Insonnia - originale
Mar. 20th, 2021 03:41 pmPrompt: I feel very attacked right now! (Laganja Estranja)
Il prompt è tradotto in italiano, segnalato dagli asterischi (*)
Fandom: originale
Genere: soprannaturale, introspettivo
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Insonnia
La maledetta sveglia ticchettava regolare. Gabriele la prese con una mano e la lanciò contro il muro, sbuffando.
Lui voleva solo dormire sereno nel suo letto caldo e comodo, e invece si stava rigirando come un serpente da ore nonostante la stanchezza, nonostante le gocce di valeriana che secondo il suo farmacista avrebbero fatto miracoli.
Non era abituato all’insonnia e non ne aveva mai sofferto, ma da quando sua nonna era morta lui aveva praticamente smesso di dormire.
Si sentiva osservato, era come se il fantasma della sua parente defunta fosse lì a giudicarlo, come da viva la nonna aveva sempre fatto.
Non avevano mai avuto un bel rapporto, perché sua nonna aveva la tendenza ad attaccarlo per insegnargli a vivere, così diceva lei.
Secondo lei, Gabriele avrebbe dovuto smettere di uscire con gli amici a divertirsi, farsi assumere in banca e trovare una brava ragazza con la quale avere tanti marmocchi da portare alla bisnonna.
Ma quello non era il suo sogno.
Un giorno, cinque anni prima che morisse, avevano litigato in modo pesante, irrevocabile.
La nonna gli aveva ripetuto per l’ennesima volta di non sprecare la sua vita con il cellulare, fai qualcosa di utile per una volta, esci e trovati una brava moglie, poi cercati un lavoro serio e smettila di giocare.
Gabriele aveva deciso allora di dirle la verità: quello non era il suo sogno e non lo sarebbe mai stato. Non avrebbe mai avuto una moglie e dei figli, semmai un marito, se la gente come lei glielo avrebbe mai permesso. Lavorava felice e realizzato come grafico e non ci pensava proprio ad andare in banca, non sarebbe mai successo. Le disse che lei aveva sprecato la sua vita, rinchiusa in un matrimonio privo di amore e di rispetto che era peggio di una prigione, una donna senza passioni che viveva solo per abitudine.
Gabriele si era pentito subito del fiume di parole che le aveva vomitato addosso. Ricordava ancora l’espressione severa e delusa della nonna che non avrebbe mai ammesso, orgogliosa com’era, di aver subito l’attacco verbale del nipote, di esserne stata toccata nel profondo.
Dopo quel giorno nulla era più stato lo stesso.
La nonna sospirava, guardandolo. Non giudicava più apertamente, ma sbuffava spesso e il ragazzo sapeva che non sarebbe mai tornato indietro. La vedeva a Natale e al suo compleanno e lei gli riservava sempre sguardi di pena. Il suo giudizio strisciava fino a lui, facendolo sentire inadeguato e tutto ciò che desiderava era andarsene.
Aveva provato a parlarne a sua madre, ma la donna aveva minimizzato: È fatta così, è sempre stata così, cosa possiamo farci? Mi ha detto di essere preoccupata per te, lei non ti capisce. Ormai è vecchia, non cambierà più.
Si era allontanato da lei senza guardarsi indietro e da allora aveva ignorato le richieste, anche quelle di aiuto, che arrivavano dalla nonna.
Il senso di colpa arrivava proprio da quell’ultima richiesta, il giorno della sua morte. Forse se fosse andato lui a farle la spesa come la nonna gli aveva chiesto, lei non sarebbe morta.
Constatando la vittoria dell’insonnia, decise di alzarsi, sconfitto. Uscì dalla sua stanza ignorando la sveglia, che comunque non gli serviva più: erano le quattro del mattino e lui aveva dormito per poco più di dieci minuti? Forse era arrivato a un’ora di sonno totale, poco male.
La sua iguana riposava nel terrario al sole artificiale della lampada, Gabriele si avvicinò al rettile per capire se era sveglio e il suo animale domestico rivolse la testa verso l’uomo, che aveva aperto la gabbia per portarlo con lui sul divano. “Ciao, bella!”
Niente lo rilassava come accarezzare la pelle liscia della sua Lilly. Sperava che la presenza dell’iguana lo aiutasse a rilassarsi per permettergli di dormire almeno un paio di ore prima dell’inizio della giornata.
“Non ho mai capito come tu faccia a toccare quella bestia orribile.” Stanco com’era, la voce della nonna gli sembrò reale. Rise al pensiero che gli avrebbe detto proprio quella stessa frase. Scimmiottò, ripetendola, il giudizio indesiderato sulla sua amata Lilly e rispose, ancora mezzo addormentato. “Avresti dovuto provare a toccarla, nonna, è piacevole. E a lei piaccio io perché la scaldo.”
“Ne faccio a meno volentieri, caro.” Per quanto fosse impossibile, quella era la sua voce ed era nella stanza. Gabriele, pietrificato e più sveglio di quanto non fosse mai stato nell’ultimo mese, alzò la testa per trovarsi di fronte una figura semitrasparente con le fattezze della cara nonna defunta.
“Non mi saluti neanche?” Gabriele boccheggiava mentre Lilly si arrampicava sulle sue spalle, pronta a farsi proteggere dal suo umano preferito.
Il fantasma si sedette sulla poltroncina di fronte al divano, le gambe accavallate e un’espressione di disappunto. “Cosa ci fai sveglio a quest’ora? Non credi sia ora di smetterla con queste sciocchezze?”
“Ch-cosa?”
“Lo sai cosa: ti senti in colpa perché sono morta e ti avevo chiesto di farmi la spesa, sarei morta lo stesso, sai?” il fantasma si fermò un attimo, per poi riprendere vista l’incapacità di parlare del nipote. “Allora, come te lo spiego? Fai bene a sentirti in colpa perché sei stato un nipote assente.”
“Ma nonna… F- Fantasma? Sto sognando?”
“No, non stai sognando. Lasciami finire una volta tanto! Dicevo: non sei stato un nipote modello, tante volte ho chiesto il tuo aiuto e tu l’hai ignorato, perché non sei mai stato capace di fare una gentilezza a tua nonna. Ma non sono morta per causa tua. Avevi le tue cose e io non le ho mai capite. Adesso però quando passo da te sei sempre sveglio a ripensare a quello che mi dicevi, a quanto stavamo insieme da bambino. Ma basta! Quello è il passato e credimi: io sto benissimo adesso. Magari comincia a comportarti bene con chi è vivo, tipo tuo nonno, invece di scaldare la sedia e il serpente! Credo sia ora che tu cambi registro, se vuoi che la tua vita sia migliore.”
Gabriele non riusciva a parlare, osservava lo sguardo severo del fantasma e si sentiva del tutto inerme. “Mi attacchi sempre! La vuoi smettere di farmi sentire in colpa? Da sempre, non sei mai capace di stare zitta.”
“Cosa? Stai dando la colpa a me della tua incapacità di vivere e di dormire? Ma io sono morta, che cosa posso farci adesso, eh? Semmai io mi sento molto attaccata adesso*. Come mi ci sono sentita quella volta, quando abbiamo litigato.”
“Puoi anche smettere di essere così. Possibile che anche da morta tu riesca a comportarti da stronza? A rinfacciare ogni cosa? Dovresti smetterla di ferire tutti di proposito. A me la mia vita piace, escluso l’ultimo mese.”
“Pfff… se non ho imparato da viva a farmi gli affari miei, puoi immaginare quanto ti ascolterò adesso, da defunta. E sai una cosa? Non mi interessa per niente di ascoltarti. Anzi. Si sente attaccato?* Oh, poverino.”
“Ma io…”
“No: niente ma. Metti nella gabbia la tua lucertola e torna a dormire. E da domani sveglia presto e basta scemenze. In realtà sono venuta qui a ringraziarti… ”
“Cosa? Ringraziarmi per cosa?” Gabriele si alzò e rimise Lilly nel terrario. L’iguana protestò timidamente, ma subito tornò sul ramo a scaldarsi. Osservava il fantasma, confuso.
“Un po’ avevi ragione. Ci ho messo anni per dirtelo e alla fine non ci sono neanche riuscita da viva… Ho ripensato spesso alla nostra litigata e devo ammettere che non è stato facile per me ragionare su quello che mi avevi detto. Sul mio giudicare sempre tutti e voler decidere per ogni membro della mia famiglia. Lo sai che ho iniziato a dipingere? Era un hobby che avevo quando ero giovane, prima che mollassi tutto per occuparmi dei miei doveri familiari. Ho ricominciato pochi giorni dopo la nostra litigata. Avrei voluto dirti che eri stato tu a spingermi, ma non ce l’ho mai fatta. Avrei molti più rimpianti se tu non mi avessi mandata a quel paese cinque anni fa. Ho cercato di non giudicare più, di provare a capirvi meglio tutti. Non credo di esserci riuscita, anche perché non ho mai trovato il coraggio di dirti che avevi ragione, e questo è il mio più grande rimpianto.”
Gabriele stava fermo a bocca aperta a fissare il fantasma.
La nonna si mise a ridere. “Voglio solo dirti che dovresti smetterla di sentirti in colpa, perché non è tua. Ma voglio sperare anche che tu abbia imparato dai tuoi errori, perché se provi senso di colpa è perché in fondo mi volevi bene e ti è costato starmi distante. L’hai fatto per te stesso e lo capisco, ma la prossima volta che tuo nonno ti chiederà di accompagnarlo da qualche parte, magari dirai la verità e non inventerai stupide scuse all’ultimo secondo.”
“P- Posso toccarti?”
“Non proprio.” La nonna si avvicinò a lui e fece scivolare una mano verso la sua, la mano era eterea, aria.
“Mi dispiace, nonna.”
“Lo so, tesoro. Mi spiace di averti osservato così tanto in questo periodo, ero preoccupata per te, ti vedevo così triste… Ora però capisco. Ti ho osservato tanto e ho visto quanto tu sia felice con quel Marco. Dovresti presentarlo a casa perché tua madre sarebbe felice di sapere che non sei solo. Anche il tuo lavoro, per me era strano, come la tua biscia lì, che non capisco come faccia a piacerti. Però non siamo tutti uguali, e finalmente credo di averlo capito. Adesso vieni, andiamo a dormire.”
Gabriele si diresse verso la camera assieme alla nonna. “Guarda che ti controllerò, sai. Non voglio più sentire scuse. Da domani dormi e non ci pensi più.”
Gabriele annuì, grato alla nonna per essersi rivelata a lui quella notte. Si mise sotto le coperte mentre gli cantava la ninna nanna di quando era bambino.
Il mattino seguente, Gabriele si svegliò quando il sole era già alto. Sarebbe arrivato in ritardo al lavoro, ma non gli importava: aveva dormito. Dopo due mesi finalmente aveva dormito.
Non sapeva se la visita della nonna fosse stata solo un sogno, ma si sentiva più leggero, più libero di vivere. “Grazie, nonna.” sussurrò.
Via Manzoni Diciassette - Originale
Feb. 24th, 2021 11:08 pmOne shot
Fandom: Originale
Generi: Sovrannaturale
Avvertimenti: Suicidio/morte
Prompt: esplorazione, casa stregata
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Via Manzoni 17
Pietro Mareschi era intenzionato ad acquistare una nuova casa per la sua famiglia. Ne aveva puntata una in via Manzoni diciassette che gli piaceva sia per la posizione, era infatti in centro città, che per tutto il resto.
La casa apparteneva a un medico, che l’aveva acquistata direttamente dal proprietario originale ed era praticamente una villa di fine ottocento, con doppia scalinata in legno all’ingresso e mobili di pregio in ogni stanza.
Da piccolo, ricordava che suo padre l’aveva portato lì più di una volta, perché il proprietario, che era anche il suo medico di famglia, era un suo vecchio amico, e con vecchio, intendeva davvero vecchio. Chissà se è ancora vivo, si era ritrovato a chiedersi.
Mareschi ricordava i discorsi del padre, come gli ripetesse di continuo che una casa del genere è uno status symbol.
Con una casa come quella non hai neppure bisogno di vestirti bene e di usare auto di lusso: tutti sanno che chi vive in un luogo così è gente di un certo livello.
Proprio per questo gli dava immensamente fastidio che quel gioiellino fosse al momento disabitato. Sapeva che in giro c’era qualche voce che girava, che qualcuno sosteneva che fosse un luogo abitato dai fantasmi, ma erano sciocchezze e se proprio i proprietari non ci volevano vivere non c’era nessun problema: ci sarebbe andato lui.
L’uomo aveva subito dato ordine ai suoi assistenti di contattare il proprietario e di chiedere se per caso il lotto fosse in vendita.
Dopo un paio di giorni era stato chiamato da un’agenzia immobiliare della città che gli aveva spiegato che in effetti la casa era disabitata, ma che il proprietario si era sempre rifiutato di venderla o di affittarla.
