mano, per non svelare neppure a se stesso il suo obiettivo senza prima essere pronto a conoscerlo. Respirò profondamente, poi abbassò lento la mano per scoprire che avrebbe dovuto conquistare il Sud America e l’Asia. Non male, pensò mentre osservava la plancia.
Tutti i giocatori rinforzarono i territori dati loro dalla casualità del mazzo con le risorse a loro disposizione, poi restituirono le carte, che vennero mescolate di nuovo per iniziare la partita vera.
“Vediamo chi perde per primo! Vinca il più cattivo!” Scherzò Luca, che rise insieme agli amici. Anche Gabriele accennò una smorfia, già catturato dagli ingranaggi del gioco.
Le carte non erano state molto fortunate, quindi i suoi obiettivi erano difficili e lontani, ma lui come sempre cercò di celare la sua strategia nel corso dei primi turni di gioco e si lasciò andare a un primo turno rilassato, quasi in difesa.
“Attacco Gabri in Africa del Nord dal Brasile!” Gridò Laura, i dadi già in mano.
I dadi, i suoi nemici. “Prova se ci riesci!” Le rispose prendendo i tre dadi di difesa. Dopo tre lanci difensivi particolarmente fortunati, Laura fu costretta ad abbandonare l’attacco. “Ti restituirò il favore!” Dichiarò, pensando che era un buon modo per cominciare a occuparsi del suo obiettivo. In generale dal punto di vista strategico sapeva che i continenti più piccoli erano presi spesso di mira per avere rinforzi più generosi, lui avrebbe fatto lo stesso.
Dopo pochi turni suonò il campanello e Laura corse a rispondere. “È arrivata Nicky, e tra poco arriva anche la pizza quindi finiamo il turno e facciamo una pausa.”
Gabriele approfittò della pausa per osservare i suoi territori: ne aveva solo uno in più rispetto all’inizio della partita, ma il posizionamento delle truppe era buono, così come le carte che aveva in mano.
Gli amici salutarono Nicky, che si sedette sul divano. “Che giornata ho avuto, meno male che adesso posso stare un po’ tranquilla. Come va la partita?”
“Meh, insomma… Potrebbe andare meglio.” Il più sfortunato fino a quel momento era stato Luca, sul quale la coppia Elimo (come chiamavano Elisa e Massimo) aveva sganciato quasi tutti i suoi attacchi.
Gabriele non era sicuro che sarebbe stato in grado di fermarsi per la pizza se fosse stato al suo posto, ma il ragazzo al contrario sembrava aver preso la potenziale sconfitta imminente con stoica grazia ed era probabile che il motivo fosse proprio Nicole, l’ultima arrivata nel gruppo di amici grazie a Elisa, che lui stava provando a conquistare con le sue affinate doti, spesso efficaci.
Avvicinò l’amico quando tutti insieme lasciarono il tavolo e lo prese da parte. “Ehi, Luca… Vuoi una mano a uscire di scena?”
Lui sollevò lo sguardo in un sorriso. “Di solito ti manderei a quel paese, ma non oggi. Diciamo che non ti porterò rancore in caso di attacchi, poi io ovviamente non controllo i dadi e ho delle mani d’oro.” Scherzò, soffiando con leggerezza sui polpastrelli e imitando dei lanci. Ho un talento naturale.
“Si chiama culo.” Rispose Gabriele, “È per questo che non giochiamo volentieri con te, mister talento naturale.”
Luca si mise a ridere e raggiunse velocemente Nicole. Nonostante la pausa, Gabriele non riusciva a evitare di pensare al gioco e a come avrebbe potuto vincere. Mentre gli altri sei chiacchieravano, lui osservava la plancia di gioco: pensava a eventuali ritorsioni da parte degli altri nel caso di attacchi, il problema principale sarebbe sorto se lui avesse attaccato gli Elimo, con Laura non c’era problema perché lei giocava in modo serio, ma non se la prendeva troppo. Christian aveva territori buoni da colpire, ma era messo bene con le truppe e da solo non lo avrebbe tolto dai territori che gli interessavano.
Quando il campanello suonò di nuovo, Gabriele sbuffò.
“La pizza! Gabriele, apri tu?” Gli gridò Laura. Un po’ controvoglia, lui si diresse verso la porta, prese i soldi che avevano raccolto di fianco alla porta e scese a recuperare il cibo.
