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Fandom: Persona 5
Personaggi: Chihaya Mifune
Prompt: chiaroveggente, prima persona
Partecipa al COWT 14
One shot
La verità

In molti tra i clienti ai quali predico il futuro mi ripetono continuamente quanto io sia fortunata a vedere il mio destino e quello delle persone intorno a me. Magari fosse così semplice… All’inizio non lo è stato perché venivo evitata, è successo sin da quando ero una ragazzina, quando mi davano della strega e mi tenevano a distanza per paura che predicessi disgrazie. Come se fosse cambiato qualcosa. Nella mia città natale non riuscivano neppure a comprendere la differenza tra premonizione e capacità di alterare il destino. Il risultato è stato che ho imparato a tenermi dentro le risposte, anche se a volte proprio non ci riesco.


Il caso del giovane Ren mi sta mandando in crisi, perché il suo futuro è incerto e da quando lui è entrato nella mia vita anche il mio è diventato impossibile da decifrare. I tarocchi, che mi hanno sempre dato risposte, mi ignorano ogni volta che lui è parte delle mie domande. Quel ragazzo mi ha messa di fronte alle mie scelte discutibili e mi ha costretta a vedere ciò che ero diventata: una ciarlatana che avrebbe predetto qualunque sciocchezza in cambio di qualche soldo.

Quante volte nel passato ho maledetto il mio dono, pregando la natura di riprenderselo e di permettermi di vivere serenamente giorno dopo giorno, senza l’onere di dover portare nel mio cuore segreti, a volte difficili da tenere nascosti.

Qui a Tokyo non sono che una chiaroveggente di strada, per molti un momento di divertimento nel grigiore della vita di tutti i giorni.

Non so fare altro. Al mio arrivo nella capitale ho provato a ricominciare da zero, con persone nuove, lavorando in un ristorante e anche come commessa, ma sono sempre stata bollata come strana e infine licenziata. Bastavano poche parole dette senza troppo peso per fare sì che la mia fama di strega tornasse a colpirmi forte come un colpo di martello. Una maledizione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Ho ricominciato a sfruttare il mio dono di chiaroveggente per sopravvivere e perché è l’unica cosa che so fare. Mi ero sempre detta che lo faccio per dare speranza, almeno fino a quando quel ragazzino non mi ha messa di fronte alla realtà: ero diventata il circo di strada che odiavo.

Devo ritrovare me stessa e la mia integrità per tornare la Chihaya innocente e pura a cui il dono è stato regalato dalla dea Fortuna.

Ci sto provando. Questa sera spero che Ren venga a trovarmi. Sarò sincera con lui come non lo sono stata neppure con me stessa nell’ultimo periodo e gli dirò ciò che vedo: lui è parte del mio destino, così come io sono parte del suo.


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Fandom: 13 Sentinels Aegis Rim
Prompt: Tempo
Personaggi: Ryoko Shinonome, Ei Sekigahara
Partecipa al COWT 14
Genere: introspettivo, malinconico
one shot

Loop





Quando aprì gli occhi, Ryoko vide un lungo neon acceso sul soffitto bianco. Pensò subito di non essere nel posto giusto, ma dov’era? 

Quando era? A quella domanda però si era già data risposta osservando la stanza e l'illuminazione: erano di certo gli anni ottanta.

Cercò di sollevare la testa, ma un dolore improvviso la costrinse a portarsi le mani alle tempie. Richiuse gli occhi e si voltò sul lato, cercando di non fissare la luce e tentò nuovamente di alzarsi. Doveva fare in fretta. C’era qualcosa che doveva fare in fretta.

“Shinonome, come ti senti?”

“Mi fa male la testa. Cosa mi è successo?”

I ricordi tornavano come gocce, uno alla volta: Ei, il suo unico amico, poteva percepirne la presenza al suo fianco, era lui che aveva parlato?

No, lui era… ricercato? 426 era un criminale pericoloso. Ei Sekigahara era 426.

Era accaduto tutto a causa sua.

Ryoko riaprì gli occhi e si trovò di fronte il viso gentile della signorina Morimura. “Stai tranquilla, non alzarti troppo in fretta.” Ryoko si sollevò lentamente. “Ricordi che anno è?” chiese l’infermiera.

La ragazza scosse la testa.

“Shinonome, devi riposare ancora.”

“Che anno è? Mi puoi rispondere per favore.” Un tono di urgenza nella sua voce.

“Va bene, certo: è il 1985.” La donna annuì. Osservava Ryoko con uno sguardo di compatimento, le tendeva la mano in un gesto quasi materno.

“Devo, devo tornare.” Ecco cosa doveva fare: tornare nel futuro e catturare 426, l’assassino, il suo nemico.

Perché si sentiva così confusa?

C’era stato un incidente. Sekigahara aveva trasmesso un’anomalia alla sua sentinella e a quella di Juro. Li aveva attaccati, li aveva derubati dei loro ricordi e del loro stesso futuro.

“Non puoi tornare adesso, devi prima riprenderti. Prendi queste pillole quando il dolore diventerà più forte.” La vista del flacone la fece tornare al presente.

Le pillole. Quante ne aveva consumate nel corso di quell’ultimo periodo? Aprì il contenitore e contò: una, due. Se le rovesciò sul palmo e le prese a secco in un movimento ormai meccanico.

“Juro…” Cercò di ricordare, ma tutto era estremamente confuso. Juro era morto? Era ancora nel futuro? Era aggrappato alla vita come lei, in cerca di vendetta.

“Non esagerare, Shinonome.” La voce della signorina Morimura era vellutata. Quante volte le aveva ripetuto quella stessa frase.

La nebbia nella sua testa iniziò a diradarsi, segno che le due pastiglie stavano facendo effetto. Non devi prendere le pillole, Ryoko.

Di nuovo la voce di Ei. La ragazza scosse la testa, chiedendosi dove si fosse nascosto 426. L’ultima volta era abbastanza sicura di averlo trovato nel 2065, ma lei non poteva permettersi di andare per tentativi, non aveva tempo. 

Avrebbe cominciato cercando Juro: lui l’avrebbe aiutata.



Era distesa sul pavimento di un luogo buio. Sentiva intorno a lei odore di legno e di cera, la stanza era impolverata, forse abbandonata da tempo.

Ryoko si alzò con fatica. Il dolore alla testa le fece salire un conato di vomito. Respirò profondamente prima di mettersi seduta. Prese il flacone che conteneva le sue pillole e se le versò sulla mano: una, due. Di nuovo le ingoiò senza fatica e osservò il contenitore; era già vuoto, eppure la signorina Morimura gliel’aveva consegnato solo poche ore prima, come era successo?


Cercò di capire dove si trovasse e si alzò in piedi, si sentiva affaticata, come se avesse corso per una giornata intere. Intorno a lei lo stabile era in stato di completo abbandono, guardò fuori e vide luci bianche illuminare la strada. Che anno poteva essere? Forse era ancora nel 1985?

Si portò una mano alla tempia: cosa ci faceva lì dentro? 

Ryoko aveva una missione: doveva trovare 426, il suo nemico. Lo stava cercando. Ma 426 era Ei, ed Ei era suo amico, era davvero stato lui?

Un fischio le risuonò nella testa e si sentì svenire. Chiuse gli occhi, strinse i denti e respirò profondamente. 


Nella nebbia della sua memoria, le tornò in mente quel pomeriggio, prima che lei, Ei e Juro salissero sulle Sentinelle per combattere.

Era quasi il tramonto, lei ed Ei stavano camminando l’uno di fianco all’altra. A un tratto lui si era fermato, osservava l’orizzonte. “Come vorrei che non fossimo compatibili…” Con una mano aveva sfiorato lo starter con il quale poteva invocare la sua sentinella. Ryoko sapeva quanto lui odiasse combattere e quanto gli costasse. “Ogni volta che pilotiamo le Sentinelle mi sento come se fosse tutto inutile. E poi… non voglio che ti accada qualcosa di male. È un pericolo continuo.”

La ragazza ripeté le parole del signor Ida, il suo mentore. “Dobbiamo fare ciò che possiamo per il bene di tutti.”

"Ryoko, io ti volevo parlare di Ida, lui..." Ma non fece in tempo a finire la frase, lei comunque non lo avrebbe ascoltato perché non aveva motivo di dubitare del suo mentore, l’uomo che lei avrebbe amato e protetto per sempre.

In quel momento ricevettero il segnale d’allarme. "Ne parleremo la prossima volta." Ryoko annuì mentre si chinava a sfiorare il suo ginocchio destro per invocare la sua Sentinella. 

Solo lì dentro Ryoko si sentiva utile. Combattere per salvare il mondo era il suo destino e lei non capiva come mai Ei non si sentisse altrettanto onorato per questa possibilità: potevano proteggere chi amavano.

Insieme, si precipitarono alla zona di combattimento. “Sentinella 14, operativa. Sono in direzione della zona rossa.” Come le aveva chiesto Ida, avrebbe dato il massimo per la missione. Non avrebbe permesso ai Kaiju di distruggere la città.

Si mosse più veloce che poteva, seguita dalla Sentinella numero 11, più lenta, pilotata dal suo amico, una macchina offensiva di prima generazione. Presto individuarono Juro ed entrambi si mossero in copertura.

“Bene, vedo che siamo in tre.” Ei rise, mentre raggiungeva la prima linea.

Il combattimento procedeva in modo serrato, ma senza particolari difficoltà. I nemici erano ormai pochi e diradati. Gli attacchi corpo a corpo di Ei e il suoi missili a lungo raggio li avevano decimati. 

A un tratto però Juro aveva chiuso i contatti con la base. “Mi dispiace… Ma deve finire tutto.”

Ryoko si era chiesta cosa intendesse: all’inizio pensò che volesse sacrificarsi, ma non ce n’era ragione, stavano vincendo. 

In quel momento sentì un suono assordante nell’abitacolo. Perse il controllo della Sentinella che iniziò a muoversi pericolosamente verso il centro della città. Il suono prese un’intensità ancora maggiore e la Sentinella si fermò in mezzo alla zona di combattimento. Gli scudi si disattivarono e un fischio assordante le risuonò in testa. Tentò di alzare un braccio, ma si rese conto di non riuscirci.

Sentì la voce di Ei. “Non è possibile, cosa sta succedendo? Ryoko? Ryoko, rispondi!”

Ma non ci riusciva. I danni subiti dalla Sentinella erano stati gravi, ma il virus aveva danneggiato qualcosa di più profondo. La ragazza non riusciva a parlare, si portò le mani alla testa e per un istante il contatto con l'esterno della Sentinella si interruppe. Si guardò intorno: la cabina di pilotaggio era una sorta di capsula di salvataggio, osservò i tubi di alimentazione attaccati alle sue braccia e pensò di staccarli, ma qualcosa in lei le diceva di non farlo. "Sono stata io. È tutta colpa mia... Ho riattivato i codici Deimos e ho costretto tutti a vivere nel loop temporale… Ida, lui mi ha tradita..."


Non era stato Ei, lui non aveva colpe. Juro non era certo innocente, ma lei era la vera colpevole. La nemica della colonia: colei che aveva condannato tutti alla ripetizione del loop temporale nel quale stavano vivendo, chissà quante volte erano stati clonati ormai.


Ryoko si rese conto di avere sempre conosciuto la verità. Come aveva potuto costringere tutti loro a una vita di combattimento, di sofferenza? Cosa le era accaduto per spingerla a condannare l'intera colonia? Ida l'aveva tradita, ma non era la sua la colpa più grande. 

Juro, anche lui doveva conoscere la verità, altrimenti cosa avrebbe potuto indurlo a introdurre il virus?

Ryoko si rese conto anche che non sarebbe sopravvissuta per molto. Era condannata, ma non le importava. Doveva fare in fretta, tutti loro dovevano conoscere la verità, perché quel mondo non era reale, i viaggi nel tempo non erano reali, le persone con le quali interagivano ogni giorno non esistevano, erano solo personaggi di una simulazione: intelligenze artificiali che avevano come scopo la riproduzione di un mondo che loro non avevano mai visto.

Il senso di colpa la schiacciava e il dolore alla testa era sempre più forte. 

Non aveva altre pillole, doveva trovare Ei e dirgli che le dispiaceva.. Si mise a correre fuori dall'edificio in disuso in cerca di qualcuno a cui riferire quanto aveva scoperto: Jakushiji, Kisaragi oppure Ei, Juro o… Un’altra stilettata. Si portò le mani alla testa. 

Non ce l’avrebbe fatta.

Cadde a terra, poi il buio.



"Shinonome, come ti senti?" La ragazza era in una stanza illuminata da un neon bianco, distolse lo sguardo per lenire il fastidio. Shinonome era il suo nome, era certa di questo, ma dov’era?

"Mi fa male la testa, cosa mi è successo?"

Che anno era?


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Fandom: Persona 3
Personaggi: Makoto Yuki
Prompt
 - singolarità: Il fatto di essere singolare, qualità di chi o di ciò che è singolare (nei varî sign. estens. e fig.); particolarità, eccezionalità, originalità, stranezza.

il carattere di irripetibilità, inconfondibilità, unicità, proprio del singolo, del soggetto personale

Partecipa al COWT 14 per M2


L'occhio del ciclone.

“Sei unico, il tuo è un potere speciale”.

Le parole di Mitsuru risuonavano nella sua mente senza tregua, ogni volta che viaggiava solo sulla funicolare.

Il primo giorno di scuola dopo le vacanze estive era ormai dietro l’angolo e lui aveva deciso di prendersi la giornata per girare senza meta, senza prendersi impegni particolari.

Il giorno precedente aveva incontrato Takaya al tempio. L’uomo gli aveva consegnato quel biglietto dal contenuto poco chiaro e Makoto si era chiesto di nuovo se Mitsuru e il capo gli stessero nascondendo più di quanto volesse ammettere.

Solo pochi giorni prima aveva combattuto al fianco di Takaya e ne aveva potuto osservare la potenza. Si era chiesto perché tutti i Persona User in grado di combattere fossero giovani come lui, per quale motivo non ci fossero altri adulti come Takaya a difendere la popolazione e a cercare di proteggere la popolazione. 

C’era qualcosa che non andava, ma per quanto si sforzasse, Makoto non riusciva a comprendere chi stesse guadagnando da quella situazione.

A volte si sentiva troppo stanco persino per alzarsi per andare a scuola, i rapporti con gli altri erano diventati più simili a impegni che a momenti piacevoli passati in compagnia di amici a cui si sentiva legato.

Makoto però sentiva di doversi sbrigare a formare legami con chi aveva intorno, doveva farlo prima che fosse troppo tardi.

Tardi per cosa? Si chiedeva quando il pensiero lo sfiorava, ma cercava di smettere di pensarci e si concentrava su pensieri concreti, tangibili, urgenti.

Mancavano ancora cinque ombre alla fine della loro avventura. Cinque mesi e il Tartarus sarebbe svanito per sempre, almeno così speravano tutti. La fine di una breve parentesi della sua vita.

Pharos gli era apparso in sogno la notte precedente e l’aveva avvertito di nuovo. 

Ogni volta che gli appariva, Makoto provava un enorme senso di inquietudine, perché ormai era certo che quel ragazzino fosse un messaggero oscuro che stava annunciando la fine della vita come sempre l’avevano vissuta, se non la fine del mondo intero e la distruzione totale dell’umanità.

Makoto sentiva di doversi sforzare sempre di più per trovare l’energia che tutti si aspettavano da lui: sempre a combattere, sempre in prima linea, ma la verità era che la motivazione lo stava abbandonando, il suo unico desiderio era riposare, smettere di pensare, ritirarsi e pensare alle frivolezze che i ragazzi della sua età consideravano importanti. 


La sua unicità l’aveva messo al centro della missione dei S.E.E.S., costringendolo a non avere la possibilità di mollare e di vivere in modo sereno la sua vita, come un normale studente. 

L’ultima volta che erano andati a combattere, Sanada era rimasto a casa a riposarsi dopo la sua ennesima vittoria in uno dei suoi  match di boxe. Si era concentrato sulla sua vita fuori dai S.E.E.S. e nessuno si aspettava che facesse diversamente.

Ma lui… Makoto non poteva sottrarsi al ruolo di leader che gli era stato assegnato all’inizio sulla base della sua abilità promettente nel combattimento. Decisione che in seguito era diventata un’imposizione quasi naturale per lui, che a detta di tutti. Lui, la singolarità, il prescelto tra i prescelti, che invocava ogni Persona con facilità,  grazie alle caratteristiche che tutti gli altri continuavano a definire uniche.

