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fandom: originale
partecipa al COWT 14
prompt: la porta tra i mondi
One shot


La chiave per Eltra

Aveva trovato la chiave in soffitta, ma Alessia non aveva idea di cosa aprisse. Non ne aveva mai vista una simile: era in un metallo scuro, quasi nero, ed era incurvata al punto che la ragazza si chiese se sarebbe mai potuta entrare davvero in una serratura. Sua nonna l’aveva mandata in soffitta proprio a cercare una chiave e, stando alla descrizione che le aveva dato, poteva essere quella giusta.

La casa della nonna era sempre stata piena di misteri: stanze chiuse a chiave, rumori inspiegabili e passi che finivano nel nulla. Investigava spesso, con la sua lente di ingrandimento e il suo cappello, ma non era mai riuscita a trovare la fonte di quelle stranezze. Di fronte alle sue domande più volte, con occhi vivaci, la nonna le aveva detto che loro due si somigliavano come gocce d’acqua e che prima o poi avrebbe avuto le sue risposte. “Noi siamo diverse dai tuoi genitori e da tuo fratello, vedrai: un giorno vivrai delle splendide avventure!”

Le chiedeva sempre quando le avrebbero vissute, da piccola era sempre a cercare nuove sfide, a esplorare ogni luogo che visitavano. “Un giorno ci andrai, te lo prometto.”

Con l’andare degli anni la ragazza aveva iniziato a passare in quella casa sempre meno tempo e si era dimenticata di quei discorsi che da piccola la affascinavano e catturavano i suoi sogni.

In quel periodo Alessia passava molto tempo lì, perché sua nonna Erminia si era rotta il femore e lei stessa si era offerta di prendersi cura di lei nel corso di quell’estate. Prese la chiave e la portò con sé. 

“Ci beviamo un tè?” Propose all’anziana donna una volta arrivata nella stanza.

“Sì, ma vorrei berlo in soggiorno, se non ti dispiace.”

La nipote annuì, prese la sedia a rotelle e aiutò Erminia a salirci sopra con movimenti calcolati e sicuri. La mise dentro l’ascensore che avevano fatto costruire per il nonno qualche anno prima e insieme scesero al piano terra. 

Il salone era arredato con mobili in legno scuro, tipici degli anni in cui erano stati acquistati. Una della parete era cosparsa di specchi con larghe cornici di legno intarsiate che da piccola avevano sempre affascinato Alessia. Era lì che giocava alla scuola di ballo e recitava fingendosi una famosa attrice.

Andò in cucina a preparare il tè e sistemò le tazze sul vistoso vassoio di argento antico che da sempre utilizzavano per servire bevande calde. 

Lo sistemò sul tavolino dove la nonna la aspettava, sembrava seria.

“Oh, tieni la chiave!” Annunciò Alessia, porgendogliela.

L’anziana donna prese invece la tazza calda con entrambe le mani. “Quella è tua ora. Dovrai usarla con molta attenzione e donarla a chi tu riterrai tuo successore nel custodirla.” 

Alessia piegò la testa di lato, forse la nonna aveva qualche piccolo problema di demenza. “Perché? Che chiave è?”

“Quella è la chiave della porta tra due mondi. Unisce il nostro a un mondo che presto conoscerai.” Sorrideva, negli occhi un’espressione vivace e nostalgica. “La città dove arriverai si chiama Eltra, in realtà è più un piccolo villaggio, ma la porta è ben custodita, vedrai. Potrai dire ai custodi il mio nome e loro ti accoglieranno. Ho vissuto splendide avventure nei dintorni di Eltra. Usa la catena per mettere la chiave intorno al collo e quando aprirai la porta la vedrai scomparire. Appena tornerai alla porta dall’altra parte essa riapparirà e potrai tornare a casa.”

La ragazza rise, nervosa. “Mi stai prendendo in giro, nonna?!

Erminia però alzò le spalle. “Anch’io ho reagito così quando l’ho ricevuta. Ho dovuto vedere. Alzati.”

Alessia pensò che assecondandola non sarebbe accaduto nulla di male, quindi seguì l’ordine.

“Metti al collo la chiave e vai verso lo specchio.” La ragazza continuò a obbedire, “Ora prendi in mano la chiave e chiedi di entrare.”

“Cosa devo fare? Dire io chiedo alla chiave di aprire la porta per Eltra e di farmi entrare?” Appena finì di pronunciare quelle parole, sentì un rumore simile a quello del vento tra i rami di un albero. Rimase a bocca aperta mentre lo specchio si apriva per rivelare una porta. 

“Bastava dire io chiedo di entrare. Per tornare basta chiedere di tornare.” La ragazza toccò la porta appena rivelatasi sotto i suoi occhi, poi tornò a rivolgere la sua attenzione alla nonna. 

“M- Ma allora è vero?”

“Ma certo che è vero. Non ti racconterei storie. Ora vai, fai il tuo primo giro. Puoi dire che li saluto, ma che dovranno venire loro a salutarmi, io non posso più viaggiare.”

“È un viaggio pericoloso?”

“No. Potresti vivere qualche avventura, ma non preoccuparti. Mi racconterai quando tornerai a casa. Ti aspetto qui.”

Alessia estrasse la chiave.“Hai mantenuto la tua promessa. Grazie.” Varcò la porta e svanì nel nulla, pronta alla prima delle sue avventure ad Eltra.


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Fandom: Persona 5
Personaggi: Chihaya Mifune
Prompt: chiaroveggente, prima persona
Partecipa al COWT 14
One shot
La verità

In molti tra i clienti ai quali predico il futuro mi ripetono continuamente quanto io sia fortunata a vedere il mio destino e quello delle persone intorno a me. Magari fosse così semplice… All’inizio non lo è stato perché venivo evitata, è successo sin da quando ero una ragazzina, quando mi davano della strega e mi tenevano a distanza per paura che predicessi disgrazie. Come se fosse cambiato qualcosa. Nella mia città natale non riuscivano neppure a comprendere la differenza tra premonizione e capacità di alterare il destino. Il risultato è stato che ho imparato a tenermi dentro le risposte, anche se a volte proprio non ci riesco.


Il caso del giovane Ren mi sta mandando in crisi, perché il suo futuro è incerto e da quando lui è entrato nella mia vita anche il mio è diventato impossibile da decifrare. I tarocchi, che mi hanno sempre dato risposte, mi ignorano ogni volta che lui è parte delle mie domande. Quel ragazzo mi ha messa di fronte alle mie scelte discutibili e mi ha costretta a vedere ciò che ero diventata: una ciarlatana che avrebbe predetto qualunque sciocchezza in cambio di qualche soldo.

Quante volte nel passato ho maledetto il mio dono, pregando la natura di riprenderselo e di permettermi di vivere serenamente giorno dopo giorno, senza l’onere di dover portare nel mio cuore segreti, a volte difficili da tenere nascosti.

Qui a Tokyo non sono che una chiaroveggente di strada, per molti un momento di divertimento nel grigiore della vita di tutti i giorni.

Non so fare altro. Al mio arrivo nella capitale ho provato a ricominciare da zero, con persone nuove, lavorando in un ristorante e anche come commessa, ma sono sempre stata bollata come strana e infine licenziata. Bastavano poche parole dette senza troppo peso per fare sì che la mia fama di strega tornasse a colpirmi forte come un colpo di martello. Una maledizione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Ho ricominciato a sfruttare il mio dono di chiaroveggente per sopravvivere e perché è l’unica cosa che so fare. Mi ero sempre detta che lo faccio per dare speranza, almeno fino a quando quel ragazzino non mi ha messa di fronte alla realtà: ero diventata il circo di strada che odiavo.

Devo ritrovare me stessa e la mia integrità per tornare la Chihaya innocente e pura a cui il dono è stato regalato dalla dea Fortuna.

Ci sto provando. Questa sera spero che Ren venga a trovarmi. Sarò sincera con lui come non lo sono stata neppure con me stessa nell’ultimo periodo e gli dirò ciò che vedo: lui è parte del mio destino, così come io sono parte del suo.


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Fandom: Originale
Prompt: l'eco senza volto
Partecipa al COWT 14

L'eco, Lana e la grotta profonda


La grotta era profonda come il mare e buia come la notte.

Una miniera scavata nell’antichità dentro la montagna, un labirinto di cunicoli stretti e profondi.

Lana era entrata per sfuggire ai soldati che l’avevano rapita dopo avere saccheggiato il suo villaggio, ma iniziava a pensare che forse il suo destino non sarebbe stato migliore ora che era imprigionata lì sotto, incapace di trovare una via di fuga. 

L’avevano seguita, era arrivata a sentire il loro fiato sul collo mentre correva nella foresta, i piedi leggeri nonostante fosse stata legata per ore prima della fuga. 

Alzati in piedi e corri, è la tua unica speranza. 

Una voce dentro di lei le aveva ordinato di scattare lontano e lei l’aveva ascoltata, poi la stessa voce le aveva detto di girare verso il bosco. Chiunque l’avesse osservata saltare le radici degli alberi e correre sicura nella foresta fitta avrebbe giurato che lei conoscesse bene il bosco, invece era la prima volta che lo percorreva. Arrivata di fronte alla grotta aveva esitato, ripensando alle leggende sugli spiriti che abitavano i luoghi sperduti sotterranei, ma le voci alle sue spalle l’avevano convinta a continuare a correre. Non pensare, entra nella grotta: è l’unica via di uscita.

Così aveva varcato la soglia e aveva corso fino a quando non era rimasta senza fiato. Solo allora si era resa conto di non sapere dove fosse.

Quanti bivi aveva preso? Quanti cunicoli aveva attraversato? Non lo ricordava, non ne aveva idea.

Sospirò e sentì un’eco, un rumore provenire da poco lontano. Si nascose chiedendosi cosa fosse in agguato nell’oscurità. Non vedeva quasi niente, ma a pensarci anche la flebile luce che le permetteva di vedere attorno a lei così in profondità non era normale. Che fosse finita nella caverna di un essere magico? Si chiese.

Al pensiero di ciò che avrebbero potuto farle i soldati, pensò che non sarebbe stato poi male essere mangiata da un ragno gigante, da un orso o da un goblin. Avrebbe di certo sofferto meno che tra le mani di quegli uomini.

Rimase in silenzio, le orecchie tese in ascolto, ma non udì altri rumori. Forse era stata lei stessa a causare l’eco. Si chiese se attendere ancora, ma presto sarebbe stata notte e lei non aveva cibo né acqua non sarebbe sopravvissuta a lungo nelle profondità oscure della terra.