Al suo ritorno gli amici avevano aperto il tavolo della cucina e si erano disposti intorno occupando tutto lo spazio che c’era nella stanza, recuperando le sedie dall’altro tavolo. “Si sta stretti, ma non abbiamo altro modo.” Laura si sentiva sempre in dovere di scusarsi per le dimensioni del suo appartamento.
“Ma cosa dici, si sta benissimo, e comunque è pizza, si taglia e si mangia anche qui.”
Gabriele posò il suo cartone sul piano della cucina, imitato da Laura, e i due iniziarono a mangiare uno accanto all’altra. “Una cosa non cambia mai: quando arriva la pizza cala il silenzio.” Rise Christian.
“Ci vogliono certezze nella vita, soprattutto col lavoro che ho.” Echeggiò Massimo, l’eterno precario del gruppo.
Luca alzò la mano e si schiarì la voce: “Ecco, potrei presentarti qualcuno.”
La risata di Laura. “No, per carità, non andare anche tu a fare il grande uomo del marketing, ce ne basta uno nel gruppo o ci tocca metterla ai voti per decidere chi è di troppo.”
Lei lavorava da quando ne aveva memoria. L’aveva sempre considerata una persona umile alla quale la vita aveva dato tante sfide da combattere, e lei aveva risposto senza lasciarsi abbattere, almeno all’apparenza. Non era il tipo di donna che si apre con gli amici, ma ricordava di averla vista abbattuta, mentre piangeva dopo l’ennesima brutta notizia riguardante la salute di sua madre, che era morta ormai da tre anni, dopo la sua lunga malattia. L’appartamento era l’eredità dei genitori e lei teneva molto a invitare tutti lì per fare la sua parte e mantenere viva la loro amicizia. Lavorava come segretaria nello stesso posto da ormai sei anni e non aveva grosse ambizioni lavorative, e lei avrebbe potuto, eccome.
“Che ti prende, stai pensando a come uccidermi?” Gli chiese lei. Era evidente che si fosse incantato a fissarla mentre mangiava.
“Sto pensando a come vincere.” Sorrisero entrambi.
“Ecco, tu pensa, bravo, che a fare ci penso io.”
Finita la pizza, Christian e Nicole uscirono a fumare, seguiti da Luca che sembrava aver deciso di placcare la ragazza a vista.
“Porto il caffè se vi va, accomodatevi sul divano.” Gli Elimo uscirono insieme e Gabriele iniziò a impilare i cartoni della pizza. “Li porto giù quando scendo.”
“Grazie, sei sempre gentile.” Solo a guardarla in quel momento si rese conto di quanto fosse facile essere gentile con lei.
“Va tutto bene, Laura?” Le chiese, notando un’ombra di tristezza nel suo sguardo.
“Insomma… Oggi è una bella serata, sono solo un po’ stanca perché devo lavorare parecchio e non mi trovo tanto bene in ufficio da quando è cambiato il direttore. Mi piacerebbe cambiare, ma sono da sola.”
Gabriele ripensò alla storia dell’amica con il fidanzato di sempre: sei anni passati con Samuele, durante i quali la vita li aveva allontanati. Si erano lasciati da più di sei mesi ormai e i rapporti del gruppo erano tornati uniti proprio grazie a Laura, che si era detta dispiaciuta di averli lasciati allontanarsi un po’ troppo e aveva preso nelle sue mani il compito di riportare il gruppo ai bei tempi, cosa che lui aveva apprezzato molto. “Hai bisogno di qualcosa? Posso aiutarti.”
Lei aveva scosso la testa. “Non chiedo soldi agli amici, lo sai. Non preoccuparti, qualche mese di fatica e, se tutto va come deve, riuscirò a cambiare vita. Ora mi basta avere voi vicini.”
Sentì il desiderio di abbracciarla, invece si limitò a prenderle la mano. Aveva sempre pensato a lei come a un’amica, ma nell’ultimo periodo l’aveva vista diversa: era cresciuta in modo più duro rispetto agli altri del gruppo e forse per questo gli era sempre sembrata più adulta, anche quando erano ragazzi.
Era lei a riprenderli tutti quando si comportavano in modo immaturo, era sempre lei a costringerli a rispettare tutte le regole, in genere supportata da Luca. Erano sempre stati un bel gruppo di persone diverse, con passioni e valori in comune.
