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Fandom: Persona 3
Personaggi: Shinjiro, Kotone Shiomi, S.E.E.S.
Incipit: Entrò nella stanza chiedendosi perché lo stesse facendo.
Partecipa al COWT 14
One shot, what if?


La guarigione di un fiore appassito

Entrò nella stanza chiedendosi perché lo stesse facendo. Shinjiro la richiuse dietro di sé tenendo gli occhi chiusi. Prese fiato prima di guardarsi intorno e nel farlo sentì il suo profumo.
Che profumo? Si chiese, ma non sapeva distinguere i fiori e le essenze che lo componevano. Conoscendo Kotone, era probabile fosse un bagnoschiuma che aveva preso al supermercato. A lui ricordava la primavera, gli alberi fioriti e il calore tiepido del sole sulla pelle.
Quante volte si era domandato perché lei avesse insistito nell’approfondire il loro rapporto, quando lui aveva usato tutte le sue forze per tenerla a distanza, lei e tutti gli altri.

Il coma nel quale era caduto per lui non era stato che un sogno, neppure tanto lungo a dirla tutta. Si era svegliato e lei era seduta di fronte al letto, leggeva a voce alta un libro che lui non conosceva, era seduta rivolta alla finestra, la testa appoggiata a uno dei braccioli della poltrona, una gamba ciondolava sull’altro. “Cosa leggi?” Le aveva chiesto.
Quando i loro occhi si erano incontrati, Shinjiro l’aveva vista stanca come mai prima di allora.
Era rimasta a bocca aperta per qualche istante, prima di cominciare a parlare. “Pensavo che non ci saremmo mai più visti in questa vita.” Il suo sorriso così sincero l’aveva spinto a tentare di andarle incontro, ma il suo corpo non aveva risposto come avrebbe dovuto: il braccio aveva scostato il lenzuolo a fatica, il resto del suo corpo era rimasto immobile. Si era lasciato sfuggire un sibilo di dolore e frustrazione.
“No, stai fermo, arrivo!” Aveva urlato Kotone, alzandosi di scatto e rischiando di cadere dalla poltroncina scomoda dell’ospedale.
Gli si era avvicinata a braccia aperte, Shinjiro ricordava ancora il suo abbraccio caldo, la delicatezza delle sue mani mentre sistemavano il lenzuolo, gli accarezzavano il viso.
Si chiese perché fosse ancora lì, di fronte a lei. Proprio quando si era convinto di avere accettato la morte, si era ritrovato a sperare di potere vivere.
Con fatica, Shinjiro alzò le mani e le posò sul viso di Kotone, che non si oppose, neanche quando il suo viso si avvicinò di più, neanche quando portò le sue labbra alle sue fino a baciarla.


Shinjiro strinse i pugni. Un tempo si sarebbe abbandonato alla rabbia, ma era cambiato da quando l’aveva vista morire: Kotone si era addormentata tra le sue braccia e non si era più svegliata. Le aveva promesso che avrebbe continuato a vivere, che le avrebbe raccontato ciò che avrebbe visto una volta dall’altra parte, perché ormai lui era certo che ci fosse un’altra parte, oltre alla vita. Non poteva credere che tutto smettesse semplicemente di esistere.

Aprì gli occhi e si lasciò inondare di ricordi: il computer sulla scrivania, le sue cuffie, i libri e la matita gialla con cui una volta gli aveva scritto un biglietto. “Stasera usciamo, non andare in giro, aspettami! Kotone.” Lui l’aveva gettato nella spazzatura, che sciocco.
Il suo zaino posato sulla sedia, la giacca invernale appesa al gancio.
Shinjiro aprì l’armadio e prese la sciarpa rossa che spesso indossava. La strinse tra le mani e si distese sul letto, pianse fino a dormire.

Quando si svegliò, fuori era buio. Shinjiro si alzò e si mise in ascolto: poteva sentire in lontananza le voci di Junpei e di Akihiko. Non avrebbe potuto evitare di vederli. Prese la matita gialla e la ripose nella tasca della giacca, mise al collo la sciarpa e uscì dalla stanza.