Si rialzò e iniziò a camminare in silenzio. I suoi piedi scalzi non facevano molto rumore, ma, abituati com’erano alle scarpe,  erano sanguinanti e dolenti dopo la lunga corsa tra gli ostacoli della natura.

Si fermò: non aveva senso muoversi alla cieca, rischiava di andare sempre più a fondo nella grotta., quindi si chiese quale fosse il modo più efficiente per muoversi verso l’uscita della grotta. Utilizzò il suo naso per trovare traccia degli odori del bosco, i suoi occhi, per osservare raggi di luce nella quasi totale oscurità della grotta e il tatto per scovare qualche segnale scavato in giro. Non sapeva cosa fare.

“Ora la voce mi farebbe comodo.” Osservò, ma non c’era alcun suono a guidarla.

La luce pareva permeare dalle rocce intorno a lei, era la stessa in ogni direzione guardasse, al punto che Lana si immaginò di essere morta e che quello fosse il suo viaggio nella ricerca del luogo in cui avrebbe riposato per l’eternità.

Ripensò a lungo ai suoi passi e infine decise di procedere verso la salita. Nulla lungo il suo cammino le era familiare. 

Si lasciò guidare dall’istinto, cercando di ricordare le strane rocce che incontrava e le caratteristiche delle diramazioni e delle grotte.

Ora sei vicina. Continua.

Di nuovo l’eco. Lo sentiva vicino. Non era certa di potersi fidare di quella voce, ma che scelta aveva? La seguì.

Di qua, Lana.

Sentirsi chiamare per nome la fece rabbrividire.

Non avere paura, mi prenderò cura di te.

Le ultime parole suonarono come una minaccia, ma non aveva scelta.

Scese lungo una ramificazione stretta e tortuosa, riusciva a vedere il riverbero di una luce, creato dai cristalli sul soffitto della grotta: uno spettacolo che non avrebbe mai potuto immaginare e che per un istante le permise di dimenticare la fatica, il sonno, la sete e la fame che provava. Più si avvicinava e più sentiva il cuore batterle con forza nel petto. Paura e speranza erano unite in lei, mescolate in un vortice. 


La luce verso la quale si stava dirigendo non era simile a quella del sole: era bianca e fredda, pareva artificiale. Il cunicolo si allargò in una stanza larga e alta, cosparsa di cristalli bianchi. Al centro c’era un grande tavolo con una caraffa colma d’acqua, un bicchiere e un piatto coperto.

Benvenuta, Lana.

Di spalle, dall’altro lato della stanza, c’era una sagoma femminile coperta da un mantello scuro e ampio, con un cappuccio sulla testa. La ragazza era quasi certa che non fosse umana. “Grazie per avermi guidata.”

Bevi, mangia. Devi riprendere le forze.

La voce non proveniva dalla figura, era un'eco che rimbombava per la stanza, senza fonte visibile.

Lana tremava di terrore. Si sedette e prese la caraffa cercando di non versare l’acqua sul tavolo. Riempì il bicchiere e ne bevve il contenuto, sentendosi subito meglio.

Temevi che volessi avvelenarti? Se desiderassi la tua morte ti avrei lasciata vagare per i cunicoli, proprio come stanno facendo i soldati che ti hanno catturata. Loro sentono ciò che voglio e stanno percorrendo vicoli ciechi. Lo faranno fino all’ultimo respiro.

Mangia, non fare complimenti.

Lana prese il piatto e tolse il coperchio: conteneva frutta fresca. La ragazza sentì lacrime di sollievo scorrerle lungo le guance mentre addentava la pesca matura, ringraziando l’eco per la sua benevolenza.

Svuotò il piatto lasciando solo i noccioli. “Ti ringrazio.”

La figura, fino a quel momento immobile, iniziò a camminare lungo la parete della grotta, sempre dandole le spalle. Se tu potessi esprimere un desiderio, quale sarebbe?

Lana sospirò. In quel momento desiderava solamente uscire. Una parte di lei bramava la vendetta, ma a quella stava già lavorando l’eco. “Non… non ho un desiderio.”

Certo che ce l’hai. La figura era ormai vicina.

Non devi dirmelo. Fai spazio nei tuoi pensieri, rilassati. Quando mi volterò, guardami e io saprò cosa donarti.

Lana respirava affannosamente. La donna a pochi metri da lei sembrava attendere il momento giusto.

Ti darò il tempo che ti serve per liberare la mente.

Chiuse gli occhi, cercò di regolare il suo respiro e di pensare alla sua vita, da sempre segnata dalla cattiva sorte. 

Un desiderio: avrebbe voluto ricominciare daccapo, da quando era una bambina innocente.

Se solo sua sorella fosse stata con lei, se sua madre fosse vissuta. Avrebbe tanto desiderato aiutare persone innocenti a non soffrire. 

Aprì gli occhi. Di fronte a lei c’era la figura, una sciarpa a coprirle il volto. Con la mano, la donna iniziò a svolgerla. Sotto non un viso, ma il vuoto: niente occhi, né bocca, né guance o fronte. Solo una luce scura, dolorosa, sempre più forte e diretta verso di lei. Lana non riusciva a smettere di guardarla. 

Si sentì leggera come aria, volò lontano da lì in un soffio dolce.

Nel suo viaggio incorporeo vide una donna e la sua sofferenza. Conobbe la sua storia. Sentì il potere del suo desiderio di vendetta, la forza della risoluzione nella sua mente: avrebbe passato il resto della sua esistenza difendendo gli innocenti; avrebbe sterminato gli assassini e i malviventi che le sarebbero capitati a tiro. Sarebbe rimasta nella grotta, usando il suo potere dare una possibilità agli innocenti, costringendo i colpevoli a pagare il prezzo per i desideri che avrebbbero espresso al suo cospetto. Teri la reietta avrebbe sacrificato la propria umanità per cambiare i destini tristi dei meritevoli in nome della sua vendetta eterna.


Lana era nel suo letto, solo una bambina. Al suo fianco dormiva la sua sorella minore e in cucina si poteva sentire la madre che finiva di sistemare le pentole cercando di fare meno rumore possibile.

Le sue memorie erano intatte: Lana sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco ed era pronta a fare in modo che loro non le trovassero. Sarebbero scappate subito e avrebbero raggiunto il Tempio, lì era certa che le avrebbero aiutate, perché la prima volta avevano dato asilo a lei senza fare domande.

Si alzò di scatto, conscia che quella era la notte in cui avrebbe cambiato il suo destino e quello della sua famiglia.

Ringraziò nel suo cuore la valorosa Teri, ora conosciuta come l’eco senza volto, per la seconda opportunità che le aveva offerto. Non l’avrebbe sprecata.


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Fandom: Murder, she wrote - La signora in giallo
Partecipa al COWT 14,
prompt: racconto in prima persona, chiaroveggente.
Destino segnato

Quando la fiera arrivò in città, mi sentii subito felice. Avevo sempre amato le ruote panoramiche dalle quali vedere dall’alto l’Oceano a Cabot Cove e per la prima volta contavo di andarci con un ragazzo.

Io: Jessica Fletcher, il topo da biblioteca, avevo un appuntamento.

Mi ero vestita in modo sobrio, ma elegante. Mia madre mi aveva costretta a comprare un abito a fiori che consideravo un po’ troppo appariscente, ma quando l’avevo indossato al negozio avevo da subito dovuto darle ragione: mi stava bene e mi piaceva, così come il cappello abbinato che avevo dovuto indossare nonostante le mie rimostranze, dal momento che sarei andata alla fiera nel corso della sera: che senso aveva il cappello la sera d’estate? Preferivo sentire il vento tra i capelli, che la costrizione di un cappello.

Avevo comunque approfittato della gioia di mia madre per la mia uscita serale. Will era passato a prendermi e insieme avevamo raggiunto il luogo della fiera. La musica mi aveva messa subito di buon umore. C’erano bancarelle che vendevano cibo e oggettistica di ogni tipo, c’erano lampade elettriche coperte di conchiglie e ogni genere di attrazione per chi voleva passare una serata allegra.


Ero subito stata attratta da un tendone rotondo dai drappeggi viola e rossi, sull’insegna all’ingresso era scritto “La divina Marina: scopri il tuo futuro.”

Mi ero avvicinata per osservare meglio la palla di cristallo che era stampata sul cartellone: “Che assurdità!” Avevo detto con convinzione a Will, ricominciando a camminare verso i banchi seguenti.

“Ma come, non vuoi farti predire il futuro? Può essere divertente, non credi?”

Non avevo mai considerato quel ragazzo una cima, ma non pensavo fosse tanto sciocco da credere a tali sciocchezze. “La divinazione non esiste, non c’è nessuno che può prevedere il futuro.” Avevo risposto, sperando che il mio discorso lo convincesse.

“Non è vero, Dio prevede il futuro.”

Di fronte a un’affermazione del genere annuii. Non valeva la pena tentare di rispondere. Tanto valeva entrare, avevo pensato, poteva essere divertente.

“Vuoi provare?” Gli avevo chiesto.

Lui aveva battuto le mani e si era avviato saltellando verso la tenda. Un ragazzo immaturo, un credulone, così l’avevo definito. “E sia, va bene.” La serata sarebbe stata lunga, tanto valeva provare a passare il tempo in modo creativo.


Una volta nella tenda, ci accolse un profumo di incenso e di qualcos’altro che non identificai, forse un particolare legno profumato come il sandalo. 

Una donna con un copricapo velato e ricco di gemme ci fece strada verso il banchetto coperto da una tovaglia di organza blu. Il viso rugoso e i capelli argentati dimostravano la sua età matura, ma gli occhi apparivano ricchi di vitalità.

La mistica chiuse la tenda con uno scatto, lasciandoci alla luce flebile delle candele accese tutto intorno.

“Benvenuti dalla divina Marina. Chi desidera conoscere il proprio futuro?”

Will alzò subito la mano, felice come un bambino. Si sedette su uno dei due scomodi sgabelli di legno e mi fece cenno di fare lo stesso.

Sospirando, accettai il suo invito. “Eh, va bene.” Intorno a noi la stanza era scura e i lumi traballanti formavano ombre sinistre, sembrava tutto estremamente polveroso. La mancanza di luce forse avrebbe dovuto simulare qualcosa di mistico e ignoto, in realtà il risultato dava un senso di mal tenuto e polveroso.

La donna si sedette di fronte a noi. “Tarocchi o sfera di cristallo?”

“Quale è più affidabile? Chiese Will, con tono allegro.

“L’affidabilità dipende da chi li legge. Sono strumenti diversi: la sfera può dare informazioni precise, ma sceglie lei cosa dire, ai tarocchi possiamo fare una domanda, invece.” La donna aveva un’aria misteriosa, probabilmente parte del personaggio. Mentre parlava, faceva ondeggiare lentamente le mani come a volerci ipnotizzare. Mi schiarii la voce, sperando che Will si sbrigasse a decidere e ci permettesse di abbandonare questo circo in miniatura.