Gabriele si era impegnato a studiare e per un periodo si era allontanato con l’università, ma ricordava di essersi sorpreso la prima volta che l’aveva vista insieme a Samuele. Un ventiseienne in mezzo al gruppo di ragazzi di diciannove o venti anni sembrava fuori posto, soprattutto lui che non aveva interessi in comune con loro. Samuele era un uomo serio, che lavorava, giocava a calcio e guardava le partite in televisione o allo stadio. Di bell’aspetto, lo vedeva anche lui, ma con ben poco da offrire alla sua amica. Quella sera si era lasciato scappare il commento: “Cosa ci vedrà in lui?” E Luca gli aveva chiesto se fosse geloso.
“Ma quale gelosia, sono solo preoccupato per la mia amica, perché mi ha parlato di fuorigioco e io non so cosa sia. Che sia una malattia?” Aveva scherzato. Gabriele non aveva mai pensato a lei in quel modo, ma all’improvviso aveva iniziato a credere che lui sarebbe stato una scelta migliore, lui avrebbe saputo come renderla felice. Nel corso degli anni aveva pensato spesso a cosa avrebbe potuto fare se i due avessero preso strade diverse. Si era visto mentre la salvava dalla tristezza di una vita noiosa, ma quando lei aveva avuto bisogno di aiuto con la malattia della madre, Samuele le era stato vicino. Almeno all’apparenza. In seguito Laura aveva confessato a Elisa di aver chiesto anche a lui di lasciarla da sola, e proprio in quel periodo i due avevano iniziato ad allontanarsi in modo sistematico e irrecuperabile. Quando si erano lasciati, non era stata una sorpresa per nessuno.
“Tu puoi sempre contare su di me.” Le disse, ma la reazione dell’amica fu di shock. Gabriele si subito pentì della sua frase da film scadente doppiato male e cercò di sdrammatizzare, lasciando subito andare la sua mano. “Scusa, ho visto troppa TV in questo periodo, non farci caso.” Lei continuò a fissarlo mentre indietreggiava, ma sembrava felice.
“Ok, magari puoi aiutarmi a fare i caffè, Mr Forrester.”
“Mr cosa?” chiese, confuso.
“Sai, quello di Beautiful, mi pare si chiamasse così. Lo guardava sempre mia mamma, nell’ultimo periodo recuperavamo le puntate insieme. Roba da boomer.” Rise.
Gabriele portò fuori i caffè e si mise a osservare la plancia, Laura dall’altro lato faceva lo stesso, mentre teneva la tazzina con entrambe le mani il suo sguardo passava da un lato all’altro, veloce, un ghigno di soddisfazione si formava lento sul suo viso. Come immaginava era la sua avversaria più pericolosa.
“Ok, andiamo avanti che la notte è breve e noi stiamo invecchiando.” Dichiarò, battendo le mani.
Dopo pochi assalti Luca era ormai fuori gioco, partecipava in modo distratto ed era chiaro che avesse perso i suoi obiettivi. Gabriele da un lato sperava che qualcuno avesse l’obiettivo di distruggerlo per concludere la partita, ma non fu così e quando dichiarò la sua sconfitta, salutò e corse sul divano a sedersi di fianco a Nicole. “Ho perso per non farti sentire sola, stasera.”
La partita proseguì in modo piuttosto equilibrato: Gabriele capì che la sua Asia non era un obiettivo ricercato. In fin dei conti era il continente più impegnativo, al contrario del sud America, che pareva molto più gettonato. In breve Laura si appropriò dell’Africa e Christian dell’Oceania. Gabriele cercava di colpire sempre il giocatore più forte tra quelli presenti in Asia e, lentamente, stava conquistando una buona parte dei territori. “Si sa che chi prende la Kamchatka vince la partita,” dichiarò mentre avanzava sul territorio che fino a quel momento era stato di Elisa.
Passò un’altra mezz’ora di stallo. Quando Christian lo sconfisse di nuovo in Brasile, Gabriele si sentì all’improvviso colpito sul vivo, come temeva la competizione stava iniziando a renderlo impulsivo. Contò fino a dieci mentalmente, come si era promesso di fare, poi durante il suo turno cercò di recuperare, senza successo. Rosso in viso, abbandonò anche il Venezuela e con esso la sua presenza in Sud America.