“Sappiamo che è davvero un peccato che la casa stia lì: vuota, a lasciare che il tempo la rovini, ma quello non ne vuole sapere di vendere, dice che solo quando sarà morto potremo averla.”
Mareschi aveva reagito male. “Questo non ha senso, fate il vostro lavoro e trovate un modo di convincerlo! O vi fanno così schifo i soldi?” Aveva tuonato. La donna dall’altro capo del telefono aveva balbettato qualcosa di indefinito, imbarazzata dal commento del tutto fuori luogo, ma immaginando di avere a che fare con un possibile cliente, l’aveva salutato, invitandolo a presentarsi per avere le loro interessanti proposte.
Ma Mareschi, il ricco imprenditore, aveva già una casa, non aveva bisogno di una casa. A lui serviva un sogno, un luogo adatto a cambiare classe sociale e a dimostrare a tutti che anche lui ce l’aveva fatta. Lui: il figlio del piccolo imprenditore che aveva iniziato tutto a partire dalla piccola fabbrica di bulloni nella quale Pietro aveva passato la sua infanzia.
Quella villa era il posto giusto per lui e per la sua famiglia e l’avrebbe ottenuta, prima o poi.
Erano passati circa due mesi quando l’agenzia aveva richiamato.
Un uomo dalla voce squillante e dal tono entusiasta gli aveva dichiarato che la villa era sulla piazza. “Purtroppo devo comunicarle che il vecchio proprietario della casa a cui era interessato è deceduto, quindi se le interessa posso farle vedere l’immobile, perché i figli del signor Baldi hanno deciso di vendere il prima possibile. Sa com’è, per dividere l’eredità. Hanno tutti già una casa e di questa non sanno cosa farne… e non tutti hanno buon gusto come lei.”
Era incredibile il tono allegro col quale aveva comunicato questa notizia: nonostante le parole fossero tristi ed educate, si capiva che al pensiero della provvigione l’agente era euforico. Pietro immaginava che gli importassero solo i quattrini, ma per lui non era un problema, apprezzava l’onestà, gli aveva dato quasi più fastidio l’accondiscendenza con la quale aveva sminuito gli eredi del dottor Baldi. “Va bene, voglio vederla.” Poche parole, non ne sarebbero servite di più per diventare il nuovo migliore amico dell’agente immobiliare.
Mareschi aveva accettato con gioia malcelata di andare a visitare la villa, si era anche un po’ pentito di non essere stato più bravo a fingersi disinteressato, ma non voleva lasciarsela scappare ed era certo che ci sarebbero state parecchie offerte, oltre alla sua, per acquistarla.
L’uomo dell’agenzia gli aveva dato appuntamento per le quindici e quindici. Un orario che a Pietro non era piaciuto molto, lui preferiva gli orari pieni: le quindici, le sedici. Era come quando vedeva i prodotti in offerta nei negozi a novantanove euro e novantanove centesimi. Scrivi cento, tieniti il centesimo di resto e non fingere che sia meno, tutte robe da accattoni che avrebbero fatto il possibile per pagare meno. Lui non era così. Capiva che quello fosse marketing, ma non voleva essere equiparato ai poveracci che dovevano stare attenti al centesimo. No, i prezzi dei ricchi erano diversi e lui, che tanto aveva faticato e lavorato per arrivare a quel livello, voleva che anche i tempi e gli orari si riflettessero allo stesso modo nella sua vita.
Una degli eredi del signor Baldi era di fronte al cancello. Si trattava di sua figlia Serafina: una donna spigolosa, pallida e magra, dal fare scattante. Fumava una sigaretta con nervosismo, aspirando forte il fumo e lasciandolo andare con soffi impazienti.
La donna stava confabulando con l’agente immobiliare quando Pietro era giunto vicino a loro, e l’aveva sentita confessare di non voler avere niente a che vedere con la casa. Che se la prenda chi volete, a me basta non dover tornare in questo postaccio. Lo odio.
Questo dettaglio poteva andare a suo favore nel caso in cui lui fosse stato l’unico offerente, ma in caso contrario significava che alla donna non interessava per niente che la casa andasse a qualcuno di rispettabile, quindi non avrebbe guardato in faccia nessuno: soltanto il denaro sarebbe contato nella loro transazione. Aveva pensato di mettere sul piatto il rapporto dei loro genitori, ma alla fine aveva rinunciato, pensando che tanto non era la tattica giusta per farle cambiare idea.
“Buon pomeriggio,” gli aveva detto con gentilezza Serafina, porgendogli la mano. “Sono la figlia di Roberto Baldi, oggi vi accompagnerò nella visita.”
Pietro sorrideva compiaciuto. “È la prima volta che entro in questo maestoso giardino, non vedo l’ora di fare il primo giro.”
Serafina aveva emesso una risata stizzita. “Bene: prima volta per te, ultima per me. Non vedevo l’ora di vendere questa amabile, ridente proprietà.” Aveva girato la chiave nella toppa e il cancello si era aperto con un cigolio sinistro.
“Mi spiace per l’erba alta. Avevo chiesto al giardiniere di entrare a tagliarla, ma non ha finito il lavoro per cui l’ho già pagato a quanto pare.”
Il giardino si presentava in uno stato di semi abbandono. Pietro era rimasto a osservarne i dettagli a bocca aperta, ma non gli importava delle erbacce e della sporcizia; Era incantato dagli alberi maestosi, dalle fronde verdi e sane, dal pergolato in legno che si poteva ancora intravedere nonostante la natura selvaggia avesse cercato di nasconderlo, ricoprendolo di erbacce e la grande scalinata in pietra che si protendeva fino a un terrazzo che presumibilmente si trovava al primo piano della casa.
“Qui c’era un piccolo giardino inglese, le siepi sono soltanto da potare. I fiori ovviamente dovrete ripiantarli, ma la fontana di pietra è ancora funzionante, l’ha provata mio fratello l’altro ieri quando è stato qui a dare le chiavi al giardiniere. La pavimentazione è in ghiaia. A mio padre piaceva così, ma potete rimettere il porfido, lo schema in comune prevede questa possibilità che richiede meno manutenzione. Laggiù in fondo, quel piccolo stabile che confina con la casa è una rimessa che contiene gli attrezzi da giardino e c’è anche una stanza col riscaldamento, vedete voi come usarla. Qui c’è il garage, dietro la scalinata in pietra, vedrete che ci stanno anche tre macchine.”
Serafina si era diretta subito al portone, ma Pietro indugiava in giardino, intento a esplorarne ogni dettaglio: aveva notato una panchina in legno, con la classica vernice verde scrostata, il legno rovinato dalle intemperie; un piccolo anfratto scavato nella roccia, simile a un capitello, ma privo di iscrizioni. Camminando verso la parte più remota del giardino aveva scovato anche due lapidi, appena visibili. Poco gli importava: avrebbe spianato tutto e nel caso ci fossero davvero stati dei corpi lì sotto, avrebbe cementato sopra le due tombe, o magari avrebbe potuto sfruttare la cosa per far parlare un po’ i suoi ospiti dei presunti fantasmi che abitavano lì dentro. Pietro era un uomo razionale, non si sarebbe fatto condizionare dalle credenze popolari, ma sperava che gli altri acquirenti lo facessero per risparmiare un po’ di denaro.
Di fronte al portone, Serafina sembrava spazientita, ma aveva finito di fumare la sua sigaretta, almeno. La porta in legno era pesante e spessa, si vedeva che non era stata aperta spesso negli ultimi anni, infatti le giunture presentavano un po’ di ruggine.
La sala all’interno era ampia, ma molto meno importante di come la ricordava: la scalinata di legno in passato era valorizzata dai tappeti, dalle tende pesanti in velluto e dai mobili di gusto antico che decoravano la stanza. Era deluso dal primo impatto, ma restava convinto che fosse la casa ideale per loro. Solo, avrebbero realizzato qualche modifica: sarebbe stata una casa contemporanea, niente anticaglie, niente broccati.
L’ingresso sarebbe rimasto così com’era, degno di una famiglia di buon gusto. Avrebbe sostituito il legno vecchio e scrostato con del marmo, o forse con dell’altro legno verniciato di chiaro come diceva la moda. Avrebbe fatto decidere a sua moglie, del cui gusto non dubitava. La casa sarebbe stata soprattutto un regalo per lei, che non era molto felice di vivere di fianco ai suoceri.
“Ho fatto dare una pulita, ma giusto il minimo indispensabile, tanto qui è tutto da ristrutturare.”
Sulla sinistra si accedeva a una piccola stanza, una sorta di sala d’aspetto che conduceva allo studio. Pietro ricordava che il dottore riceveva lì i suoi pazienti e pensava che l’ex studio medico fosse il luogo perfetto per accogliere i suoi ospiti e colleghi.
C’era poi un piccolo bagno di servizio che Pietro aveva guardato con superficialità pensando da subito che comunque nessuno dei bagni sarebbe stato recuperabile. Li avrebbe rifatti tutti. Opposta allo studio, c’era la cucina, completamente vuota che confinava con la sala da pranzo, la più grande della casa, alla quale si poteva accedere sia dall’ingresso che dalla cucina. Un’ottima sala da feste, che al momento poteva contare su un enorme lampadario in vetro di Murano e su un vecchio tavolo di legno pregiato, con intarsi, che Pietro avrebbe potuto vendere a un antiquario.
Al piano superiore c’erano due bagni tutti da rifare e quattro spaziose stanze da letto, due delle quali contenevano già degli enormi armadi a muro che, sebbene fossero sporchi, sembravano di valore, forse avrebbero potuto trovare il modo di tenerli anche col nuovo arredamento. Sua moglie avrebbe di certo farneticato che la casa era troppo grande per loro due e per il figlio, ma Pietro sapeva che la donna avrebbe trovato un modo per impiegare le due stanze vuote, magari progettando una camera per gli ospiti e una sala creativa, nella quale la donna avrebbe potuto esercitare la sua passione, dipingendo soggetti troppo complicati perché Pietro capisse il senso della sua arte. Magari avrebbe dedicato una parte della stanza anche al piccolo Guido, il loro unico figlio.
“Da quanto tempo la casa è disabitata?” Aveva chiesto Pietro, curioso.
“Dal 1990, quindi sono passati trentuno anni.” Serafina aveva un tono piatto, sembrava a disagio. “Da quando c’è stato l’incidente con mia sorella.” La donna si era ripresa, come se la sua improvvisa tristezza se ne fosse andata altrettanto di colpo. “Ma continuiamo: da questa scala si accede alla soffitta, a volte ci hanno fatto il nido le vespe, quindi state attenti e controllate. Invece dalla cucina c’è la porta che dà alla cantina.”
L’agente immobiliare era stato zitto per tutto il tempo, ma era evidente che avesse deciso che toccasse a lui parlare. “La cantina? Andiamo a vedere la cantina?”
Ma Serafina aveva sbarrato gli occhi e scosso la testa con vigore. “No, io ho da fare, ma vi lascio le chiavi, così vi arrangiate voi e se vi va ci andate. Ora devo proprio andare, arrivederci.”
Senza lasciare il tempo di rispondere ai due uomini, Serafina aveva imboccato la porta ed era uscita quasi correndo dalla proprietà, per poi gridare loro dal cancello. “In bocca al lupo, spero che si aggiudichi la casa!” A Pietro.
“Va bene… allora andiamo in cantina?”
Pietro aveva annuito, un po’ scosso dalla fretta con la quale Serafina li aveva lasciati lì come due stoccafissi. “Ma ci sono i fantasmi in cantina? Che sia vero?” Aveva riso, tutto soddisfatto per la sua battuta.
La scala in legno era ripida e un po’ consumata, ma tutto sommato lì sotto era più pulito di quanto avrebbero potuto immaginare, era come se qualcuno l’avesse visitata più spesso del resto della casa. Forse però erano state le donne delle pulizie a partire dalla cantina per poi rendersi conto di avere il tempo solo per tirare via la polvere grossolanamente.
Non c’era luce, ma i due illuminavano la stanza grazie alle torce dei loro cellulari. La cantina aveva pareti di pietra su tre lati, la quarta però era di cemento grezzo, come stava constatando Pietro mentre faceva scorrere la mano lungo la parete.
Sul pavimento c’era una scatola o forse era una cassa, non ne era sicuro, posta di fronte a una sedia di vimini, per il resto era completamente vuota.
“Quindi ha visto… ehm… come è fatta la cantina. Direi che non c’è muffa, né acqua. Possiamo tornare di sopra?”
Ma Pietro si sentiva attratto da quella scatola. Illuminando in giro aveva notato qualcosa anche sul pavimento. Si era chinato in ginocchio per capire cosa fosse e gli sembrava cera, come se una grossa candela, o forse tante candele fossero state bruciate lì sotto, sul pavimento. “Che strano, candele…” Aveva sussurrato. Poi aveva alzato il telefono e aveva spostato il coperchio della scatola. Dentro c’erano dei libri per bambini ben tenuti. Un rumore di fronte a lui gli aveva fatto alzare la torcia. C’era qualcosa lì. Aveva tentato di arretrare ed era caduto all’indietro per lo spavento. L’urlo gli era rimasto in gola, avrebbe giurato di aver visto due occhi gialli brillare nel buio.