Pensò ad Aigis. Quando l’avevano incontrata gli aveva detto che lo stava cercando, che si era risvegliata proprio a causa della sua presenza, della sua vicinanza a lei, ma a Makoto questa dichiarazione aveva suscitato solo un profondo senso di inquietudine.

“Devo starti vicino e proteggerti sempre.” Gli aveva riferito. Aigis era diventata la sua ombra nel Tartarus, si risentiva sempre quando veniva lasciata indietro e i suoi occhi robotici lo cercavano in ogni istante, anche quando dormiva.

“Ti sento, so se stai bene. Il mio posto è sempre con te.”


Anche lei era unica: un essere senziente dalle sembianze simili a quelle di una ragazza, dalla mente robotica e razionale, dal corpo metallico e dotato di armi letali. Il cui scopo unico e dichiarato sarebbe dovuto essere quello di combattere le ombre, che invece era mossa dal desiderio incondizionabile di proteggere Makoto.


Perché proprio lui? Continuava a chiedersi senza che la risposta arrivasse.

Di nuovo, si era domandato cosa sarebbe successo se lui fosse sparito. Se avesse preso un treno per andare via da lì e non avesse dato spiegazioni. 

L’avrebbero cercato?
Sarebbero stati preoccupati per lui, o la loro priorità sarebbe stata la missione? 

Aigis l’avrebbe davvero trovato senza bisogno di sapere dove fosse?


Il treno aveva appena superato la fermata di Dekijima, presto sarebbe arrivato a Osaka.

Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa.

Si sentiva in colpa per essere partito, come se fosse fuggito dalle sue responsabilità coi S.E.E.S., anche se in fin dei conti non stava facendo altro che una breve gita.


Ricevette un messaggio da Junpei che gli chiedeva se stesse ancora dormendo. 

“No, sono in giro, sto andando a Osaka.”

Scrisse il messaggio, ma si fermò appena prima di inviarlo. Si morse un labbro mentre metteva in ordine i pensieri: Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa. 

Con un sospiro di liberazione premette il pulsante di invio.

“Wo! Osaka! La prossima volta ci andiamo insieme!”

Come immaginava, nessuno lo considerava un traditore.


Scese dal treno a Ebisucho, visto il caldo della giornata pensava che visitare il Santuario Sumiyoshi Taisha fosse la scelta migliore. La frescura dell’ombra del bosco gli avrebbe dato sollievo dal caldo torrido di Port Island.


Sperava anche che la calma del tempio lo aiutasse a sentirsi meno inquieto.

Meno necessario. Si sentiva come un eroe fragile, il punto fermo attorno a cui tutto stava accadendo.  L'occhio del ciclone attorno a cui tutto si distruggeva.

“Ti abbiamo aspettato per dieci anni,” così aveva dichiarato il capo. “Se non fossi arrivato tu, non ce l’avremmo mai fatta.”


Camminò fino al tempio, ne ammirò i quattro edifici antichi in legno, verniciati di rosso acceso come da tradizione, rialzati e protetti dalle caratteristiche ringhiere rosse. 

Si immaginò come sarebbe stato lui se avesse fatto parte della struttura del tempio: un edificio troppo grande, sghembo, costruito alla rovescia. Un elemento che avrebbe tolto armonia al luogo, catturando l’attenzione di tutti. 

L’armonia era nel gruppo di edifici uguali, nella ripetizione. La forza era nel gruppo.

Alzò lo sguardo: il bosco, fitto, permetteva ai fedeli di pregare, così come consentiva a lui di non soffrire troppo il caldo. Forse era quello il suo ruolo: essere il ristoro, contribuire nella sua singolarità a fare parte del gruppo, a proteggerli, a guidarli nella raggiunta della fine, qualunque essa fosse, così come loro proteggevano lui. 


Al suo ritorno al dormitorio si sentiva rinfrancato, pensando che ciascuno ha la parte che il destino gli riserva. A lui era stata destinata l’unicità che lo rendeva un buon leader e avrebbe fatto la sua parte.


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Fandom: Persona 3
Personaggi: Mitsuru Kirijo, Akihiko
Genere: Introspettivo
Prompt: Orologio
Partecipa al COWT 13
La Dark Hour non c'è più, ma non è facile dormire sereni quando si sa che il tempo a volte può sparire.


L’ora che svanisce

Il sole stava tramontando sul mare. Mitsuru osservò l’orologio: erano le otto e un quarto, aveva ancora tempo.
Puntò lo sguardo sul sole rosso della sera pensando che non avrebbe dovuto farlo, perché si sarebbe solo rovinata gli occhi. Non le importava, però, perché il dolore che sentiva, contrastato dal suo corpo grazie alle lacrime che stavano cercando di lenire la cornea, non era che un sintomo naturale dovuto al suo sforzo di guardare la luce, e lei in quel momento aveva un bisogno disperato di essere a contatto con la realtà.
Dopo poco chiuse gli occhi, sconfitta: non aveva senso resistere, ormai lo aveva capito.

Per quanto fosse strano e sciocco ammetterlo, le mancava la Dark Hour. Almeno quando erano nel Tartarus lei valeva qualcosa, era utile a qualcuno. Ricordava come avesse passato le prime notti dopo la fine di tutto a fissare l’orologio, a osservare l’arrivo della mezzanotte fremendo all’idea di ciò che era stato, sempre immaginando che tutti intorno a lei si fermassero e lei tornasse a diventare l'artefice del destino dell'umanità e fosse costretta a combattere ancora per proteggere i cittadini comuni, che ignari di tutto continuavano le proprie vite.
Quando la mezzanotte scoccava, la ragazza andava alla finestra del condominio studentesco nel quale viveva e guardava fuori: niente bare, solo qualche persona che sghignazzava o chiacchierava. Di giorno controllava i giornali: niente strane sindromi, niente gente perduta.
Mitsuru non riusciva più a dormire. Per lei la notte era un susseguirsi di secondi, minuti, ore durante il quale lei osservava le lancette dell’orologio da parete rincorrersi, superarsi, nella prova tangibile che la Dark Hour non c’era più.

Continuava a cavarsela bene nello studio, ma poco a poco si era rassegnata a cambiare le sue routine, perché non riusciva più a vivere il giorno e la notte come tutti gli altri: andava a scuola come tutti, ma al suo ritorno andava a dormire. Si svegliava la sera, quando gli altri cominciavano a prepararsi per riposare, faceva colazione e studiava. Passava la notte in silenzio, per non farsi sentire e per non far capire ai vicini quanto fosse strana. I suoi compagni di corso la invitavano a studiare insieme, in fin dei conti era una Kirijo, una delle studentesse coi voti migliori all’università, perché non avrebbero dovuto desiderare di passare del tempo con lei?
Se solo avessero saputo la verità, Mitsuru era sicura che avrebbero pensato che fosse pazza e forse lo era: era ossessionata dal tenere traccia del passare del tempo e non c’era un solo istante nella sua vita in cui lei non avesse il suo orologio a portata di mano.
Ormai erano passati mesi da quando Makoto si era addormentato per sempre, abbandonando tutti gli altri SEES con i quali aveva combattuto senza risparmiarsi.
Era ancora in coma, proprio come Shinjiro. Forse un giorno almeno uno di loro si sarebbe risvegliato, pensava, ma sapeva che le speranze erano flebili. In ogni caso continuava a pagare l’ospedale perché i suoi amici continuassero a stare lì, nel loro sonno innaturale, nella serenità apparente che era stata causata proprio dalla sua famiglia.

Gli incubi popolavano le sue giornate: sognava di non accorgersi che il tempo era fermo, di trasformarsi in una bara come capitava a tutte le persone normali durante la Dark Hour. Spesso avrebbe giurato di vedere un movimento strano della lancetta, come se qualcosa fosse cambiato da un secondo all’altro, ma dopo un po’ si era convinta che fosse tutto nella sua mente. Aveva messo telecamere in giro per il suo appartamento, contatori meccanici indipendenti per non perdere neppure un secondo. Quando controllava tutti i suoi aggeggi tecnologici però non riusciva a rassicurarsi, anche se non dimostravano anomalie.

Si era chiesta spesso cosa provassero le persone comuni quando si addormentavano per un’ora ogni singola notte, ma non aveva trovato ancora risposte soddisfacenti.

Avrebbe desiderato tanto tornare a vivere come gli altri, come una persona comune. Non ci riusciva, perché anche se il Tartarus non c’era più, continuava a pensare che fosse sempre lì e che lei semplicemente non riuscisse più a percepirne l’esistenza, come non sentiva più la sua Persona che le era stata vicino per così tanto tempo da considerarla una parte di lei. Lo era in effetti. Lo era stata.

Riprese a osservare l’orologio, i secondi passavano regolari: uno dopo l’altro, dopo l’altro.
Aveva smesso di vivere, non incontrava nessuno, non parlava con i suoi coetanei e le sue tapparelle erano sempre chiuse, l’unico compagno era il suo orologio, testimone del passare del tempo, il suo nemico era il senso di colpa, lo combatteva ogni giorno, ogni notte. Ecco perché aveva chiamato Akihiko, invitandolo da lei.
Le costava tanto ammettere di avere bisogno del suo amico, quasi di più di quanto le costasse pensare che lui per Mitsuru era molto di più. La faceva sentire bene, grazie al suo pensiero e alla sua voce al telefono a volte le era capitato di dormire bene, senza incubi, senza brutti pensieri.
Gli aveva chiesto di incontrarla lì, vicino al mare. Era un posto romantico, tranquillo e in inverno col freddo che c’era non era affollato. Le otto e trentacinque, di lui ancora nessuna traccia.
Forse stava diventando pazza, si disse prendendo il cellulare e controllando i messaggi. Per quanto il suo stile di vita fosse indice di uno stato mentale instabile, era sicura che lui non l’avrebbe lasciata ad aspettarlo senza giustificazioni. Non c’erano messaggi.

La ragazza si sentì vuota, distrutta. Si lasciò cadere a terra. Lo fece in modo dignitoso, mantenendo il controllo anche il quel momento di assoluta sconfitta. Gli occhi erano sempre puntati sull’orologio: otto e trentasette. Desiderava piangere, ma si limitò a osservare i secondi che passavano, cercando di regolare insieme a loro il ritmo del suo respiro e del suo cuore. Otto e trentotto.
“Mitsuru? Sei già qui?” Lei non sollevò lo sguardo, pensando che la sua alterazione fosse ancora troppo scoperta, troppo visibile. “Va tutto bene?”
Fu lui ad abbassarsi. Chinato sulle ginocchia, coprì il quadrante dell’orologio con la sua mano e le sollevò il mento con l’indice. “Va tutto bene?” Ripeté.
Lei scosse la testa lentamente e Akihiko la abbracciò. “Anch’io ho paura di non vederla più,” le confessò. “Ma ce la faremo.”
Non era stata una domanda, neanche una proposta. Sembrava più un fatto certo. “Forse.” Aggiunse lei.
Lui le prese la mano e la sollevò. “Cerchiamo di passare una bella serata adesso, abbiamo tanto da raccontarci.”
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Fandom: Persona 5
Personaggi: Morgana, Ren, Futaba, Phantom Thieves
Prompt: tutti dentro
Partecipa al COWT 13
Parole: 2370
Genere: Introspettivo

Solo un gatto

Sono solo un gatto.
Una frase che si ripeteva quasi ogni giorno. Quando vedeva la sua immagine riflessa oppure quando, appena sveglio e un po’ annoiato, pensava a come avrebbe passato la giornata.
Morgana non aveva molto da fare e da quando aveva seguito Ren nella sua città natale sentiva ogni giorno la mancanza del Metaverso.
Sospirò mentre si guardava allo specchio: non riconosceva quella coda irrequieta che si muoveva ondeggiando a mostrare la tensione che provava; le zampe bianche non gli consentivano di scrivere o di utilizzare la sua fionda come aveva sempre fatto nel Metaverso. L’unica parte di lui che ancora riconosceva erano gli occhi: azzurri e profondi, rivelavano la sua essenza diversa da quella di un comune gatto domestico. Morgana scosse la testa per cercare di scacciare il ricordo delle sue origini, perché per lui era difficile anche solo ricordare di aver salvato quel mondo che non poteva vivere come desiderava.
Sono solo un gatto, si ripeteva quando vedeva qualcuno passeggiare lungo la strada del paese, pensando che avrebbe desiderato scambiare due chiacchiere per una volta con qualcuno di diverso da Ren. Si sentiva talmente solo e annoiato che si sarebbe accontentato persino di Ryuji, già, gli mancava anche lui.
Quella mattina Ren era a scuola e lui, dopo aver mangiato, si stava occupando della sua consueta pulizia mattutina seguendo una routine consolidata ormai da tempo che all’inizio non gli piaceva, ma che aveva accettato perché in fin dei conti lui era solo un gatto, e in quanto tale doveva comportarsi. Non avrebbe mai accettato di farsi lavare, molto meglio arrangiarsi.
Il computer del Joker era rimasto aperto, non per caso ovviamente, ma perché Futaba avrebbe chiamato per fare due chiacchiere e per Morgana l’evento era tutt’altro che comune, visto che in genere la ragazza si faceva sentire solo quando i due erano insieme. La sera prima però aveva scritto un messaggio dove aveva avvisato della chiamata e Ren era stato ben felice di lasciare tutto a disposizione del suo gatto speciale.
Premette sul pulsante di accensione e aprì l’applicazione per ricevere la chiamata, poi si appostò di fronte al computer cercando di sorridere. Peccato che i gatti non abbiano grandi capacità di esprimere emozioni e che i suoi sforzi non avessero dato grandi risultati. Non voleva che Futaba si preoccupasse per lui, perché anche se all’inizio i loro rapporti erano stati un po’ tesi, lei si era dimostrata un’amica, la più presente con lui da quando il Metaverso era stato cancellato.
Il suono della chiamata interruppe i suoi pensieri tristi e Morgana premette sul pulsante di risposta con entusiasmo.
“Mona Chan!” Gridò l’amica.
“Guarda un po’ chi si rivede,” tentò di mantenere un tono composto nonostante la sua gioia. “Sembri in forma, ma mai quanto me!”
Futaba sghignazzò e raccontò a Morgana della sua vita, sempre un po’ troppo sociale per lei, a scuola. Il gatto le confidò che nell’ultimo periodo si stava abituando alla tranquillità della campagna, così diversa dalla vita caotica e densa di Tokyo. “Qui ti piacerebbe, dovresti provarci. Io invece sto benissimo anche in mezzo alla gente, ma qui l’aria ha un odore diverso. Io sono un gatto, sento gli odori molto meglio di voi umani”
“Mi piacerebbe infatti,” rispose la ragazza, che poi assunse un’espressione più seria. “Non ho molto tempo ancora, tra poco devo andare ad aiutare Sojiro al LeBlanc e c’è una cosa importante che ti devo chiedere, Mona Chan.”
Il gatto, incuriosito, si ricompose e riprese il ruolo che gli piaceva di più: quello di mentore, che aveva interpretato in modo più che convincente coi Phantom Thieves. “Sono qui per questo, ci sono problemi?”
“Non problemi, solo questo.” Futaba mostrò lo schermo del suo cellulare alla telecamera, che mise a fuoco un’icona che tutti loro conoscevano bene. “Il Meta Nav è riapparso ieri sera. Non so cosa significhi e non ne ho parlato con gli altri, ma vorrei vederci chiaro. Puoi controllare tu con Ren?”
Morgana annuì, mentre i suoi pensieri navigavano veloci ai ricordi di ciò che era stato il cui ritorno, almeno per lui, sarebbe stato un sogno trasformato in realtà.
“Hai sentito qualche cosa di diverso? Tu hai un rapporto speciale col Metaverso e ho pensato che saresti stato il primo ad accorgersi se qualcosa fosse cambiato.”
Futaba aveva ragione, eppure lui non si era accorto proprio di niente. Negli ultimi giorni al massimo aveva provato solo più noia del solito, visto che Ren aveva dovuto studiare per gli esami ed era stato fuori casa tutto il giorno. “No, niente di diverso.” Aveva risposto con tono sconsolato, forse le sue capacità si erano arrugginite dopo tutto quel tempo passato da semplice gatto.
“Forse lì non si è attivato, magari è una cosa di Tokyo…” Aveva ipotizzato la ragazza, sempre un passo avanti rispetto a lui. “Comunque oggi proverò a investigare un po’ con Sumire e Yusuke, sono gli unici qui intorno in questi giorni, poi li chiamo. Per ora meglio non allarmare gli altri visto quanto hanno da fare. A prestissimo!”
Morgana aveva fatto appena in tempo a rispondere al saluto, che la comunicazione era stata chiusa. Era rimasto fermo in silenzio per un bel pezzo a ragionare sul significato della presenza di quell’applicazione, poi si era accoccolato sul letto di Ren e si era appisolato.
La sensazione che provava mentre le ruote grattavano sull’asfalto del Metaverso era indescrivibile. In quel momento era il centro dei Phantom Thieves: la loro guida - anche se erano loro a guidare lui - il loro mentore, il loro mezzo per muoversi veloci e sicuri nel labirinto della coscienza comune.
Ricordava ancora quando per la prima volta si era trasformato nel furgone e li aveva accolti sui suoi comodi sedili.
“Tutti dentro, si parte!” Aveva detto Lady Ann mentre accarezzava la sua carrozzeria con le mani leggere e morbide. Il rombo del motore non era poi così diverso dalle fusa che da gatto emetteva in modo naturale e automatico quando la sua amata Ann lo prendeva tra le sue braccia o gli grattava il mento sciogliendo ogni sua resistenza.
I ragazzi la prima volta si erano seduti tutti e tre nel sedile posteriore, stupiti nel comprendere che fosse necessario che uno di loro guidasse il Morgana-Van lungo le buie e pericolose vie della metropolitana fantasma. Il Joker aveva preso il volante e solo allora Morgana si era reso conto che mai nessuno era stato nel furgone prima dei Phantom Thieves. Non era proprio un ricordo, ma almeno era stata una delle sue prime, poche certezze, perché il van era una parte di lui, una rappresentazione derivante dalla coscienza comune che nessuno aveva ancora toccato. Nessuno era stato accolto dentro il suo corpo trasfigurato in furgone prima di Ann, Ryuji e Ren, lui ne era certo.
“Morgana, cosa senti quando diventi un Van?” Gli aveva chiesto Makoto la prima volta che erano stati nei Memento insieme.
“Niente di speciale, è una mia dote naturale e come tutto quello che riguarda il Metaverso, lo faccio benissimo. Uno dei miei poteri.”
All’epoca non ricordava ancora nulla delle sue origini - solo gli incubi, ma quelli non potevano rappresentare la verità - ma era piuttosto sicuro che lì nei sotterranei dei Memento ci fosse la risposta a tutte le sue domande e diventare un furgone era uno dei compiti che doveva svolgere per recuperare i suoi ricordi e trovare un senso alla sua esistenza. Per ritornare umano.
Il dubbio si insinuava in lui con forza mentre era trasfiguarato, perché nel rombo di quel motore non c’era niente di umano, come nelle sue fusa feline. Di una cosa però era sempre stato certo: quello era il suo posto e nessuno poteva sostituire la sua presenza, né l’intelligenza di Makoto, né le capacità di navigazione di Futaba.
I momenti in cui si sentiva meglio erano proprio quelli che passavano tutti insieme, tutti dentro al suo corpo trasfigurato nel camioncino con la coda e le orecchie, dove i suoi amici erano comodi e protetti, dove erano loro a guidare, ma era lui a tenerli uniti, lui a consentire loro di fuggire veloci e sicuri nel buio grazie alla vista felina data dai suoi fari.
Quanti combattimenti avevano fatto insieme prima che i suoi ricordi tornassero, e quante volte avevano inseguito le ombre attaccandole di sorpresa grazie a Morgana e alla velocità silenziosa della sua trasfigurazione. Grazie ai suoi fari nel buio, grazie alle sue conoscenze. In fondo lì sotto si era sempre sentito a casa al punto da provare nostalgia dei Memento quando non vi si recavano da un po’ di tempo.
Morgana aveva contribuito a distruggere la sua vecchia casa, l’aveva fatto per l’intera umanità anche se sapeva che forse non avrebbe più avuto la possibilità di fare ritorno al luogo in cui era nato. Quando Igor e Lavenza gli avevano presentato la possibilità di restare con loro nella Velvet Room e di continuare a vivere insieme a loro, come forma fisica della speranza dell’umanità, o di scegliere di tornare come semplice gatto nel mondo degli uomini, Morgana non aveva avuto dubbi: lui faceva parte dell’umanità. Era nato per concedere agli uomini una possibilità di salvarsi dalla fine imminente che la divinità impazzita aveva scelto di attuare e aveva svolto il suo ruolo con la speranza nel cuore che le cose si sarebbero risolte al meglio. Il destino lo aveva messo in contatto col Trickster, che era diventato per lui un motivo in più per continuare a lottare. Più volte si era chiesto se, conoscendo la verità, avrebbe abbandonato i suoi amici, sentendosi tradito dal suo creatore che gli aveva tenuto nascosta la verità, ma Morgana aveva sempre agito per l’umanità, più che per se stesso.