Fu felice poi quando Laura diede una bella lezione al suo amico, indebolendo le sue truppe, senza però riuscire a prendere il territorio.
Tre turni dopo, Massimo sbuffò. “Stavo quasi vincendo e non ho più niente.” Osservò. Ci volle poco per metterlo fuori gioco e il colpo di grazia gli fu dato proprio da Elisa, che senza pietà ignorò il loro tacito accordo di non belligeranza. “Mi dispiace, ma ormai sei andato.” Anche lui si accomodò sul divano a sbollire e a sorseggiare il liquore alle erbe che Luca aveva tirato fuori su consiglio di Laura.
Erano rimasti in quattro e purtroppo Gabriele doveva ammettere di essere quello messo peggio. Elisa appariva a suo agio, pronta a dargli il colpo di grazia, ma appariva più propensa a battersi con Laura, che nel corso degli ultimi turni aveva, citandola: “Perso qualche truppa di troppo.”
“Ok, pausa.” Propose Christian, ed Elisa aggiunse: “Devo andare in bagno.”
“Io prendo da bere.” Propose Laura, che andò in cucina, seguita da Gabriele che quella sera si sentiva quasi ipnotizzato.
“Che ti prende?” Gli chiese l’amica nel vederlo dietro di lei.
“Cosa?”
“Sei strano stasera. Sicuro di stare bene?” Una pausa. “Devi dirmi qualcosa?”
Lui si sentiva in crisi. Sapeva di doverle dire qualcosa, ma non era sicuro che fosse la cosa giusta. “Porto giù i cartoni della pizza, così faccio due passi.” Lei annuì, passandogli la spazzatura.
“Speravo in qualcosa di diverso, ma mi accontento.”
Mentre scendeva le scale, Gabriele si chiese quanto gli importasse davvero della spazzatura o della partita. Avrebbe voluto parlarle, dirle che forse tra loro le cose potevano essere diverse, ma non voleva rovinare la loro amicizia. Quando tornò di sopra la trovò ancora in cucina, a osservare il microonde dove scoppiettavano i pop-corn. Depositò il contenitore vuoto e tentò con l’unica frase che sentiva di poterle dire senza conseguenze disastrose. “Non mi dispiacerà se sarai tu a vincere.”
Lei non si voltò, ma sorrise. “Neanche a me dispiacerà se sarò io a vincere.”
La fine della partita arrivò in pochi turni. Elisa puntò tutto sul distruggere Christian, che non fu aiutato molto nei suoi tentativi di difesa. Gabriele era a due territori dalla vittoria quando l’armata di Laura gli conquistò nuovamente il Brasile per poi dichiarare la vittoria.
Stranamente, non sentiva rabbia. Alzò le spalle ed evitò di parlare.
“Questo gioco non mi piace proprio,” si sentì di commentare Christian, che l’aveva scelto.
Gli amici si sedettero sul grande divano e sui cuscini posti sul tappeto a parlare insieme per un po’, prima di iniziare a salutarsi.
“Forse è meglio che vada anche io,” disse Gabriele quando Christian e Nicole presero i cappotti.
“Certo, ma posso chiederti un favore prima?” Gli chiese Laura. “È una cosa veloce, un piccolo aiuto.”
“Sì, cosa ti serve?” Lei fece cenno di aspettare e insieme salutarono i due amici, poi chiuse la porta.
Era in silenzio. “Mettiamo via il gioco intanto?” le propose.
Lei annuì. Sembrava che stesse cercando le parole giuste. Gabriele quindi decise di usare il suo coraggio. In fin dei conti pensava che i due volessero la stessa cosa da come stava andando quella sera. Richiuse il coperchio e le si avvicinò.
“Ti vedi con qualcuno?”
Laura alzò lo sguardo. “No… e tu?”
“Neanche io. Dici che rischieremmo troppo se provassimo a…” Si fermò nel vedere il sorriso aprirsi. Gabriele fece un passo verso di lei e, che gli accarezzò i capelli con una mano. “No, mi piace rischiare, lo sai.”
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Prompt: Forza 4
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Slice of life
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Competizione e collaborazione