L’agente immobiliare se ne stava immobile, schiacciato contro il muro con uno sguardo di terrore negli occhi. Fissava Pietro, per quanto l’uomo gli risultasse visibile con la scarsa luce della torcia. “Signor Mareschi, pensa che possiamo scap- tornare di sopra adesso?” L’uomo cercava di sorridere e di contenere la paura, lo si capiva dal tono basso della sua voce tremante.
“Andiamo, andiamo subito.” Una volta al sicuro dal buio della cantina, Pietro Mareschi aveva ripensato a ciò che era avvenuto al piano di sotto. “Ci sono dei pipistrelli laggiù, spero non siano topi… in ogni caso con la ristrutturazione qualsiasi bestia ci sia, sarà costretta a sloggiare. Però pensavo meglio per l’interno della casa, si vede che non ci abita nessuno da decenni. Offrirò meno” Aveva riso del suo spavento, chiara suggestione, e insieme all’agente aveva lasciato la proprietà.
***
Era passato un mese da quando aveva presentato la sua offerta per la casa, Pietro era quasi sicuro che sarebbe stato necessario contrattare, che ci sarebbero state altre offerte e i proprietari, per quanto desiderassero vendere, avrebbero cercato di alzare un po’ il prezzo per ottenere il massimo dalla casa nella quale avevano passato la loro infanzia.
Era così convinto che non si sarebbe aggiudicato la casa con la cifra che aveva offerto, che lui riteneva sottodimensionata al valore della villa, che non aveva neppure detto alla moglie che presto avrebbero traslocato.
Marzia gli aveva proposto di cambiare casa qualche tempo prima e lui le aveva promesso che presto avrebbero trovato il posto giusto nel quale vivere tutti insieme in armonia.
Pietro amava la moglie e desiderava la sua felicità, d’altro canto era convinto che questa scelta l’avrebbe resa felice. Si sentiva come in un bel film nel quale il marito mostra alla moglie la chiave dorata per la felicità e lei gli appende le braccia al collo, scossa, innamorata e felice in vista del nuovo nido d’amore.
Le cose però non erano andata come aveva previsto, infatti l’offerta era stata accettata e sua moglie non aveva preso bene per niente la notizia del suo acquisto. Pietro ci era rimasto così male che si era chiuso in se stesso dopo aver domandato a sua moglie soltanto perché fosse così delusa, quasi preoccupata a causa di questa sua idea.
“Amore, tu mi giudicherai superficiale o solo stupida, lo so… Ma quella casa è infestata dai fantasmi.”
Pietro temeva quella risposta. Era convinto che fossero solo dicerie, ma la sensazione di disagio gli era aleggiata nella mente a giorni alterni e da quando era stato in quella cantina non si era più sentito lo stesso. Ricordava quegli occhi: i due occhi gialli che lo avevano svegliato più di una volta durante le sue notti di solito così tranquille.
In ogni caso non si tornava indietro: la vendita era andata a buon fine e Pietro aveva deciso che, anche ci fosse stato un fantasma, sarebbe stato lui a sloggiare e non di certo loro.
“Male che vada la rivenderemo.” Aveva proposto, solo per assecondare i desideri della moglie e sicuro che quando avesse ammirato il giardino e la grande scalinata dell’ingresso, anche lei avrebbe amato la loro nuova casa.
Trovare gli operai per i lavori di ristrutturazione era stato più difficile del previsto. Le ditte della città si erano rifiutate di entrare nella proprietà e Pietro si era chiesto come fosse possibile che in tutta la città l’unico a non credere ai fantasmi fosse lui. Del resto non gli importava molto: dal suo punto di vista erano tutte fandonie e se loro volevano crederci e lasciarsi condizionare da qualcosa di invisibile, affari loro. Lui non si sarebbe piegato a certe sciocchezze.
Aveva ingaggiato una ditta che veniva da fuori città, che non si era fatta problemi a entrare nella casa e a ricevere i suoi soldi. È un lavoro onesto, si era ripetuto per tutto il tempo, mentre gli operai stavano in quella casa. Pietro pensava anche che quello fosse un ottimo modo di mettere alla prova i fantasmi, perché se fossero davvero esistiti, e già questo era poco probabile, si sarebbero manifestati con gli operai e in questo caso avrebbero spaventato loro, togliendo ai Mareschi ogni dubbio e convincendoli a rimettere la casa sulla piazza immobiliare. L’uomo però sperava di riuscire a finire i lavori senza intoppi, per tentare almeno di riportare la casa all’antico splendore e recuperare quanto perduto.
Durante le sue elucubrazioni si era anche chiesto se non avrebbe fatto bene a buttarla giù del tutto e a ricostruirla daccapo, magari dall’altro lato del giardino, ma era chiaro che fosse una soluzione poco pratica e lunga dal punto di vista burocratico, oltre che estremamente dispendiosa. Poi, però, richiamando la sua razionalità, tornava a giudicare quelle sciocchezze da creduloni per quello che erano: superstizioni.
I lavori procedevano lenti. Pareva che agli operai fosse giunta voce dei presunti fantasmi che popolavano la casa e che si fossero rifiutati di entrare in cantina, la stanza dove questi ospiti indesiderati vivevano, almeno secondo i pettegolezzi senza fondamento. Pietro continuava a dubitare della sua sicurezza, ma non avrebbe ceduto: i lavori dovevano essere conclusi, o lui non avrebbe saldato il conto alla ditta.
Marzia, dopo una resistenza iniziale, si era decisa a prendere parte attiva ai progetti di rinnovamento e affiancava l’architetto nelle decisioni, con grande gioia di Pietro, che le aveva lasciato libertà di prendere ogni decisione visto quanto si fidava del suo gusto. L’architetto le dava consigli sulle scelte dei materiali più innovativi e dei colori più alla moda, non era difficile arredare una casa senza grossi limiti di budget, ma a lei piaceva fare le cose con attenzione e parsimonia. Aveva scelto di migliorare l’efficienza energetica della casa, senza fare grosse modifiche strutturali. Il giardino le piaceva molto più dell’interno della casa, che riteneva un po’ troppo vecchio stampo per i suoi gusti. Marzia amava le case moderne, con soppalchi in legno chiaro agganciati a cavi d’acciaio, spazi ampi, travi a vista. Lì l’unica stanza che avrebbe potuto soppalcare era l’ingresso, che però era anche la stanza che le piaceva di più e che non voleva cambiare per niente al mondo. Avrebbe solo ristrutturato la scala e rifatto il pavimento, oltre agli impianti ovviamente.
All’inizio il pensiero del fantasma la inquietava un po’, ma dopo aver passato qualche giorno in giro per le stanze aveva dovuto ammettere di non avere riscontrato niente di strano nel periodo che aveva passato in casa.
Aveva trovato il giardiniere senza fatica e per caso, perché il nuovo inquilino del condominio di fronte le si era presentato offrendole di lavorare per lei.
La donna ne era stata felice, visto che temeva che non sarebbe stato semplice trovare qualcuno che volesse lavorare stabilmente in quella casa, le vecchie credenze erano dure a morire, lei lo sapeva bene.
Il giardiniere aveva potato gli alberi, tolto le erbacce e ripulito la fontana. Aveva sostituito la vecchia panchina in legno ormai distrutta con due nuove, più moderne, e aveva posto intorno alla fontana e alle panchine un pergolato con due magnifici glicini che già stavano iniziando a crescere rigogliosi. Marzia adorava il profumo dei glicini e aveva insistito per piantarli nonostante sapesse che quando fossero finalmente andati ad abitare lì la bella stagione sarebbe stata ormai conclusa, anche solo vedere i loro splendidi fiori la metteva di buon umore.
Durante la pulizia del giardino erano tornate alla luce le due lapidi, si trattava di vecchissime tombe che secondo l’architetto erano rimaste solo per ricordo, a guardare le date pareva che fossero addirittura antecedenti alla costruzione della casa. Marzia aveva deciso di lasciarle lì dov’erano, pensando che anche se i loro spiriti fossero stati in quella casa, sicuramente non li avrebbero minacciati se loro avessero dimostrato rispetto. La donna aveva imparato a conoscere ogni parte di quel giardino, era certa che anche il suo Guido l’avrebbe amato.
Stava iniziando a pensare che forse avrebbero potuto essere felici lì, che Pietro aveva fatto bene ad acquistarla e le avrebbe dato una possibilità, desiderava imparare ad amarla.
Marzia teneva molto all'arredamento della sua dimora, ora che aveva deciso che le sarebbe piaciuto vivere lì. Aveva deciso che avrebbe recuperato alcuni dei vecchi mobili che appartenevano al dottore, facendoli restaurare e magari lavorandoci in prima persona.
In fin dei conti le era sempre piaciuta la pittura e coi pennelli aveva una buona manualità, le mancava imparare qualcosa di nuovo e sentirsi utile alla vita famigliare visto che da quando aveva avuto Guido, per scelta aveva rinunciato al lavoro come fotografa, che amava. Quando suo figlio era cresciuto, la donna aveva pensato di ricominciare, ma loro volevano anche un altro figlio, i soldi non erano un problema col lavoro di Pietro e lei desiderava passare tutto il tempo possibile con Guido. Semplicemente non era successo, almeno fino a quel momento, perché anche finalmente era di nuovo incinta, e l’aveva appena scoperto: il momento perfetto per arredare una nursery con le sue mani, col suo amore di madre e di donna.
Aveva deciso di tenere gli armadi a muro, pezzi fatti su misura che nonostante l’incuria dell’abbandono erano rimasti perfetti. Li aveva fatti smontare e ripulire, poi li aveva verniciati lei stessa. Stessa cosa per il tavolo del salone da pranzo, al quale aveva deciso di affiancare delle sedie moderne, comode, con la seduta in pelle e la struttura in acciaio. Niente tappeti, pavimenti in legno chiaro e mobili semplici dei quali non si sarebbe stancata mai.
In una giornata di giugno aveva deciso di andare a controllare la soffitta. Non era praticamente stata toccata dagli operai, che avevano rifatto la guaina del tetto senza preoccuparsi di sistemarla. Marzia aveva pensato di andare a ripulirla, le sembrava giusto fare qualcosa da sola per la sua casa, per sentirla più sua, curiosa dei tesori che avrebbe potuto trovare lassù, perché la soffitta è il luogo dei cimeli di famiglia, si sa. Oggetti di scarso valore monetario, che però hanno importanza affettiva.
La soffitta non era lugubre come la cantina, dove aveva giurato che non avrebbe mai messo piede. Lassù Marzia non si sentiva in pericolo. C’era un po’ di spazzatura in giro, che la donna aveva ammucchiato in un angolo, poi avrebbe chiamato qualcuno che la smaltisse insieme al resto dei rifiuti della casa. Non devi affaticarti, né sollevare oggetti pesanti. Le ripeteva sempre il suo Pietro, soprattutto da quando aveva saputo che era incinta. Ma Marzia si sentiva felice e stava bene, sapeva fin dove poteva arrivare.
In una mattinata di lavoro, aveva selezionato e tenuto da parte tre scatoloni, contenenti vecchi abiti e fotografie che col tempo avrebbe ricontrollato e selezionato. Tutto il resto poteva essere buttato.
“Di questi cosa ne facciamo, signora?”
Gli operai le avevano portato due scatoloni che a un primo esame sembravano contenere libri per bambini. “Portateli in soffitta e metteteli sullo scaffale. È l’unico che c’è e ci sono sopra altre scatole. Scendendo portate giù la spazzatura per favore.” Altri cimeli da esaminare, non vedeva l’ora.
***
Si erano trasferiti nella loro nuova casa in novembre, dopo circa otto mesi dall'acquisto.
I lavori alla fine erano stati portati a termine, anche se c’era stato qualche intoppo. Gli operai si erano lasciati suggestionare dalle storie di fantasmi e si erano alternati più del previsto, ma l'importante era il risultato e nonostante le difficoltà e gli imprevisti tutto era finalmente perfetto.
I due avevano mostrato con orgoglio la nuova dimora al loro unico figlio, Guido, che per la prima volta aveva potuto ammirare la sua nuova stanza con il letto da bambino grande. In fin dei conti ormai aveva quasi cinque anni.
Per Guido, la nuova casa era un paradiso. Non era molto più grande rispetto a quella in cui stavano prima, ma era più misteriosa, perfetta da esplorare con le missioni, che erano il suo gioco preferito. Guido avrebbe tanto desiderato avere un fratellino, ma in tutta sincerità ne avrebbe preferito uno già in grado di fare qualcosa con lui, non uno di quelli piccoli e rumorosi che non sanno neanche stare in piedi come quello che invece stava per arrivare.