Quando il Joker tornò a casa da scuola, Morgana gli rivelò le novità e gli chiese di vedere il suo telefono. Come immaginava, però, non c’era traccia dell’applicazione di navigazione. Tutto quello che potevano fare era attendere notizie da parte di Futaba, che però tardavano ad arrivare.
“Non credi che sarebbe meglio se andassimo a Tokyo?” Gli chiese Ren quella sera, sembrava preoccupato. “Noi due ce la potremmo cavare anche entrando nel Metaverso da soli, ma Sumire e Yusuke potrebbero avere bisogno di una mano. Futaba non è molto d’aiuto nel combattimento e non vorrei che si trovassero in difficoltà.”
Morgana era d’accordo e accettò di partire per la capitale con Ren, che aveva convinto i suoi genitori a lasciargli prendere un paio di giorni di vacanza dalla scuola, approfittando degli esami appena conclusi e del suo ottimo rendimento. Gatto e ragazzo avevano quindi preso il primo treno per un viaggio imprevisto con lo scopo ufficiale di festeggiare il compleanno di Futaba, che lui aveva descritto in modo struggente come la sua sorella di Tokyo, che lui ormai considerava una parte della famiglia.
L’aria della città odorava in modo molto diverso da quella a cui Morgana si era abituato negli ultimi mesi in campagna: lo smog, il profumo del cibo e l’umidità accompagnate dal sottofondo musicale della stazione della metropolitana gli fecero provare un po’ di nostalgia. Ren sollevò il cellulare e richiamò la sua attenzione: l’applicazione di navigazione era apparsa. Se lo aspettava.
Con un cenno del capo, il ragazzo premette sul logo a forma di occhio e il mondo intorno ai due iniziò a cambiare.
“È incredibile!” Strillò Morgana nel constatare che il suo aspetto era tornato quello di un tempo.
"Bentornato, Mona Monster Cat.” Rise il Joker, “Avevo dimenticato come ti stesse bene quella bandana gialla.”
Il gatto rise, carico di adrenalina al pensiero che un nuovo mistero si era dipanato di fronte a loro, una nuova avventura per i ladri fantasma. Non fece in tempo a pensare che sarebbe stato bellissimo essere di nuovo tutti insieme, che un grido di gioia riempì il silenzio di quel luogo spettrale. “Joker! Mona!”
Lady Ann si lanciò contro Ren in un abbraccio, mentre Haru e Futaba si contesero Morgana. Makoto, Ryuji, Yusuke e Sumire erano di fronte a loro, increduli e felici.
“Non ho capito perché il Metaverso sia riapparso così all’improvviso, ma sapere che ci siete anche voi mi rende più serena.” Confessò Makoto.
“Adesso cosa possiamo fare?” Chiese Ryuji, osservando Morgana.
Lui sapeva cosa fare. Con fare teatrale sorrise. “Lasciate che ci pensi io,” disse, mentre il suo corpo felino si trasformava nel van. “Tutti dentro, scopriamo cosa è successo.”
Ren fu il primo a entrare. Il leader dei Phantom Thieves si accomodò nel retro, lasciando il volante a Makoto come sempre da quando si era dimostrata così abile nel guidare.
Ann si sedette di fianco a lei. “Mi ero dimenticata quanto fossero comodi i tuoi sedili, Mona!” Esclamò accarezzando il cruscotto.
Anche Haru si mise al loro fianco e depositò un bacio sulla pelle della carrozzeria. “Grazie, Mona-Chan, per prenderti cura di noi così.”
Se fosse stato umano, Morgana sarebbe arrossito, da furgone si limitò a far suonare il clacson. “Forza, tutti dentro, altrimenti vi lascio qui!”
Ryuji si accomodò di fianco al Joker. “Avete mai pensato a quanto sia inquietante questa cosa che entriamo dentro il gatto? Ogni tanto mi domando che cosa sto toccando e spero di non scoprirlo mai.”
“Affascinante,” aggiunse Yusuke sedendosi dal lato opposto. “In effetti non ci avevo mai pensato.”
Sumire sembrava un po’ restia a entrare, soprattutto dopo i discorsi di Ryuji che avevano fatto calare il silenzio, decise perciò di tentare di sollevare la tensione. “Che bello! Qui dentro c’è posto per tutti! Pronti per partire!” Si sedette di fianco a Ren, che non sembrava impressionato da quella sciocca frase di circostanza. Sumire non era mai stata brava a improvvisare.
“Siamo tutti dentro. Andiamo a scoprire cosa sta succedendo, Phantom Thieves!”
Di fronte alla richiesta del leader, Makoto premette l’acceleratore e il furgone iniziò a muoversi.
Fu in quel momento, mentre proteggeva la sua squadra ed insieme esploravano il Metaverso, che si rese conto di una cosa: mentre tutti loro erano dentro il suo corpo, lui era in grado di donare loro una piccola parte di sé, e probabilmente era la speranza che gli aveva dato forma. Ma anche loro gli donavano qualcosa: ne respirava l’umanità.
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Fandom: Originale

Genere: Introspettivo

Partecipa al COWT11 prompt: Dio benedica chi se ne frega.(Achille Lauro)



Solo Camilla



Dio benedice chi se ne frega.

Finalmente Camilla l’aveva capito. Ma quanto tempo ci aveva messo? Anni? Forse sarebbe stato più corretto dire decenni, e aveva ancora tanta strada da fare per riuscire ad accettare il fatto che la perfezione non era raggiungibile da nessuno, tanto meno da lei, che era umana esattamente come tutti quelli che l’avevano giudicata in passato e che continuavano a giudicarla.


La colpa era anche di sua madre, che le aveva sempre fatto pesare il suo non essere come lei l’avrebbe voluta: sua madre, aggraziata ed esile, aveva una figlia così differente da lei che faticava a comprenderla.

Da piccola l’aveva iscritta a un corso di danza classica. Camilla credeva che niente nella vita fosse più noioso di quelle lezioni. Aveva provato a chiedere alla madre di stare a casa, perché avrebbe preferito fare i compiti piuttosto di andare a sgambettare a ritmo e in punta di piedi, per uscirne dolorante e annoiata. Avrebbe desiderato cambiare corso e farne uno di nuoto, di pallavolo o di un qualsiasi altro tipo di danza, purché non fosse quella. Ma la mamma non aveva sentito ragioni, costringendola a partecipare nonostante Camilla avrebbe preferito fare ore e ore di compiti invece di stare lì a farsi ripetere continuamente: schiena dritta, pancia in dentro, alta la testa, basse le spalle e alza di più quella gamba...

L’insegnante del corso poi non le stava per niente simpatica. Parlava con un tono di voce più acuto del normale e sospirava sempre quando la guardava. Come se il resto non fosse stato già sufficiente, l’aveva invitata a dimagrire un po’ dimostrando il tatto di un elefante. Solo da adulta ci aveva ragionato su trovando la situazione al limite del denunciabile.

Quella era stata la prima volta in cui si era sentita inadeguata.



Era riuscita a liberarsi del corso alle medie, dove però i bulletti della sua classe l’avevano presa di mira, le loro parole vuote e sciocche la facevano sentire piccola e sbagliata. Si sentiva brutta e sapeva che i suoi compagni la vedevano così.

Non era grassa, non troppo, non allora. Era una ragazza del tutto normale e a riguardare le sue foto, nell’ultimo periodo, si era stupita di quanto invece fosse sempre stata troppo severa con se stessa.

Poi col tempo alle medie si era convinta che comunque nulla contasse, perché anche se fosse dimagrita nessuno l’avrebbe guardata perché era brutta.

In seconda media, quando aveva avuto per la prima volta le sue cose si era sentita ancora più sbagliata. Un trauma: sangue visibile a tutti sui suoi jeans azzurri, chiari e attillati. Ricordava la vergogna e la paura che aveva provato nel vedere tutto quel sangue, perché la mamma le aveva parlato di ciò che un giorno le sarebbe successo. Anche a scuola l’avevano fatto. Ma il trovarsi in quella situazione l’aveva terrorizzata perché l’aveva esposta al giudizio di tutti i suoi compagni di classe.

Il problema non era stato il sangue, né il dolore costante che aveva iniziato a provare da prima di capire cosa le stesse succedendo. Il problema era che non era mai stata così nuda di fronte ai suoi compagni di classe, e la certezza che loro non avrebbero mai permesso che quella macchia fosse cancellata, perché avrebbero dovuto? Considerato che già la prendevano in giro prima, questo era solo un pretesto in più.


La sua parte razionale le ripeteva che era un evento normale, qualcosa che accade a ogni ragazza e che prima o poi tutte si sarebbero trovate nella sua situazione. Sua madre le aveva confessato che più di una volta si era macchiata e che ci si convive. Tra qualche anno ci riderai sopra. 

E forse aveva ragione, ma non era ancora il momento. Le risatine dei suoi compagni di classe, i discorsi interrotti quando si avvicinava a loro erano pugni nello stomaco, fatti per colpire la sua autostima.


Poi vennero i brufoli. Camilla ne era piena e se ne vergognava. Con sua madre avevano provato ogni tipo di crema e di sapone, trattamenti della pelle, maschere all’argilla, ma niente: i brufoli se ne stavano lì. Camilla invidiava alcune delle sue compagne di classe, che avevano la pelle liscia come seta, o che avevano i brufoli, ma riuscivano a coprirli senza troppi pensieri. Chiamavano una sua compagna di classe grattugia. Forse lo facevano anche con lei. Non aveva idea di quale nomignolo le avessero riservato, ma non intendeva scoprirlo. 

Pensava che avesse qualcosa a che fare con il suo naso, che odiava. Si ripeteva spesso che non appena avesse avuto i soldi per farlo, si sarebbe fatta una rinoplastica per avere un naso che la rappresentasse.

Era il naso a renderla brutta. Invidiava quelle che riuscivano a parlare coi ragazzi, quando lei a malapena rivolgeva la parola ai suoi compagni di classe. 


Alle superiori, Camilla aveva trovato la sua dimensione naturale. Aveva delle amiche alle quali teneva e che le volevano bene, passavano insieme pomeriggi di studio e di pettegolezzi e serate tra loro. Camilla però sentiva sempre di avere qualcosa da dimostrare a loro, per lei era come se la loro amicizia fosse un regalo che le stavano facendo. Spesso si chiedeva come mai passassero tutto quel tempo insieme, perché lei non era speciale per niente.

Non aveva il coraggio di cantare insieme a loro perché non era abbastanza intonata. Non ballava, neanche quando uscivano per andare a ballare, perché nonostante gli anni di corso di danza era incapace di andare a tempo e quando a casa, da sola, si metteva in camera a muoversi a ritmo di musica si sentiva ridicola. Era impensabile per lei anche solo pensare di sentirsi libera di ballare. Stava meglio seduta al tavolo a guardare le borse alle amiche, anche perché loro magari avrebbero potuto conoscere qualche ragazzo, mentre per lei non c’erano molte speranze in quel senso. In realtà sentiva che avrebbe dovuto dire alle sue amiche che quei locali non le erano mai piaciuti.

Ci andava per abitudine, per stare con le amiche e guardarsi in giro, per i preparativi prima della partenza e per le chiacchiere mentre tornavano a casa, una volta uscite. Il tempo passato seduta, da sola e assordata dalla musica non era certo memorabile.


Aveva passato i suoi vent’anni a mascherarsi con le altre ragazze, cercando abiti poco appariscenti che la rendessero simile a tutte le altre, ignorando i suoi gusti personali che non erano del tutto adeguati agli standard generali. Si era concessa solo un cappotto rosso in lana cotta che metteva di rado perché attirava troppo l’attenzione.


A trentacinque anni, finalmente Camilla sentiva di avere imparato a conoscersi e ad accettarsi per ciò che era. Era timida e faceva fatica a parlare? Andava bene così, non era necessario per forza parlare con chiunque le rivolgesse la parola.