“Hai un’idea, Jessica?”

Io alzi le spalle. “Sfera?” Proposi, immaginando che fosse la scelta più veloce.

“Sfera, allora!” Esclamò quindi il mio accompagnatore battendo di nuovo le mani.

La donna prese la sfera e la spostò al centro del tavolo. Iniziò poi a mugugnare e a fare strani versi. “Spirito che tutto conosce, dammi un segno che mi ascolti.”

Le sue mani ondeggiavano insieme alle braccia e al suo intero corpo in una sorta di danza ritmica priva di musica. “Oh, spirito, raccontami il futuro di questa coppia di giovani.” Continuando a ondeggiare, la donna alzò lo sguardo su di noi. “Avete una domanda, potrebbe rispondere.”

Incantata, continuavo a osservare la sfera, avrei potuto giurare di aver visto una luce brillare al suo interno, ma era sciocco. “Cosa mi riserva il futuro?” Chiesi, incerta.

“Morte.” Una sola parola. La donna si fermò per un istante, gli occhi sconvolti, la danza meno naturale. Un brivido mi percorse la schiena. Mi voltai d’istinto, poi mi soffermai su Will, che osservava la sfera a bocca aperta, l’espressione a metà tra la paura e la sorpresa.

“La sfera mi dice che sarai sempre seguita dalla morte.” Continuò la Divina Marina con una voce priva di teatralità. “Mi dispiace… Non mi aspettavo una previsione del genere.”

Io tentai di ridere, ma non mi sentivo tranquilla. “Si vede che la sfera sa che vorrei lavorare in polizia.” Dissi, cercando di sdrammatizzare.

La mistica sospirò. “Presto avrai il primo incontro con la morte, ma non ti devi spaventare. Non credo che sarai tu a morire. Ti capiterà spesso, però… di continuo. La vedo ovunque…”

Mi alzai dalla sedia. “Per me è sufficiente.” Dissi, tirando fuori dalla borsa due dollari. “La ringrazio, divina. Non si preoccupi, me ne farò una ragione.” Presi Will per il braccio e lo trascinai fuori. Era difficile ammettere con me stessa che quei discorsi insensati mi avevano turbata. Il mio accompagnatore appariva ancora più preoccupato. 

“Potrei essere io, sappiamo di certo che non sei tu.” Disse in cima alla ruota panoramica. Io sospirai, pensando che il tramonto sul mare fosse quanto di più romantico era possibile, il fatto che lui non avesse provato neppure a tenermi la mano significava che l’appuntamento stava andando davvero male.

Pazienza, mi dissi, fosse morto la serata almeno si sarebbe un po’ ravvivata.

Scendemmo dalla ruota panoramica e mi chiesi se non fosse il caso di chiudere la serata. “Dove andiamo ora?” Domandò. “Scusa se sono stato un po’ nervoso, i discorsi della Divina Marina mi hanno un po’ turbato. Ora mi sento uno sciocco.” Confessò.

Io tirai un sospiro di sollievo, meno male che aveva ricominciato a ragionare.

“Allora continuiamo il giro, abbiamo altro da vedere,” gli presi il gomito cercando un contatto. Era l’ultima possibilità.


Mi vinse un piccolo peluche dimostrando di non avere una gran mira con la pistola. “Però, hai visto, non ho ucciso nessuno,” rise. L’atmosfera era rilassata, finalmente. Di buon umore, ci recammo insieme verso il parcheggio per andare a recuperare l’auto, con la promessa che l’indomani ci saremmo rivisti, senza previsioni del futuro questa volta.

Fu allora che vedemmo il fumo: corremmo in direzione della zona da cui proveniva, sussultai quando vidi la tenda rotonda della Divina Marina avvolta dalle fiamme. In molti la circondavano, i pompieri presto furono lì per spegnere il fuoco.

“Purtroppo la Divina non ce l’ha fatta.” Sentii dire a un uomo dall’aria affranta. 

Mi sentivo distrutta. Era forse colpa mia? Era questo il mio destino?

“Quindi ha letto il suo stesso futuro…” Osservò Will, stringendomi con dolcezza. “Hai visto? Non era di te che parlava.” Pensai a tutte quelle candele accese senza alcuna protezione e mi chiesi se il suo non fosse stato un atto deliberato, oppure un dispetto da parte della morte, chiamata in causa dalla donna.

Io e Will Tornammo a casa in silenzio. 


Da quel giorno pensai spesso alla Divina Marina e alla sua previsione. Io e Will non uscimmo più insieme, ma lui si sposò pochi anni dopo con una donna molto più adatta di me a una vita fatta di casa e figli.

Io viaggiai e diventai una scrittrice.

In seguito capii che era rivolta proprio a me. Ebbi a che fare con la morte molto più spesso rispetto a una persona comune, ma fui in grado di sfruttare la mia maledizione per scrivere, per raccontare la morte e renderla meno terrificante. 

Mi segue ancora e io la scrivo.


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Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Heismay Noctule
Prompt: il guerriero errante 
Partecipa al COWT 14

Un destino di solitudine

 









Era chiaro a tutti che Heismay fosse entrato nella Guardia Reale grazie alle sue capacità in combattimento: era un guerriero agile, in grado di muoversi silenziosamente e con velocità. Inoltre le caratteristiche proprie della razza degli Eugief facevano comodo in battaglia: l’udito fine, la leggerezza del passo, la stazza minuta e all’apparenza innocua gli permettevano di agire senza quasi essere notato. Nonostante chi lo conoscesse di persona lo ammirasse, però, si trovava continuamente a essere osservato con sospetto dalla gente comune, che bisbigliava attorno a lui parole che gli causavano grande dolore.

Pipistrello, animale, bestia. Molto spesso si era trovato a pensare con sollievo alla sua famiglia, che se ne stava al sicuro nel piccolo villaggio abitato quasi solo dagli Eugief, dove potevano vivere in tranquillità. Sognava un futuro migliore per suo figlio, per questo continuava a combattere per mantenere il suo posto nell’onorevole Guardia Reale.

Nell’ultimo periodo però aveva iniziato a rispondere a tono ai commenti di alcuni sciocchi che commentavano la sua stazza o le sue origini quando lo vedevano in mezzo agli altri soldati. Per gli Eugief niente era semplice e in quanto tale si era dovuto guadagnare la sua posizione con il duro lavoro e l’impegno costante. Chi la pensava diversamente apparteneva a razze che non potevano capire la discriminazione.

Heismay si era isolato, passava le serate libere bevendo e pensando a quanto fosse stanco di essere continuamente messo in discussione. Si aspettava che prima o poi sarebbe stato invitato a entrare nella Shadowguard e ne fu lieto perché per lui stare lontano dal centro dell’attenzione e agire nascosto nell’ombra era un’opportunità, era nato per questo.


Il giorno in cui suo figlio morì, Heismay era in missione. Aveva in programma di tornare a casa entro pochi giorni e di passare un po’ di tempo in famiglia, non fece in tempo.

La notizia lo raggiunse durante la cena in taverna, proprio mentre festeggiava con il gruppo l’imminente ritorno a casa dopo il successo appena ottenuto.

Anche dopo anni lo considerava il giorno peggiore della sua vita.

Nonostante tutto quello che aveva fatto nell’esercito e nella Guardia Reale, non gli avevano neppure mandato un messaggero ufficiale. Una semplice pergamena inviata dalla Chiesa Santista. Un biglietto indirizzato a lui, scritto in fretta, senza sigilli ufficiali.


Sir H. Noctule

Siamo dolenti di informarla che suo figlio è in condizioni critiche dopo una rissa. 


Neppure una firma, solo poche parole. Heismay pensò subito che si trattasse di un malinteso: suo figlio era un pacifista nato: troppo tranquillo, troppo giovane. Non aveva mai neppure giocato a combattere con lui.

Più volte padre e figlio avevano parlato del senso del combattimento, del ruolo della Guardia e del ricorso alla violenza da parte della società, che per suo figlio non poteva mai essere accettabile.


Heismay si era precipitato al villaggio con un cavallo preso in prestito dal Santista, che si era premurato di farsi ringraziare per la gentile concessione.

Nella stanza della clinica c’era odore di disinfettante. La dottoressa aveva accolto l’Eugief con aria molto triste. “Non ci sono speranze, purtroppo. Ha una grande forza di volontà e sta provando a resistere, ma il suo giovane corpo è in condizioni disperate.”

Gli si era avvicinato trattenendo le lacrime e si era seduto al suo fianco. Il ragazzo era disteso, coperto di steccature, fasce, ematomi e disinfettante. Sembrava addormentato, ma si poteva notare la tensione del dolore nei suoi lineamenti. Heismay pensò che avrebbe desiderato prendere tutto il suo dolore e portarlo via, sostenerlo lui al suo posto oppure darlo ai suoi aggressori.

Gli posò una mano sul braccio con delicatezza, sperando che nel sonno clinico percepisse la sua presenza.. “Sono orgoglioso di te, non ti lascerò mai.” Gli disse. Il figlio rispose stringendo la sua mano, incapace di parlare. 

Heismay rimase fermo ad attendere, a pregare in un miracolo. 

Non ce ne fu alcuno. Ci vollero ore perché lui cedesse alla morte.


Dopo la madre, anche il figlio.

Era troppo. Intorno a sé non vedeva che odio. Lo sentiva, lo vedeva e lo annusava intorno a lui. Non ne poteva più.

Al diavolo tutto, pensò. Aveva passato anni della sua vita lontano dal villaggio, dal figlio che adorava e prima ancora dalla moglie che amava con tutto se stesso. Per cosa? Per difendere un popolo che disprezzava lui e tutti gli Eugief? Per causare ulteriore dolore in nome della pace?

Aveva sempre vissuto da ultimo, con la convinzione morale che tutti fossero uguali, ma faticava a pensare ai Parypus come suoi pari ora che a causa loro aveva perso l’unica persona che considerava importante.

Rimase al villaggio giusto il tempo per organizzare la cremazione. 


Non tornò alla Shadowguard.

Iniziò il suo esilio volontario. Heismay vagava per i boschi, per i villaggi. Si era dato lo scopo di difendere i deboli, di eliminare le ingiustizie e di vendicare, un giorno, la morte del suo unico figlio. 


Da solo, senza radici, senza qualcosa per cui vivere. Non gli importava del proprio futuro, desiderava solamente che nessun altro subisse il suo stesso destino.