Sin da quando erano piccoli, fino a quando avevano compiuto cinque anni, i giochi di competizione tra Miriam e Leonardo erano sempre finiti male. Chiunque dei due vincesse, era sempre certo che l’altro si sarebbe arrabbiato e qualcuno avrebbe avuto un occhio nero, un graffio o un bernoccolo da qualche parte.
“È normale che vogliate vincere tutti e due, ma l’importante è che vi divertiate nel corso della partita, poi quando litigate finisce che nessuno dei due si diverte, non è forse così?” Chiedeva loro la mamma, per trovarsi di fronte gli occhioni smarriti e pentiti dei due bambini, che in seguito riprendevano il loro conflitto da dove si era interrotto. Proprio per questo i genitori avevano cercato di evitare di acquistare giochi uno contro uno, in modo da permettere ai due di avere momenti più sereni insieme. “Con il tempo questa conflittualità passerà, è solo questione di un paio di anni.” dicevano tutti. “Per i fratelli è così, ci sono sempre litigi per cose futili come questa, ma impareranno a volersi bene.”
La scuola aveva insegnato loro che molto spesso l’alleanza ha un valore molto importante e i due, con riluttanza, avevano scelto di essere alleati anziché avversari, per aiutarsi coi compiti, con le coperture coi compagni e anche per farsi compagnia nei momenti più difficili. Anche di fronte alla famiglia avevano dovuto ammettere che era bello avere un amico al loro fianco.
Per questo, quando il giorno del loro compleanno i due avevano trovato un pacco a forma di parallelepipedo con scritti sopra entrambi i loro nomi, erano stati felici di trovare un gioco in scatola di nome forza 4.
“Ci dovete promettere che non litigherete, però. Altrimenti lo chiudiamo nell’armadio e non lo rivedete per altri cinque anni.” Il papà aveva un tono severo, anche se nei suoi occhi i bambini vedevano che in fondo anche lui desiderava che andassero d’accordo e che giocassero insieme. Non avrebbe preso il gioco altrimenti, in effetti.
“Possiamo usarlo adesso?” Avevano chiesto. “Promettiamo che non litighiamo…” Avevano aggiunto all’unisono in tono mellifluo, come attori provenienti da uno show televisivo.
“Certo, andiamo insieme che vi spiego le regole. Fate tutti e due la prima partita con me.”
I due bambini avevano ascoltato le regole con attenzione, elettrizzati all’idea di giocare col padre. “È facile.” Aveva liquidato Miriam alzando le spalle. Ma poi, dopo soli tre turni, aveva capito di avere perso la partita. Forse il loro amore per la vittoria e quel senso irrefrenabile di rabbia che arrivava con la sconfitta veniva proprio dal loro papà, che sorrideva con fare maligno ogni volta che li batteva al nuovo gioco.
Alla seconda sconfitta della giornata, Leonardo aveva sentito l’impulso di lanciare il nuovo gioco a terra, ma il desiderio di riprovare a vincere aveva avuto la meglio su di lui.
“Fate le vostre mosse in modo troppo frettoloso: dovete pensare, ragionare, altrimenti non riuscirete mai a batterlo.” Aveva affermato la mamma, dopo avere visto una velocissima partita. “Potreste provare a parlarne tra voi e a cercare una soluzione per sconfiggerlo, almeno una volta.”
Il piano dei genitori era proprio di costringerli a fare squadra, così come succedeva a scuola, per consentire loro di capire che la competizione poteva essere vissuta in modo più sano anche a casa, quando a partecipare erano solo loro.
Miriam aveva osservato il fratello, poco convinta. “Va bene, ci sto.”
“Prendiamo le pedine rosse.” Aveva aggiunto Leonardo, allungando le gialle a suo padre.
“Prego, iniziate pure.”
I due bambini non riuscivano ad accordarsi sulla prima mossa. “Il papà di solito la mette in centro o nei due spazi vicino al centro.”
“Ma secondo me potremmo metterla anche di lato, in fondo lì.” Non sembravano giungere a un accordo, ma alla fine stupirono i genitori: “Facciamo che io decido la prima mossa, tu la seconda e poi andiamo avanti così?” Aveva proposto Miriam, trovando in quel modo l’accordo col fratello.
La pedina era quindi scesa lungo la terza corsia. L’adulto aveva risposto bloccando la corsia centrale.
“Adesso mettiamo la pedina sopra la sua.” Aveva proposto Miriam.
Ma il fratello non era molto d’accordo: “Io continuerei sul lato.”
“Ma poi sul lato ci blocca, se andiamo in alto possiamo vincere meglio.” Leonardo aveva ascoltato la sorella e alla fine aveva posto la sua pedina sopra quella del padre, che immediatamente aveva lasciato cadere la sua seconda pedina sopra la prima che avevano giocato i bambini.
“E adesso?” Miriam non era sicura della mossa che doveva fare.
“La mettiamo lì,” Il fratello aveva indicato la corsia vuota, la quinta. Non pareva una brutta mossa e, anche se non era convinta, Miriam aveva accettato la proposta.
La partita era stata più lunga delle precedenti, procedendo in modo più o meno lineare. I due gemelli avevano sventato almeno tre tentativi di vittoria del padre. Ragionare insieme aveva insegnato loro a osservare con pazienza, prendendo il tempo necessario per tentare di prevenire il gioco dell’avversario e, anche se non conoscevano ancora trucchi e tecniche per vincere in modo sistematico, sentivano di avere almeno qualche possibilità.
Dopo avere riempito più di mezza scacchiera in una partita molto più lunga delle precedenti, i due avevano sogghignato insieme. “Ce l’abbiamo fatta.” Aveva detto Leonardo infilando la pedina nella quinta corsia. “Ora se metti la pedina per fermarci qui, noi facciamo quattro sopra!” Aveva spiegato al padre, che aveva un’espressione stranamente divertita.
“Allora finiamo la partita.” Si era rassegnato il papà. “Bravi, avete unito le forze e avete vinto.” Aveva lasciato cadere la sua pedina per bloccare il primo quattro dei figli, per vedere subito la figlia infilare il gettone rosso e realizzare la mossa della vittoria.
“Sì! Evviva! Abbiamo fatto quatris!” I due bambini si erano abbracciati dopo essersi dati il cinque.
“Ma che bravi.” Aveva aggiunto la mamma.
I due bambini non si erano accorti degli sguardi di approvazione e di complicità tra i genitori. Anche se c’era la possibilità che il padre li avesse lasciati vincere ai due non importava. Stavano gustando il profumo della vittoria, insieme.
“Adesso una bella fetta di torta e poi giocate tra voi, se promettete di fare i bravi.”
“Torta!” Leonardo era partito di corsa verso il soggiorno.
“E poi partita, senza litigare.” Aveva aggiunto Miriam correndo dietro al fratello, che subito aveva echeggiato la sua frase.
I genitori, rimasti indietro, si erano guardati con complicità. “Avevi la partita in pugno.” Aveva detto la mamma. “Per un attimo ho pensato che non li avresti fatti vincere.”
“Ci ho pensato anche io, ma l’ho fatto per noi, per tutti. Un sacrificio per la famiglia.”
Sua moglie aveva riso. “Chissà da dove arriva questa smania per la competizione, eh? Meglio mangiare la torta.”
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Fandom: Originale
Prompt: Dama
Parole: 883
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La scacchiera