Dal suo lettino in spiaggia, rideva, finalmente, al pensiero che per anni non era andata al mare per un motivo che finalmente reputava stupido: la cellulite. E chi se ne frega di un po’ di cellulite, ce l’hanno tutte le donne!

Le dicevano le sue amiche quando la invitavano. Tante donne? Probabile, ma loro no. Loro erano perfette. La pelle candida che si scottava facilmente rendeva le sue imperfezioni ancora più evidenti. Ma ormai non era più un problema per lei.

Non le importava più che la gente la fissasse e lei stessa aveva smesso di cercare i difetti negli altri. Si era resa conto che la sua severità nei confronti di se stessa si rivolgeva allo stesso modo anche a chi le stava intorno. Spesso si era chiesta come facesse Biagio a non vergognarsi ad andare in giro con gli stivali da cowboy o con che coraggio Sonia si mettesse spesso a canticchiare nonostante fosse stonata come una campana. 

Dopo anni si era resa conto di essere sempre stata lei a sbagliare e per questo si era sentita in colpa. Non era compito suo giudicare i suoi amici o gli estranei, proprio come nessuno doveva sentirsi in diritto di giudicare lei.

Non l’avrebbe più fatto, si era promessa.


Ormai non si sentiva più in imbarazzo a cantare, a muoversi a ritmo di musica a modo suo quando era a una festa di compleanno o a vestirsi come piaceva a lei.


Dio benedice chi se ne frega, ed era ora che Camilla lo capisse e cominciasse a sentirsi più libera. Era ora che la smettesse di avere paura di mostrare la sua vera bellezza.


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Fandom: Persona 5
Personaggi: Ren Amamiya, Morgana, Phantom Thieves
Genere: introspettivo
Prompt: E invece no, Bugo
Partecipa al COWT11




Portare a casa la nostalgia





Le metropolitane vanno molto veloci

I giornali gratis

La radio

Le voci

Bella la campagna ma mi rende un po’ triste

(E invece no - Bugo)                                                                                     

 

 

 

Il ritorno a casa dopo l’anno passato a Tokyo era stato più pensante di quanto mai avrebbe potuto immaginare. Gli mancava tutto della città: la metropolitana, veloce e affidabile, grazie alla quale poteva andare da scuola a casa o ovunque desiderasse in pochi minuti; il caos e la musica che riempivano il centro commerciale alla stazione Shibuya, perfino gli assaggi gratuiti della panetteria e i giornaletti gratuiti, quasi sempre privi di notizie interessanti, che a volte prendeva per leggere qualcosa di leggero lungo il breve percorso in metropolitana.

Soprattutto, però gli mancavano i suoi amici.

Makoto, soprattutto, perché il legame che aveva stretto con lei molto più profondo. Avevano giurato di non lasciarsi nonostante la distanza, ma Ren sapeva che lei avrebbe messo al primo posto lo studio e si sarebbe impegnata per costruire il suo futuro anche se questo li avrebbe allontanati ancora di più. Anche lui si sarebbe impegnato per avvicinarsi a lei appena possibile, ma ci sarebbe voluto almeno un altro anno perché lui finisse la scuola. A volte sentiva Makoto al telefono ed era come se fosse lì con lui, parlavano per ore di ogni argomento possibile, ma quando si salutavano lui restava solo nel silenzio leggero della campagna.

 

Un tempo, da bambino, aveva odiato quel silenzio e la distanza dai compagni di scuola che era amplificata dal fatto che lui stava in una zona un po’ isolata. Invece doveva ammettere che gli era mancato davvero. Gli riusciva naturale concentrarsi nella casa in cui era cresciuto coi suoi genitori, con il profumo dei fiori che invadeva la sua stanza silenziosa, resa rumorosa solo dal frinire delle cicale. 

Più volte a Tokyo aveva sentito la mancanza di quel silenzio, soprattutto durante il primo periodo dopo il suo arrivo. Gli mancavano i suoi genitori, anche se provava anche rabbia nei loro confronti, convinto com’era che lo avessero abbandonato a se stesso, lasciando che andasse a vivere da Sojiro per un anno intero solo per avere una preoccupazione in meno a cui pensare. Solo dopo essere tornato aveva capito quando loro avessero sentito la sua mancanza. 

“Era stata una richiesta esplicita da parte di quell’avvocato per far sì che non prendessero altri provvedimenti, non abbiamo avuto scelta, ma ci sei mancato.” Gli aveva detto sua madre con la voce rotta dalla tristezza durante la prima telefonata che gli avevano fatto una volta arrivato a Tokyo. 

Glielo avevano detto anche prima che partisse, ma Ren era così arrabbiato allora che non aveva creduto a quelle che aveva definito scuse per mettere a posto la loro coscienza.

È strano come si desideri spesso ciò che non si ha. In quel momento Ren si vedeva in metropolitana ad attendere di arrivare a Shibuya, certo che lì, in mezzo al caos della stazione, avrebbe trovato Ann e Yusuke ad attenderlo con un sorriso, pronti a una nuova avventura o più semplicemente a mangiare qualcosa di dolce insieme.

Aveva stretto più amicizie nel corso di quel periodo di quante ne avesse mai avute e, anche se i suoi amici, Sojiro, Futaba e Makoto gli mancavano tanto, sapeva che non l’avrebbero dimenticato, come lui avrebbe sempre avuto un posto nel suo cuore per lui. 

“Cosa ci fai lì zitto a fissare il soffitto?” Morgana l’aveva strappato ai suoi pensieri.

“Niente, pensavo ai Phantom Thieves. Alla prossima volta che ci vedremo.”

Il gatto aveva ridacchiato. “Meno male che sono venuto con te, saresti perso qui altrimenti.” Ren si era messo a ridere, ma dentro di sé sapeva che era davvero così.

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Fandom: Persona 5
Prompt: Attacco
Genere: introspettivo, angst (non direi missing moment perché nessuno parla dei passati delle ombre)
Personaggi: Yaksini, Joker, OC
Chi è Yaksini? Un'ombra che vaga per il Palazzo di Kaneshiro. 
Per la storia mi sono ispirata alle Yakshini.


Un'anima pura coperta da un'ombra



Yaksini vagava per il Palazzo senza una vera meta. Cercava solo qualcuno da poter attaccare, qualcuno da mangiare. Possibilmente sarebbe stato meglio un umano, ma sarebbe potuta sopravvivere anche con qualche altra ombra se proprio non avesse trovato di meglio.

 

Aveva combattuto spesso per vivere. Attaccando Ombre ignare alle spalle senza dar loro la speranza di sopravvivere e non era pentita, perché da quei combattimenti dipendeva la sua sopravvivenza.

Non sapeva da quanti anni fosse lì, ma anche se da qualche parte in lei sentiva di non essere sempre stata lì, non ricordava altro. Erano passati forse centinaia di anni da quando lei era cambiata, da quando qualcosa l’aveva portata in quel luogo senza uscita. 

Lei continuava a percorrere sempre lo stesso tratto di corridoio avanti e indietro, sperando di incontrare una preda che avesse un’anima, magari, per quanto non fosse nemmeno sicura di sapere cosa fosse.

 

Il ragazzo e i suoi amici erano arrivati da lei quando ormai credeva che nessun essere umano sarebbe mai passato lungo la sua strada e lei aveva fatto l’unica cosa che sapeva fare: li aveva attaccati alle spalle, felice.

Il potere del ghiaccio era con lei, infatti li aveva colpiti con successo. Le sarebbe bastato divorare uno di loro, ma i ragazzi sembravano resistere senza problemi ai suoi attacchi furiosi, quasi isterici.

Quando aveva pensato di aver vinto, gli umani le avevano sferrato un colpo magico che l’aveva tramortita. Prima di allora non le era mai capitato e già si vedeva morta, di nuovo. Una seconda morte quando ancora non riusciva a ricordare la prima.

 

Poi lui le aveva parlato.

Il ragazzo con i capelli scuri e scompigliati le aveva rivolto la parola invece di darle il colpo di grazia. “Vuoi vivere o preferisci morire?”

Da quanto tempo Yaksini non usava la sua voce per comunicare? Da quanto era un'Ombra? “Voglio vivere,” si era sorpresa della musicalità delle parole che uscivano dalla sua bocca. L’attrazione per l’anima del ragazzo di colpo era mutata. “C’è qualcos’altro che vuoi da me, è vero, umano?” 

Il ragazzo aveva sorriso. “Vuoi combattere con me?”

E solo in quel momento si era vista: nella luce dell’anima del ragazzo, Yaksini aveva ricordato chiaramente che un tempo non era un’ombra. Che un tempo era stata una divinità.

 

“Io sono te, tu sei me,” aveva pronunciato con solennità Yaksini. Era riuscita a liberarsi dalla maledizione che l’aveva tramutata in un demone. Un anatema che lei stessa aveva pronunciato per cancellare il suo passato e gli errori che aveva commesso, ma ora che si era legata all’anima del ragazzo, diventandone la Persona, le sue memorie erano tornate, prepotenti e crudeli. Avrebbe preferito non ricordare, ma quella era l’unica opportunità che aveva di tornare se stessa.

 

Non era sempre stata un’ombra. Un tempo era stata una delle Yakshi, una delle divinità in grado di far avverare i desideri degli uomini loro devoti. 

Avrebbe tanto desiderato poter pronunciare il proprio nome, ma non intendeva invocarlo neanche nella sua memoria per non infangare la purezza di colei che un tempo era stata e che con molta fatica forse un giorno sarebbe tornata a essere, se fosse riuscita a espiare i propri peccati.

Era passato così tanto tempo da quando la sua esistenza era mutata che ormai faceva fatica a rammentare il passato, ma chiudendo gli occhi le tornava ancora la memoria di quando un tempo gli uomini andassero a cercarla per ottenere fortuna, ricchezza e felicità. La invocavano sotto gli alberi di Kadamba, col caldo o con la pioggia, di giorno e di notte. Ricchi o poveri che fossero non c'era differenza, perché tutti arrivavano a piedi all’albero e portavano con loro canfora, legno di sandalo e burro chiarificato, doni per lei, rituali imparati dagli avi. Ripetevano il mantra migliaia di volte, e poi ancora migliaia di volte purché lei li ascoltasse ed esaudisse i loro desideri.

 

Lei però donava la sua benedizione solo a chi presentava le motivazioni più pure, a chi desiderava quanto necessario e forse qualcosa in più, ma sempre a chi non osava approfittarsi del suo aiuto. Mostrava loro la sua divinità nel suo corpo di donna prosperosa, pronta a portar loro la prosperità.

 

Poi un giorno tutto era cambiato: un giorno si era innamorata dell'aspetto di uno degli uomini che era andato a invocarla. La sua voce l'aveva incantata prima ancora che lei riuscisse a vederlo davvero e, quando con la mente la Yakshi l'aveva raggiunto, ne era rimasta ammaliata. L’aveva amato e l'aveva accontentato senza preoccuparsi per la prima volta nella sua esistenza divina di ascoltare fino in fondo al cuore i suoi veri desideri: pensieri impuri e terribili nascosti sotto un aspetto angelico, un sorriso aperto che pareva sincero e che invece era desiderio di morte.

 

La dea si era concentrata sulla voce melliflua e suadente che accompagnava le parole senza cercare di mettersi in risonanza col cuore marcio dell’uomo.

Da quel giorno aveva iniziato a perdere contatto con la sua anima divina: aveva perso l'interesse negli uomini e aveva iniziato ad attaccarsi a lui in modo offensivo, ammirando il suo corpo,  a osservarlo e a desiderarlo dimenticandosi di ciò che invece la sua divinità le imponeva di fare. 

Lui la ringraziava ogni mattina per aver esaudito i suoi desideri e lei ogni mattina, invisibile ai suoi occhi, restava attaccata al cuore marcio dell’uomo mancando di rispetto al suo vero ruolo di Yakshi.

 

Così, dopo qualche tempo, aveva potuto constatare ciò che egli aveva fatto con la ricchezza e la fortuna che lei gli aveva donato così incautamente. Egli aveva rubato denaro, merce e onore alla famiglia rivale alla sua. Aveva sposato con l’inganno una donna che lo detestava, della quale lui amava solo la ricchezza materiale.

La maltrattava ogni giorno e la donna era arrivata a essere infelice al punto che l’aveva lasciato perdendo tutto e ritrovandosi a vivere sola in povertà.

La Yakshi si era attaccata a lui ancora di più, incapace di vedere oltre l’aura ammaliante che egli possedeva, felice di avergli donato prosperità e gioia. Non vedeva altro che lui e non riusciva a pensare con purezza al cuore degli uomini che aiutava distratta, senza spinta, senza più il cuore puro di un tempo.

 

Poi un giorno il suo aspetto aveva iniziato a cambiare.

I desideri corrotti della sua anima avevano iniziato a manifestarsi rendendo la sua pelle violacea, come morta. Stava diventando la manifestazione della corruzione così invisibile nell'uomo che l'aveva ingannata, così evidente in lei e nel suo cuore un tempo puro.

Aveva quasi smesso di sentire i mantra che gli uomini le dedicavano, doveva concentrarsi così tanto per riuscirci che rischiava di perderlo, quindi aveva smesso di provarci.

L'attaccamento all'uomo la stava privando della sua divinità, ma a lei non importava.

Da pura a oscura, un giorno si era risvegliata come Ombra.

 


Ora che la sua memoria era tornata, si era resa conto di essere stata vittima di un incanto di malia che le aveva fatto perdere la via della rettitudine che lei aveva sempre seguito con grande attenzione e amore nei confronti degli uomini. 

Pregava che, quando il ragazzo l’avrebbe lasciata andare, sarebbe stata perdonata dalle divinità che le avevano un tempo donato quel potere meraviglioso che, di nuovo, desiderava. Sarebbe tornata Janaranjika.

Un ricordo

Mar. 3rd, 2021 11:10 pm
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Fandom: Harry Potter, Edvige
One shot
introspettiva, sentimentale
Partecipa al COWT11
Prompt: leggero, ovviamente per leggerezza c'è Edvige, la sua piuma




Harry stava risistemando i libri nel suo vecchio baule, quello con cui anni prima era arrivato a Hogwarts e che ora sarebbe passato a suo figlio James. 

La piuma era scivolata fuori dal suo vecchio libro volteggiando, disegnando piroette nell’aria prima di toccare terra. Si era chinato a raccoglierla, stupendosi una volta di più di quanto fosse leggera. 

Era una piuma della sua coda.

Non si aspettava di trovarla lì, non dopo tutti gli anni che erano passati. Come era possibile che non l’avesse trovata prima?

Era tornato coi pensieri a quella notte, all’ultima volta che le aveva parlato. Harry non riusciva a credere che fosse morta. Per molte estati passate a casa dei Dursley era stata la sua unica amica, l’unica in grado di dargli conforto nelle sue giornate durante le quali poteva solo studiare e scrivere lettere. Niente magia, niente amici, solo lei.

Quasi ogni sera la faceva uscire per permetterle di sgranchirsi le ali e di cacciare qualche preda.

Era così leggiadra. Volteggiava leggera, le ali ampie sbattevano e lei prendeva quota, poi planava veloce come un razzo, cambiando direzione solo all’ultimo istante. Era in quei momenti che cacciava le sue prede. Harry ricordava che le prime volte, quando ancora non si era abituato alla sua velocità, temeva che si sarebbe schiantata da qualche parte, dimenticando di sbattere di nuovo quelle sue ali così bianche, così regali.

Era forte, eppure ogni volta che la accarezzava Harry sentiva anche quanto fosse fragile, silenziosa. Quasi materna nei suoi confronti.

A volte gli saliva su una spalla e lo osservava paziente, in attesa che lui la liberasse, magari consegnandole una lettera da portare a uno dei suoi amici. 

Quante volte l’aveva attesa con speranza, quante volte le aveva affidato segreti dai quali dipendeva la sua stessa vita, eppure di lei si fidava ciecamente.

Lei non l’avrebbe mai tradito.

Infatti non l’aveva fatto.

Negli occhi aveva ancora il ricordo del momento della sua morte, quando il Mangiamorte aveva gridato la maledizione e la luce verde l’aveva colpita. Per un attimo Harry aveva pensato che si fosse salvata, perché continuava a volare, ma le sue ali all’improvviso si erano chiuse, lasciandola per un istante ferma nell’aria. Poi era caduta. Da leggera, quasi eterea, era diventata un sasso.