Un guerriero errante a caccia di avventure, non con l’obiettivo di ottenere fama e gloria, ma con il desiderio di espiare la sua colpa, di fare in modo che anche se era stato assente con suo figlio, non lo sarebbe stato con altri figli sofferenti, impedendo a padri e madri che a volte non erano in grado di farlo, di prendersi cura di loro.

Proteggere i deboli, gli indifesi. I giusti. In nome di suo figlio.


Viaggiava di notte, osservava e ascoltava nascosto nelle ombre e in pochi lo vedevano. Se c’era una cosa che sapeva fare era scomparire nel buio. 

Una notte si appostò ai margini di un piccolo villaggio abitato quasi unicamente da Parypus. Sentì i brividi salirgli lungo la schiena al pensiero dei delinquenti che avevano picchiato a morte il suo innocente ragazzo e si chiese quale fosse il loro aspetto. Più volte aveva pensato che avrebbe potuto incontrarli, forse rivolgere loro la parola o aiutarli, difenderli. Per questo li evitava, ignorava le loro difficoltà e si limitava a occuparsi dei loro torti, rispondendo con violenza al dolore che gli avevano causato.


Era appostato nel bosco, stava su un albero a mangiare frutta fresca raccolta lungo il cammino quando sentì un urlo. Non era distante. Tese subito le orecchie per individuare la direzione da cui proveniva. Quando udì il secondo grido planò giù dall’albero e, veloce e silenzioso, corse. Con una mano impugnava la spada, pronto a sguainarla quando necessario. 

Si fermò all’ombra di una capanna e li vide: tre giovani all’apparenza alticci stavano strattonando una coppia di Parypus poco più che ragazzini. 

“Dammi le tue monete, che abbiamo finito i soldi.” Ordinò uno di loro ai ragazzini, che continuavano ad arretrare. 

“Vi abbiamo già detto che non ne abbiamo.” Heismay strinse l’impugnatura della spada sentendo la voce tremante della ragazza.

“In qualche modo ci dovrete pagare. Dove abitate?” 

“Già! Potete ospitarci per la notte.” Una minaccia velata nascosta sotto un tono vellutato. Il guerriero uscì dalle ombre in silenzio, un passante all’apparenza innocuo che dichiarò la sua presenza canticchiando piano mentre camminava in loro direzione.

Solo uno dei tre malviventi prestò attenzione a lui. Heismay sapeva che la maggior parte della popolazione reagiva alla violenza con indifferenza, perché lui avrebbe dovuto essere diverso? Persino i soldati spesso chiudevano entrambi gli occhi quando non erano in servizio, così come le guardie cittadine che a volte erano parte del problema. Era un mondo al contrario e lui sapeva che non avrebbe mai potuto cambiarlo, ma stava facendo la sua piccola parte.

L’Eugief si fermò a pochi passi dal gruppo. “Va tutto bene?” Chiese, con fare innocente.

“Non impicciarti, bestia.” La risposta lo fece innervosire. Per un istante pensò che avrebbe ucciso tutti e si dovette sforzare per resistere all’impulso di sguainare la sua spada.

“È strano che mi chiamiate bestia, quando è così che tutti chiamano voi. Noi siamo i mostri, giusto?”

I malviventi si voltarono a guardarlo. Aveva la loro attenzione. “Non fareste meglio a trovarvi un impiego anziché fare gli sbruffoni violenti?”

Il leader del gruppo strinse i pugni e iniziò a camminare verso di lui. Heismay non se ne preoccupò. “Immagino non ne vogliate parlare.” 

Gli si scagliarono contro, ma il guerriero schivò i loro attacchi senza troppi problemi l’alcool che avevano consumato rallentava i loro movimenti, rendendoli goffi e prevedibili. Uno di loro teneva in mano un coltello, un altro aveva un tirapugni coperto di pungiglioni di metallo.

Non riuscivano a toccarlo. Poteva sentire la loro frustrazione crescere: la vedeva nei loro movimenti sempre più lenti e insicuri, la sentiva nel loro respiro pesante. Impugnò la spada e colpì uno di loro al braccio. Il giovane urlò e arretrò, il terrore negli occhi. 

Gli altri due continuarono a tentare di colpirlo. Un altro fendente nella parte bassa della gamba. Heismay osservò il Parypus cadere a terra e tenersi la zona ferita. L’ultimo non cedeva. 

“Prima o poi ti colpisco!” Gli urlò. 

Il guerriero emise una lunga risata. “Certo, è possibile. Però preferisco chiuderla qui.” Lo colpì prima a un piede, poi al braccio destro. “Non oggi, temo.”

I due ragazzini erano scomparsi, fuggiti al sicuro. 

I malviventi invece erano a terra, sconfitti. Heismay li osservò, chiedendosi se avrebbe avuto pietà delle loro vite o se si sarebbe un giorno tramutato in un giustiziere, un assassino senza pietà, né anima.

Rivolse loro la domanda che faceva a tutti. “Siete mai stati al villaggio degli Eugief, vicino a Martira?”

“Perché lo vuoi sapere, mostro?”

Nonostante fossero a terra, quegli sciocchi continuavano a istigare la sua rabbia. “Rispondi o ti uccido.” Gli disse calmo, puntando la spada al suo collo fragile e indifeso.

“No, siamo arrivati dal nord.” Rispose il primo che aveva colpito.

Erano troppo giovani per essere loro i responsabili della morte di suo figlio. Era probabile che stessero dicendo la verità. “Cosa volevate fare a quei due giovani?”

“Noi… volevamo solo soldi.”

Heismay sbuffò. “Pensate forse che la violenza sia accettabile? Se desiderate vivere facendo del male al prossimo, sono pronto a uccidervi qui.”

Uno dei giovani stava piangendo. “Mi fa male la ferita.”
“Non sarà quella a ucciderti. Pensate al dolore che avete inflitto, alla paura che sentite ora e ditemi cosa fareste al mio posto.”

Il guerriero poteva osservare la paura nei loro sguardi. La odorava sulla loro pelle. La paura però non aiuta il pentimento, lo sapeva. La scelta di uccidere non era mai facile e si chiese se vista la loro giovane età avrebbe fatto bene a risparmiarli. “Avete mai ucciso qualcuno?”

Il pianto crebbe. “No! Abbiamo solo derubato… abbiamo picchiato…” Un’ombra di pentimento nella sua voce lo riportò verso la lucidità. Abbassò la spada osservandoli per ciò che erano: ragazzini impauriti senza una guida.


In quel momento Heismay sentì voci e passi provenienti dal villaggio, un gruppo di abitanti accompagnati guidati dai due ragazzini che aveva aiutato e da alcune guardie stava correndo in lodo direzione

“Eccolo! È lui che ci ha aiutati!”

Le guardie apparvero sorprese nel trovarsi di fronte lo Eugief illeso e i tre malviventi a terra, doloranti. “Non sono feriti gravemente, si riprenderanno.” Dichiarò riponendo la spada sperando che le guardie comprendessero le sue buone intenzioni.

Le guardie parvero rilassarsi e rivolsero le loro lance in direzione dei tre ragazzi a terra. “Li cercavamo da un po’, sono accusati di omicidio.” 

“C’è una taglia sulle loro teste, fresca fresca di giornata.” 

Heismay si voltò mentre le guardie trafiggevano i giovani, chiedendosi se davvero fossero assassini, in quel caso forse il mondo sarebbe stato un posto migliore senza di loro. Il dubbio però restava: erano dei ragazzi, il mondo ancora da scoprire, forse necessitavano solo di una guida. 

Non provava pietà, ma dispiacere: se era la morte il loro destino, forse avrebbe potuto esercitarla lui e sentirsi un po’ meno in guerra col mondo intero. Probabilmente però si sarebbe sentito solo più vuoto. La sua anima si sarebbe frantumata in modo definitivo e lui non avrebbe più provato il desiderio di vivere in mezzo a quella società in rovina.

“Una parte della ricompensa è tua, Eugief.” Disse il capo delle guardie. “Seguici, mio figlio ci tiene a darti ospitalità per la notte. 

Suo figlio. Heismay li seguì cercando di provare orgoglio nella sua missione. Quella notte sarebbe stato ringraziato e considerato un eroe, ma l’indomani sarebbe partito in cerca di altri figli da proteggere. Prima o poi avrebbe ottenuto anche la sua vendetta.


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Fandom: 13 Sentinels Aegis Rim
Prompt: Tempo
Personaggi: Ryoko Shinonome, Ei Sekigahara
Partecipa al COWT 14
Genere: introspettivo, malinconico
one shot

Loop





Quando aprì gli occhi, Ryoko vide un lungo neon acceso sul soffitto bianco. Pensò subito di non essere nel posto giusto, ma dov’era? 

Quando era? A quella domanda però si era già data risposta osservando la stanza e l'illuminazione: erano di certo gli anni ottanta.

Cercò di sollevare la testa, ma un dolore improvviso la costrinse a portarsi le mani alle tempie. Richiuse gli occhi e si voltò sul lato, cercando di non fissare la luce e tentò nuovamente di alzarsi. Doveva fare in fretta. C’era qualcosa che doveva fare in fretta.

“Shinonome, come ti senti?”

“Mi fa male la testa. Cosa mi è successo?”

I ricordi tornavano come gocce, uno alla volta: Ei, il suo unico amico, poteva percepirne la presenza al suo fianco, era lui che aveva parlato?

No, lui era… ricercato? 426 era un criminale pericoloso. Ei Sekigahara era 426.

Era accaduto tutto a causa sua.

Ryoko riaprì gli occhi e si trovò di fronte il viso gentile della signorina Morimura. “Stai tranquilla, non alzarti troppo in fretta.” Ryoko si sollevò lentamente. “Ricordi che anno è?” chiese l’infermiera.

La ragazza scosse la testa.

“Shinonome, devi riposare ancora.”

“Che anno è? Mi puoi rispondere per favore.” Un tono di urgenza nella sua voce.

“Va bene, certo: è il 1985.” La donna annuì. Osservava Ryoko con uno sguardo di compatimento, le tendeva la mano in un gesto quasi materno.

“Devo, devo tornare.” Ecco cosa doveva fare: tornare nel futuro e catturare 426, l’assassino, il suo nemico.

Perché si sentiva così confusa?

C’era stato un incidente. Sekigahara aveva trasmesso un’anomalia alla sua sentinella e a quella di Juro. Li aveva attaccati, li aveva derubati dei loro ricordi e del loro stesso futuro.

“Non puoi tornare adesso, devi prima riprenderti. Prendi queste pillole quando il dolore diventerà più forte.” La vista del flacone la fece tornare al presente.