Scese le scale cercando di fare rumore per annunciare la sua presenza. Non voleva che qualcuno si spaventasse nel trovarselo di fronte come era già successo in passato.
“Shinji-” Mitsuru fu la prima ad avvicinarsi. “Come stai? Sono passati… giorni.”
Lui annuì. “Sono passato a prendere… un ricordo.” Indicò la sciarpa.
“Hai fatto bene a tornare.” Akihiko si avvicinò lentamente, come si fa con le creature selvagge quando non si vuole che scappino. “Resti con noi per cena? Stiamo preparando un… non so cosa in effetti, ma ce n’è anche per te.”
Desiderava andare via, continuare ad aggrapparsi al suo lutto e al dolore che provava in ogni istante, ma annuì e si lasciò guidare al tavolo dai suoi amici. “Grazie dell’invito.”
“Dove stai dormendo?” Mitsuru era sempre stata diretta.
“Ho dormito così tanto che ultimamente non ho molto sonno.” Tentò di scherzare, ridacchiando in modo forzato.
“Dormi qui, allora.”
Di nuovo, Shinjiro si ritrovò ad annuire.
Era certo che Akihiko desiderasse fargli un centinaio di domande, lo osservava mentre preparava la tavola. Sembrava nervoso, preoccupato, ma felice di vederlo.
Shinjiro si schiarì la voce: “Chi avrebbe mai immaginato che sarei arrivato vivo oltre il vostro diploma? Eppure eccomi qui!”
“Stai prendendo qualcosa?” Akihiko aveva un tono serio.
“No, da quando mi sono svegliato non ho preso i soppressori, né altro. Devo ammettere che mi sento un po’ meglio da quando è tutto finito.”
“Bene,” Mitsuru sorrise e alzò lo sguardo con prudenza prima di continuare. “Domani chiamo qualcuno, vorrei fare dei controlli con un medico per capire se è possibile aiutarti, se vuoi.”
“Mmh- ti ringrazio. Non ti prometto che mi farò di nuovo trattare come un esperimento da laboratorio, ma apprezzo per la proposta.” Shinjiro avrebbe voluto rispondere che non gli interessava della sua vita, che non se ne sarebbe fatto niente di sapere se sarebbe vissuto oppure no, ma doveva la sua vita a Kotone e l’avrebbe rispettata, avrebbe fatto del suo meglio per togliersi di dosso quel senso di colpa che si stava portando dietro da ormai troppo tempo. “Farò del mio meglio.”

Le cose non stavano andando così male. Shinjiro aveva iniziato la sua riabilitazione nell'ospedale dove era stato ricoverato durante il coma, inoltre aveva accettato l'aiuto di Mitsuru. Gli avevano fatto una quantità enorme di esami, aveva dovuto seguire diverse terapie per sopportare il dolore e per tentare di far regredire i suoi sintomi.
Dopo sei mesi, finalmente Shinjiro poteva dire di stare abbastanza bene. L'Ora Buia non esisteva più ormai, e la vecchia vita dei S.E.E.S. era rimasta nel passato.
I medici gli avevano spiegato che la sua condizione era migliorata proprio in virtù di questo mutamento nella realtà, che si era ripercosso anche nella sua condizione fisica.

Il telefono iniziò a vibrare e Shinjiro lesse il nome di Mitsuru, si sentivano spesso, ma in genere lei non lo chiamava. "Pronto, come va?"
"Ciao, direi che va bene! Ho sentito le buone notizie, pare che resterai con noi ancora un po' di tempo."
"Pare di sì, la terapia sembra funzionare, anche il dolore è diminuito parecchio."
"Io ti ho chiamato perché, lo sai: dobbiamo liberare la stanza. Io non vorrei, ma... Volevo chiederti se vuoi farlo tu, se desideri tenere qualcosa." Se lo aspettava. Immaginò quando la sua amica avesse aspettato prima di chiamarlo.
"Ci vediamo stasera."