 

Non avevano mai ritrovato il suo corpo e quella piuma era tutto ciò che gli rimaneva di lei, già più di quanto si aspettasse.

Il solo tenerla tra le mani gli aveva scaldato il cuore. Aveva portato la piuma in soggiorno e l’aveva sistemata di fianco alla foto dei suoi genitori, che conservava in una bacheca in bella vista. Non avrebbe mai dimenticato la sua amica.

Avrebbe conservato quel pezzo di lei come un tesoro, per ricordare sempre la sua Edvige.

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Fandom: Persona 5
Personaggi: Morgana
Genere: introspettivo
Partecipa al COWT11, prompt:
 Cielo



Le cose che conosco

Come poteva conoscere il concetto di cielo se non l'aveva mai visto?
 

Morgana si era chiesto tante volte da dove arrivassero le sue memorie selettive: sapeva cosa fosse il tonno o come fosse fatto un umano. Da subito aveva ammesso con se stesso di avere le sembianze di un gatto, ma non ricordava di aver conosciuto e visto il mondo al di fuori del Palazzo nel quale Ren l'aveva trovato. Il Memento, invece, lo conosceva come le sue tasche.

La prima volta che era uscito dal palazzo, Morgana aveva faticato a mantenere il suo comportamento sicuro di guida nei confronti dei due umani, perché si era ritrovato in un luogo che lui in qualche modo conosceva, ma che gli era nuovo, anche se non l'avrebbe mai ammesso coi suoi due nuovi amici. Erano amici? 

L'aria fresca gli solleticava la pelliccia e gli odori si mescolavano nelle sue fini narici di felino. 

Il mondo era vivo e Morgana poteva percepire le persone, gli animali e la natura attorno a lui. 

Ciò che lo aveva stupito da subito, però, era stato il cielo: la prima volta che ricordava di averlo visto era azzurro, limpido e infinito. Un colore che era convinto di non avere mai visto prima e che gli dava un senso di pace e di gioia che non si spiegava. Non riusciva neppure a immaginare la pioggia e le nuvole minacciose dei temporali, ma sapeva che esistevano. Poi, la prima volta che aveva sentito la pioggia, era rimasto immobile a osservarla cadere per qualche ora, a sentirne l'odore così unico, cercando di ricordare da dove arrivasse quella memoria del suo passato.


Per quanto si fosse sforzato di sembrare forte e sicuro di sé, la verità però era che si doveva arrendere, perché non avrebbe trovato risposta. Forse era sempre stato un gatto. Forse era nato nei Memento e non avrebbe mai avuto una normale esistenza come essere umano. Forse Lady Ann non l'avrebbe mai guardato come un uomo.


Morgana sentiva che il suo destino era di essere lì: a guardare le nuvole nel cielo fuori dalla finestra al primo piano del Le Blanc mentre aspettava che Ren tornasse a casa, magari con un bel pezzo di tonno per il lui. 

Qualunque cosa fosse successa, finché fosse vissuto non avrebbe dimenticato i Phantom Thieves, i suoi amici. Sospirando, Morgana aveva trascinato la coperta sotto la finestra e si era acciambellato a guardare ancora un po' il cielo.


Non mancava molto alla fine della loro missione e se il collegamento tra il Metaverso e il mondo reale fosse svanito, anche lui forse avrebbe fatto la stessa fine. Non poteva saperlo, ma avrebbe combattuto con i Phantom Thieves fino alla fine. Era ciò che desiderava, Morgana si sentiva finalmente felice.

 

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 Fandom: Persona 3

Personaggi: Yukari Takeba, Mitsuru Kirijo, SEES

Prompt: ideali a cui aspirare

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Ideali a cui aspirare

 

 

Yukari si era sempre considerata una ragazza ottimista.

Per quanto le cose nella sua vita non fossero andate sempre come aveva sperato, aveva cercato di superare i problemi con il sorriso.

Ricordava ancora di quando aveva ricevuto la notizia della morte di suo padre. Le sue lacrime, la rabbia al pensiero che non gli avrebbe mai parlato, ma soprattutto un senso di tristezza perché non era certa che lui sapesse quanto era stato importante per lei e quanto lei gli volesse bene. L’aveva sempre visto come un uomo difficile da fare ridere, duro e severo, ma dopo la sua morte si era resa conto di non averlo conosciuto come gli altri.

Era serio nel lavoro, questo era risaputo da tutti, ma pareva sempre troppo triste. Come se ciò che faceva non gli piacesse.

Qualche volta Yukari glielo aveva chiesto. Ma tu sei contento del tuo lavoro, papà?

Gli chiedeva. 

Sono uno scienziato, faccio cose segrete che a volte non mi piacciono, ma il mio lavoro mi piace.

E cosa fai adesso, papà, gli chiedeva, lui allora le spettinava i capelli fingendo di non aver sentito la domanda.

La risposta era arrivata a Yukari solo molto tempo dopo. 

Aveva sempre rispettato Mitsuru. L’aveva considerata un’amica anche perché all’inizio era l’unica ragazza su cui potesse fare affidamento nei SEES, ma soprattutto per i suoi numerosi pregi: era seria e sempre affidabile e le era sempre sembrata molto più matura rispetto a tutti loro.

Le pareva impossibile che avessero soltanto un anno di differenza.

Mitsuru era anche dotata di un’intelligenza per la quale Yukari avrebbe venduto l’anima. Più volte la ragazza si era chiesta come facesse a far quadrare i combattimenti, il lavoro nel consiglio studentesco e i suoi voti sempre al massimo, soprattutto visto che Yukari sapeva quanto si impegnasse anche alla guida dei SEES. Lo sguardo di Mitsuru però era sempre stato estremamente triste. Era come se sapesse qualcosa che tutti loro ignoravano, o se avesse capito che il loro compito era quasi impossibile da portare a termine con successo. 

Yukari si vergognava al ricordo della prima volta che aveva avuto la possibilità di usare l’evoker. 

Mitsuru e Akihiko erano andati con lei nel Tartarus, domandandole se lei fosse pronta almeno cento volte. 

Tutti loro sapevano che combattere era necessario per la sopravvivenza della città. Il continuo aumento dei casi di sindrome dell’apatia rendeva la loro attività di combattimento vitale perché nel mondo reale continuassero a vivere normalmente.

Yukari però nonostante si fosse sentita pronta ed elettrizzata all’idea di essere finalmente in prima linea nel combattimento, aveva deluso i suoi amici. Era rimasta ferma a fissare la canna della pistola. Tremante e inutile, incapace di fare la sua parte anche quando Akihiko era stato ferito dall’ombra contro la quale stava combattendo da solo, ed era soltanto colpa di Yukari.

 

Nessuno l’aveva incolpata dell’accaduto. Non apertamente almeno, ma lei sapeva bene che Mitsuru era delusa dal suo comportamento immaturo e inadeguato. E di fronte al suo fallimento Yukari non aveva fatto niente di buono. Aveva semplicemente passato la notte a piangere, rinnegando il passato e sperando che i due le avrebbero permesso di riprovarci. Solo che non c’era nessuno che desiderasse combattere con lei, e come poteva biasimarli? Era inutile sotto pressione, debole e stupida. Continuava a chiedere se la natura, il mondo o qualunque cosa le avesse dato il potere di invocare la sua Persona non si fosse sbagliato con lei. Non sarebbe mai stata un’eroina in grado di salvare il mondo.

Avrebbe continuato a osservare Mitsuru, però, sperando ogni giorno di diventare più simile a lei. 

Sull’intelligenza non c’era nulla che potesse fare, ma tutto sommato non era quello il suo punto più debole. Semmai era il coraggio a mancarle. Al pensiero di Akihiko che combatteva anche per lei, senza mollare neanche per un istante, le erano tornate le lacrime agli occhi. Si era chiesta quanto fosse potuta sembrare una stupida con la pistola tra le mani, incapace di utilizzare l’evoker  e piangente come una bambina. Era certa che quando Akihiko era stato colpito il suo primo pensiero fosse andato a quanto lei fosse stata inutile in quel combattimento. Perché non c’era alcuna giustificazione al suo comportamento, per quanto si sforzasse Yukari non riusciva a trovarla. 

Li aveva delusi e soprattutto aveva deluso se stessa.

La sua determinazione sembrava dissolta nell’aria e Yukari non faceva che piangere da sola nella sua stanza. Combattuta tra il desiderio di vedere Mitsuru e di dirle che ce l’avrebbe fatta, che desiderava un’altra possibilità e la paura che la ragazza le avrebbe semplicemente chiesto di tornare da dov’era arrivata. Di andarsene dal dormitorio in quanto persona non più desiderata. Lei avrebbe fatto questo. Lei non si sarebbe mai perdonata.

E se invece avesse fallito di nuovo? E se con la sua inettitudine avesse causato danni più gravi della ferita di Akihiko? Come avrebbe convissuto con se stessa se avesse causato la morte di qualcuno?

 

Eppure a pensarci aveva i suoi punti di forza. Quando tirava con l’arco per esempio si sentiva come se nulla potesse fermarla. Lì al club era considerata la migliore e si rendeva conto di essere capace di far scomparire il resto del mondo concentrandosi solo e unicamente sul bersaglio, sul suo respiro e sulle braccia tese che sentiva un tutt’uno con l’arco. Perché non riusciva ad avere la stessa determinazione anche quando si trovava a dover utilizzare l’evoker?

Il fatto che a scuola fosse considerata una delle ragazze più popolari poi la faceva sentire speciale in qualche modo. Sapeva di non essere anche in quel senso ai livelli di Mitsuru, ma i suoi compagni di scuola la rispettavano e consideravano forse più di quel che valeva.

 

Quando era andato a stare al dormitorio il ragazzo nuovo però si era sentita diversa. Prima di tutto perché non era più l’ultima arrivata e poi perché lui coi suoi modi tranquilli e pacati l’aveva fatta sentire un po’ sciocca con tutte le sue paure.

Yukari da piccola aveva pensato di morire, forse era per questo che non riusciva a esorcizzare la morte premendo il grilletto, i suoi pensieri tornavano sempre alla perdita di suo padre e alla sua tristezza quando gli aveva detto addio l’ultima volta.

Il combattimento di Minato con l’ombra l’aveva fatta sentire ancora meno utile di quanto lo era stata fino a quel momento.

Il ragazzo nuovo aveva capito subito cosa doveva fare e senza paura aveva combattuto con successo contro le due ombre che li avevano attaccati. E lei invece? Lei era rimasta a terra come una stupida a farsi salvare.

 

Avrebbe imparato da quella esperienza, più di quanto era riuscita a fare dai combattimenti precedenti. 

Quella notte Yukari aveva giurato a se stessa che nulla l’avrebbe fermata, non più.

Poteva anche morire, era vero, ma non sarebbe stato l’evoker a ucciderla, semmai la sua completa mancanza di coraggio avrebbe messo in pericolo lei e i suoi amici, e questo non poteva permetterlo.

Avrebbe combattuto prima di tutto per tutte le persone che amava, per fare in modo che fossero protette dalla sindrome dell’apatia che pareva prendere di mira sempre più ragazzi anche della loro scuola, avrebbe combattuto per dimostrare a se stessa che faceva bene a credere in se stessa, perché aveva un valore unico e nessuno degli altri poteva invocare la sua Persona, che era sua e unicamente sua.

Avrebbe combattuto per dimostrare a Mitsuru che meritava la sua fiducia, che la pazienza che le aveva dimostrato avrebbe ripagato, e l’avrebbe fatto anche per Akihiko, per proteggerlo in futuro e per curarlo se ne avesse avuto bisogno.

Sarebbe stata utile al gruppo dei SEES per Minato, perché fin da subito aveva capito quanto quel ragazzo fosse speciale, quanto fosse portato al combattimento e sapeva che li avrebbe guidati attraverso un percorso che li avrebbe infine portati alla vittoria sulle Ombre, alla fine del Tartarus.

E sarebbe stata forte per suo padre che le aveva sempre detto di credere in se stessa quando era piccola, che non sarebbe mai tornato indietro, ma che un giorno era sicura che avrebbe rincontrato, e allora lui sarebbe stato fiero della sua Yukari e del coraggio, della determinazione che aveva dimostrato.

Non mirava a diventare la migliore, ma desiderava combattere, alla fine si era resa conto che la sua paura era scomparsa, sostituita da un’iniezione di coraggio che l’aveva fatta sentire in grado di cambiare le cose una volta per tutte.

 

 

 

Erano passati ormai mesi da quando per la prima volta aveva premuto il grilletto dell’evoker per invocare la sua Persona. 

Solo poche ore prima Mitsuru le aveva rivelato il grande segreto che aveva tenuto fino a quel momento. Yukari si sentiva delusa, perché prima di allora l’aveva sempre considerata quanto di più vicino avesse a un’amica e sentiva di aver perso una parte di se stessa e del suo passato con quella notizia. 

Suo padre era morto a causa della Kirijo group. Suo padre lavorava per il nonno di Mitsuru.

Yukari si era sentita una stupida per non avere mai chiesto alla madre o ai suoi nonni qualcosa in più sulla morte del padre, in fin dei conti non era un segreto per nessuno per chi stesse lavorando quando era morto, solo che lei aveva sempre evitato i dettagli, sempre per quella sua paura di affrontare la realtà che aveva sempre avuto, sin da piccola. Si chiedeva come Mitsuru l’avesse guardata in faccia fino a quel giorno, come avesse potuto rimproverarla e trattarla da ragazzina immatura quando sapeva che in realtà lei era in parte il motivo per cui si sentiva così sola, senza radici, senza una guida.

 

Quella notte la ragazza si era addormentata esausta, con le lacrime agli occhi e i pensieri che le vorticavano in testa. Ma la mattina appena sveglia aveva iniziato a vedere la situazione con un po’ di chiarezza in più: suo padre non era certo una vittima innocente di quell’esplosione perché ci aveva lavorato. Sapeva bene cosa fossero le Ombre e non si era fatto scrupoli a cercare di sfruttarle assieme ai Kirijo, anche lui in cerca di gloria, di fortuna, di un riconoscimento da parte del mondo scientifico nel quale sperava di diventare una figura di spicco, un giorno.

Mitsuru invece a essere sinceri non poteva avere colpa in quella situazione. Stava cercando di rimediare in prima persona, combattendo e prendendo sulle spalle gli errori che l’azienda della sua famiglia aveva commesso.
Mitsuru stava soltanto cercando di riparare ai loro errori mettendoci tutto l’impegno che poteva. Non era certo difficile capire perché se ne vergognasse. Si sentiva in colpa per loro e per tutte le morti che avevano causato. Si incolpava per ogni singola persona che cadesse nella sindrome dell’Apatia, ma lei non c’entrava per nulla. Yukari aveva sempre visto nello sguardo dell’amica una vena di tristezza e di preoccupazione costante e aveva sempre pensato che fosse a causa del suo senso di responsabilità, non aveva mai pensato che avrebbe potuto sentirsi complice della causa dell’apparizione del Tartarus.

Mitsuru era solo una bambina quando c’era stata l’esplosione e nonostante tutto aveva da subito cercato di fare la sua parte per risolvere il problema causato dalla sua famiglia.
Aveva utilizzato l’evoker per la prima volta quando era ancora una bambina, come poteva incolparsi? Era semmai una vittima di quella situazione, esattamente come lei.

 

Yukari nonostante in fondo avesse sempre saputo che Mitsuru non c’entrava niente non aveva esitato a incolparla per la morte di suo padre, a farle pesare il suo silenzio che probabilmente già pesava come un macigno sulla sua testa ogni volta che le parlava. Non era stata una buona amica per lei, non certo migliore di Mitsuru, che invece aveva fatto il possibile perché fosse sempre a suo agio nonostante il suo carattere penosamente pavido.

Yukari era stata una palla al piede per il gruppo all’inizio e la sua amica l’aveva difesa e protetta sempre, nonostante tutto.

 

Era il momento di ricambiare. Sarebbe andata da lei e avrebbe detto a Mitsuru che doveva smetterla di prendersi le colpe della sua famiglia, che lei era coraggiosa, forte , determinata e intelligente, ma soprattutto era stata per lei una vera amica. 

 

Yukari avrebbe preso in mano la situazione per una volta, dimostrando una maturità che non sapeva di avere e che avrebbe fatto su. Avrebbe desiderato conoscere prima la verità, ma non era certa di come l’avrebbe presa, perché era molto meno emotivamente stabile di quanto volesse dare a credere. Forse se l’avesse saputo qualche mese prima se ne sarebbe andata da lì sbattendo la porta, per poi rendersi conto del suo errore e non essere in grado di ritornare a causa del suo onore, o meglio, della sua immaturità che non le permetteva di riconoscere i suoi errori. Non aveva neppure bisogno di perdonare Mitsuru, perché non c’era niente da perdonare. 