Le pillole. Quante ne aveva consumate nel corso di quell’ultimo periodo? Aprì il contenitore e contò: una, due. Se le rovesciò sul palmo e le prese a secco in un movimento ormai meccanico.

“Juro…” Cercò di ricordare, ma tutto era estremamente confuso. Juro era morto? Era ancora nel futuro? Era aggrappato alla vita come lei, in cerca di vendetta.

“Non esagerare, Shinonome.” La voce della signorina Morimura era vellutata. Quante volte le aveva ripetuto quella stessa frase.

La nebbia nella sua testa iniziò a diradarsi, segno che le due pastiglie stavano facendo effetto. Non devi prendere le pillole, Ryoko.

Di nuovo la voce di Ei. La ragazza scosse la testa, chiedendosi dove si fosse nascosto 426. L’ultima volta era abbastanza sicura di averlo trovato nel 2065, ma lei non poteva permettersi di andare per tentativi, non aveva tempo. 

Avrebbe cominciato cercando Juro: lui l’avrebbe aiutata.



Era distesa sul pavimento di un luogo buio. Sentiva intorno a lei odore di legno e di cera, la stanza era impolverata, forse abbandonata da tempo.

Ryoko si alzò con fatica. Il dolore alla testa le fece salire un conato di vomito. Respirò profondamente prima di mettersi seduta. Prese il flacone che conteneva le sue pillole e se le versò sulla mano: una, due. Di nuovo le ingoiò senza fatica e osservò il contenitore; era già vuoto, eppure la signorina Morimura gliel’aveva consegnato solo poche ore prima, come era successo?


Cercò di capire dove si trovasse e si alzò in piedi, si sentiva affaticata, come se avesse corso per una giornata intere. Intorno a lei lo stabile era in stato di completo abbandono, guardò fuori e vide luci bianche illuminare la strada. Che anno poteva essere? Forse era ancora nel 1985?

Si portò una mano alla tempia: cosa ci faceva lì dentro? 

Ryoko aveva una missione: doveva trovare 426, il suo nemico. Lo stava cercando. Ma 426 era Ei, ed Ei era suo amico, era davvero stato lui?

Un fischio le risuonò nella testa e si sentì svenire. Chiuse gli occhi, strinse i denti e respirò profondamente. 


Nella nebbia della sua memoria, le tornò in mente quel pomeriggio, prima che lei, Ei e Juro salissero sulle Sentinelle per combattere.

Era quasi il tramonto, lei ed Ei stavano camminando l’uno di fianco all’altra. A un tratto lui si era fermato, osservava l’orizzonte. “Come vorrei che non fossimo compatibili…” Con una mano aveva sfiorato lo starter con il quale poteva invocare la sua sentinella. Ryoko sapeva quanto lui odiasse combattere e quanto gli costasse. “Ogni volta che pilotiamo le Sentinelle mi sento come se fosse tutto inutile. E poi… non voglio che ti accada qualcosa di male. È un pericolo continuo.”

La ragazza ripeté le parole del signor Ida, il suo mentore. “Dobbiamo fare ciò che possiamo per il bene di tutti.”

"Ryoko, io ti volevo parlare di Ida, lui..." Ma non fece in tempo a finire la frase, lei comunque non lo avrebbe ascoltato perché non aveva motivo di dubitare del suo mentore, l’uomo che lei avrebbe amato e protetto per sempre.

In quel momento ricevettero il segnale d’allarme. "Ne parleremo la prossima volta." Ryoko annuì mentre si chinava a sfiorare il suo ginocchio destro per invocare la sua Sentinella. 

Solo lì dentro Ryoko si sentiva utile. Combattere per salvare il mondo era il suo destino e lei non capiva come mai Ei non si sentisse altrettanto onorato per questa possibilità: potevano proteggere chi amavano.

Insieme, si precipitarono alla zona di combattimento. “Sentinella 14, operativa. Sono in direzione della zona rossa.” Come le aveva chiesto Ida, avrebbe dato il massimo per la missione. Non avrebbe permesso ai Kaiju di distruggere la città.

Si mosse più veloce che poteva, seguita dalla Sentinella numero 11, più lenta, pilotata dal suo amico, una macchina offensiva di prima generazione. Presto individuarono Juro ed entrambi si mossero in copertura.

“Bene, vedo che siamo in tre.” Ei rise, mentre raggiungeva la prima linea.

Il combattimento procedeva in modo serrato, ma senza particolari difficoltà. I nemici erano ormai pochi e diradati. Gli attacchi corpo a corpo di Ei e il suoi missili a lungo raggio li avevano decimati. 

A un tratto però Juro aveva chiuso i contatti con la base. “Mi dispiace… Ma deve finire tutto.”

Ryoko si era chiesta cosa intendesse: all’inizio pensò che volesse sacrificarsi, ma non ce n’era ragione, stavano vincendo. 

In quel momento sentì un suono assordante nell’abitacolo. Perse il controllo della Sentinella che iniziò a muoversi pericolosamente verso il centro della città. Il suono prese un’intensità ancora maggiore e la Sentinella si fermò in mezzo alla zona di combattimento. Gli scudi si disattivarono e un fischio assordante le risuonò in testa. Tentò di alzare un braccio, ma si rese conto di non riuscirci.

Sentì la voce di Ei. “Non è possibile, cosa sta succedendo? Ryoko? Ryoko, rispondi!”

Ma non ci riusciva. I danni subiti dalla Sentinella erano stati gravi, ma il virus aveva danneggiato qualcosa di più profondo. La ragazza non riusciva a parlare, si portò le mani alla testa e per un istante il contatto con l'esterno della Sentinella si interruppe. Si guardò intorno: la cabina di pilotaggio era una sorta di capsula di salvataggio, osservò i tubi di alimentazione attaccati alle sue braccia e pensò di staccarli, ma qualcosa in lei le diceva di non farlo. "Sono stata io. È tutta colpa mia... Ho riattivato i codici Deimos e ho costretto tutti a vivere nel loop temporale… Ida, lui mi ha tradita..."


Non era stato Ei, lui non aveva colpe. Juro non era certo innocente, ma lei era la vera colpevole. La nemica della colonia: colei che aveva condannato tutti alla ripetizione del loop temporale nel quale stavano vivendo, chissà quante volte erano stati clonati ormai.


Ryoko si rese conto di avere sempre conosciuto la verità. Come aveva potuto costringere tutti loro a una vita di combattimento, di sofferenza? Cosa le era accaduto per spingerla a condannare l'intera colonia? Ida l'aveva tradita, ma non era la sua la colpa più grande. 

Juro, anche lui doveva conoscere la verità, altrimenti cosa avrebbe potuto indurlo a introdurre il virus?

Ryoko si rese conto anche che non sarebbe sopravvissuta per molto. Era condannata, ma non le importava. Doveva fare in fretta, tutti loro dovevano conoscere la verità, perché quel mondo non era reale, i viaggi nel tempo non erano reali, le persone con le quali interagivano ogni giorno non esistevano, erano solo personaggi di una simulazione: intelligenze artificiali che avevano come scopo la riproduzione di un mondo che loro non avevano mai visto.

Il senso di colpa la schiacciava e il dolore alla testa era sempre più forte. 

Non aveva altre pillole, doveva trovare Ei e dirgli che le dispiaceva.. Si mise a correre fuori dall'edificio in disuso in cerca di qualcuno a cui riferire quanto aveva scoperto: Jakushiji, Kisaragi oppure Ei, Juro o… Un’altra stilettata. Si portò le mani alla testa. 

Non ce l’avrebbe fatta.

Cadde a terra, poi il buio.



"Shinonome, come ti senti?" La ragazza era in una stanza illuminata da un neon bianco, distolse lo sguardo per lenire il fastidio. Shinonome era il suo nome, era certa di questo, ma dov’era?

"Mi fa male la testa, cosa mi è successo?"

Che anno era?


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 Fandom: Originale
 Prompt: Sure Grandma, let's get you to bed
 Partecipa al COWT 14


Zia Eleonora.

L’anziana signora si trascinava avanti col deambulatore un passo alla volta in movimenti irregolari e scattosi. 

Il ragazzo la osservava seduto dall’altro lato della strada, all’inizio gli era venuto da ridere, perché si era reso conto che la vecchia stava andando il più veloce possibile, ma la realtà era che gli ricordava una lenta tartaruga. Poi però si era sentito in colpa: poteva avere bisogno di aiuto e lui non era senza cuore.

Filippo si alzò e attraversò la strada. Più si avvicinava a lei, però, più si rendeva conto che la sua impressione era fondata: qualcosa non andava. Iniziò a notare il sudore sulla sua fronte, l’espressione nei suoi occhi, che avrebbe definito terrore puro. Il fiato corto.

“Tutto bene, signora?” Le chiese, mettendosi di fronte a lei.

“No, non è tutto bene.” Gli fece cenno di avvicinarsi e si guardò intorno con circospezione. “Quelli vogliono uccidermi. Vogliono la mia casa.” 

Filippo continuò a guardarla negli occhi, incerto su cosa fare. L’anziana donna aveva una fierezza nello sguardo che a tratti sembrava prendere il sopravvento sulla sua paura. Una parte di lui credeva che la donna fosse pazza, forse inferma di mente, ma il suo istinto gli diceva di crederle.

“Non sono chi dicono di essere. Non farti prendere per il naso anche tu da loro.” Lo stringeva talmente forte che il ragazzo non riusciva a liberarsi. “Via Pasini numero 8. Mi chiamo Eleonora Contini.”

“A- Andiamo alla polizia?” Chiese lui. Ma la donna non fece in tempo a rispondere, perché una coppia di mezza età arrivò alle loro spalle. 

“Mamma? Mamma, cosa ci fai qui, torna a casa, dai!” Disse la donna con tono mellifluo. Aveva lunghe unghie laccate, i capelli raccolti senza eleganza in una coda mezza sformata e abiti semplici, ma decorosi. L’uomo indossava un paio di jeans e una camicia a scacchi. Si mordeva un labbro e lo guardava incerto.

“Aiuto, aiutatemi!” Urlò la signora attirando l’attenzione dei pochi passanti.

Filippo si guardò intorno, incerto su cosa fare. I due sembravano assomigliarle parecchio. “Zia, non preoccuparti, ti accompagno anche io a casa.” La donna si fermò un istante. Sorpresa. “E tu chi saresti? Mia madre non mi ha parlato di te.”

“Sono Serena, la sua prima figlia, mi sto prendendo cura io di lei in questo periodo.” 

Il ragazzo si chiese dove fosse andato a incastrarsi, ma vista la gentilezza con la quale la donna gli stava sorridendo pensò che in fondo non avrebbe corso grossi rischi nell’andare in via Pasini 8 a casa dell’anziana signora a controllare che tutto fosse in ordine.