Entrò per l’ultima volta nella stanza di Kotone sperando di ritrovare ancora il suo profumo nell'aria, che la sua presenza fosse ancora tangibile negli oggetti della stanza. Era passato troppo tempo, però, infatti il profumo era svanito. La stanza odorava di polvere, infatti il ragazzo aprì la finestra. Iniziò a riempire lo scatolone coi suoi libri, scorrendone le pagine in cerca di un appunto, di una frase. Aprì il cassetto della scrivania e cominciò a riporre gli oggetti. Si sentiva quasi in colpa per la sua intrusione, frugare tra le sue cose era sbagliato, ma lei non c'era più e non sarebbe tornata a sgridarlo.
Dentro il cassetto più piccolo c’era un contenitore con il simbolo dei S.E.E.S. disegnato a mano. Shinjiro lo aprì, rivelando delle lettere indirizzate a ciascuno di loro.
Prese la sua e si lasciò cadere a sedere sul letto. Le sue mani tremavano mentre strappava la busta.

Caro Shinjiro,
in questo momento stai dormendo. So che dormirai ancora a lungo, ma sono certa che un giorno ti sveglierai e forse chiederai di me. Io però in questi giorni mi sento molto stanca. Non sono certa che ci rivedremo. Sembra che gli altri si stiano dimenticando di ciò che è successo, temo che anche la mia memoria presto svanirà dalla loro mente e io, l'ora buia e il motivo per cui tu sei in coma diventeranno una domanda alla quale non saranno in grado di rispondere. Forse è meglio così. Nel cuore, spero che anche tu mi dimenticherai e vivrai nella serenità fino alla vecchiaia. La lettera è per me. Sono io che voglio dirti addio, vorrei che tu sapessi che senza il tuo pensiero, forse io sarei già svanita dai ricordi e dal mondo.
Strano il destino, vero? Né io, né tu abbiamo chiesto di avere un ruolo nella storia del mondo, invece eccomi qui a chiedermi perché proprio io.
Però sono contenta, sai? Perché anche se voi non saprete chi sono, io potrò portarvi tutti nel mio cuore. Saprò che ho contribuito a permettere agli altri e spero anche a te di vivere.
Mi mancherai, Shinjiro.
Tua, Kotone.


Shinjiro finì di riporre i suoi oggetti nelle scatole e uscì dalla stanza. “Ciao, Kotone.”
Chiuse la porta con un sorriso, e scese le scale. Non l’avrebbe mai dimenticata, ma proprio come lei stessa gli aveva chiesto di fare, non si sarebbe più fermato a rimpiangerla.
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 Fandom: Persona 3

Personaggi: Yukari Takeba, Mitsuru Kirijo, SEES

Prompt: ideali a cui aspirare

One Shot

Partecipa al COWT10

 

 

Ideali a cui aspirare

 

 

Yukari si era sempre considerata una ragazza ottimista.

Per quanto le cose nella sua vita non fossero andate sempre come aveva sperato, aveva cercato di superare i problemi con il sorriso.

Ricordava ancora di quando aveva ricevuto la notizia della morte di suo padre. Le sue lacrime, la rabbia al pensiero che non gli avrebbe mai parlato, ma soprattutto un senso di tristezza perché non era certa che lui sapesse quanto era stato importante per lei e quanto lei gli volesse bene. L’aveva sempre visto come un uomo difficile da fare ridere, duro e severo, ma dopo la sua morte si era resa conto di non averlo conosciuto come gli altri.

Era serio nel lavoro, questo era risaputo da tutti, ma pareva sempre troppo triste. Come se ciò che faceva non gli piacesse.

Qualche volta Yukari glielo aveva chiesto. Ma tu sei contento del tuo lavoro, papà?

Gli chiedeva. 

Sono uno scienziato, faccio cose segrete che a volte non mi piacciono, ma il mio lavoro mi piace.

E cosa fai adesso, papà, gli chiedeva, lui allora le spettinava i capelli fingendo di non aver sentito la domanda.

La risposta era arrivata a Yukari solo molto tempo dopo. 

Aveva sempre rispettato Mitsuru. L’aveva considerata un’amica anche perché all’inizio era l’unica ragazza su cui potesse fare affidamento nei SEES, ma soprattutto per i suoi numerosi pregi: era seria e sempre affidabile e le era sempre sembrata molto più matura rispetto a tutti loro.