Finalmente Yukari poteva dire di essere diventata, forse, una persona migliore. Alla fine poteva essere fiera di se stessa e delle sue decisioni.

 

 

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 Fandom: Harry Potter

Personaggi: Lily Evans, Petunia Evans, James Potter, Harry Potter

Prompt: Muse, Knights of Cydonia

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We'll fight

 

You and I we’ll fight for our rights

you and I we’ll fight to survive

(Muse, Knights of Cydonia)

 

 

 

 

Da piccola, Lily non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventata una Strega. Non aveva mai sognato di avere mirabolanti poteri magici, al contrario di sua sorella Petunia che nei loro giochi insieme era sempre più forte, più bella e più ricca di lei. A Lily non era mai dispiaciuto fare la parte della bambina indifesa o della classica “piccola fiammiferaia” a cui tutti chiudevano le porte in faccia. Non le interessava vincere, non aveva un’indole competitiva come quella di sua sorella e per questo non provava neppure a rubarle la scena.

Ogni Natale Petunia aveva sempre recitato una poesia per la famiglia, per loro era stata una tradizione sin da quando sua sorella era stata in grado di impararla a memoria, e la bambina era felice di mettersi in mostra di fronte alla famiglia, le piaceva il palcoscenico. Quando Lily era cresciuta, però, sua madre aveva preteso che le due si dividessero quel ruolo e se a Lily non interessava per niente, per Petunia quello era stato a dir poco un affronto.

Dopo il primo anno, durante il quale le due avevano litigato tutto il giorno, il ruolo era stato dato a Petunia senza discussioni per la pace di tutta la famiglia e per la gioia di Lily.

 

Quando i suoi poteri si erano palesati, Lily era in compagnia di sua sorella. Stavano giocando e come sempre Petunia faceva le veci della buona samaritana che dava asilo alla povera, indifesa Lily, che in cambio le stava tessendo una corona di fiori come dono, in segno della sua riconoscenza.

La bambina aveva sollevato la corona a mezz’aria e l’aveva guardata con occhi sorpresi, come se lei non c’entrasse nulla con quella magia. Petunia si era convinta di essere stata lei a muoverla ed era rimasta a dir poco delusa quando si era resa conto che invece non c’entrava per niente.


La partenza per Hogwarts di Lily aveva allontanato le due sorelle in modo irrimediabile al punto che al ritorno di Lily per le vacanze di Natale le due avevano a malapena parlato, nonostante Lily avesse cercato Petunia continuamente, cercando di raccontarle ogni cosa sulla sua nuova scuola, sugli amici e sui professori, pareva che la sorella non avesse alcuna intenzione di stare con lei.

Ne aveva sofferto così tanto da averne pianto per anni, fino a quando non si era resa conto che sua sorella non l’avrebbe mai perdonata, ma che in fondo non era colpa sua: non aveva chiesto lei quei poteri e glieli avrebbe donati se solo avesse potuto farlo, solo che questo non era possibile. La gelosia era un sentimento che Lily non aveva mai fatto suo e, anche se avrebbe amato sua sorella per tutta la sua vita, non poteva più continuare a soffrire per qualcosa che non sarebbe mai cambiato, suo malgrado.

 

 

Da quando le cose erano degenerate nel Mondo Magico a causa della presenza di colui che non deve essere nominato Lily aveva più volte pensato alla sua famiglia e in particolare proprio a Petunia. Sapeva di non poter spiegare loro quanto grave fosse il pericolo che tutti stavano correndo, come sapeva che non avrebbero mai capito quella guerra e i motivi per cui era iniziata. Lei era una Sanguesporco e per questo tutta la sua famiglia rischiava di pagare, non poteva permetterlo e aveva deciso di metterli tutti al sicuro, o almeno di provarci. Lei e James avevano posto incantesimi di protezione nelle loro case sperando che fossero sufficienti, ma era certa che non sarebbero bastate poche protezioni per fermare Lord Voldemort.


Quando aveva saputo di aspettare un bambino, Lily si era sentita combattuta tra la gioia infinita e la paura per ciò che sarebbe potuto accaderle. Fino a quel momento non aveva mai avuto paura per se stessa, ma ora non era solo lei che avrebbe rischiato la vita. C’era anche il suo bambino, c’era anche Harry con lei e per lui doveva stare attenta.

Aveva cercato la sorella e le aveva comunicato la lieta novella per ritrovarsi di fronte a un muro di impassibilità. “Non te l’avevo detto forse, ma sono incinta anche io.” le aveva detto guardandola con ribrezzo e chiudendole quasi la porta in faccia. 

 

Poi era arrivata la profezia e con essa la disperazione era diventata ancora più forte. Lily continuava a piangere, incapace di sopportare la paura che sarebbe potuto succedere qualcosa a lei, ma soprattutto al suo bambino, e in quel momento aveva deciso che l’avrebbe protetto a qualunque costo, anche se le fosse costato la sua stessa vita.

Era andata da Petunia un’ultima volta con il desiderio di cercare un riavvicinamento con la sorella. Le aveva telefonato e la sorella le aveva concesso un pranzo di famiglia.

Lily e James erano arrivati, vestiti eleganti e pronti ad assecondare la famiglia Dursley senza utilizzare in alcun modo la magia in quella giornata.

Non avevano mai conosciuto Vernon, che a detta di Petunia era un uomo di successo che le stava dando tutto ciò che la donna desiderava e che agli occhi dei Potter era un fastidioso borghese ottuso che parlava solo attraverso luoghi comuni. Si vedeva però che lui e sua sorella si amavano e questo aveva tranquillizzato molto Lily.

 

Alla fine della cena, poco prima di andare. Lily aveva deciso di affrontare l’argomento per cui erano lì: “Petunia, la situazione è molto grave. Non voglio assolutamente metterti in pericolo e quindi non ci faremo più vedere, almeno per un po’, fino a quando la situazione non si sarà un po’ tranquillizzata… ma se mi dovesse succedere qualcosa vorrei chiederti se ti prenderai tu cura di Harry. Lo faresti?”

Petunia aveva guardato il pancione della sorella e all’improvviso si era ricordata di quanto la amava quando erano piccole. Lily era una bambina quasi perfetta e per Petunia non era mai stato facile essere alla sua altezza, ma le aveva sempre tenuto testa, almeno fino a quando non erano apparsi i suoi stupidi poteri magici, che oltre ad averla allontanata da lei in modo irrecuperabile l’avevano anche resa ancora più speciale agli occhi di tutti, mettendo Petunia in un angolo ombroso.

Però le voleva bene: quando c’erano i temporali le permetteva di dormire nel suo letto e la stringeva a sé fino a quando non si addormentavano entrambe; la aiutava sempre con la colazione al mattino e la aspettava sia al ritorno che all’andata per la scuola.

“Ma certo…” le aveva detto, mettendo nelle sue parole quanta più naturalezza possibile. Lily era corsa ad abbracciarla e Petunia avrebbe ricordato per sempre quel momento. Avrebbe tanto desiderato risponderle e dirle quanto le aveva sempre voluto bene, invece era stata zitta e aveva risposto all’abbraccio con delle piccole pacche sulla spalla della sorella, incapace di esprimere il suo amore, ancora consumata dalla gelosia.

 

Lily e James erano tornati a casa sereni, perché in fondo sapevano che l’incontro era andato tutto sommato meglio di quanto si aspettassero. Ma di fronte a loro non vedevano altro che buio. Avrebbero combattuto ancora per salvare le loro vite, per il diritto del loro bambino ad avere una vita e non a morire per mano di Voldemort. Non avrebbe vinto lui, sarebbero stati loro a trionfare un giorno, per Harry, per l’Ordine e anche per Petunia e la sua famiglia.

 

Era incinta di otto mesi quando James era stato chiamato per combattere con l’Ordine. Lei era stata costretta a restare a casa e per tutto il tempo aveva avuto il cuore in gola. Ogni rumore fuori la faceva sobbalzare e ogni minuto le pareva più lungo del precedente. 

Aveva promesso al suo James che sarebbe stata forte, che non si sarebbe lasciata cogliere dalla paura e dallo sconforto, ma più il tempo passava e meno Lily si sentiva in grado di sopportare la situazione.

 

Era così diverso quando potevano combattere insieme. Si coprivano a vicenda e prendevano parte alle missioni dell’Ordine senza paura, anche se sapevano che ogni volta poteva essere l’ultima. Il loro amore in parte a volte li frenava, perché ciascuno di loro desiderava che l’altro stesse al sicuro, ma era anche il motore che li faceva partecipare alle missioni, era il motivo per cui combattevano: per il loro futuro insieme. Perché fosse possibile vivere all’aria aperta senza doversi preoccupare del fatto che Lily era una Sanguesporco, senza avere paura per i loro figli che un giorno sarebbero arrivati.

 

Lily aveva deciso di combattere proprio per le sue origini. La famiglia Babbana dalla quale proveniva era per i Mangiamorte motivo di vergogna. Le sue origini la rendevano una nullità che non meritava neppure di vivere, come tutti gli altri Babbani. Come i suoi amici quando andava a scuola, i vicini di casa dei suoi genitori e come tutto il resto della sua famiglia. La Strega sapeva bene che la sua origine non avrebbe mai potuto determinare il suo valore. Sapeva di non aver rubato i suoi poteri ad altri Maghi inermi. 

E pensare a quanto si era arrabbiata con Severus quando le aveva spiegato la filosofia di Voldemort… Aveva perso il suo amico per gelosia, come sua sorella, ma anche a causa della vicinanza di Severus ai Mangiamorte.

Come puoi parlare con loro e poi venire a cercarmi, non capisci che se fosse per loro io sarei carne da macello, così come tutti gli altri Babbani. 

Severus le rispondeva che lei era diversa, ma a lei non era mai bastato. E ora… James probabilmente stava combattendo proprio con lui. Con quello che era stato un tempo suo amico e che li aveva venduti in cambio di un ruolo di rilievo tra le schiere del Signore Oscuro, come lo chiamavano i suoi adepti.

 

Lily aveva sempre combattuto per la sua libertà e avrebbe ricominciato a farlo quando Harry fosse nato. Stare a casa in attesa di James era per lei difficilissimo. Molto più di combattere, perché l’attesa era passiva. Ogni cosa poteva essere accaduta a James e ai suoi amici, a Silente e ai Weasley senza che lei lo sapesse e il non poterli aiutare la faceva sentire completamente inutile.

Non aveva mai pregato in vita sua. Sapeva che nel Mondo Magico non esisteva un Dio come per i Babbani, e per quella notte si sarebbe affidata a quel Dio che non conosceva sperando che proteggesse comunque i suoi cari. Tutti quanti fino a quando lei non avesse potuto ricominciare a combattere.

 

Quella sera James era arrivato a casa ferito, ma vivo. L’aveva trovata distesa sul divano, addormentata, ma chiaramente tesa. L’aveva presa tra le sue braccia per portarla nel letto, svegliandola. Lily aveva iniziato a piangere stringendolo forte a sé e causandogli un gemito di dolore. “Cosa è successo?” Aveva chiesto notando la ferita del marito.

“Doveva essere una missione leggera, invece ci hanno attaccato di sorpresa. Se non ci fosse stato Sirius sarei morto probabilmente.”

Lily aveva tirato a James una pacca sulla spalla. “Non dirmi queste cose, lo sai che non posso sopportare di non essere lì con voi…”

C’era una domanda che Lily non voleva fare. Anche se sapeva che era così, non desiderava sapere se Severus era tra i Mangiamorte. 

“Avevano la maschera, non sappiamo chi fossero.” Aveva detto James, rispondendo al suo silenzio. “Comunque con questa ferita mi sono assicurato almeno una settimana di pace con te, con voi.”

Anche se sarebbe stata una sola settimana, avrebbero assaporato ogni minuto nell’attesa di ricominciare a combattere, nell’attesa di avere il futuro di pace che desideravano per la loro famiglia.

 

 

Dalla nascita di Harry molte cose erano cambiate nella vita dei Potter. Se nei primi tempi avevano continuato a cercare di mantenere la vita di prima, col tempo si erano resi conto che ciò che tutti dicevano loro era vero: erano l’obiettivo primario di Voldemort e non potevano permettersi di farsi trovare per il bene di tutto.

Erano nascosti da ormai così tanto tempo da sentirsi in prigione nella loro bella casa comoda, ma dopo la profezia non erano più loro i destinatari dell’odio di Colui che non deve essere nominato, ma il loro piccolo bambino innocente, che da Prescelto era diventato simbolo della speranza di tutti coloro che volevano la caduta di Lord Voldemort, compresi Lily e James.

L’idea di cambiare Custode Segreto era stata di Sirius. Il loro amico si sentiva tutt’altro che al sicuro, preda delle minacce continue di quasi tutti i Black si sentiva a un passo dalla cattura. Nessuno di loro l’aveva detto, ma tutti avevano il sospetto che Remus potesse essere la spia all’interno dell’Ordine della Fenice. Un lupo mannaro facilmente diventa Mangiamorte e questo era risaputo.

Lily non aveva mai creduto che Remus avrebbe potuto tradirli. Non il dolce Remus che lei conosceva da anni e che amava lei e James come fratelli, ma Lily nell’ultimo periodo non si fidava di anima viva, solo di James e di Albus Silente.

 

Sirius, Peter e Albus erano stati gli ultimi ad andare dai Potter, portando loro regali per Harry e cibo per sussistere in quei giorni concitati. “Siamo vicini, ragazzi, presto tutto sarà finito in un modo o nell’altro.” Aveva detto Sirius, stanco e speranzoso. 

Silente appariva pensieroso più di quanto non l’avessero mai visto. “Si stanno muovendo e questo è certo. Purtroppo c’è di certo una spia tra noi perché sanno troppi dettagli, conoscono bene i nostri piani. Tra qualche giorno però capiremo chi è.” Silente aveva divulgato ai vari membri dell’Ordine notizie differenti e aspettava il momento buono per vedere dove i Mangiamorte sarebbero andati a colpire.

“Vorrei tanto che diventassi tu il nostro Custode Segreto, Albus.”

Silente aveva preso le mani dei Potter. “Mi piacerebbe, ma sapete che con me non sareste al sicuro. Sono l’indesiderato numero due, solo dopo il vostro Harry.

 

Peter se ne stava in un angolo a giocare con Harry, che da ormai qualche giorno stava in piedi da solo. Lily e James lo avevano scelto per le sue capacità peculiari: nascondersi per lui era facile e nonostante Peter non brillasse certo per coraggio, erano certi che avrebbe resistito di fronte al pericolo, in qualche modo.

“È proprio cresciuto.” Aveva detto il loro amico prima di abbracciarli e di andarsene da lì insieme agli altri ospiti.

 

I Potter non lo sapevano ancora, ma avevano firmato la loro condanna a morte quella sera.

 

La notte in cui Voldemort arrivò alla loro porta a portare loro la morte, capirono cosa avevano fatto, ma ormai era troppo tardi per rimediare. James fu guidato dal desiderio di proteggere la sua famiglia, ma anche dal risentimento nei confronti del tradimento del suo amico, che lui considerava al pari di un fratello. Aveva combattuto per tutto l’Ordine e per Remus, per avere messo in dubbio la sua fedeltà. Non era bastato però.

Lily invece aveva pregato. Non immaginava che la sua preghiera sarebbe diventata il motivo per cui suo figlio sarebbe sopravvissuto. 

Harry Potter avrebbe continuato a combattere per tutti loro e un giorno, non troppo lontano, la verità sarebbe venuta a galla.

In ogni caso, Lily avrebbe vegliato su suo figlio anche dall’aldilà, perché nulla avrebbe potuto separarla da lui, neppure la morte.

 

 

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Fandom: Persona 3
Personaggi: Mitsuru Kirijo, Takeharu Kirijo
Prompt: 
La speranza lascia il posto alla disperazione
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Disperare

Stava morendo.

Takeharu aveva fallito un’altra volta e finalmente sarebbe stata l’ultima. 

Anche nella morte non era in grado di perdonare se stesso per tutti gli innumerevoli errori che aveva compiuto nella sua vita e che non sarebbero bastate dieci vite per espiare.

 

Avrebbe voluto soltanto pensare a lei, alla sua bambina. 