Avrebbe dovuto pazientare un bel po' per potere giocare con lui, ma nel frattempo avrebbe imparato a conoscere bene quella casa.
A Guido non era permesso scendere in cantina, né salire in soffitta, ma il resto della casa gli era completamente accessibile. Poteva stare in giardino solo insieme alla mamma, ma il giardino in quella stagione era noioso: era tutto secco e l'acqua della fontana che gli sarebbe tanto piaciuto spruzzare in giro era troppo fredda per potersi divertire un po'. No, Guido stava molto meglio in casa.
La sua stanza preferita era lo studio di suo padre, che era anche l'unica nella quale aveva l'ordine di non toccare nulla. Guido si sedeva sulla poltrona di pelle imbottita del padre, prendeva una delle sue penne dal portaoggetti sulla scrivania e iniziava a scrivere a modo suo documenti importanti.
Spesso la mamma arrivava e si metteva dall'altra parte della scrivania, gli chiedeva di fargli un disegno e lui la accontentava. Poi gli diceva di firmare il documento e lui, orgoglioso, scriveva in fondo al foglio la lettera emme, l'unica che conosceva. La mamma gli aveva provato a insegnare anche la G- di Guido, ma non gli veniva bene, lei però gli aveva assicurato che presto avrebbe imparato.
La stanza della casa che gli piaceva meno, invece, era nuova nursery, che aveva il grosso armadio col pavimento che cigolava ogni volta che lui gli passava di fianco. Lì dentro faceva sempre freddo, anche se la mamma gli aveva assicurato che non sarebbe stato un problema, che era normale visto che era la stanza con meno sole. Lui non sapeva cosa volesse dire, perché il sole era in cielo ed era ovunque, ma le aveva dato ragione, anche se non era certo che la situazione sarebbe migliorata entro la nascita del suo fratellino.
Un pomeriggio la mamma l'aveva chiamato per chiedergli un bicchiere di acqua. Era stanca a causa del fratellino nella sua pancia ormai enorme. "Non me la sento di fare le scale adesso, perché mi gira la testa. Per favore, portami un bicchiere di acqua, che poi ti leggo questo libro.
Guido amava quella storia: c'erano i pirati e anche le sirene, e il tesoro da trovare. Era sceso per le scale felice, diretto in cucina. La casa quando tutto era silenzioso come quel pomeriggio, era ancora un po' troppo misteriosa per i suoi gusti, la mamma gli aveva detto che si sarebbe abituato presto, ma a volte gli sembrava che qualcuno lo guardasse, che respirasse al suo fianco. Succedeva anche durante la notte: si svegliava di colpo e quando si guardava intorno non c'era nessuno.
Quel pomeriggio però qualcuno c'era: un bambino biondo poco più piccolo di lui stava inginocchiato di fianco alla porta.
"Chi sei?" Gli aveva chiesto Guido, incerto. Il bambino stava in silenzio, le mani strette intorno alle proprie spalle, gli occhi bassi e lo sguardo preoccupato. Guido era confuso. "Sei mio fratello?"
"No... Sono Ludovico, una volta vivevo qui, sono il figlio del giardiniere."
Guido gli aveva sorriso. Sapeva che il giardiniere viveva nella casa di fianco, ma non aveva mai visto quel bambino. "Allora possiamo giocare insieme, magari domani? Oggi devo portare l'acqua alla mamma che ha sete e poi mi ha detto che mi racconta una storia."
"Domani, va bene. Io tanto sono sempre qui."
Guido era corso in cucina, ma al suo ritorno il nuovo amico non c'era più. Aveva controllato che la porta fosse chiusa ed era tornato al piano superiore.
“Mamma, ti ho portato l’acqua! E sai che ho conosciuto Ludovico!"
"E chi sarebbe Ludovico?" Marzia si era sollevata a sedere posizionando dietro la schiena un cuscino in più e aveva preso una pastiglia insieme all'acqua che il figlio le aveva portato. Uno degli integratori che le erano stati prescritti dal medico per la sua gravidanza ormai vicina al termine.
"È il figlio del giardiniere. Ha detto che domani possiamo giocare insieme!" la donna si era dimenticata che il giardiniere sarebbe stato lì a lavorare quel pomeriggio. Si era alzata con lentezza, un po' incerta nei movimenti, e aveva raggiunto la finestra. Da lì aveva salutato con la mano il giardiniere che stava tagliando i rami secchi di uno dei vecchi olmi che erano rimasti in giardino proprio per richiesta di Marzia, che ne amava l'imponente figura.
"Va bene, allora domani puoi giocare con Ludovico. Sono contenta che tu abbia trovato un nuovo amico."
“Sembra proprio simpatico,” aveva commentato Guido, raggiante, porgendole il libro e sedendosi al suo fianco.
***
Il giorno seguente Guido si era svegliato elettrizzato, in attesa trepidante dell’incontro con il suo nuovo amico. Da quando erano nella casa nuova non era ancora andato all'asilo, la mamma gli aveva spiegato che sarebbe andato in un asilo nuovo dopo Natale, perché avevano cambiato casa troppo in fretta e non avevano ancora il posto per lui. La realtà era che Marzia all'inizio era convinta che non sarebbero rimasti in quella casa per più di qualche giorno e non aveva presentato la richiesta per tempo, ma le avevano assicurato che da gennaio non ci sarebbero stati problemi. Le dispiaceva un po' che suo figlio fosse così solo in quel periodo, ma lo vedeva felice nelle sue battute di esplorazione. Col tempo anche lei si era abituata alle stranezze della loro nuova casa, come il cigolio che faceva il pavimento quando si passava di fronte al bagno, o come gli scricchiolii che arrivavano dalla soffitta. "Mi basta sapere che non ci sono bestie strane," aveva dichiarato con convinzione.
Ludovico era seduto sulla panchina, al freddo del giardino. Marzia l'aveva invitato a entrare, sorpresa dal fatto che non stava neppure indossando una giacca. "Hai freddo? Vuoi che ti presti un maglione?"
Ma Ludovico aveva scosso la testa, il sorriso aperto sul volto aveva tranquillizzato la donna. "Mi sono dimenticato della giacca, il nonno mi dice sempre che devo metterla altrimenti mi ammalo."
Marzia gli aveva teso le mani. "Fammi sentire se hai le mani fredde, sei pallido." Il bambino si era alzato di colpo. "No, sto bene. Andiamo a giocare!" La madre aveva fatto un cenno d'assenso ai due, che si erano diretti verso la stanza di Guido. Li aveva seguiti in camera, ma poi aveva pensato di mettersi nella stanza di fianco a leggere un libro per lasciarli tranquilli, certa che fossero in grado di giocare senza distruggere tutto. Guido aveva davvero bisogno di un amico e di qualche svago.
"Mamma," la voce di suo figlio l'aveva svegliata di colpo.
"Guido, scusa, mi devo essere addormentata..."
"Sì, dormivi. Ludovico mi ha detto di lasciarti dormire, dice che le mamme sono sempre stanche."
"Hai fame? Volete qualcosa da mangiare?"
"Lui è andato via, ha detto che possiamo vederci ancora domani, e possiamo fare un'esplorazione!"
"Oohh! Addirittura un'esplorazione? Ma è proprio l'amico che cercavi! State solo attenti a non ficcarvi nei guai, io domani non mi metterò a dormire, vi controllerò: promesso!"
Il giorno seguente, Ludovico si era presentato in giardino dal mattino. A Marzia sembrava davvero strano che suo padre lo lasciasse libero di fare ciò che desiderava senza mai passare a prenderlo o a controllarlo. Aveva deciso che alla prima occasione gliene avrebbe parlato, ma doveva ammettere che c'era stato qualche passo avanti, perché almeno questa volta il bambino aveva la giacca, e che giacca: un cappottino di velluto a coste imbottito, di quelli che andavano di moda negli anni ottanta. Marzia aveva pensato che potesse essere del padre, era davvero molto carino.
Guido e Ludovico erano rimasti a esplorare il giardino durante la mattina. Marzia aveva pensato di lasciarli fare, approfittando della giornata serena e tiepida che l'inverno gli stava offrendo.
Li aveva osservati per un po' dalla finestra nascondersi e appostarsi sotto le panchine, dietro le piante, e poi li aveva visti salire la scala esterna per raggiungere il terrazzo al primo piano.
"Ehi, Guido, Ludovico! Venite qui se volete una buona merenda!
Guido era arrivato di corsa. "Grazie!" Aveva esclamato, strappando il piatto con la mela dalle mani della mamma. "Ludovico è tornato a casa, ha detto che era stanco, ma dopo torna."
Nel pomeriggio, Marzia aveva visto di nuovo Ludovico fuori sulla panchina. “Suona il campanello quando arrivi, ti apro io!” Ma lui non le aveva risposto, era arrossito, la testa bassa, e poi si era lasciato trascinare dalla presa decisa di Guido, che l’aveva trascinato dentro. I due avevano deciso di esplorare la casa.
Stavano salendo la scala appiattiti sui gradini, nascosti ai loro nemici invisibili. Poi si erano diretti nella stanza di Guido, dove si erano appostati sotto il letto in attesa di Marzia, che conosceva questa abitudine del figlio e aveva lasciato loro un frullato da bere sul tavolino da gioco. “Chissà dove saranno i due esploratori…” aveva dichiarato uscendo, suscitando delle risatine misteriose da sotto il letto.
“Andiamo nell’armadio?” aveva chiesto Guido. Ludovico l’aveva seguito, ma non voleva entrare.
“Io preferisco stare fuori…”
“Hai paura? Guarda che posso entrare prima io, tu conti i secondi, poi facciamo scambio.”
Ludovico sembrava nervoso. “No, piuttosto giochiamo a nascondino e se vuoi vai nell’armadio.”
I due si erano accordati, Ludovico aveva iniziato a contare sulla parete della porta d’ingresso. L’unica regola era che dovevano stare nascosti in casa, anche se la mamma aveva aggiunto che non dovevano fare niente di pericoloso, regola che i due avevano accettato.
Arrivato a cento, Ludovico era corso verso l’armadio della nursery, dove aveva subito trovato Guido.
Il bambino aveva corso così veloce che a Guido era parso che fosse volato giù dalle scale.
“Non correte sulle scale!” aveva urlato la mamma. Ma i due non l’avevano ascoltata.
“Adesso conto io!” Guido era certo che l’avrebbe trovato subito, ma arrivato a cento aveva iniziato a girare per la casa senza successo.
Nello studio aveva controllato sotto la scrivania, nell’armadio a muro, dietro la libreria e nel bagno di servizio, ma niente. Sotto il tavolo del salone e dietro le porte non c’era. In cucina aveva aperto perfino il frigo, eppure non c’era traccia di Ludovico. La porta della cantina però era aperta. La mamma non voleva che lui scendesse, ma lei non era lì, era al telefono con la nonna, sul tavolino all’ingresso a controllare che lui non corresse su e giù per le scale.
La porta non cigolava, era nuova. Guido aveva iniziato a fare un gradino alla volta e aveva sentito una risata. Accesa la luce, gli era parso di vedere un’ombra, ma sembrava che il suo amico non fosse neppure lì. Poi però l’aveva notato appoggiato al muro, quasi in volo, di nuovo.
“Tana per Ludovico in cantina!” Aveva urlato, per poi correre verso l’ingresso. Ludovico era lontanissimo, ma era arrivato insieme a lui.
“A me fa paura laggiù, tu non hai paura della cantina?” Aveva domandato Guido all’amico.
“No, mi piace laggiù. Ci sono stato tante volte.”
Guido si era chiesto cosa significasse quel discorso, ma aveva pensato che ci fosse stato prima che loro andassero a vivere lì e, scrollando le spalle, l’aveva invitato di nuovo a giocare.
Le visite di Ludovico erano continuate nei giorni seguenti. Il bambino era quasi sempre con loro al punto che Marzia si era chiesta se il giardiniere non li avesse presi per una scuola materna gratuita. Allo stesso tempo però era felice che suo figlio potesse passare il tempo con un amico della sua età.
A darle più fastidio era il fatto che il bambino si presentasse sempre in giardino senza suonare il campanello e a lei non piaceva che il padre gli aprisse il cancello senza chiederle il permesso, sarebbe stato peggio ancora se lui le avesse prese senza chiedere il permesso.
Un sabato, approfittando della presenza a casa di Pietro, Marzia aveva deciso di andare dal giardiniere per informarlo delle visite del figlio, convinta che lui forse non ne sapeva niente. Non le dispiaceva che il bambino entrasse in casa loro quando voleva, ma non le faceva piacere che utilizzasse le sue chiavi per dargli libero accesso a casa loro, non era nei patti e non lo avrebbe più accettato. No: avrebbe suonato il campanello come tutti gli ospiti che si rispettano. La donna aveva suonato il campanello energica, quasi avesse potuto trasmettere la sensazione allo strumento elettronico, ma il suono ovviamente non aveva subito alcun cambiamento. Ad aprirle la porta era stata una donna in compagnia di un bambino.