Le pareva impossibile che avessero soltanto un anno di differenza.

Mitsuru era anche dotata di un’intelligenza per la quale Yukari avrebbe venduto l’anima. Più volte la ragazza si era chiesta come facesse a far quadrare i combattimenti, il lavoro nel consiglio studentesco e i suoi voti sempre al massimo, soprattutto visto che Yukari sapeva quanto si impegnasse anche alla guida dei SEES. Lo sguardo di Mitsuru però era sempre stato estremamente triste. Era come se sapesse qualcosa che tutti loro ignoravano, o se avesse capito che il loro compito era quasi impossibile da portare a termine con successo. 

Yukari si vergognava al ricordo della prima volta che aveva avuto la possibilità di usare l’evoker. 

Mitsuru e Akihiko erano andati con lei nel Tartarus, domandandole se lei fosse pronta almeno cento volte. 

Tutti loro sapevano che combattere era necessario per la sopravvivenza della città. Il continuo aumento dei casi di sindrome dell’apatia rendeva la loro attività di combattimento vitale perché nel mondo reale continuassero a vivere normalmente.

Yukari però nonostante si fosse sentita pronta ed elettrizzata all’idea di essere finalmente in prima linea nel combattimento, aveva deluso i suoi amici. Era rimasta ferma a fissare la canna della pistola. Tremante e inutile, incapace di fare la sua parte anche quando Akihiko era stato ferito dall’ombra contro la quale stava combattendo da solo, ed era soltanto colpa di Yukari.

 

Nessuno l’aveva incolpata dell’accaduto. Non apertamente almeno, ma lei sapeva bene che Mitsuru era delusa dal suo comportamento immaturo e inadeguato. E di fronte al suo fallimento Yukari non aveva fatto niente di buono. Aveva semplicemente passato la notte a piangere, rinnegando il passato e sperando che i due le avrebbero permesso di riprovarci. Solo che non c’era nessuno che desiderasse combattere con lei, e come poteva biasimarli? Era inutile sotto pressione, debole e stupida. Continuava a chiedere se la natura, il mondo o qualunque cosa le avesse dato il potere di invocare la sua Persona non si fosse sbagliato con lei. Non sarebbe mai stata un’eroina in grado di salvare il mondo.

Avrebbe continuato a osservare Mitsuru, però, sperando ogni giorno di diventare più simile a lei. 

Sull’intelligenza non c’era nulla che potesse fare, ma tutto sommato non era quello il suo punto più debole. Semmai era il coraggio a mancarle. Al pensiero di Akihiko che combatteva anche per lei, senza mollare neanche per un istante, le erano tornate le lacrime agli occhi. Si era chiesta quanto fosse potuta sembrare una stupida con la pistola tra le mani, incapace di utilizzare l’evoker  e piangente come una bambina. Era certa che quando Akihiko era stato colpito il suo primo pensiero fosse andato a quanto lei fosse stata inutile in quel combattimento. Perché non c’era alcuna giustificazione al suo comportamento, per quanto si sforzasse Yukari non riusciva a trovarla. 

Li aveva delusi e soprattutto aveva deluso se stessa.

La sua determinazione sembrava dissolta nell’aria e Yukari non faceva che piangere da sola nella sua stanza. Combattuta tra il desiderio di vedere Mitsuru e di dirle che ce l’avrebbe fatta, che desiderava un’altra possibilità e la paura che la ragazza le avrebbe semplicemente chiesto di tornare da dov’era arrivata. Di andarsene dal dormitorio in quanto persona non più desiderata. Lei avrebbe fatto questo. Lei non si sarebbe mai perdonata.

E se invece avesse fallito di nuovo? E se con la sua inettitudine avesse causato danni più gravi della ferita di Akihiko? Come avrebbe convissuto con se stessa se avesse causato la morte di qualcuno?