Da piccola, Mitsuru era vivace. Spesso lui e la moglie la sgridavano per le ginocchia sbucciate dopo una corsa o per la sua continua ricerca di nuove avventure. Nonostante non si potesse dire che l’enorme giardino di casa somigliasse a una prigione, immenso e meraviglioso com’era, sua figlia era comunque sola e cercava in continuazione  nuovi stimoli, nuove avventure.

Era sempre stata una bambina coraggiosa, indomita. Sua moglie la definiva selvaggia a volte, ed era un po’ vero che nei suoi primi anni, prima che l’educazione severa delle insegnanti private e dei genitori riuscisse a domarla, pareva che il suo spirito libero avrebbe sempre avuto la meglio su qualsiasi tentativo di reclusione.

Lui non era mai stato così: Takeharu aveva sempre seguito le regole, sin dal primo ricordo che aveva di sé non era mai stato come lei e l’uomo si chiedeva se non avesse in realtà preso dalla moglie, anche lei all’apparenza così innocua, ma forte come una roccia quando si aveva a che fare con lei, e lui l’aveva scoperto a sue spese.

 

Rimpiangeva di aver messo sua figlia in una gabbia in nome della famiglia e dell’azienda che lei avrebbe un giorno avuto in eredità. Invece di sgridarla avrebbe dovuto imparare da lei a essere sempre libero, a non avere paura di esprimere i suoi desideri e le sue paure.

 

Invece le cose erano andate in modo molto diverso. Si era sempre affidato a qualcun altro per prendere le decisioni nella sua vita, e ogni volta aveva sbagliato.

Fin da quando erano iniziati i primi esperimenti con le ombre lui non era mai stato d’accordo con suo padre: era sbagliato giocare con quel potere sconosciuto, grande e troppo pericoloso per ignorarne le possibili conseguenze.

Lui non era innocente. All’inizio aveva seguito il padre senza remore, senza rimorsi. Le conseguenze non gli interessavano poi tanto, giovane e stupido com’era l’unico suo pensiero era il profitto, la gloria che sarebbe arrivata dopo la scoperta di riuscire a gestire le ombre, di ricavare da loro la magia, che avrebbe potuto essere usata da chi era in grado di gestire il potere dell’evoker. Il potere che sarebbe derivato dalla capacità di far fruttare quel mondo nuovo e sconosciuto ai più, che avrebbe dato loro in conseguenza anche molto denaro.

Il denaro era ciò che di più importante aveva in quel periodo in testa. Per lui era importante che l’azienda crescesse e diventasse la più ricca del Giappone. Da sempre i Kirijo si erano distinti per la loro determinazione e la sua guida che prima o poi avrebbe seguito quella di suo padre sarebbe iniziata in un periodo di grande prosperità per l’azienda. 

Mitsuru l’avrebbe ereditata, lui pensava anche alla sua meravigliosa figlia, che anche se piccola e innocente ancora, stava già imparando a comportarsi come loro tutti si aspettavano da lei e a dimostrare la sua intelligenza e determinazione.

 

Il presidente però non era ancora lui, e non immaginava che lo sarebbe diventato in tempo così breve. Immaginava infatti che suo padre sarebbe stato a guida dell’azienda per molto tempo ancora, ma le cose stavano iniziando a prendere una brutta piega già da un po’ di tempo ormai. Takeharu dopo più di dieci anni ricordava ancora la rabbia che aveva esploso contro di lui quando aveva scoperto degli esperimenti che suo padre aveva condotto all’orfanotrofio. Quei poveri bambini innocenti erano stati condannati a una vira che non meritavano. Solo per il fatto che erano orfani, era stato deciso che il loro fosse un destino sacrificabile. Takeharu si era opposto con forza all’inizio, prima di rendersi conto che la situazione era ormai irrecuperabile.

Le ombre erano senza controllo e l’unico modo di cercare di contenerle era attraverso l’utilizzo degli evoker e di quei bambini che erano gli unici in grado di difendere l’umanità dal pericolo che la Kirijo group aveva liberato sul mondo.

Alcuni di quei bambini erano morti, si erano suicidati dando forma e voce all’accettazione della morte che gli evoker simboleggiavano, ma suo padre le considerava perdite accettabili per il bene superiore, il fine ultimo era, in quel periodo, il contenimento del potere delle ombre.

 

Ma le cose infine erano sfuggite loro di mano.

L’esplosione aveva distrutto anni e anni di lavoro e aveva portato con sé le vite di quasi tutti quelli che avevano lavorato a quel progetto maledetto. Scienziati, guardie, bambini innocenti e persino suo padre avevano perso la vita nell’inferno che era esploso dal Tartarus ormai dieci anni prima.

Il primo pensiero di Takeharu era stato di chiudere tutto e di fingere che nulla fosse successo. Insabbiare, nascondere, far sparire le prove. Ma non era più possibile ormai, perché era comparsa la dark hour, e gli strani eventi che avvenivano nel Tartarus si erano propagati al mondo reale. E se era in pericolo ora era tutta colpa loro, era soltanto colpa della Kirijo group. Era colpa sua.

Sopravvivendo all’esplosione aveva avuto una possibilità: avrebbe potuto sistemare le cose e rinchiudere le ombre nel Tartarus, da dove erano arrivate.

 

La situazione però appariva irreparabile e se n’era reso conto dopo la prima luna piena, quando i rapporti avevano indicato l’intensa attività delle ombre, e non solo durante la dark hour.

 

Suo malgrado, Takeharu non aveva potuto fermare gli esperimenti su quei poveri bambini. Era stato costretto a continuare a metterli in pericolo. Nel primo periodo dopo l’esplosione gli capitava spesso di piangere quando era da solo a casa, pensando a quante vite l’azienda avesse spezzato o distrutto. A quanti ancora avrebbero potuto pagare le conseguenze delle azioni che suo padre aveva preso e che lui aveva seguito senza battere ciglio.

Non aveva scusanti, non poteva smettere.

Persino Mitsuru aveva imparato a usare l’invoker, per aiutarlo, per difenderlo grazie alla sua Persona, come gli aveva dichiarato trionfante dopo il primo successo. Era piccola, innocente e fragile ai suoi occhi, e invece una volta di più gli aveva dimostrato di essere molto più forte di lui, la degna erede di un’azienda che sarebbe tornata pulita per lei, per regalarle un futuro degno di lei. 

La differenza tra lei e gli altri evocatori però era che lei aveva fatto una scelta: aveva preso l’evoker, aveva guardato nella canna della pistola e aveva sparato. Senza attesa, senza pianti. Suo padre non aveva visto in lei la minima paura, né un cenno di esitazione. Lei aveva scelto, non come gli altri che erano stati costretti a sentire il potere crescere dentro di loro fino a quando, in molti, non erano stati più in grado di sopportarlo.

Alcuni di quei bambini erano impazziti, altri erano morti. In molti erano stati considerati minacce e lui non aveva più neppure idea di dove fossero.

Si ricordava di Shinjiro. Quel ragazzino aveva una forza fuori dal comune, e grazie ai supplementi era diventato imbattibile. Takeharu nutriva grandi aspettative su di lui, ma il ragazzo era instabile, lo stava diventando ogni giorno di più e la colpa era di certo di quei supplementi che Ikutsuki si ostinava a dar loro, nonostante lui non fosse d’accordo. 

Avevano smesso poco prima dell’incidente. Una volta di più un innocente aveva pagato le conseguenze di quelle scelte scellerate che non erano mai state sue, che non avrebbe mai potuto contrastare.

Per questo dopo l’esplosione avevano costruito la scuola. Per cercare di nascondere la vergogna che continuava a tracimare dalle barriere che loro cercavano di mettere ovunque per riparare ai danni che ormai non erano più controllabili.

Nulla di ciò che aveva fatto era servito a riparare un bel niente.

 

Aveva sbagliato tutto, a cominciare dalla fiducia che aveva dato a Ikutsuki che aveva avuto la possibilità di fare tutto ciò che desiderava a spese dell’azienda, che era stato vicino a Mitsuru quando persino lui non ci era riuscito conquistando anche la fiducia della figlia. Ora tutti sulla terra avrebbero pagato le conseguenze dei suoi errori, tutti a meno che sua figlia e i SEES non fossero riusciti a cambiare il corso del destino che in quel momento appariva deciso e senza speranza.

 

Avrebbe voluto dirle che aveva sempre creduto in lei, che non si sarebbe mai perdonato di non essersi opposto fin da subito alle idee di suo padre. Che avrebbe desiderato passare più tempo con lei, anche solo per farle capire quanto le voleva bene. 

Lei era l’unico motivo per cui nell’ultimo periodo aveva lottato con le unghie e con i denti per riparare a quella situazione che lui stesso aveva contribuito a creare. Non era stato facile resistere, ma senza di lei non ce l’avrebbe mai fatta. 

Sarebbe morto entro pochi minuti e l’unico desiderio che aveva era che lei vivesse anche per lui. Lei sarebbe riuscita dove lui aveva fallito miseramente.

Si sarebbe distinta come avrebbe sempre fatto.

 

Dipendeva tutto da lei, dalla sua sopravvivenza. E anche in quei momenti lui sentiva di non essere in grado di fare nulla per lei. Legata in attesa della morte per mano di Aigis, la creatura che lui e Ikutsuki avevano creato. Un altro dei suoi errori.
Di nuovo lui era inutile: non aveva ucciso Ikutsuki, non aveva aiutato sua figlia e i SEES, non riusciva a muoversi, la sua vista si stava annebbiando.

Poi l’aveva sentita: Aigis li aveva liberati.


Sapendo che sua figlia era viva, sapeva di poter finalmente morire. Di potersi lasciare andare a quel destino che forse aveva invocato un po’ troppo spesso nell’ultimo periodo.

Si rendeva conto che in un certo senso fosse comodo morire e lasciare che il destino di tutto il mondo restasse nelle mani di sua figlia. Lasciare andare le responsabilità e la paura, concedersi alla fine la pace che non sentiva da troppi anni ormai.

 

Sentendo le braccia di Mitsuru prenderlo e stringerlo a sé, la voce di  Mitsuru ad avvolgerlo e a salutarlo, sapeva di potersi lasciare andare. Aveva cercato di accarezzarla, ma il braccio si era fermato troppo presto e lei aveva stretto la sua mano.

L’oblio era così vicino da non permettergli più di pensare a qualcosa che non fosse lei.

Con le sue ultime forze aveva pregato che ci fosse un aldilà perché lui potesse vegliare su di lei e sulla sua vita. Perché lui riuscisse a darle forza quando non ce n’era più. Perché lei si rendesse conto di quanto valeva. Lei era la sua luce, Misturu doveva saperlo.

 

 

 

Mitsuru l’aveva tenuto stretto a sé fino a quando non aveva esalato l’ultimo respiro. 

Lui l’aveva guardata negli occhi per tutto il tempo. Non aveva più parlato, dopo aver pronunciato il suo nome. Alla ragazza era parso quasi che desiderasse accarezzarle il volto, ma il suo braccio non era riuscito ad alzarsi. Mitsuru gli aveva preso la mano. e l’aveva stretta con forza, causando solo un gemito strozzato nel padre. Piangeva di rabbia e di dolore, perché avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava in Ikutsuki, avrebbe dovuto seguire il pensiero che serpeggiava in lei da ormai qualche mese. Lui era tutto per lei e non era mai stata in grado di dimostrarglielo. 

Suo padre la stava lasciando per sempre e Mitsuru in quel momento stava realizzando quanto avesse perso non riuscendo a stare con lui, evitandolo solo per riuscire a diventare ancora migliore, e in quel momento si era resa conto di aver perso così tanto mettendo una barriera tra loro.

Negli suoi occhi aveva sempre visto un’espressione un po’ triste, ma in quel momento era diversa. Vedeva quasi felicità ed era convinta che ci fosse anche amore. Con il suo sguardo, il padre le stava dicendo di essere orgoglioso di lei, e Mitsuru sperava che anche a lui fosse chiaro che lei gli aveva sempre voluto bene. 

Non c’è un sentimento più triste del pentimento e la ragazza stava provando proprio quella sensazione in quegli ultimi istanti con il padre. Se solo avesse capito che la fiducia che avevano nei confronti di Ikutsuki era mal riposta lui sarebbe ancora con lei.

Se solo avesse potuto tornare indietro nel tempo avrebbe sparato lei stessa in mezzo agli occhi di Ikutsuki, senza pentimento, senza paura.

 

Gli occhi di suo padre stavano perdendo la loro luce. Mitusu aveva lasciato andare ogni risentimento e aveva salutato il padre, pensando solo a quanto avrebbe desiderato avere più tempo con lui e a quanto bene gli volesse. Certa che un giorno l’avrebbe riabbracciato.

 

 

Avrebbe pianto ancora per lui nei giorni a seguire, Mitsuru lo sapeva bene. Ma avrebbe trovato il modo per finirla con quella storia. Per chiudere col Tartarus una volta per tutte.

Ci sarebbe stato il tempo per la vendetta e Ikutsuki avrebbe pagato. 

In cuor suo sperava che stesse morendo dissanguato da qualche parte, anche se una parte di lei desiderava ucciderlo, voleva che fosse la sua mano a calare su di lui e a dargli la morte per tutto ciò che le aveva tolto. Per ciò che aveva tolto a tutti loro.

Si era alzata in piedi lasciando andare il padre.

Nessuno aveva parlato, non c’era nulla da dire. L’unica cosa che dovevano fare era continuare a combattere.

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Omnis homo mendax
Oderint dum metuant
Dictum, factum
Res sacra consilium





Fandom: Harry Potter

Personaggi: Lavanda Brown

Genere: introspettivo

Prompt: Omnis homo mendax

Flashfic

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Omnis homo mendax

tutti gli uomini sono bugiardi


Lavanda Brown non riusciva a trattenere le lacrime. Aveva passato tutta la mattina distesa sul suo letto, con la coperta sugli occhi a disperarsi per il suo amore perso, forse mai rorrisposto e a cercare di ragionare sulla sua storia con Ron e su come avesse fatto a crollare in modo così improvviso.

Aveva persino chiesto a Hermione cosa ci fosse che non andava nel suo amore. Era gelosa di lei, perché sembrava che avesse un legame troppo forte con Ron, ma Lavanda era certa che Hermione si sarebbe dimostrata leale con un'altra ragazza. L'aveva consolata infatti, affermando con voce piatta quanto gli uomini fossero bugiardi e codardi. Quasi tutti gli uomini, aveva detto.

E pensare che gli aveva anche comprato una scatola di cioccolatini in regalo, che su consiglio della Granger aveva deciso di mangiarsi lei, senza neppure dirgli dell'acquisto.

A Ginny era successo che Dean, che caso voleva fosse un compagno di stanza proprio di Ron, avesse evitato di rompere con lei proprio per avere il regalo di compleanno. Impensabile, imperdonabile secondo ogni ragazza. Poi quando lei l'aveva lasciato lui si era quasi messo a piangere, nonostante avesse già chiesto di uscire a Cali, che però non era una sciocca e sapeva di Ginny, quindi l'aveva rifiutato.

Che ci fosse un uomo sincero? Uno solo? Si chiedeva Lavanda durante la lezione. Forse Neville, lui non le avrebbe mai mentito, forse... ma pensandoci forse avrebbe continuato a rischiare, magari si sarebbe fatta più furba e avrebbe imparato a capire quando gli uomini le mentivano.

No, Neville proprio no.

Fandom: Harry Potter

Personaggi: Tom Riddle, Lord Voldemort

Genere: introspettivo

Prompt: Oderint dum metuant

Flashfic

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Oderint dum metuant

mi odino pure, purché mi temano


Vivere all'orfanotrofio non era mai stato facile per lui, ma nell'ultimo periodo Tom Riddle aveva trovato il modo giusto di sopravvivere e di farlo in completa comodità.

Era bastato dare fuoco a una balla di fieno sulla quale stavano giocando dei bambini per avere l'attenzione di tutti, poi si era limitato a osservare le fiamme sorridente, orgoglioso del suo potere magico. Tom aveva sempre saputo di essere speciale e finalmente ne aveva la dimostrazione.

Adesso che avevano visto tutti ne avevano la prova e avrebbero fatto bene a rispettarlo, a venerarlo.

Il suo dono speciale lo aveva reso intoccabile agli occhi degli altri bambini: mangiava ciò che desiderava, sedeva dove preferiva e non aveva più bisogno di giustificarsi con anima viva, neppure con le monache, quando si prendeva la libertà di non pulire la sua stanza e chiedeva a qualcuno di farlo al suo posto.