A casa dei nonni, nella piccola taverna dove Claudia andava spesso a giocare, c’era una scacchiera. Da piccola non sapeva cosa fosse, né a cosa servissero tutte quelle pedine bianche e nere e quindi le tirava fuori tutte e le metteva sulla scacchiera per giocare a modo suo: gli scacchi erano i suoi personaggi: la mamma, i bambini, il papà e i nonni, mentre le pedine piatte erano i mobili della casa, le macchine o le alte torri che costruiva per poi farle buttare giù durante i giochi dei bambini o combattimenti tra regine e alfieri.

Un giorno la nonna era entrata in taverna e si era schiarita la voce per attirare la sua attenzione. Claudia aveva posizionato come sempre tutte le pedine sulla scacchiera e stava facendo un gioco di equilibrio, cercando di incastrare e impilare tra loro scacchi e dame, insieme alle carte da scopa del nonno.

“Che gioco stai facendo?” le aveva chiesto la nonna mentre si avvicinava alla scacchiera.

“Gioco a scacchi, carte e dama insieme.” Aveva risposto la nipote.

“Non ti piacerebbe imparare davvero a usare queste pedine?” Aveva domandato la nonna, prendendo una dama bianca.

Claudia si era rivolta a lei con occhi luccicanti di gioia. “Posso davvero?”

La nonna aveva annuito e si era seduta di fronte alla scacchiera dal lato opposto rispetto alla nipote, che nel mentre aveva iniziato a dividere le pedine e a mettere in ordine le carte. “Cominciamo con la dama, che è un pochino più semplice degli scacchi.”

Insieme avevano riposto gli scacchi nei contenitori della scacchiera, poi la nonna aveva iniziato a mettere le dame nere sui quadrati neri della scacchiera. “Vanno posizionate tutte in questi quadrati dello stesso colore, vedi? Ce ne stanno quattro per fila.” Nell’imitarla la nipote aveva iniziato a imitare la nonna, ponendo le dame bianche negli spazi bianchi.