 

Eppure a pensarci aveva i suoi punti di forza. Quando tirava con l’arco per esempio si sentiva come se nulla potesse fermarla. Lì al club era considerata la migliore e si rendeva conto di essere capace di far scomparire il resto del mondo concentrandosi solo e unicamente sul bersaglio, sul suo respiro e sulle braccia tese che sentiva un tutt’uno con l’arco. Perché non riusciva ad avere la stessa determinazione anche quando si trovava a dover utilizzare l’evoker?

Il fatto che a scuola fosse considerata una delle ragazze più popolari poi la faceva sentire speciale in qualche modo. Sapeva di non essere anche in quel senso ai livelli di Mitsuru, ma i suoi compagni di scuola la rispettavano e consideravano forse più di quel che valeva.

 

Quando era andato a stare al dormitorio il ragazzo nuovo però si era sentita diversa. Prima di tutto perché non era più l’ultima arrivata e poi perché lui coi suoi modi tranquilli e pacati l’aveva fatta sentire un po’ sciocca con tutte le sue paure.

Yukari da piccola aveva pensato di morire, forse era per questo che non riusciva a esorcizzare la morte premendo il grilletto, i suoi pensieri tornavano sempre alla perdita di suo padre e alla sua tristezza quando gli aveva detto addio l’ultima volta.

Il combattimento di Minato con l’ombra l’aveva fatta sentire ancora meno utile di quanto lo era stata fino a quel momento.

Il ragazzo nuovo aveva capito subito cosa doveva fare e senza paura aveva combattuto con successo contro le due ombre che li avevano attaccati. E lei invece? Lei era rimasta a terra come una stupida a farsi salvare.

 

Avrebbe imparato da quella esperienza, più di quanto era riuscita a fare dai combattimenti precedenti. 

Quella notte Yukari aveva giurato a se stessa che nulla l’avrebbe fermata, non più.

Poteva anche morire, era vero, ma non sarebbe stato l’evoker a ucciderla, semmai la sua completa mancanza di coraggio avrebbe messo in pericolo lei e i suoi amici, e questo non poteva permetterlo.

Avrebbe combattuto prima di tutto per tutte le persone che amava, per fare in modo che fossero protette dalla sindrome dell’apatia che pareva prendere di mira sempre più ragazzi anche della loro scuola, avrebbe combattuto per dimostrare a se stessa che faceva bene a credere in se stessa, perché aveva un valore unico e nessuno degli altri poteva invocare la sua Persona, che era sua e unicamente sua.

Avrebbe combattuto per dimostrare a Mitsuru che meritava la sua fiducia, che la pazienza che le aveva dimostrato avrebbe ripagato, e l’avrebbe fatto anche per Akihiko, per proteggerlo in futuro e per curarlo se ne avesse avuto bisogno.

Sarebbe stata utile al gruppo dei SEES per Minato, perché fin da subito aveva capito quanto quel ragazzo fosse speciale, quanto fosse portato al combattimento e sapeva che li avrebbe guidati attraverso un percorso che li avrebbe infine portati alla vittoria sulle Ombre, alla fine del Tartarus.

E sarebbe stata forte per suo padre che le aveva sempre detto di credere in se stessa quando era piccola, che non sarebbe mai tornato indietro, ma che un giorno era sicura che avrebbe rincontrato, e allora lui sarebbe stato fiero della sua Yukari e del coraggio, della determinazione che aveva dimostrato.

Non mirava a diventare la migliore, ma desiderava combattere, alla fine si era resa conto che la sua paura era scomparsa, sostituita da un’iniezione di coraggio che l’aveva fatta sentire in grado di cambiare le cose una volta per tutte.

 

 

 

Erano passati ormai mesi da quando per la prima volta aveva premuto il grilletto dell’evoker per invocare la sua Persona. 

Solo poche ore prima Mitsuru le aveva rivelato il grande segreto che aveva tenuto fino a quel momento. Yukari si sentiva delusa, perché prima di allora l’aveva sempre considerata quanto di più vicino avesse a un’amica e sentiva di aver perso una parte di se stessa e del suo passato con quella notizia. 

Suo padre era morto a causa della Kirijo group. Suo padre lavorava per il nonno di Mitsuru.