“Andiamo a casa, zia, ti portiamo a riposare e magari ci beviamo un tè insieme.”

Filippò cercò di ritrovare nella sua memoria il nome e il cognome della signora di cui si stava fingendo il nipote, Eleonora qualcosa… era un bel nome per una donna della sua età, si ritrovò a pensare.

Notò che la coppia restava indietro, lasciando che fosse lui a guidarli verso la casa. 

“Da quanto tempo siete a casa con la zia?” Chiese, cercando di prendere tempo mettendosi al loro fianco. Via Pasini era lì vicino, quello era certo, ma non si ricordava dove di preciso. 

“Solo da due giorni, siamo arrivati perché mio marito ha insistito perché le parlassi di nuovo dopo tutti questi anni di lontananza. Volevo solo passare per salutarla e per dirle che mi dispiace per come è andata, ma ho visto che non sta bene.” Lo prese da parte mentre l’uomo ed Eleonora continuavano lungo la strada. “Da quanto tempo ha problemi di memoria?”

Filippo iniziò a preoccuparsi, la donna gli pareva abbastanza sincera e poteva essere veramente la figlia di quella donna. Invece lui? Che scusa aveva lui per introdursi nella casa di una donna anziana con problemi di demenza senile? Se fossero arrivati altri parenti cosa avrebbero potuto dirgli? L’avrebbero denunciato? Scacciato in malo modo? Preso a pugni? 

D’altro canto, se l’anziana gli aveva detto la verità, significava che era in pericolo… poteva davvero abbandonarla lì inerme quando lei aveva riposto in lui la sua fiducia?

“Da- da un pezzo ormai…” Mentì. “Ha cominciato un paio di anni fa con i primi sintomi, ma io non vado a trovarla spesso a essere sincero.”

La donna gli sorrise, più serena. “Ovvio, tu sei giovane, perché dovresti andare a trovare la zia. Ha anche dei figli, no?”

Filippo approfittò della chiamata che proprio in quel momento stava ricevendo per concentrarsi sul suo smartphone, sperando così di lasciare decadere la domanda. “Un attimo, rispondo e vi seguo.”

Fece qualche passo indietro. “Pronto, Sabrina?” Si rivolse verso la donna indicando il telefono e si allontanò ancora di qualche passo. “Farò un po’ tardi, sono con la mia cara zia Eleonora.”

“La zia che? Mi prendi in giro? Io ti sto aspettando, perché non eri sull’autobus.”

“Non pensavo di passare da lei, ma l’ho trovata in giro per strada e sai com’è… con i suoi problemi di memoria ho pensato di accompagnarla a casa.”

“Che hai bevuto? Stai parlando in codice?”

“Ma no, non è niente! Sai com’è la zia, sto lì giusto per un tè e me ne vado. Comunque sì, hai ragione.” Rise.

“Vuoi che venga da te?”

“No, non la zia che sta vicino alla stazione, lei abita in via Pasini. Sai, vicino alla fermata dove prendo l’otto.”

Filippo osservava la donna con attenzione. Camminava lenta, in silenzio, le orecchie chiaramente tese all’ascolto. Quando sentì il nome della via sembrò rilassarsi e accelerare per un attimo il passo.

“Fil, dimmi se devo chiamare la polizia.” La voce di Sabrina al telefono era allarmata. Se solo avesse potuto, le avrebbe detto di farlo. “Puoi condividermi la posizione?”

“Ecco, questo sì che posso farlo. Stai tranquilla che arrivo presto, ci vediamo a cena, salutami la mamma.” Attaccò e attivò la condivisione della posizione. Scrisse due messaggi nei quali spiegava grossomodo la situazione e raggiunse la signora Eleonora.




Via Pasini 8, dice che pericolo vita.

Help.


Sabrina osservò il telefono incredula e subito decise di chiamare la polizia.  Spiegò la situazione come meglio potè, pregandoli di recarsi all’indirizzo per un controllo.


Li trovarono in casa che bevevano il loro tè. 

Il ragazzo appariva confuso almeno quanto la vecchia signora.


Il giorno seguente i giornali pubblicarono un articolo che descrisse l’accaduto in modo chiaro e conciso:


Giovane eroe salva una donna da tentativo di truffa.


Ieri, lungo una laterale di via Pasini, un ragazzo di diciannove anni ha soccorso un’anziana signora che era riuscita a sfuggire a una coppia di truffatori nota alle forze dell’ordine.

I due malviventi, accusati di furto aggravato e omicidio, in passato hanno estorto ingenti somme in contati a numerose anziane vittime ignare, una delle quali è deceduta a causa delle sostanze a lei somministrate dai due ladri. 

Il loro modus operandi consiste nel fingersi parenti lontani degli anziani che scelgono di truffare e nel farsi aprire le porte delle loro case, per poi incapacitare le vittime attraverso l’uso di medicinali e sostanze stupefacenti.

Il ragazzo afferma di avere visto la donna in difficoltà e di averle offerto il suo aiuto. “Mi è sembrato che sapesse quello che mi stava dicendo, le ho creduto. La coppia intervenuta per riportarla a casa invece era sospetta.”

La signora Eleonora Contini ha deciso di ringraziare pubblicamente il giovane F. P. e di donargli un premio per la sua prontezza di spirito, grazie alla quale la signora si è ora ripresa completamente.



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Fandom: Persona 5
Personaggi: Goro Akechi, Ren Amamiya
Prompt: risonanza
Partecipa al COWT 14


Il numero uno


Goro stava osservando l’espressione concentrata di Ren, che con attenzione si era chinato sul tavolo da biliardo per studiare la giusta traiettoria da imprimere alla biglia battente per mettere in buca la palla. Che sciocco: non si era accorto che non era quello il colpo più facile? Sospirò con impazienza, sperando che questo avrebbe innervosito il suo avversario.

“Quello è il prossimo tiro,” aveva detto Joker, indicando la biglia che il ragazzo stava fissando. “Prima metto in buca questa.” E aveva tirato, sicuro come sempre, con quell’insopportabile sorrisetto stampato sul viso. “Ecco, visto?” gli aveva ammiccato.


Aveva fatto un gran tiro, era l’unico avversario al suo livello. Goro in questi momenti provava pena per lui, in un certo senso lo riteneva una vittima collaterale. Il suo piano però aveva bisogno che lui lo diventasse, era necessario per il suo fine ultimo. 

Ren aveva messo in buca anche la seconda palla, infondendo in Goro un senso di fastidio che cresceva, lasciando poco spazio al rimorso e alla pena.Si somigliavano, più di quanto entrambi volessero ammettere. 

Per cominciare potevano controllare più di una Persona. Akechi ne aveva soltanto due, ma a dirla tutta non aveva davvero mai provato ad aumentarne il numero, Loki e Robin Hood erano più che sufficienti. 

Con l’ultima palla il suo rivale aveva concluso la partita. Un po’ di gioia prima di morire, pensò Goro. “Complimenti, sei destinato a essere il numero uno.”


Il numero uno. Parole che risuonavano nella sua mente di continuo. 

La prima persona che gli aveva promesso il successo era stata sua madre: una donna che aveva avuto l’esistenza che meritava, incapace di prendersi cura di lui e di dargli un padre. L’aveva invece costretto a vivere nella menzogna. Per lei, Goro era il numero uno perché capiva quando se ne doveva andare da casa e non diceva una parola. Obbediente, remissivo come lei desiderava. Parole a cui la donna aveva tolto il significato per sostituirlo con una bugia, come faceva con ogni aspetto della sua vita.


Il numero uno, il migliore. L’Ace Detective di cui Sae e il dipartimento di polizia avevano bisogno per l’operazione sotto copertura per catturare i Phantom Thieves. Colui che aveva risolto casi impossibili, raccolto l’ammirazione del pubblico e delle forze dell’ordine, che si era fatto notare da fan che lo cercavano e lo fotografavano di nascosto. Il numero uno.

Il compiacimento, la dimostrazione di ciò che Goro poteva fare grazie alle sue doti naturali.


Il numero uno, il primo in grado di offrire a suo padre qualcosa che nessun altro avrebbe mai potuto donargli: la volontà del popolo, la mente di chi gli si opponeva. Se solo glielo avesse chiesto, il ragazzo avrebbe messo ai piedi di Shido l’intero Giappone. Il numero uno nel risolvere le situazioni spiacevoli, così l’aveva chiamato, e Goro si era sentito finalmente apprezzato dall’uomo che l’aveva abbandonato molti anni prima, che si stava infine appoggiando al figlio reietto, seppure inconsapevolmente.


Solo di fronte a Ren non si sentiva il numero uno. Con lui era destinato a un ruolo marginale. Chiunque avesse osservato le loro azioni e conosciuto la loro storia avrebbe visto in Goro un antagonista, un personaggio mosso dall’invidia e dal desiderio di dimostrare il proprio valore in una lotta impari, nella quale sarebbe sempre risultato sconfitto se avesse lottato ad armi pari. L’uso dell’astuzia e dell’inganno gli poteva permettere di sfruttare un vantaggio e di vincere.

Lui però non aveva intenzione di dimostrargli lealtà. Stare con Ren era stimolante, era vero, ma ogni momento in sua presenza gli era sempre più difficile mantenere addosso la sua maschera.

“Fai qualcosa, salvati! Non vedi che ti sto prendendo in giro?” Avrebbe desiderato dirgli. “Ti credi tanto furbo, sostieni di essere il leader, invece sei solo una marionetta.”

Ren era sempre così difficile da comprendere, al punto che Akechi si era chiesto se non stesse indossando anche lui una maschera.


Non era possibile, lui era sempre un passo avanti.

Avrebbe ucciso il leader dei Phantom Thieves con le sue mani, proprio come aveva deciso quando aveva iniziato a pianificare il suo piano, mesi prima. Non uno speciale, solo una delle tante vittime del killer vestito di nero. Alzò lo sguardo su Haru, intenta a giocare a freccette con gli altri patetici ragazzini del gruppo e pensò a Okumura, a come ne aveva eliminato la versione cognitiva e a quanto le sue azioni non gli avessero impedito di passare del tempo con la figlia, senza alcun rimorso. Ricordava di quando le aveva anche confessato quanto la capisse, come anche lui in passato avesse perso il padre, come la sua vita fosse stata difficile, ma anche come tutto il suo dolore l’avesse reso forte.


Era il numero uno anche nel nascondersi, nel proteggere il suo grande piano di conquista del mondo senza fatica.

“Domani sarà una giornata importante, cercate di riposare.” Aveva suggerito ai Phantom Thieves nel congedarli.


Il giorno della verità: la cattura del tesoro nel Palazzo contorto di Sae Niijima. 