"Buongiorno, posso aiutarla?" Aveva chiesto la donna.
"Buongiorno, sono la signora Mareschi. Suo marito è in casa?"
La moglie del giardiniere aveva scosso la testa, incerta. "È un piacere conoscerla, signora, mio marito tornerà stasera, oggi è a lavorare in una serra fuori città. Comunque ci presentiamo: io sono Annalisa e lui è nostro figlio Roberto."
"Piacere, io sono Marzia." Le due donne si erano strette la mano con cordialità. "Sono qui per parlare di Ludovico, non sapevo che aveste due figli!"
L'espressione di Annalisa non era per niente rassicurante. "Signora, mi scusi: noi abbiamo solo Roberto, io temo di non sapere chi sia Ludovico."
Marzia era sbiancata e si era sentita mancare. Il pensiero di un bambino che entrava come voleva nella sua casa con le chiavi le dava fastidio, ma il non sapere veramente chi fosse la faceva sentire persa. "Ma... ma allora c-chi?" Nella testa avevano iniziato a vorticarle pensieri orribili, poi il buio.
***
Marzia si era svegliata sul letto di ospedale in preda a dolori fortissimi.
Un’infermiera le stava tenendo la mano. Le parlava. “Signora, il bambino sta per nascere, deve respirare profondamente.”
Ma la donna continuava a pensare a Guido, in casa con Ludovico, il bambino che non era il figlio del giardiniere, eppure riusciva a entrare dal cancello senza problemi. “Mio figlio…” aveva sussurrato, il dolore non accennava a diminuire.
“Signora Mareschi, suo marito sta arrivando e il bambino sta bene, è un po’ presto, ma è pronto per nascere.
Lei è svenuta, si ricorda? Ha avuto un calo di pressione, ma per fortuna non si è fatta male perché la sua vicina l’ha presa al volo.”
“G-Guido?”
La donna non sapeva certo chi fosse Guido e non poteva aiutarla, aveva cercato di calmarla sperando che il marito arrivasse il più in fretta possibile, e per fortuna dopo qualche minuto era arrivato, trafelato e rosso in volto.
“Marzia! Come stai, tesoro?”
La donna gli aveva arpionato l’avambraccio con le unghie, cercando di mantenere il controllo della sua voce. “Dov’è Guido?”
“L’ho portato da mia madre, è con lei.”
La donna non aveva più parlato e il suo respiro aveva iniziato a regolarizzarsi. Le contrazioni erano dolorose e sempre più frequenti, ma il suo Guido era al sicuro.
“Dobbiamo parlare, Pietro. Domani, domani parliamo.”
Il marito annuiva condiscendente.“Quello che vuoi, domani ci pensiamo. Ora pensa solo a respirare.”
Dopo la nascita di Emanuele, Marzia era al settimo cielo, ma il pensiero del bambino misterioso non le dava pace. Aveva raccontato a Pietro delle visite del bambino misterioso e lui non riusciva a darle ragione.
“Pietro… e se fosse il fantasma?”
Ma l’uomo aveva riso. “Ma su, non dire sciocchezze, magari è un senzatetto…”
“Oh, bella prospettiva: un senzatetto pulito e profumato che non mangia mai con noi, sempre vestito di tutto punto. Proprio un senzatetto.” Aveva osservato lei.
Dopo tre giorni, quando era tornata a casa, Marzia si era messa a chiamare Ludovico a squarciagola in giro per le stanze, arrivando persino in cantina. Pietro teneva in braccio il piccolo Emanuele, convinto che la donna stesse perdendo il senno. Lui in fin dei conti era una persona razionale. “Vai in soffitta e prendi gli scatoloni che ci sono lassù, sullo scaffale. Portali giù nello studio che dobbiamo controllare tutto.
I due avevano messo il piccolo Emanuele a dormire nella culla al suo fianco.
Nello scatolone con gli abiti avevano trovato dei vestiti della taglia perfetta per Ludovico: maglioncini, pantaloni di velluto a coste e la giacca, quella che Marzia aveva ammirato addosso a Ludovico poche settimane prima. “Questa l’aveva lui, è davvero…”
Un brivido di dubbio stava salendo lungo la schiena di Pietro, che non era in grado di accettare quella realtà così impossibile, ma poi avevano aperto anche l’altro scatolone, quello con le fotografie.
Risalivano al periodo precedente alla fuga se così potevano chiamarla, dei proprietari precedenti. La fine degli anni ottanta, quindi. Ritraevano la famiglia Baldi alle feste i famiglia, tutti insieme. E in una di queste c’era anche Ludovico. Marzia aveva tirato fuori la foto dall’album e sul retro c’era la didascalia: Ludo, Lucia e Sera.
Pietro aveva riconosciuto Serafina, ma in quella foto era sorridente, i lineamenti più rotondi e sereni, il volto rosa e non cadaverico.
Marzia stava per avere un esaurimento nervoso: “Cosa dobbiamo fare? È un fantasma davvero… Come facciamo? Devo andarmene da qui…” Ma la donna sentiva affetto nei confronti di quel piccolo fantasma, pensava che per quanto strano, forse non fosse malvagio. “E se ci stesse proteggendo? Se volesse solo un po’ di compagnia?”
Ma Pietro non aveva mai sentito parlare di spettri gentili e anche se quello era un bambino, avrebbe chiamato un esorcista o chiunque si chiamasse per eliminarlo: era la sua proprietà. Aveva anche paura, ma non voleva ammetterlo neppure a se stesso.
Restava solo lo scatolone coi libri per bambini. Marzia l’aveva aperto e dentro c’erano alcuni tra i più bei libri che conosceva: La storia infinita, il mago di oz, i racconti di Andersen e tutte le fiabe che poteva sperare di trovare. C’era anche Peter Pan in versione illustrata. In bilico sul fianco dello scatolone c’era anche una busta. Marzia l’aveva presa con curiosità. Sul fronte c’era scritto: Ai nuovi proprietari della casa.
L’uno di fianco all’altro, Marzia e Pietro avevano iniziato a leggerla.
Cari proprietari della casa,
Sono Fausto Baldi e vi prego di leggere questa lettera fino in fondo.
La mia famiglia è sempre stata unita. Ho cresciuto i miei tre figli con amore e dedizione, dando loro tutto ciò che era in mio potere donare. Purtroppo ammetto ora di avere sbagliato, perché con superficialità li ho resi aridi alla vita e all’amore.
I libri che sono in questo scatolone appartengono a Ludovico, mio nipote. Forse avete già avuto il piacere di conoscerlo, giacché gira in questa casa da decenni nella solitudine. Spero che non vi abbia spaventati come ha fatto con la mia famiglia.
Purtroppo la sua è una storia triste, ma desidero che voi la conosciate.
Ludovico è nato a seguito di una relazione clandestina tra il nostro giardiniere e mia figlia Lucia. L’uomo, tale Antonio Pontelli, è fuggito in un’altra città come un ladro quando ha scoperto della gravidanza di mia figlia.
Lei non desiderava abortire, ha accolto Ludovico con amore, ma si è ritrovata presto vittima della depressione. I suoi due fratelli non sono stati in grado di capirla. Poco dopo la nascita di Ludovico senza rendercene conto tutti ci siamo allontanati da lei: i suoi fratelli sono andati a vivere altrove, io e mia moglie eravamo presi dai nostri interessi e dal lavoro, oltre che dalla malattia di mia moglie che in quel periodo era appena stata scoperta (questa è un’altra storia).
Così presi da noi stessi, non ci siamo accorti della gravità del suo stato, al punto che non ci aspettavamo che avrebbe tentato il suicidio. Non sottovalutate mai le malattie come la depressione, sono terribili e chi ne soffre ha bisogno di avere attorno amore e pace.
Lucia è stata portata in un ospedale psichiatrico, nel quale ha passato i successivi tre anni. Quello è stato un altro dei nostri errori: non avremmo mai dovuto lasciarla a se stessa.
Nel frattempo Ludovico è stato cresciuto da noi, che abbiamo cercato di dargli affetto e amore materno. È sempre stato un bambino tranquillo, ma la mamma gli mancava molto, sentiva che lei sarebbe dovuta essere con lui.
Al suo ritorno, Lucia non stava meglio, ma di nuovo noi siamo stati ciechi di fronte ai suoi bisogni. L’ironia della sorte è che io: un medico, non sono stato in grado di comprendere la gravità della situazione.
Un giorno, mentre erano soli in casa, si è chiusa in cantina con Ludovico. Li abbiamo trovati la sera stessa. Deceduti, abbracciati.
Abbiamo pianto, ci siamo sentiti in colpa, ma poi un giorno Ludovico è tornato.
I miei figli e mia moglie ne hanno avuto paura, ma lui non ha mai fatto niente di male.
Ho iniziato a scendere in cantina per leggergli le sue storie preferite. Venivo qui ogni volta che ne avevo la possibilità.
Poi mia moglie è peggiorata. Lei non sopportava la vista del fantasma, le causava dolore ricordare quanto negligente fosse stata nei confronti di Lucia. Ne era terrorizzata, così come i miei figli.
Ludovico non farebbe male a una mosca, cerca solo compagnia.
Io ho continuato a visitarlo fino a oggi, ma sento che la mia fine è vicina.
Ora sapete perché non volevo vendere questa casa: non potevo abbandonare mio nipote. Spero solo che voi possiate accettarlo, nel caso in cui lui decida di mostrarsi a voi.
Credo che lo spirito di mia figlia non sia rimasto qui perché lei aveva realizzato la sua vita. Desiderava la morte e l’ha ottenuta. Spero che un giorno anche mio nipote riesca a viaggiare verso la luce.
Spero che lo amiate, come l’ho amato io. Sia in vita che dopo.
Cordiali saluti,
Fausto Baldi
Marzia stava piangendo, commossa dalla storia triste che aveva appena conosciuto. Pietro era immobile e fissava un punto di fronte a lui: Ludovico era fermo di fianco alla libreria, la testa a osservarsi la punta dei piedi.
“Ludovico, vieni qui.” L’aveva chiamato Marzia. Suo marito era indietreggiato di qualche passo nel vedere il caschetto biondo del fantasma scuotersi mentre annuiva. “Lo sai che sei un fantasma?”
Ludovico, sempre in silenzio, aveva fatto pochi passi verso di loro, poi si era fermato e aveva annuito di nuovo.
“Non avere paura, vieni qui.” Marzia sentiva che le parole di Fausto Baldi erano sincere e non aveva più paura.
Il bambino era a un passo da lei. “Io… ho provato a cercare la luce. Il mio nonno me l’ha detto tante volte, ma la luce non c’è, io non la vedo.”
Marzia l’aveva abbracciato. Era la prima volta che lo toccava. All’inizio era stato strano, ma poi aveva sentito una sensazione di calore arrivare da dentro di lei. “Non preoccuparti, non vogliamo che tu te ne vada.”
Pietro era fermo a bocca aperta dietro di loro. Lo sguardo a metà tra il terrorizzato e il truce. Non sapeva cosa dire.
“Ludovico, vuoi farci del male?”
Il bambino aveva sbarrato gli occhi. “No! Io… voglio… una mamma.”
Marzia lo sentiva. Sapeva dentro di lei che il piccolo fantasma non le stava mentendo. “Allora bentornato a casa.”
Non sarebbe stato facile, ma Marzia era sicura che ce l’avrebbero fatta.
Non l’avevano mai capito, fino ad allora. La sua vecchia famiglia, i Baldi, erano sempre scappati terrorizzati da lui, tutti tranne suo nonno. Lui andava a trovarlo spesso. Arrivava in cantina, si metteva sulla sedia e accendeva le candele, poi gli raccontava le storie, ogni volta una nuova. Quando un libro finiva, gliene portava un altro. Gli aveva anche insegnato a leggere. “Non crescerai più di così, ma puoi iniziare a comportarti da bambino grande: potrai leggere le tue storie da solo quando io non ci sarò più.”
Avrebbe tanto voluto mostrarsi alla zia Serafina, ma lei non voleva proprio vederlo, l’unica volta che si era mostrato, la zia gli aveva lanciato addosso tutto quello che aveva trovato a portata di mano e se n’era andata urlando.
La sua nuova mamma, Marzia, aveva apparecchiato la tavola per quattro, anche se sapeva che lui non avrebbe mangiato era certa che avrebbe apprezzato il gesto. Sarebbe sempre rimasto così: ragazzino di cinque anni che desiderava solo avere una famiglia, un amico con cui giocare e una madre che gli raccontasse le storie. Proteggeva quella casa da quando era morto e avrebbe continuato, anche se non sapeva quando avrebbe finalmente visto la luce. L’aveva invocata tante volte, ma non negli ultimi giorni, non da quando aveva di nuovo una famiglia.