Yukari si era sentita una stupida per non avere mai chiesto alla madre o ai suoi nonni qualcosa in più sulla morte del padre, in fin dei conti non era un segreto per nessuno per chi stesse lavorando quando era morto, solo che lei aveva sempre evitato i dettagli, sempre per quella sua paura di affrontare la realtà che aveva sempre avuto, sin da piccola. Si chiedeva come Mitsuru l’avesse guardata in faccia fino a quel giorno, come avesse potuto rimproverarla e trattarla da ragazzina immatura quando sapeva che in realtà lei era in parte il motivo per cui si sentiva così sola, senza radici, senza una guida.

 

Quella notte la ragazza si era addormentata esausta, con le lacrime agli occhi e i pensieri che le vorticavano in testa. Ma la mattina appena sveglia aveva iniziato a vedere la situazione con un po’ di chiarezza in più: suo padre non era certo una vittima innocente di quell’esplosione perché ci aveva lavorato. Sapeva bene cosa fossero le Ombre e non si era fatto scrupoli a cercare di sfruttarle assieme ai Kirijo, anche lui in cerca di gloria, di fortuna, di un riconoscimento da parte del mondo scientifico nel quale sperava di diventare una figura di spicco, un giorno.

Mitsuru invece a essere sinceri non poteva avere colpa in quella situazione. Stava cercando di rimediare in prima persona, combattendo e prendendo sulle spalle gli errori che l’azienda della sua famiglia aveva commesso.
Mitsuru stava soltanto cercando di riparare ai loro errori mettendoci tutto l’impegno che poteva. Non era certo difficile capire perché se ne vergognasse. Si sentiva in colpa per loro e per tutte le morti che avevano causato. Si incolpava per ogni singola persona che cadesse nella sindrome dell’Apatia, ma lei non c’entrava per nulla. Yukari aveva sempre visto nello sguardo dell’amica una vena di tristezza e di preoccupazione costante e aveva sempre pensato che fosse a causa del suo senso di responsabilità, non aveva mai pensato che avrebbe potuto sentirsi complice della causa dell’apparizione del Tartarus.

Mitsuru era solo una bambina quando c’era stata l’esplosione e nonostante tutto aveva da subito cercato di fare la sua parte per risolvere il problema causato dalla sua famiglia.
Aveva utilizzato l’evoker per la prima volta quando era ancora una bambina, come poteva incolparsi? Era semmai una vittima di quella situazione, esattamente come lei.

 

Yukari nonostante in fondo avesse sempre saputo che Mitsuru non c’entrava niente non aveva esitato a incolparla per la morte di suo padre, a farle pesare il suo silenzio che probabilmente già pesava come un macigno sulla sua testa ogni volta che le parlava. Non era stata una buona amica per lei, non certo migliore di Mitsuru, che invece aveva fatto il possibile perché fosse sempre a suo agio nonostante il suo carattere penosamente pavido.

Yukari era stata una palla al piede per il gruppo all’inizio e la sua amica l’aveva difesa e protetta sempre, nonostante tutto.

 

Era il momento di ricambiare. Sarebbe andata da lei e avrebbe detto a Mitsuru che doveva smetterla di prendersi le colpe della sua famiglia, che lei era coraggiosa, forte , determinata e intelligente, ma soprattutto era stata per lei una vera amica. 

 

Yukari avrebbe preso in mano la situazione per una volta, dimostrando una maturità che non sapeva di avere e che avrebbe fatto su. Avrebbe desiderato conoscere prima la verità, ma non era certa di come l’avrebbe presa, perché era molto meno emotivamente stabile di quanto volesse dare a credere. Forse se l’avesse saputo qualche mese prima se ne sarebbe andata da lì sbattendo la porta, per poi rendersi conto del suo errore e non essere in grado di ritornare a causa del suo onore, o meglio, della sua immaturità che non le permetteva di riconoscere i suoi errori. Non aveva neppure bisogno di perdonare Mitsuru, perché non c’era niente da perdonare. 

Finalmente Yukari poteva dire di essere diventata, forse, una persona migliore. Alla fine poteva essere fiera di se stessa e delle sue decisioni.

 

 

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