Sarebbe stato il giorno della sua consacrazione a numero uno, quando il suo rivale avrebbe finalmente riconosciuto la grandezza dell’intelligenza del celebre Ace Detective che lui continuava a trattare come suo pari.


Mentre tornava a casa, Goro si fermò a un telefono pubblico e compose il numero.

Al quarto squillo una voce conosciuta rispose. “Pronto?”

“Sono io.”

“Bene, parla.”

“Domani ci troveremo al Casinò. Entro due giorni la prima parte del piano sarà conclusa.”

Dall’altra parte, Shido stava in silenzio. Akechi poteva immaginarlo sorridere compiaciuto. “Mi farò vivo presto.”

“Fa’ in modo che le cose vadano come concordato.” L’uomo attaccò il telefono senza dargli la possibilità di salutare, come sempre.

Quanto avrebbe desiderato dirgli la verità. Spiegargli che ogni sua azione era un dono dal figlio rinnegato al padre. Una notte aveva sognato il momento della sua rivelazione. Nel sogno, Shido lo abbracciava, ringraziandolo per avere messo in pericolo la sua vita per lui, pregandolo di perdonare la sua assenza negli anni in cui avrebbe potuto fare la differenza.

Akechi posò la cornetta. Sapeva che quello era solo un sogno, che suo padre non si sarebbe scusato, né l’avrebbe abbracciato.

A lui bastava avere la sua riconoscenza, l’ammissione che Akechi era il numero uno.


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Fandom: Persona 3
Personaggi: Makoto Yuki
Prompt
 - singolarità: Il fatto di essere singolare, qualità di chi o di ciò che è singolare (nei varî sign. estens. e fig.); particolarità, eccezionalità, originalità, stranezza.

il carattere di irripetibilità, inconfondibilità, unicità, proprio del singolo, del soggetto personale

Partecipa al COWT 14 per M2


L'occhio del ciclone.

“Sei unico, il tuo è un potere speciale”.

Le parole di Mitsuru risuonavano nella sua mente senza tregua, ogni volta che viaggiava solo sulla funicolare.

Il primo giorno di scuola dopo le vacanze estive era ormai dietro l’angolo e lui aveva deciso di prendersi la giornata per girare senza meta, senza prendersi impegni particolari.

Il giorno precedente aveva incontrato Takaya al tempio. L’uomo gli aveva consegnato quel biglietto dal contenuto poco chiaro e Makoto si era chiesto di nuovo se Mitsuru e il capo gli stessero nascondendo più di quanto volesse ammettere.

Solo pochi giorni prima aveva combattuto al fianco di Takaya e ne aveva potuto osservare la potenza. Si era chiesto perché tutti i Persona User in grado di combattere fossero giovani come lui, per quale motivo non ci fossero altri adulti come Takaya a difendere la popolazione e a cercare di proteggere la popolazione. 

C’era qualcosa che non andava, ma per quanto si sforzasse, Makoto non riusciva a comprendere chi stesse guadagnando da quella situazione.

A volte si sentiva troppo stanco persino per alzarsi per andare a scuola, i rapporti con gli altri erano diventati più simili a impegni che a momenti piacevoli passati in compagnia di amici a cui si sentiva legato.

Makoto però sentiva di doversi sbrigare a formare legami con chi aveva intorno, doveva farlo prima che fosse troppo tardi.

Tardi per cosa? Si chiedeva quando il pensiero lo sfiorava, ma cercava di smettere di pensarci e si concentrava su pensieri concreti, tangibili, urgenti.

Mancavano ancora cinque ombre alla fine della loro avventura. Cinque mesi e il Tartarus sarebbe svanito per sempre, almeno così speravano tutti. La fine di una breve parentesi della sua vita.

Pharos gli era apparso in sogno la notte precedente e l’aveva avvertito di nuovo. 

Ogni volta che gli appariva, Makoto provava un enorme senso di inquietudine, perché ormai era certo che quel ragazzino fosse un messaggero oscuro che stava annunciando la fine della vita come sempre l’avevano vissuta, se non la fine del mondo intero e la distruzione totale dell’umanità.

Makoto sentiva di doversi sforzare sempre di più per trovare l’energia che tutti si aspettavano da lui: sempre a combattere, sempre in prima linea, ma la verità era che la motivazione lo stava abbandonando, il suo unico desiderio era riposare, smettere di pensare, ritirarsi e pensare alle frivolezze che i ragazzi della sua età consideravano importanti. 


La sua unicità l’aveva messo al centro della missione dei S.E.E.S., costringendolo a non avere la possibilità di mollare e di vivere in modo sereno la sua vita, come un normale studente. 

L’ultima volta che erano andati a combattere, Sanada era rimasto a casa a riposarsi dopo la sua ennesima vittoria in uno dei suoi  match di boxe. Si era concentrato sulla sua vita fuori dai S.E.E.S. e nessuno si aspettava che facesse diversamente.

Ma lui… Makoto non poteva sottrarsi al ruolo di leader che gli era stato assegnato all’inizio sulla base della sua abilità promettente nel combattimento. Decisione che in seguito era diventata un’imposizione quasi naturale per lui, che a detta di tutti. Lui, la singolarità, il prescelto tra i prescelti, che invocava ogni Persona con facilità,  grazie alle caratteristiche che tutti gli altri continuavano a definire uniche.

Pensò ad Aigis. Quando l’avevano incontrata gli aveva detto che lo stava cercando, che si era risvegliata proprio a causa della sua presenza, della sua vicinanza a lei, ma a Makoto questa dichiarazione aveva suscitato solo un profondo senso di inquietudine.

“Devo starti vicino e proteggerti sempre.” Gli aveva riferito. Aigis era diventata la sua ombra nel Tartarus, si risentiva sempre quando veniva lasciata indietro e i suoi occhi robotici lo cercavano in ogni istante, anche quando dormiva.

“Ti sento, so se stai bene. Il mio posto è sempre con te.”


Anche lei era unica: un essere senziente dalle sembianze simili a quelle di una ragazza, dalla mente robotica e razionale, dal corpo metallico e dotato di armi letali. Il cui scopo unico e dichiarato sarebbe dovuto essere quello di combattere le ombre, che invece era mossa dal desiderio incondizionabile di proteggere Makoto.


Perché proprio lui? Continuava a chiedersi senza che la risposta arrivasse.

Di nuovo, si era domandato cosa sarebbe successo se lui fosse sparito. Se avesse preso un treno per andare via da lì e non avesse dato spiegazioni. 

L’avrebbero cercato?
Sarebbero stati preoccupati per lui, o la loro priorità sarebbe stata la missione? 

Aigis l’avrebbe davvero trovato senza bisogno di sapere dove fosse?


Il treno aveva appena superato la fermata di Dekijima, presto sarebbe arrivato a Osaka.

Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa.

Si sentiva in colpa per essere partito, come se fosse fuggito dalle sue responsabilità coi S.E.E.S., anche se in fin dei conti non stava facendo altro che una breve gita.


Ricevette un messaggio da Junpei che gli chiedeva se stesse ancora dormendo. 

“No, sono in giro, sto andando a Osaka.”

Scrisse il messaggio, ma si fermò appena prima di inviarlo. Si morse un labbro mentre metteva in ordine i pensieri: Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa. 

Con un sospiro di liberazione premette il pulsante di invio.

“Wo! Osaka! La prossima volta ci andiamo insieme!”

Come immaginava, nessuno lo considerava un traditore.


Scese dal treno a Ebisucho, visto il caldo della giornata pensava che visitare il Santuario Sumiyoshi Taisha fosse la scelta migliore. La frescura dell’ombra del bosco gli avrebbe dato sollievo dal caldo torrido di Port Island.


Sperava anche che la calma del tempio lo aiutasse a sentirsi meno inquieto.

Meno necessario. Si sentiva come un eroe fragile, il punto fermo attorno a cui tutto stava accadendo.  L'occhio del ciclone attorno a cui tutto si distruggeva.

“Ti abbiamo aspettato per dieci anni,” così aveva dichiarato il capo. “Se non fossi arrivato tu, non ce l’avremmo mai fatta.”


Camminò fino al tempio, ne ammirò i quattro edifici antichi in legno, verniciati di rosso acceso come da tradizione, rialzati e protetti dalle caratteristiche ringhiere rosse. 

Si immaginò come sarebbe stato lui se avesse fatto parte della struttura del tempio: un edificio troppo grande, sghembo, costruito alla rovescia. Un elemento che avrebbe tolto armonia al luogo, catturando l’attenzione di tutti. 

L’armonia era nel gruppo di edifici uguali, nella ripetizione. La forza era nel gruppo.

Alzò lo sguardo: il bosco, fitto, permetteva ai fedeli di pregare, così come consentiva a lui di non soffrire troppo il caldo. Forse era quello il suo ruolo: essere il ristoro, contribuire nella sua singolarità a fare parte del gruppo, a proteggerli, a guidarli nella raggiunta della fine, qualunque essa fosse, così come loro proteggevano lui. 


Al suo ritorno al dormitorio si sentiva rinfrancato, pensando che ciascuno ha la parte che il destino gli riserva. A lui era stata destinata l’unicità che lo rendeva un buon leader e avrebbe fatto la sua parte.


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Partecipa al COWT 14
Prompt: Rinascita
Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Will, Principe, Gallica, Russell
One shot



Il potere della speranza

Quella mattina il principe si era svegliato tardi. Gruidae, che comandava il villaggio degli Elda, l’aveva accolto con la solita riverenza, accompagnandolo al tavolo dove lo aspettava una ricca colazione con tutto ciò che avrebbe mai potuto desiderare. Non aveva fame, ma come sempre si era sforzato di mangiare in modo da non deludere la governatrice Gruidae, poiché si rendeva conto che il solo fatto che lui continuasse a vivere dava speranza a tutti nel villaggio.

A volte pensava che quella vita al villaggio degli Elda fosse una prigionia dorata. Non gli era concesso di uscire, anche se sognava di viaggiare e avrebbe desiderato vedere il mondo. Purtroppo era ormai rassegnato al fatto che debole com’era passava le sue giornate seduto all’aperto, all’ombra degli alberi intorno alle fate a guardare i fiori ondeggiare sul manto erboso. Leggere il suo libro, eredità donata dai suoi genitori, e sognare erano le sue uniche occupazioni, e la sua salute stava peggiorando.

Lo notava negli occhi preoccupati dei suoi custodi, in particolare nella sempre più assidua presenza di Russel. Ne aveva conferma nei momenti in cui il dolore lo rendeva stanco e incapace di muoversi. “Posso andare a trovare mio padre?” Aveva chiesto subito dopo colazione, ma Gruidae aveva distolto lo sguardo con aria quasi colpevole. “Attendete, manca poco ormai, presto sarete libero.”