Ludovico sapeva solo che il nonno gli aveva sempre ordinato di non farsi vedere da nessuno che non fosse lui e che quando aveva smesso di andare a trovarlo si era sentito tanto triste. Per mesi aveva resistito: si era nascosto agli occhi di quelli nuovi osservandoli mentre la sua casa mutava. Aveva osservato quanto tenevano alla sua casa, aveva sentito l’amore di Marzia per Guido e l’aveva desiderato anche per sé. Conosceva la solitudine del suo amico, privato dell’asilo e della presenza dei suoi coetanei, perché era la stessa che sentiva lui, quindi aveva deciso di iniziare a mostrarsi.
All’inizio aveva avuto paura di loro, i vivi sono strani e a volte reagiscono male. Ma dopo decenni da fantasma aveva imparato a controllare bene il suo corpo e sapeva come funzionava.
Sapeva di essere il figlio del giardiniere e di Lucia Baldi e sapeva che sua madre non l’aveva mai voluto. Piangeva sempre, poi una sera l’aveva portato in cantina e lì avevano smesso di piangere. Avevano smesso di vivere, ma non ricordava come fosse successo.
Con i Mareschi, Ludovico era finalmente di nuovo parte di una famiglia, li avrebbe protetti e accompagnati alla vecchiaia come solo un fantasma può fare. Vegliava su di loro la notte, cantava cantilene al piccolo Emanuele e non viveva, ma era felice, alla fine.
Il nonno aveva ragione: non avrebbe dovuto rinunciare alla gioia solo perché era morto.
La posa, capitolo 1: Di pozze e di fobie
Feb. 19th, 2021 09:49 pmFandom: originale
Generi: horror, introspettivo, sovrannaturale
Partecipa al COWT11
Prompt: Sereno/Oscurità
Questa storia è ispirata a un luogo che frequentavo da ragazza, un rifugio chiamato Posa Puner, un luogo fresco e affascinante in alto in montagna. Ovviamente quel luogo ha ispirato solo l'ambientazione, non la storia in sé, che è pura fantasia.
Ho deciso di farne un capitolo perché la cosa stava andando un po' troppo per le lunghe, spero di concludere la storia entro la fine del COWT
Forza team Meridian!
Stefania aveva sempre avuto paura del buio.
Fin da piccola, quando ricordava che suo cugino Simone la prendeva in giro e le faceva scherzi di cattivo gusto, chiudendola nell’armadio o spegnendo la sua lucina portatile per dispetto quando lei si distraeva o quando stava per addormentarsi.
Suo padre le aveva regalato una torcia ricaricabile, che lei portava sempre con sé, e un portachiavi con una lucina a LED per essere pronta a ogni imprevisto. Quando poi aveva avuto il suo primo cellulare si era procurata subito un caricabatterie esterno e aveva sviluppato una dipendenza dalla funzione torcia.
I suoi genitori l’avevano portata da diversi psicologi nel corso degli anni, ma nessuno di loro aveva svelato il mistero e Stefania, nonostante fosse una persona molto razionale, continuava la sua vita convivendo con il costante terrore del buio. Da donna adulta confessare questa fobia le sembrava quasi un’ammissione di stupidità, infatti cercava sempre di evitare situazioni che l’avrebbero costretta a dare spiegazioni.
Non aveva potuto nascondersi con Michele, però. Non dopo che avevano iniziato a vivere insieme. Si frequentavano da ormai quattro anni e lei era stata bravissima a non trovarsi mai al buio con lui, aveva usato ogni arma in suo possesso per evitarsi situazioni pericolose, come quando lui l'aveva invitata a vedere la luna e le stelle cadenti sotto il cielo d’agosto, e lei aveva avuto un gran mal di stomaco o quando le aveva proposto di andare in montagna a passare le vacanze in una cascina isolata, ma lei aveva appena acquistato una splendida offerta per un paio di notti in un centro benessere in città.
Michele aveva pensato che ci fosse qualcosa che lei non voleva dirgli, ma aveva anche capito che lei non desiderava parlarne e le voleva lasciare la libertà di esporsi coi suoi tempi. Forse riteneva una perdita di tempo il guardare le stelle, forse preferiva le feste o le luci della città alla montagna solitaria e silenziosa.
"Devo confessarti una cosa, sediamoci." Stefania, seria come raramente l'aveva vista, l'aveva invitato ad accomodarsi sul divano e si era messa di fronte a lui, sulla poltroncina gialla che insieme avevano scelto pochi giorni prima.
"Devo preoccuparmi?" Si chiedeva se fosse incinta, o malata, o se si fosse già resa conto che la loro vita insieme non aveva futuro.
"No, è una cosa mia... Non è grave, ma è una cosa che n-non..." Stefania era in difficoltà. Con un’espressione truce aveva preso fiato e stretto i pugni per darsi coraggio, evitando di sentire le lacrime che sembravano essersi fatte largo sul suo viso. "Ho paura del buio. Non posso stare al buio,” gli aveva confessato tutto d’un fiato osservandosi i piedi con vergogna.
Lui era scoppiato a ridere, si era immaginato chissà quale segreto e non gli pareva niente di grave.
“Eh, va bene, mi dispiace,” aveva cercato di minimizzare.
La reazione di Michele però aveva indotto in Stefania un pianto disperato, resosi conto del problema che aveva causato, Michele si era avvicinato a lei cercando di consolarla e l'aveva stretta a sé.
“Mi dispiace, non so come fare. Scusa!”
“Ma su, non è grave, stai tranquilla, la supereremo insieme.” L'abbraccio sembrava aver sciolto la tensione di Stefania, che dopo qualche minuto di pianto finalmente stava ricominciando a respirare con tranquillità.
Avevano deciso insieme che avrebbero tentato una terapia d’urto: sarebbero andati in campeggio. Stefania aveva avvertito un brivido quando quella parola era stata pronunciata per la prima volta dal suo compagno, ma non ci aveva voluto pensare troppo: avrebbe fatto ciò che sarebbe servito per diventare finalmente autonoma, per superare la sua fobia.
Stefania non aveva praticamente niente per il campeggio, quindi avevano iniziato la loro avventura direttamente dal negozio, dove avevano acquistato una tenda, un sacco a pelo, una grossa torcia con la carica manuale - giusto per sicurezza, perché Stefania sperava di riuscire a superare la paura, ma non aveva intenzione di passare la notte intera a piangere terrorizzata nella tenda, soprattutto senza il suo fidato cellulare - un pentolino elettrico e un aggeggio che si chiamava accumulatore o qualcosa del genere, per cucinare qualcosa senza corrente.
Michele, che da grande amante dei campeggi non vedeva l’ora di tornare a farne uno, era elettrizzato: “Non serve che andiamo in mezzo al bosco, visto che hai paura, ma conosco un posto che pare una meraviglia e non è neanche molto distante da qui: è consigliato per le famiglie con bambini piccoli, vicinissimo a un agriturismo con ogni comfort possibile e a un campeggio attrezzato con i bungalow. Così se vediamo che non te la senti, possiamo passare la seconda notte sempre vicino alla natura, ma in un ambiente più controllato.”
Era convinto che lei si sarebbe resa conto che la sua era una paura irrazionale e che, grazie alla forza che lui le avrebbe trasmesso, insieme avrebbero superato tutto.
Erano partiti la mattina presto sotto il sole già torrido della città.
Stefania si era stupita nel constatare la quantità di automobili in fila per la montagna. Avevano fatto chilometri a passo d’uomo e lei cominciava a sentire un gran bisogno di andare in bagno. Era abituata ad andare al mare, ma quella strada non le era nuova. Il muretto, la rete lungo la collina e in particolare un’insegna lungo la strada le erano in qualche modo risultate familiari. “Io sono già stata qui, su questa strada.” Aveva dichiarato dopo un lungo viaggio nelle sue memorie infantili. “Solo che non ricordo niente.”
Era davvero possibile che fosse stata su quella montagna? Non sarebbe certo stato impossibile, in fin dei conti non era così distante da casa ed era una meta piuttosto conosciuta, era probabile che da piccola i suoi l’avessero portata lassù per una scampagnata in mezzo alla natura. Forse a vedere le mucche o magari per un pranzo al rifugio. Eppure, per quanto cercasse nella sua memoria, era certa di non essere mai stata in montagna in vita sua. Loro erano una famiglia da mare, al massimo da lago.
Quell’insegna però: il rosso sbiadito con il nome del rifugio in bianco e il cerchio azzurro sul retro non le era nuova. Era brutta, non era possibile che ce ne fosse un’altra uguale.
Posa al bosc.
- Mamma, che vuol dire posa?
- è il laghetto nel quale bevono le mucche e gli uccelli
- e perché manca la o finale a bosco?
- Perché è scritto in dialetto
Il dialogo le era tornato in mente quasi come un sogno, un momento impossibile che non riusciva a mettere a fuoco, ma insieme aveva sentito un brivido freddo salirle lungo la schiena. Aveva abbassato l’aria condizionata scuotendo la testa: era soltanto spaventata in vista del campeggio, tutto lì.
Il sole picchiava forte anche se la temperatura della montagna era molto più bassa di quella della città. Il parcheggio del rifugio brulicava di automobili e di gente che correva qua e là. Stefania era scesa dalla macchina un po’ titubante, cercando di scacciare il ricordo della croce cementata in cima alla collinetta, di fianco al rifugio, e dell’ombra maestosa che questo proiettava verso di loro. Non capiva da dove arrivassero questi ricordi freschi e allo stesso tempo nebulosi, ma non le piaceva quello che stavano riportando a galla.
Michele aveva caricato il suo grosso zaino da campeggio sulle spalle e sorrideva felice stringendo gli occhi accecati dal sole. “Andiamo? Montiamo la tenda e torniamo qui, che ne dici?”
Stefania aveva annuito, poi si era messa in spalla il borsone e aveva iniziato a camminare al fianco del compagno.
“Io sono già stata qui.” aveva ripetuto con un tono preoccupato che il ragazzo non aveva colto.
“Anche io, tante volte, poi ti faccio fare un sentiero bellissimo da quella parte, si vedono sempre i cervi…” Michele aveva continuato a parlare per tempo indefinito di funghi, di more e di volpi, per poi cominciare a decantare le meraviglie dei fiori di montagna e le delizie del rifugio dove sarebbero andati a cenare insieme quella sera. Nonostante il cielo fosse così limpido e pulito, nonostante gli uccellini continuassero a cinguettare amabilmente e le cicale col loro frinire coprissero il silenzio per lei quasi innaturale, l’inquietudine aveva iniziato a crescerle dentro. Un sentimento primordiale di paura si stava facendo spazio in lei, che sembrava non riuscire a pensare ad altro che alla fuga. Era stata una pessima idea
“Sia- Siamo al sicuro quassù?” Aveva chiesto interrompendo il monologo di Michele, che si era fermato a osservarla accigliato, con una mano a proteggere gli occhi dal sole. “Ma certo, non preoccuparti, ci sono io!”
Dopo qualche minuto di camminata erano arrivati al punto che Michele aveva scelto per loro: uno spazio delimitato da quattro numeri, vicino al bagno messo a disposizione dal campeggio.
Le aveva aperto la sedia da campeggio perché se ne stesse comoda mentre lui era impegnato a montare la tenda. “Vedrai che staremo benissimo. Conta anche che stanotte c’è la luna piena, non sarà del tutto buio. Vedrai che la luna in montagna è ancora più bella che in città e potremo vedere le stelle insieme.”
Un incubo. Per Stefania quella prospettiva era simile a un incubo. Aveva stretto la presa sul suo cellulare, in quel momento attaccato al caricabatterie solare che aveva acquistato senza motivo, visto che non sembrava funzionare.
Finito di costruire la tenda, Michele l’aveva portata a dare un’occhiata ai bungalow del campeggio. Una decina di casette con porte, mura ed energia elettrica che le sembrarono un vero paradiso nell’inferno nel quale si era cacciata.
“M- Ma… non potremmo prenderne uno? È più comodo, no?”
Il sorriso sincero di Michele si era spento all’improvviso. “Non vuoi proprio provare a fidarti di me? Sono stato qui e sono sopravvissuto, posso aiutarti.”
Lui non poteva capire. La fobia non faceva parte di lui e non c’era verso per lei di convincerlo a comprendere quanto per lei invece fosse difficile essere lì in quel momento, quanto desiderasse scappare.. Senza contare l’assenza del bagno e dell’acqua potabile che per lei era una sciocchezza. Ma perché gli uomini amavano così tanto mettersi in condizioni meno agevoli. Il progresso esisteva per rendere le loro vite migliori, perché non sfruttarlo?
Stefania aveva tentato di sorridere. “E va bene, ma se stanotte dovrò andare in bagno, verrai con me.”
Michele l’aveva attirata a sé, sollevandola dalla sedia. “Fidati di me,” aveva sussurrato sfiorandole il viso. “Non ti metterei mai in pericolo.”