La nonna aveva sorriso “No, giochiamo tutte e due con questi spazi della scacchiera.” con pazienza, aveva spostato le pedine della nipote. Poi l’aveva guardata con un sorriso e aveva iniziato a spiegarle le regole del gioco. Claudia aveva fatto una moltitudine di domande, spesso non inerenti al gioco. Ma la donna aveva risposto, ammirata di fronte all’interesse sincero della bambina, che aveva solo sei anni, ma che desiderava imparare a giocare e vincere.

“Quindi io devo portare le pedine dal tuo lato per avere quella doppia e muovermi dove voglio.”

“In pratica sì, ma iniziamo a giocare, così capiamo meglio. Inizi tu che hai il bianco.”

La bambina aveva pensato che per imparare ogni mossa sarebbe stata buona, quindi senza pensarci troppo aveva mosso una delle pedine al centro della scacchiera. La nonna invece subito aveva spostato una della sue sullo scacco laterale. “Se la metto così, non me la puoi mangiare.” le aveva spiegato.

Con la seconda mossa, Claudia aveva perso la prima delle sue pedine, ma nel mangiarla, la pedina della nonna era finita in una posizione scomoda. “Ma se fai così perdi quella lì! Posso rubartela, vero?”

La nonna aveva annuito. “ Questo è proprio il gioco: vedi, ora tu puoi recuperare, anzi: devi mangiare la mia pedina, come io ero obbligata a fare lo stesso con la tua anche se sapevo che poi l’avrei persa. Molto spesso nel gioco si porta l’avversario a scoprire parti della scacchiera per provare a vincere.”

La nipote aveva ogni consiglio della nonna e, anche se la partita si era conclusa con la sua sconfitta, esattamente come si aspettava, si era divertita molto a imparare le regole.

Quel giorno avevano fatto ben cinque partite e la nonna ne aveva vinte quattro. Nel corso della seconda, Claudia era riuscita a fare la sua prima dama e aveva iniziato a utilizzarla per muoversi in giro per la scacchiera. Il senso di potere che aveva provato era stato quasi inebriante. Il gioco le piaceva.

Quando aveva vinto la partita, l’ultima, le era venuto il dubbio che sua nonna avesse fatto qualche errore di troppo e l’avesse lasciata vincere. “No, non lo farei mai, è più bello giocare insieme mettendoci tutto l’impegno possibile, non sei d’accordo?” Le aveva detto. “Ti stai divertendo, vero?”

Era così: Claudia si era divertita, si era sentita più grande a vedere finalmente quel gioco per quello che era, a giocarlo da adulta seguendone le regole corrette.

Ci erano volute molte partite perché lei imparasse a giocare davvero. Tante visite dai nonni durante le quali lei aspettava con fervore l’arrivo in taverna di sua nonna, la scacchiera pronta a quel momento intimo tra loro due che ormai era diventato una consuetudine.

Erano passati ormai trent’anni da quel giorno. Ormai Claudia aveva due figli suoi ai quali aveva già insegnato a giocare a dama. L’aveva fatto ricordando quelle sue prime partite e soprattutto la nonna, che ormai da qualche anno aveva dovuto smettere di giocare. La scacchiera era ancora lì, nella taverna che presto sarebbe rimasta vuota. Claudia aveva chiesto ai parenti di lasciarla a lei perché la voleva a casa. Aveva già scelto il posto che avrebbe occupato: a vista ogni giorno sul tavolino tra le due poltrone del salotto, in modo da permetterle di ricordare ogni giorno quelle giornate, che rappresentavano il suo legame profondo con la signora Lina, la sua maestra di dama e di scacchi.
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Originale
Slice of life
Prompt: Briscola
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Tradizioni di famiglia