Aveva una camera sua, privata. Al contrario degli altri bambini che vivevano nel dormitorio tutti insieme, con qualche rara eccezione tra i più grandi.

Facevano di tutto per farlo stare tranquillo e per assecondarlo e lui finalmente stava vivendo come sentiva di meritare.

Lo odiavano e lo sapeva. Ma non gli importava: gli bastava che lo temessero e che esaudissero i suoi desideri.

Fandom: Harry Potter

Personaggi: Hermione Granger, Signora Granger

Genere: introspettivo

Prompt: Dictum, factum

Flashfic

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Dictum, factum

detto, fatto


A Hermione non piaceva rimandare i suoi impegni, soprattutto quando avevano a che fare con la scuola pensava che non ci fosse ragione per aspettare l'ultimo minuto per studiare o per svolgere i propri compiti.

Quel pomeriggio non aveva impegni, visto che a due settimane dall'inizio della scuola aveva già fatto tutto quello che poteva, compresi esercizi e studi extra che l'avevano impegnata nell'ultimo mese.

Quando sua madre però l'aveva invitata a fare una torta, però, Hermione si era sentita improvvisamente stanca. Quella era una cosa che avrebbe rinviato molto volentieri.

"Suvvia, non sarà certo più difficile di una delle tue pozioni complicatissime. Giusto?"

Hermione era impallidita, memore del suo passato in cucina, tutt'altro che roseo, ma in fin dei conti era vero: non poteva essere più difficile delle sue precisissime pozioni.

Si era quindi rimboccata le maniche e si era messa il grembiule che sua madre le aveva lasciato a disposizione. Aveva proceduto con metodo: pesando tutti gli ingredienti, e posizionandoli sul tavolo nell'esatto ordine in cui avrebbe dovuto inserirli nell'impasto, poi aveva preso il frullatore e aveva cominciato a seguire la ricetta passo dopo passo.

Dopo un'ora e mezza aveva estratto dal forno la torta fumante, sotto lo sguardo soddisfatto della madre.

"Ma ha sporcato tutti gli utensili e tutte le ciotole che abbiamo?" Aveva chiesto il padre alla moglie, senza farsi sentire. "Sì, ma guarda come è orgogliosa adesso."

Hermione ci aveva in effetti messo di più a pulire la cucina che a preparare la torta, ma si sentiva soddisfatta di se stessa: detto, fatto! Come diceva sempre sua madre. Ora anche lei avrebbe potuto dire di essere riuscita a preparare un'ottima torta con le sue mani, come una Babbana.


Fandom: Harry Potter

Personaggi: Draco Malfoy

Genere: introspettivo

Prompt: Res Sacra consilium

Flashfic

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Res sacra consilium

il consiglio è una cosa sacra


Non si poteva certo dire che Draco Malfoy avesse avuto una vita difficile, infatti aveva sempre ottenuto ciò che desiderava, senza eccezione alcuna.

Questo almeno fino a quando Potter non era entrato a far parte della sua vita. Draco gli aveva dato un consiglio: scegli bene gli amici.

E desiderava sopra ogni cosa che Potter scegliesse lui come amico, ma non era successo.

I consigli sono cosa sacra, gli aveva detto suo padre più volte, e Draco non poteva neppure pensare che qualcuno lo ignorasse così, preferendo a lui un Weasley.

Draco, lascialo perdere, non hai bisogno di lui, gli aveva detto il suo amico Goyle, ma lui non ce l'aveva fatta.

Più il tempo passava e più Potter si dimostrava migliore di lui: sapeva usare incantesimi che gli erano sconosciuti e tutti nel mondo magico stravedevano per quel tappo occhialuto, tutti compreso Silente. Persino suo padre continuava a parlargli di come Potter fosse insulso e feccia, ma intanto ne parlava. Draco non lo accettava e, forse dopo anni lo poteva ammettere, era sempre stato un po' geloso di lui.

Forse lui stesso avrebbe fatto bene ad ascoltare il consiglio del suo amico Goyle e lasciarlo perdere, si diceva mentre costruiva l'armadio Svanitore nella Stanza delle Necessità. Forse, se non si fosse impegnato così tanto a essergli nemico, avrebbe avuto più amici su cui contare per uscire da quella pessima situazione.

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Fandom: Breaking Bad

Genere: Introspettivo

Personaggi: Walter White

Prompt: Unus homo, nullus homo

flash fic
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Unus homo, nullus homo


Un uomo da solo non è nessuno

Aveva rovinato la vita di tutta la sua famiglia e non aveva modo di tornare indietro. Quante volte Walter aveva pensato di chiamarli, di farsi sentire e di dire loro che lui era vivo che che tutto quello che aveva fatto era stato per loro, per dare loro un futuro che altrimenti sarebbe stato all'insegna dei debiti e della povertà.

Ma non aveva neanche il coraggio di chiamarli, di vedersi rigettare dal figlio al quale avrebbe dato tutto quello che poteva, purché lo perdonasse. 

Era vivo, ma solo. 

Ricco, ma solo.

Hank era morto e lui non poteva più tornare indietro, non dopo tutto quello che era successo.

E la doveva smettere di cercare scuse, perché stava vivendo la conseguenza delle sue scelte, dettate dall'egoismo e dall'avidità e non dall'amore come tentava di convincersi ogni giorno.


Walter White sarebbe morto solo, odiato da tutti e dimenticato, nella migliore delle ipotesi, dalle uniche persone alle quali teneva.


Aveva fatto così tanti errori che ormai non riusciva nemmeno più a contarli. Aveva ucciso Brock, aveva tentato di uccidere Jesse quando avrebbe fatto bene invece ad ascoltarlo e a smettere di dare ascolto alla sua avidità quando aveva, a quel punto, più di quanto avrebbe mai potuto desiderare.

Se solo l'avesse ascoltato, se non si fosse lasciato prendere dagli eventi e dal desiderio di dimostrare che lui non era uno da sottovalutare o da prendere in giro, forse avrebbe potuto vivere il tempo che gli restava con la sua famiglia e non da solo in un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini.

No, lui sarebbe tornato indietro e avrebbe vendicato Hank. Sarebbe stato Heisenberg un'ultima volta, bruciando il tempo che gli restava con un'ultima fiammata gloriosa.

Sarebbe morto solo, così come meritava, ma prima li avrebbe rivisti. Non poteva morire senza salutarli, voleva avere ancora almeno l'illusione di non essere solo, perché un uomo, da solo, non è nessuno.

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Fandom: Final Fantasy VII

Personaggi: Barret Wallace

Genere: introspettivo

Prompt: Fiat iustitia, ruat caelum

Flashfic

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Fiat Iustitia, ruat caelum


Sia fatta giustizia, anche se i cieli cadono





 

Sia fatta giustizia, anche se i cieli cadono, e quella notte il cielo dei bassifondi del settore sette era caduto distruggendo ogni cosa: case, parchi, negozi e soprattutto persone. Persone che a quanto pareva non avevano valore per la Shinra, che pur di distruggere il quartier generale degli Avalanche aveva deciso di compiere una strage.

Barret non si sarebbe dato pace per ciò che era successo.

Forse qualcuno della parte alta della città era sopravvissuto e Marlene era al sicuro, ma gli altri?

No, nessuno di loro valeva abbastanza per la Shinra, e il loro era stato un sacrificio dettato soltanto dalla sfortuna di essere nati lì, vicino alla loro base e la colpa era solo degli Avalanche. 

La giustizia valeva davvero più di tutte quelle vite? La risposta di Barret, prima, era sempre stata la stessa: sì. 

Perché non era giusto che la Shinra valutasse gli abitanti di Midgar solo in termini di quanto sarebbero riusciti a fruttare in termini economici e il fatto che si fossero spinti così in basso solo per riuscire ad arrivare a loro era, agli occhi di Barret, una conferma della loro crudeltà e del fatto che per la Shinra l'unico interesse era quello economico.

Lui avrebbe continuato a combattere: per Marlene, per la giustizia e per tutti quelli che coltivavano ancora la speranza che le cose sarebbero cambiate. Per Biggs, Wedge e Jessie e per tutti quelli che erano stati sacrificati dalla Shinra. 

La giustizia un giorno, forse lontano, avrebbe prevalso e il presidente avrebbe pagato per tutto il male che aveva fatto, nonostante il sangue innocente di quelle morti sporcasse anche le mani degli Avalanche e nonostante in quel momento tutti fossero convinti della loro colpevolezza.


Un giorno forse almeno Marlene avrebbe potuto vivere in un mondo migliore di quello che aveva conosciuto fino a quel momento.

 

 

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Fandom: Persona 5

Personaggi: Yusuke Kitagawa

Genere: introspettivo

Prompt: Vita sine proposito vaga est

Flashfic

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Vita sine proposito vaga est

la vita senza una meta è vagabondaggio


Cosa ne sarebbe stato di lui se avesse lasciato veramente l'arte? 

Yusuke sapeva di non aver mai avuto veramente una meta nella vita.

Si era limitato ad accettare la guida di Madarame e a fare ciò che lui aveva definito e deciso al suo posto. Ma aveva veramente un talento che fosse degno di essere chiamato tale o la sua era soltanto pura tecnica  che l'avrebbe reso al massimo un critico d'arte e non certo un artista, perché privo della capacità di trasmettere la profondità, la bellezza e la raffinatezza delle quali l'arte vive.

Aveva tentato di concentrarsi sulla ricerca della bellezza ed era caduto, poi aveva ricercato l'estro e aveva nuovamente fallito. Si sentiva un vagabondo senza meta da quando aveva preso l'amara decisione di lasciare perdere il suo sogno e di trovarne uno meno complicato da seguire, più adatto alla sua mancanza di valore.


Si era sentito così distrutto dopo la rivelazione delle menzogne di Madarame da non essere stato più in grado di capire se il suo talento fosse reale o no.

Negli ultimi giorni però aveva capito che dubitare di se stesso non l'avrebbe aiutato nella sua ricerca di una strada, qualunque essa fosse stata.

Essere parte dei Phantom Thieves gli aveva fatto comprendere quanto la mente umana potesse essere profonda e quanto fosse importante dar voce ai propri sogni e viverli. Non reprimerli e chiuderli in una scatola di bugie e di scuse.


Forse avrebbe dovuto ricominciare a dipingere pensando solo al suo istinto, al suo sogno e alle emozioni che stava provando in quei giorni. Seguire il proprio cuore era la scelta giusta e chi meglio di lui poteva saperlo. Aveva bisogno di una meta, non poteva lasciare che il suo desiderio si perdesse nel suo cuore. 

Avrebbe smesso di vagabondare per dar voce al mare di sensazioni che aveva dentro, senza cercare di razionalizzarlo o di analizzarlo. Solo così avrebbe avuto davvero modo di dimostrare il suo talento.

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Fandom: Persona 5

Personaggi: Goro Akechi

Genere: introspettivo

Prompt: Homo Faber fortunae suae 

Flashfic

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Homo faber fortunae suae

 

L'uomo è l'artefice della sua fortuna

 

 


Akechi non aveva mai accettato il fatto che il padre avesse abbandonato lui e la madre come fossero spazzatura, che si fosse limitato a ignorare le richieste di aiuto da parte della donna che aveva tentato di crescerlo e che non avesse mai voluto incontrare il figlio.

Non l'avrebbe mai perdonato, né si sarebbe mai arreso al suo destino. Lui non era che il figlio di una prostituta che si era limitata a riempirgli lo stomaco di cibo e a cacciarlo di casa quando incontrava i suoi clienti. Non era stata in grado di gestire la sua vita e che alla fine si era suicidata dopo aver reso l'esistenza di suo figlio un inferno di vergogna, che l'aveva portato solo a cercare di nascondersi, di annullarsi e di confondersi nella massa di persone che abitavano la città e il quartiere a luci rosse. Non c'erano tanti bambini nel suo palazzo, perché in genere le donne come sua madre riuscivano a rimboccarsi le maniche e a trovare un lavoro più adatto a una madre. La sua no, lei era una debole e aveva ceduto all'alcool, alla droga e infine anche alla morte.

L'uomo è l'artefice della sua fortuna.

L'aveva sentito dire a Masayoshi Shido: suo padre in una conferenza che aveva rilasciato in televisione. Akechi ci aveva ragionato e aveva reso suo quel pensiero, sembrava raccontare la sua vita e il suo scopo. Aveva deciso che avrebbe iniziato a credere nelle sue possibilità, non si sarebbe più nascosto, avrebbe dimostrato a tutti che sotto quei modi gentili e dimessi c'era un leone pronto a ruggire e a prendersi il suo posto nel mondo, anche se pareva che fino a quel momento il mondo fosse contento di averlo potuto ignorare. Non avevano mai avuto aiuti, solo la borsa di studio per la scuola che alla fine si era presa cura di lui, dopo che la madre aveva deciso di morire, lavandosi anche lei le mani di lui e condannandolo a un'esistenza di solitudine, ma ricca di possibilità, perché finalmente Akechi era libero. È un bambino intelligente, fatto per essere un leader, avevano detto le sue insegnanti a scuola. Nonostante fosse solo e a volte la disperazione prendesse il sopravvento sulla sua determinazione Akechi avrebbe infine trionfato.

Avrebbe preso ciò che era suo di diritto, non gli importava come. Chiunque si fosse trovato al suo cospetto avrebbe dovuto riconoscere il suo valore di detective e la sua intelligenza superiore, perché lui non si sarebbe fermato di fronte a nessun ostacolo. Sarebbe arrivato a suo padre e lui l'avrebbe riconosciuto, si sarebbe scusato per aver permesso che la sua infanzia fosse così miserabile e, alla fine, avrebbe capito quanto avesse perso quando aveva deciso di abbandonarlo. Perché Akechi era speciale, era unico, ed era l'artefice del proprio meraviglioso destino.

A volte sognava la voce sicura del padre rotta dalle lacrime, immaginava la sorpresa e la gioia da parte sua nello scoprire che fino a quel momento era stato guidato nelle scelte proprio dal figlio che aveva abbandonato, che invece aveva scelto di stare al suo fianco nonostante fosse in grado di fare molto da solo. Non aveva bisogno di lui, ma era necessario che Shido si rendesse conto di chi aveva di fronte: un uomo che si era fatto da solo, a partire da sotto zero.

 

Fandom: Persona 5

Personaggi: Futaba Sakura

Genere: introspettivo

Prompt: Nosce te ipsum

Flashfic

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Nosce te ipsum

conosci te stesso


Futaba non era mai stata in grado di comprendere bene i sentimenti e le intenzioni di chi le stava intorno. Non le era mai riuscito naturale come invece pareva essere per Ann, nei confronti della quale aveva provato ammirazione fin da quando l'aveva conosciuta.

Il suo percorso di comprensione del mondo la stava portando ad analizzare la socialità degli esseri umani come lei non facesse parte della stessa umanità, si sentiva un pesce fuor d'acqua, una strana creatura aliena costretta a vivere secondo le regole della società quando tutto le appariva fin troppo complicato.

Non era uscita di casa quasi per niente, se non per andare da Sojiro qualche rara volta per poi scappare a nascondersi appena un singolo cliente entrava dalla porta.

Era molto più semplice per lei comprendere il codice informatico, che non mentiva e non ammetteva interpretazioni. Non correva il rischio di sbagliare quando scriveva un codice, né quando trovava l'accesso a siti protetti cercando tra le righe pulite un punto debole.


Magari le altre persone fossero state così, se solo fosse stato sufficiente conoscere il linguaggio per comprenderle. Purtroppo però non era così e in fondo Futaba cominciava a lasciarsi sedurre dal fascino dell'umanità in Ann, come soprattutto in Ren.


Ren. Grazie a lui avrebbe imparato a conoscere il mondo, sotto la sua guida gentile avrebbe compreso un po' meglio se stessa e quello strano calore che sentiva dentro quando lui le era vicina. Che fosse amore? 

Futaba arrossiva quando la domanda le passava per la mente, ma anche lo fosse stato non era ancora pronta ad affrontarlo: la sua strada per conoscere se stessa era ancora lunga e l'unica certezza che aveva era che lui, in ogni caso, le sarebbe stato accanto in quel viaggio avventuroso tra le insidie che la sua stessa mente creava per farla rallentare. 

Alla fine avrebbe trionfato, sarebbe stata in grado di vivere nel mondo e di essere orgogliosa di se stessa, senza paura, senza scappare.

 

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