Lo sapeva, altrimenti non sarebbe mai andata a ficcarsi in quell’inferno travestito da paradiso. Mentre il suo compagno la viveva come una splendida vacanza, per lei quella era una prova estrema da superare, il suo passaggio finale all’età adulta. Si immaginava a dire a una sua futura figlia che avere paura del buio era sciocco, che anche lei un tempo temeva l’oscurità, ma che non era più così. E allora le avrebbe proposto di provare anche lei.
Avevano pranzato coi panini che avevano preparato prima di partire e poi avevano fatto una lunga camminata nel bosco. Stefania era stata costretta ad ammettere che in effetti l’atmosfera tranquilla della montagna stava facendo effetto sui suoi nervi. La paura che aveva sentito addosso quella mattina aveva lasciato il posto alla curiosità e al desiderio di conoscere meglio quel luogo pulito. Di esplorare, respirare, guardare il mondo sotto di loro che scorreva accelerato rispetto alla montagna. Doveva ammettere che quel luogo aveva una certa attrattiva.
Erano risaliti sulla collina che ospitava il rifugio dal lato opposto a quello da cui erano arrivati con l’automobile. Una salita ripida, ma tutto sommato affrontabile. Arrivati in cima, la brezza fresca pomeridiana le aveva causato un brivido. La temperatura era scesa più rapidamente del previsto.
“Vuoi che vada a prenderti la giacca? È rimasta in macchina, vero?”
Michele era sempre stato un osservatore, dote rara, e lei amava sentirsi coccolata dalle sue attenzioni. “Grazie, amore.”
“Aspettami qui, o se vuoi vai verso l’ingresso. Io arrivo tra poco.”
L’aveva osservato scendere veloce la collina, quindi si era diretta verso l’ingresso. Solo in quel momento l’aveva vista: la posa. Una pozza, in pratica. Ai suoi occhi un piccolissimo, microscopico lago.
Quel colore sporco, verdastro, e il recinto. Si era voltata di scatto a osservare l’ingresso del rifugio: la doppia porta in legno consumato dal tempo, la stalla sul lato e la pavimentazione di fronte alla porta in ciottolato. Lei era già stata lì. Nausea, paura. Stefania sentiva di essere molto vicina a perdere del tutto il controllo di sé. Respirava, lenta, come se stesse facendo yoga. Il tocco della mano di Michele sulla sua spalla l’aveva fatta urlare. Stefania aveva iniziato a ridere, gli occhi le lacrimavano senza che lei riuscisse a fermarli, ma sperava che lui credesse che erano lacrime dovute al troppo ridere. “Scusa, non riesco a smettere.”
- Perché non posso entrare nel lago per fare il bagno?
- Perché quella è l’acqua da cui bevono le mucche. Tu non sei una mucca, sbaglio?
- Ma non posso neanche entrare? Perché hanno messo il recinto? Io se voglio ci passo.’
- Non lo farai, perché se ci provi e cadi lì dentro io non ti faccio salire in macchina. Resti qui, sei avvisata.
- Se resto qui posso pettinare le mucche?
Un ricordo sereno, che una volta messo a fuoco l’aveva fatta sorridere.
Era grata a Michele per avere insistito a portarla lassù, le sembrava di star recuperando pezzi del suo passato che altrimenti non avrebbe mai più ricordato. Spesso le era capitato di avere dei déja vu che non era in grado di spiegarsi e quando era stata dall’ipnotista lui le aveva confessato di non avere idea del motivo di quel suo blocco così totale. Michele stava riuscendo a riportare alla luce quel passato che lei aveva cancellato. Non soltanto lei, anche i suoi genitori.
La cosa la inquietava. Perché i suoi, così razionali e trasparenti con lei, le avevano sempre detto di non essere mai stati insieme in montagna? Forse era stato solo un pomeriggio come un altro. forse però era successo qualcosa di terribile. Stefania era terrorizzata, ma doveva sapere. La determinazione si stava facendo spazio in lei, sostituendo la sua convinzione primordiale di fuggire da quel luogo così calmo.
La coppia era andata a cenare al rifugio. Michele aveva detto il vero: il cibo era fantastico, semplice, rustico, ma degno di un ristorante stellato.
“È anche per l’aria, sai? Qui l’aria è diversa, pura. Fa cambiare il sapore a ciò che mangiamo.”
Stefania aveva annuito convinta. “Domani a pranzo torniamo. Anzi, a colazione.” Sorrideva, ma il ragazzo aveva notato la sua inquietudine. “Senti, ma tu quante volte sei venuto qui?”
Michele aveva alzato lo sguardo sul soffitto, concentrandosi per contare. “Direi almeno una ventina? Forse anche di più.”
“E non ci sono leggende su questo posto? Qualcosa che magari in passato è successa, storie di cronaca?”
Michele era rimasto a bocca aperta, domandandosi cosa le stesse passando per la mente. “Leggende, non so, forse… Mi pare qualcosa sull’arca di Noè, ma credo sia una sciocchezza. Poi so che qualcuno ha parlato di Draghi, se ci credi, boh… io non penso, e non è neanche qui, ma tutto da un’altra parte. Ma cronaca, non credo. Non mi ricordo sinceramente, forse potresti chiedere a quello del rifugio, magari ha delle storie.”
Stefania si era illuminata. “Questa è un’ottima idea!” Si era alzata di colpo lasciandolo lì a domandarsi a cosa fosse dovuto questo suo improvviso cambio di umore.
La piccola Stefania era rimasta affascinata dalla montagna, al punto che i suoi genitori si erano chiesti come mai fino a quel momento non ci fossero mai andati. Entrambi preferivano il mare, ma un po’ di aria pura avrebbe di certo fatto bene alla loro bambina, questo era certo.
Stefania era attirata dalla posa in modo quasi magico. Era abituata all’acqua: al mare verde e alle alghe, ai laghi contornati da giunchi e bambù. Ma mai aveva visto una posa. Una pozzanghera gigante. Nella sua mente da bambina si continuava a chiedere come fosse possibile che lì ci fosse ancora acqua. Immaginava fosse più profonda di quanto sembrava e una parte di lei ne era terrorizzata, ma si sentiva attratta da quel minuscolo specchio d’acqua al punto di non riuscire a pensare ad altro. Persino a cena, seduta su una delle panche fuori dal rifugio, aveva continuato a fissarla.
Stefania sentiva un richiamo fatto di campanelli, ma quando aveva detto a sua madre che lì sotto c’erano le fate, lei si era messa a ridere e le aveva fatto notare i grossi campanacci appesi ai colli delle mucche che giravano oltre il recinto, vicino alla posa.
La bambina si era risentita, perché conosceva bene la differenza tra il trillo di un campanellino e il rumore basso e sordo di un campanaccio.
Era stato in quel momento che suo padre le aveva confessato che quella notte avrebbero dormito lì. Stefania era saltata sulla sedia, felice di potersi svegliare il mattino dopo e di avere ancora la possibilità di osservare la posa.
Il proprietario del rifugio era un uomo anziano, un contadino gentile che amava le sue mucche e che produceva i formaggi con passione. Quella sera aveva accompagnato Stefania e gli altri due bambini che avrebbero dormito lì alla stalla e la bambina aveva dato la buonanotte alle mucche, riparate nei loro giacigli di fieno e crusca.
Quando Stefania aveva inquadrato il proprietario del rifugio, si era resa conto che non era più lo stesso dei suoi ricordi. La donna gli si era avvicinata sorridente, pensando a come introdurre il discorso.
“Buonasera, complimenti per la cena, era tutto ottimo.”
“Passerò i complimenti alla cuoca, grazie.” L’uomo sembrava affabile, nulla a che vedere con l’immagine dei burberi montanari che era abituata a vedere in televisione.
“Mi scusi, lei conosce il vecchio proprietario? Io venivo qui da bambina e mi farebbe piacere rivederlo, se fosse possibile.”
“Oh, mio padre… Ho preso il suo posto qualche anno fa. Lui vive giù in paese, qui è tutto più scomodo. Non si può vivere in alta montagna a ottant’anni, anche se, fosse per lui, sarebbe ancora qui a lavorare con le mucche.” l’uomo aveva iniziato a ridere, forse nervoso.
“Pensi che mi ero dimenticata di questo posto, ma oggi quando sono arrivata qui mi sono resa conto di esserci stata, ho anche dormito qui.” Stefania non era sicura di dove il discorso l’avrebbe portata, ma doveva fare un tentativo. “Ero certa di avere visto solo le foto nei giornali dopo che era successa quella disgrazia, e invece…”
L’espressione del proprietario si era rabbuiata all’improvviso. Stefania aveva colto nel segno. L’uomo aveva sospirato e allargato le braccia. “Storie simili avvengono spesso in montagna, purtroppo. Anche noi abbiamo avuto la nostra dose di sfortuna, temo sia inevitabile.”
“In quel periodo io ero piccola, ricordo anche di avere dormito qui.”
“Quella sera… c’erano tre bambini.”
Stefania aveva fatto la doccia e la mamma le stava pettinando i capelli ancora umidi. Le stanze spartane del rifugio non avevano gli asciugacapelli, ma il proprietario era stato così gentile da prestarne loro uno, che suo padre era andato a restituire subito dopo l’uso.
La luna piena brillava sul cielo limpido della notte e Stefania ne era ipnotizzata. Non era abituata a guardare le stelle e la luna, ma così in alto in montagna il cielo era differente da quello che era abituata a vedere.
Un leggero vento muoveva le fronde degli alberi, ed era l’unico rumore che Stefania sentiva.
Non c’era la televisione in camera, la bambina era abituata ad averla in albergo al mare e le sembrava una mancanza tutt’altro che trascurabile. Un po’ delusa, aveva deciso di usare la finestra per osservare la calma all’esterno e, come le era capitato nel pomeriggio, la posa la stava chiamando. Sentiva il rumore dell’acqua stagna nelle orecchie. Ne sentiva l’odore acre e il suo colore era quello dato dal riflesso della luna sulle acque.
Era rimasta a guardare fuori dalla finestra fino a quando sua madre non l’aveva invitata ad andare a letto, cosa che Stefania aveva immediatamente fatto.
Le chiuse non erano state usate e le pesanti tende doppie non bastavano a eliminare del tutto la luce della luna piena che filtrava dalla finestra.
Stefania si era addormentata quasi subito, ma aveva continuato a sognare quella piccola pozza d’acqua, sentendone di nuovo il richiamo oscuro. La sensazione non era semplice da descrivere: per quanto se ne sentisse attratta, una parte di lei le ripeteva di fuggire, di non lasciarsi ammaliare dalla voce soave che le parlava del mondo lì sotto. Sotto la montagna, nella pozza.
Stefania si era alzata e aveva notato che qualcosa era cambiato: la stanza era più buia. Aveva tirato la finestra per trovarsi di fronte a una luna non più piena, ma mangiata da qualcosa. Ne vedeva a malapena una piccola parte, che non illuminava più gli alberi, ma che si riverberava ancora nell’acqua scura della posa.
Allora l’aveva visto: il bambino. Il piccolo Sebastiano, avevano visto le mucche insieme.
Il richiamo non era più forte come prima, forse la pozza aveva già trovato la sua preda e non aveva bisogno di altre vittime. Stefania aveva posato entrambe le mani sul vetro della finestra, la voce ferma in gola. La luna era stata inghiottita dall’oscurità quasi del tutto e soltanto il suo contorno ora era visibile sulla pozza.
Sebastiano aveva scavalcato la recinzione e stava camminando verso la posa.
Stefania era preoccupata, sentiva dei tamburi batterle nella testa, i campanelli suonavano e l’acqua sembrava aver assunto un colore più limpido.
Una mano, un invito a entrare. Un canto leggiadro.
La paura teneva Stefania inchiodata alla finestra, un silenzio che le urlava dentro. Avrebbe voluto battere le mani contro la finestra e gridare con tutta la forza che aveva a Sebastiano di non ascoltare la posa, di fuggire più lontano che poteva, di tornare al rifugio.
Chissà se i suoi genitori erano nei loro letti a dormire tranquilli, forse anche loro lo stavano cercando. Sarebbe bastato poco, doveva fermarlo.
Stefania era uscita di corsa dalla stanza e aveva tentato di svegliare i suoi genitori, ma a nulla erano servite le sue richieste, perché i due sembravano essere caduti in un sonno così profondo da non essere in grado di sentirla.
Aveva aperto la porta, urlando a tutti di svegliarsi, ma nessuno pareva sentirla.
Per un istante aveva pregato che quello fosse soltanto un sogno, che non ci fosse qualcosa nella posa che stava chiamando il suo nuovo amico, perché lei era certa che qualunque cosa fosse, ormai l’aveva scelto e lei non sarebbe stata in grado di fermarla.
Aveva corso a perdifiato giù dalla collinetta, rischiando anche di cadere più di una volta, ma quando era arrivata di fronte al recinto si era dovuta fermare. Una luce pareva illuminare la pozza da sotto. Un canto, una mano che sporgeva dal centro della posa.