Dopo ogni pranzo coi nonni, c’era la piccola tradizione alla quale Giulia ed Edoardo non potevano sottrarsi: la partita a briscola con il nonno e il papà. A briscola si gioca in quattro. Diceva il nonno, che era il promulgatore della tradizione e che teneva a mantenerla nel tempo. Appena i nipoti avevano avuto l’età per partecipare, la zia era stata ben felice di sottrarsi al gioco, non perché non le piacesse, ma perché il nonno prendeva la cosa molto sul serio e lei non era mai stata una persona competitiva.
I due bambini avevano sentimenti ambivalenti sul gioco: se da una parte si sentivano felici di passare del tempo con i due uomini adulti della famiglia, dall’altra sapevano che la possibilità di sbagliare a capire quale carta dovessero buttare sul tavolo li avrebbe messi nella condizione di essere rimproverati, anche se in modo giocoso. Il nonno in particolare aveva tutta una serie di segnali che prima della partita ripassava con il suo compagno di squadra, che rendevano le partite peggio di un’interrogazione a scuola.
“Se mi tocco la guancia col pollice, devi buttare carichi.” Disse il nonno a Giulia, dopo averla presa da parte in modo che gli altri non li sentissero.
Lei annuì in modo diligente. “Carichi pesanti?” Chiese.
“Sì: carichi, i più pesanti che hai. Se invece mi tocco la fronte, butta scartine, spazzatura.”
“E se non ho scartine, cosa faccio?”
Il nonno allargò le braccia. “Pensaci bene, come si risponde?”
“Devo fare l’occhiolino?”
“No, quello è per dire che hai briscole in mano!”
“Ah, giusto, devo grattarmi il naso!”
Il nonno sorrise soddisfatto. “Vedi che ti ricordi? Adesso ripetiamo tutto e poi andiamo a giocare. Non importa se perdiamo, ma dobbiamo capirci bene.”
Giulia sapeva che al nonno importava eccome di vincere, così come sapeva che sbagliare un gesto l’avrebbe messa nella lista nera dei compagni di squadra (lista che comprendeva ormai tutta la famiglia), ma le importava poco perché vedere la passione che lui metteva nelle loro partite insieme e avere la possibilità di condividere questi momenti con lui la faceva sentire felice. Era mentre giocavano che sentiva il loro legame farsi più forte.
Si sedettero al tavolo e il nonno, come sempre, fece le carte per primo, “Briscole di bastoni,” dichiarò girando la carta e mettendola bene in vista in fondo al mazzo. L’atmosfera era tesa e silenziosa. I partecipanti guardavano le carte con attenzione e si osservavano a vicenda, nel tentativo di cogliere gesti o espressioni che aiutassero a prevedere in qualche modo il gioco dell’avversario. Giulia nella prima mano aveva pescato due assi e una briscola. Una mano carica e difficile: non poteva scartare il quattro di bastoni, perché il nonno avrebbe emesso uno dei suoi lamenti di disappunto. Lo guardò fisso negli occhi e gli fece un occhiolino. Lui annuì.
“Avanti tranquilla.” Disse.
La bambina buttò il suo asso vicino al quattro di spade del padre, Edo sbuffò e scelse un sei di danari. Il nonno allora aggiunse all’asso un fante e le passò le carte: la prima mano era andata.
La prima partita proseguì tranquilla e alla fine fu vinta da Giulia e dal nonno. La ragazzina sentiva di aver fatto un buon lavoro ed era orgogliosa di se stessa. Vedeva lo stesso orgoglio in suo nonno, che appariva rilassato e sembrava aver fiducia in lei.
Al termine della quarta mano, però, si ritrovarono con due punti a squadra. La quinta, come sempre, era la mano decisiva, e a dare le carte sarebbe stato come sempre il nonno.
“Questa è la bella, l’unica che conta.” Esclamò divertito, sbattendo il mazzo di carte sul tavolo.
Era difficile per Giulia spiegare l’espressione di suo nonno mentre giocava. I suoi occhi si illuminavano e il suo aspetto sembrava ringiovanire, fino ad avere venti anni in meno. Sorrideva con gioia e pareva dimenticarsi dei suoi dolori, delle malattie che lo avevano colpito nel corso degli ultimi anni e della stanchezza, della quale si sarebbe tornato a ricordare appena la partita fosse finita. Avrebbe giocato ogni giorno, se avesse potuto. I nipoti sapevano che se il nonno fosse vissuto nella loro epoca sarebbe stato un grande appassionato di videogiochi o di giochi in scatola di ogni tipo, invece era cresciuto con le carte e, per fortuna, aveva scelto di restare fedele alla sua passione. Era stato lui a insegnare ai nipoti a giocare a dama e a scacchi, sempre in modo severo, ma con l’orgoglio di chi crede che impegnarsi nella vita, in ogni suo aspetto, sia importante per vivere bene.
Per questo i nipoti amavano giocare con lui. Alla fine non importava che vincessero o perdessero, perché nonostante il nonno si arrabbiasse, alla fine ciò che per tutti rimaneva era il ricordo di un bel momento condiviso tra tutti. Avrebbero giocato insieme fino a quando fosse stato possibile farlo. Fino a quando il nonno non fosse stato più in grado di tenere le carte in mano e di fare i suoi segnali.
“Briscola di spade,” disse, grattandosi il mento, negli occhi un’espressione divertita. Giulia sorrise, pensando che avrebbero vinto.

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