Il nostro è un mondo dentro la montagna
Luogo felice, luogo di cuccagna
I tuoi desideri noi esaudiremo
E tutti insieme qui canteremo
Entra nella casa nella posa
Qui con noi avrai qualsiasi cosa
Insieme a noi non temerai più nulla
Sarai sicuro come in una culla
Sebastiano si muoveva al rallentatore. Stefania piangeva, i suoi piedi restavano piantati a terra, come se qualcosa li stesse tenendo fermi. La bambina si sforzava, gridava, ma nessuno pareva sentirla in quel mondo addormentato. Anche il vento era cessato, nessun movimento attorno a loro. In compenso l’acqua stagnante della posa danzava, quasi fosse un oceano.
Sebastiano era a un passo dalla riva e quando aveva posato il piede sull’acqua non era andato a fondo, ci stava camminando sopra. In compenso la voce che Stefania sentiva da quando il sole era tramontato era più vicina, più limpida. Una donna dalla pelle liscia, luminosa come la luna, stava emergendo dalla pozza, tendendo la mano a Sebastiano.
Il bambino le era corso intorno, pochi passi verso la fine, la figura si era avvolta intorno a lui, materna.
L’abbraccio nel quale l’aveva stretto sembrava caldo e amorevole, ma Stefania sapeva che non avrebbe mai più rivisto il suo amico, perché la creatura che lo stava stringendo non apparteneva al loro mondo.
Lenti, erano scesi dentro la posa, che dopo averli inghiottiti era tornata calma e piatta.
Stefania era crollata in ginocchio, segno che il potere della creatura era debole, se non inesistente ormai.
Una voce le aveva iniziato a dire che andava tutto bene.
Carezze tiepide l’avevano riaccompagnata nella sua stanza, ripetendole che non c’era nulla che non andasse, ora puoi dormire, dicevano melliflue, non ti devi preoccupare.
Stefania si era svegliata di soprassalto, spaventando a morte Michele che dormiva profondamente al suo fianco.
“Che succede?” Aveva chiesto il ragazzo ancora intontito dal sonno.
“Sai se ci sarà un’eclissi di luna?” la voce di Stefania era calma, ma nei suoi occhi illuminati dal lumino elettrico che avevano nella tenda c’era un’inquietudine profonda.
“Domani, forse?”
Non capiva come fosse possibile, ma la memoria era tornata di colpo: lei sapeva cosa era successo quella notte.
Il buio in quel momento non la spaventava, ma temeva ciò che sarebbe successo di lì all’eclissi. Nella mente aveva un ricordo nebuloso riguardante un articolo che aveva letto mentre scorreva distratta i titoli delle notizie su un sito a caso. Non ricordava la data, ma sapeva che era vicina.
“L’eclissi mi pare domani? Volevo portare il telescopio di mio padre per vederla bene, ma non…”
“Domani dobbiamo dormire al rifugio.” I pensieri della ragazza stavano volando nella ricerca di risposte: aveva davvero modo di fermare quella creatura? Pareva che fosse lei a decidere chi poteva sentirla e chi no e Stefania era convinta che solo i bambini fossero immuni al suo incantesimo. Il pensiero dei suoi genitori addormentati come morti la fece rabbrividire. Forse, visto che l’aveva già sentita si era in qualche modo immunizzata? Forse la creatura avrebbe voluto dirle qualcosa? E se avesse provato a prenderla con sé come aveva fatto con Sebastiano?
Stefania scosse la testa, sveglia come un grillo. Si voltò per trovarsi di fronte lo sguardo pensieroso di Michele. “Non dormi?” Le chiese, sbadigliando.
“Scusa, io… ho una cosa da fare.”
Nel buio della notte, Stefania si era messa le scarpe e la giacca a vento, poi aveva aperto la tenda ed era uscita quasi di corsa, senza neppure prendere con sé la sua torcia. Michele l’aveva seguita subito, incredulo e anche un po’ preoccupato. “M- Ma… è buio? Lo vedi che è buio?”
“Sì, lo vedo. Mi sa che sono guarita,” aveva risposto sardonica. Doveva andare a controllare, doveva entrare nella posa.
Lungo la strada aveva raccattato alcuni rami, i più lunghi che aveva trovato, poi aveva scavalcato il recinto ed era faccia a faccia con la posa.
“Stef? Cosa fai?” Michele si era chiesto se non sarebbe stato meglio per lui restare a letto, ma non aveva intenzione di lasciare da sola la sua compagna, anche perché non era certo delle sue intenzioni. Voleva forse entrare nella posa? “Guarda che non è acqua pulita.” Aveva tentato di dissuaderla.
Stefania aveva fatto due passi nell’acqua. A occhio e croce il diametro della posa era di sei, forse poteva arrivare a otto, metri. Dopo averne percorso il perimetro esterno si era convinta che non poteva nascondere niente. Coi bastoni aveva iniziato a tastare il fondo, rivelando ciò che si aspettava: niente buchi, niente ingressi a mondi sconosciuti sotterranei. Niente campanelli e niente voce fatata.
Un po’ delusa, Stefania era tornata a dormire, seguita da un Michele preoccupato e curioso. “Domani ti spiego,” gli aveva sussurrato all’orecchio dopo essersi pulita i piedi e le gambe con delle salviette monouso.
Stefania era stata svegliata dalle grida di una donna. Non sapeva chi fosse, ma nel suo cuore sentiva di sapere che c’entrava Sebastiano, che era successo qualcosa.
La sua mamma le era corsa incontro e l’aveva abbracciata.
- Meno male, sei qui!
- Che cosa è successo a Sebastiano? - aveva domandato, sua madre era rimasta a fissarla senza parlare.
- Come lo sai? Hai visto qualcosa? - ma Stefania aveva scosso la testa, incerta. Aveva parlato seguendo il suo istinto, ma ciò che le arrivava alla mente le pareva sciocco a pensarci bene.
- No, ma è la sua mamma, vero? - Sua madre aveva annuito e l’aveva stretta di nuovo.
Nessun altro aveva notato i piedi sporchi di terra di Stefania, solo lei se n’era accorta quando era entrata in bagno a lavarsi i denti. Aveva nascosto le tracce, preoccupata che qualcuno le avrebbe altrimenti chiesto spiegazioni che non sarebbe riuscita a dare.
Quel pomeriggio i poliziotti erano stati a parlare con i suoi genitori e lei aveva sentito il bisogno di dire che Sebastiano secondo lei era nella posa.
Loro avevano riso della sua innocenza infantile, le avevano accarezzato la testa ignorando la sua idea.
Appena sveglia, Stefania aveva iniziato a cercare col cellulare qualche notizia su ciò che era successo quella notte. Sebastiano era più stato ritrovato?
Erano forse scomparsi altri bambini?
Quanto spesso avvenivano le eclissi lunari totali?
Alcune delle sue domande avevano avuto risposte: purtroppo nessuno aveva più avuto notizie di Sebastiano. L’ultima intervista di sua madre risaliva a pochi mesi prima e la donna appariva vecchia e stanca, eppure Stefania ricordava che avesse all’incirca l’età di sua madre.
Le eclissi non avevano una regola, ma negli ultimi dieci anni ce n’erano state altre tre oltre a quella che stava per verificarsi, nessuna di queste con la luna piena, però. Stefania aveva iniziato a incrociare i dati andando indietro nel tempo. Era risalita a tre eventi precedenti alla scomparsa di Sebastiano: un bambino era scomparso dal paese a valle nel 1948, poi era stata la volta di una ragazza, che era in campeggio con degli amici. Era il 1974, lei era ubriaca e tutti avevano dato la colpa all’alcool, credevano si fosse persa e fosse caduta in un crepaccio. Un’altra volta invece, nell’estate del 1983, la posa era vuota a causa della siccità. Quell’anno non erano avvenuti incidenti, se così si poteva chiamarli.
Stefania era rimasta affascinata nell’osservare le foto della buca vuota e aveva constatato che si era svuotata anche altre volte. Non faceva paura per niente così, nuda e innocente. Solo un po’ di terra fangosa.
Forse la soluzione era proprio quella: doveva svuotare la pozza.
Quando Michele l’aveva raggiunta, insieme si erano diretti verso il rifugio per la colazione, come d’accordo. Lungo la strada, Stefania gli aveva raccontato della scomparsa di Sebastiano, di come lei fosse stata presente quella notte e di come fosse convinta che la sua paura del buio fosse originata proprio da quella notte. Non aveva intenzione di rivelargli tutto, perché era certa che non le avrebbe creduto, come avrebbe potuto? Lei stessa dubitava che i suoi fossero ricordi e non pezzi di un sogno che aveva immaginato da piccola.
“Avete una stanza libera per questa notte?” il proprietario le aveva sorriso, quella ragazza gli stava simpatica e sperava che sarebbe diventata una cliente affezionata.
“Certo, ne abbiamo giusto una. Sarebbe una familiare, ma ve la lascio volentieri, vi posso fare entrare dopo pranzo, ma se volete potete lasciare qui i bagagli, ve li porto in camera io.”
“Perfetto, grazie.”
Stefania aveva ancora troppe domande e per cominciare aveva deciso che avrebbe sentito sua madre.
“Ciao, mamma, come va?”
La voce felice di sua madre aveva risposto con trasporto: “Steffy, sei al mare in vacanza?”
“No. Questa volta siamo andati in montagna, siamo al rifugio posa al bosc.”
Come si aspettava dall’altro capo della linea sua madre attendeva in silenzio, “sai, sono venuta qui con Michele perché pensavo che fosse una buona terapia d’urto contro la mia fobia del buio, e ha funzionato. Non mi spaventa più.”
Ancora silenzio da parte della madre.
“Mamma… perché non abbiamo mai parlato della gita in montagna?”
Un sospiro pesante, poi un lamento. “Hai ragione… adesso ti ricordi, quindi.”
“Sì. Ricordo di Sebastiano, dell’eclissi e… Cosa è successo dopo che siamo tornati a casa, mamma?”
“È giusto che te lo dica. Preferisci venire qui a parlarne?”
“No, dimmelo subito, devo sapere tutto.”
Lorella aveva sempre capito la sua bambina al volo, si riteneva una madre fortunata perché aveva con sua figlia un ottimo rapporto. Sapeva che troppo presto sarebbe arrivata la pubertà e con essa tutti i problemi che ne sarebbero derivati, ma sperava tanto che il loro rapporto sarebbe rimasto buono, almeno.
Dopo il ritorno dal rifugio Posa al Bosc, però qualcosa tra lei e Stefania si era spezzato in modo irrimediabile, e lei non riusciva a capire cosa fosse.
Forse a causa di un meccanismo di difesa psicologica, sua figlia non ricordava nulla di ciò che era successo lassù, al punto che appena qualcuno nominava la montagna, lei d’istinto sosteneva con forza di non esserci mai stata, come a volersi difendere da accuse che nessuno le avrebbe mai rivolto.
- Ti ricordi della posa? Ti ricordi delle mucche?
- Non ho mai visto le mucche, non sono mai stata in montagna.
- Steffy, cosa è successo a Sebastiano? Tu lo sai?
- Non conosco nessun Sebastiano, chi è?
- Steffy, perché hai paura del buio?
- Ho paura di stare sotto la luna senza la luce. La luna è anche sotto di noi.
Dopo il primo periodo, durante il quale la donna aveva tentato di estorcerle la verità con domande a trabocchetto, Lorella aveva rinunciato a capire cosa avesse visto. Né lei, né gli psicologi erano riusciti a capire perché la bambina avesse rimosso tutta la gita in montagna. Seguendo i loro consigli, i genitori avevano buttato via le fotografie e nascosto i loro ricordi, chiudendo per sempre quel discorso che causava loro un dolore troppo forte da sopportare.
Lorella si era chiesta tante volte cosa fosse potuto accadere a Sebastiano, ma ogni risposta la spaventava e nessuna era certa. Che fosse stato rapito? Che l’avesse ucciso uno dei suoi genitori e poi avesse fatto sparire il corpo? Che fosse uscito in preda al sonnambulismo e si fosse perso da qualche parte nella profondità della montagna?
Era certa che, se la risposta non era pervenuta fino a quel momento, non ne avrebbe mai avuta una, anche se il pensiero che la figlia forse avesse una risposta non le consentiva di dormire tranquilla. Si chiedeva sempre cosa sarebbe successo se lei un giorno si fosse ricordata, quale verità sarebbe affiorata allora?
“Mamma, io so che fine ha fatto Sebastiano, ma so anche che tu non mi crederesti.”
“Dimmelo, forse non ti crederò, ma io d- devo sapere…”
E Stefania aveva parlato, sua madre l’aveva ascoltata senza proferire parola per poi restare in silenzio.
“Mamma, stanotte ci sarà un’altra eclissi totale. Io resto qui.”
Aveva ancora qualche ora per capire come contrastare quella creatura, perché era certa che sarebbe tornata a cercare qualcuno e lei era l’unica che poteva impedirlo.
Avrebbe combattuto, doveva soltanto capire come fare.