Si era chiesto in che senso la saggia Gruidae avesse usato la parola libertà: sarebbe morto? Si sarebbe liberato della maledizione? Oppure forse chi aveva già tentato di distruggere il villaggio sarebbe tornato a completare il lavoro?

Più cercava di scacciare la domanda, più la risposta gli appariva chiara: non aveva più tempo.

I suoi sogni sarebbero rimasti solo nella sua mente, avrebbe concluso la sua vita nel villaggio degli Elda e non avrebbe più rivisto suo padre.

Lesse qualche pagina del suo libro, la sua più importante possessione, ma fu costretto a smettere per il dolore agli occhi. Si addormentò a fatica, sforzandosi di scacciare le spine che si continuavano a fare strada sulle sue braccia, fino al collo e alle mani. Provò a concentrarsi su altro e si immaginò di fuggire da lì, pensò a Grand Trad e alle sue strade brulicanti di negozi, cittadini, attività e palazzi da vedere. Non per lui, non li avrebbe mai potuti vivere.

Chi avrebbe potuto prendere in giro? Forse anche solo pochi mesi prima avrebbe potuto tentare di fuggire, ma con le sue forze non aveva speranze neppure di uscire dal villaggio.

Quella notte sognò la libertà.

Fu un sonno sereno. Si vide diverso, più alto, la carnagione più rosea, i capelli corti più scuri. Magari fosse stato così: il portamento elegante e sicuro, gli occhi di colori differenti, gentili e ricchi di vitalità, il completo da viaggio comodo. Si sentì più forte, i rovi e le spine finalmente avevano lasciato il suo corpo e lui poteva correre per minuti interi, prendere fiato senza sentire dolore, persino maneggiare una spada.

Quando si svegliò pensò a quanto il sogno gli avesse mostrato una prospettiva più attraente rispetto alla realtà che stava vivendo.

Mangiò senza appetito, concentrandosi sulla lettura del suo inseparabile libro, l'utopia che lo spingeva a resistere nonostante il dolore sempre più pungente. Provava fatica anche solo a tenere gli occhi aperti e a respirare. Russel era al suo fianco, un'ombra che lo avrebbe protetto da chiunque avesse tentato di attaccarlo dall'esterno.

Il principe provava un'immensa gratitudine per lui e per tutti gli abitanti del villaggio, che gli erano sempre stati vicini con devozione.

"Grazie di tutto, Russel." Gli disse.

Il vecchio Eugief alzò la testa e sorrise con un'iniziale debolezza. "E di cosa, signore? È un onore per me essere al suo servizio."

"Sono grato di questo. Mi dispiace solo non riuscire a essere utile." Se solo avesse avuto la capacità di salvarsi con le sue forze, le cose sarebbero potute andare diversamente. "Ci tengo a ringraziare tutti. Lo faccia lei da parte mia, se non dovessi riuscirci."

Russel aprì la bocca, ma non parlò. Annuì, gli occhi fieri e consapevoli.

Il principe si alzò dal tavolo, prese il suolibro e fece pochi passi verso l’uscita, si sentì cadere. Crollare.

Mentre il corpo lo abbandonava, pensò che la sua mente invece era forte, che avrebbe ancora potuto salvarsi, come nel sogno. Concentrò tutte le sue energie nel pensiero che sarebbe stato egli stesso l'artefice del sue destino. Gli venne in mente sua madre, di cui non ricordava neppure il volto. Che l'avesse mai vista veramente prima di allora? In quel momento gli appariva nitida di fronte, come una guida nella nebbia del dolore, pronta a indicargli la via di uscita.





Gallica sentì il grido di dolore di Russel dal santuario nel quale stava parlando con Gruidae. Agitò le sue ali il più veloce possibile per correre a vedere cosa fosse accaduto e vide il principe a terra, esanime. Al suo fianco, dalla luce brillante dell'essenza del principe, un essere vivente stava prendendo forma. Il suo aspetto era così simile a quello del principe, che la Fairy si chiese se non stesse impazzendo. Poteva sentire il Magla convergere verso quella creatura, lo vedeva crescere e apparire sempre più tangibile. I capelli erano scuri, un occhio dorato, uno azzurro. La stessa età del principe. Due gocce d'acqua. Gallica lo osservò mentre prendeva forma, incapace di concentrarsi sul resto.

"Gallica, aiuto! Il principe non si sveglia!" Le parole di Russel echeggiavano nella sua testa senza apparente significato. Una missione, pensava: abbiamo una missione.

 

Sbatté le palpebre di nuovo e vide una moltitudine di persone che si affannavano intorno al corpo addormentato del principe. Il suo corpo fu posato nel santuario dai membri della guardia che ancora erano leali al gruppo di Russel, Gruidae appariva stremata dall'impossibilità di poterlo salvare.

Lo strano ragazzo osservava il principe in un pianto silenzioso, teneva in mano il suo libro e appariva ancora lucente di Magla. Gallica si diresse verso di lui, ma più si avvicinava, meno pensava che lui fosse un pericolo. Un amico, il suo amico. Abbiamo una missione.


La sera stessa Will e la Fairy partirono per la missione: l'infiltrazione nell'esercito per raggiungere Grius, l'assassinio di Louis Guiabern per salvare il principe.

Sei l'unica rimasta, gli aveva detto Russell. Invece erano in due. Per un attimo il dubbio la fece dubitare, ma poi guardò Will e le sue paure si dissiparono. Dovevano fare attenzione, l'unico obiettivo della missione era salvare il principe.




Il principe dormiva, in preda alla maledizione che l'aveva ridotto in fin di vita, eppure stava anche vivendo la sua avventura come Will: il corpo creato dalla sua speranza e dal suo desiderio di far parte di una società diversa.

Nel suo sonno incantato, il principe aveva incontrato persone di ogni tipo, aveva combattuto con Strohl, Hulkemberg, Heismay, Junah, Eupha e Basilio. Aveva parlato di uguaglianza e di rispetto e si era impegnato a vendicare la morte del Re, di suo padre, di loro padre.

La morte di Rella Cygnus l'aveva infine riportato alla veglia.

Il risveglio non fu semplice quanto aveva sperato. Il contatto con l'altro se stesso si interruppe di colpo quando la maledizione si spezzò, al punto che il principe si chiese se Will non fosse svanito nel nulla. Rimase fermo, disteso, incapace di muoversi.

"Le spine, sono svanite!" Un urlo di gioia echeggiò nel santuario e lui aprì gli occhi. Desiderò di toccare con le sue mani il muro della grande Cattedrale di Grand Trad, di solcare l'oceano sul Gauntlet Runner, di chiedere a Eupha cosa vedesse nel suo Magla. Seppure disteso, inerme, il principe sorrideva. Non sentiva dolore.

La rinascita era avvenuta.

Presto si sarebbe riunito con Will e, di nuovo uno, avrebbero guidato il regno di Euchronia. 

 

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Originale
Prompt: una storia senza discorsi diretti o indiretti.
Partecipa al COWT 14

 

Yuki e la caccia alla pallina


Le orecchie bianche del gatto erano appiattite all’indietro, la lunga coda esile ondeggiava con aria curiosa, le zampe agili, tese in posizione di scatto e i due occhi: uno azzurro e uno verde osservavano con attenzione, fissi sulla piccola pallina di stoffa a righe blu e argento.

L’umano teneva l’oggetto stretto in una mano: lo faceva ondeggiare avanti e indietro, ripeteva il movimento con lentezza. Yuki non perdeva di vista l’oggetto. Il ragazzo tese il braccio all’indietro con rapidità, sempre seguito dallo sguardo dell’animale, per poi lanciare la palla nella direzione opposta. Yuki scattò per inseguirla con tutta la velocità che aveva. Il pavimento di legno verniciato dell’appartamento, liscio, non gli consentì uno scatto fulmineo: le sue zampe posteriori all’inizio scivolarono sulla superficie levigata, prima che lui riuscisse a muoversi in direzione del gioco, che aveva rimbalzato lungo il corridoio e oltre la porta.

Yuki non lo perse di vista: entrò nel salotto, dove inseguì la pallina sotto il divano e la agguantò con le zampe anteriori. La morse con forza, poi la lanciò con una zampa e la fissò mentre scivolava lenta verso il corridoio. Il piede dell’umano la rispedì contro di lui velocemente e Yuki la fermò con la zampa, per poi sedercisi sopra. 

Un rumore di plastica strappata si liberò nella stanza. Il gatto tese le orecchie e si alzò con lentezza, per quanto sotto il mobile non ci fosse spazio per camminare comodamente. La sua testa sbucò fuori da un lato del divano azzurro. L’umano teneva in mano una confezione di snack al salmone disidratati.

Yuki lasciò andare la pallina e uscì strisciando da sotto il divano. 

Il fornitore di cibo lanciò il premio nella sua direzione e Yuki corse ad agguantarlo. 

Inseguì lo snack correndo e lo fermò con una zampa per poi consumarlo immediatamente.

Si voltò sbadigliando e si avvicinò con lentezza al tiragraffi. La sua coda ondeggiava con grazia. Sollevò la testa, poi alzò una alla volta le zampe anteriori che appoggiò sul cilindro rivestito di corda. Sbadigliò di nuovo mentre si faceva le unghie. Poi saltò al primo piano del tiragraffi, sistemò il cuscino puntellandolo con le unghie delle zampe anteriori e si acciambellò. Il ragazzo lanciò il sacchetto di plastica con gli snack nel cassetto del salotto e uscì dalla stanza. Rimasto da solo nel silenzio Yuki, da sempre un maestro nell’arte del riposo, chiuse gli occhi e si mise a dormire.


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Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Rella Cygnus, Junah Cygnus, OC (Maya Mei)
One Shot
Partecipa al COWT 14
Incipit: Stava ridendo ininterrottamente da più di dieci minuti, la cosa cominciava a farsi fastidiosa. “Potresti piantarla per favore?”

Maledette risate

Stava ridendo ininterrottamente da più di dieci minuti, la cosa cominciava a farsi fastidiosa. “Potresti piantarla per favore?”

Iniziò a ridere ancora più sguaiatamente. “Sto piangendo!” riuscì a pigolare, indicando le lacrime che ormai erano arrivate a bagnarle il colletto della camicia.

“Se continui così ti strozzi.”

Non c’era niente che lei potesse dire per farla smettere: sua sorella pareva sotto un incantesimo. Per un attimo il pensiero prese forma. “Un incantesimo? Non è che stai male davvero?” 

Junah provò a prendere un respiro profondo, ma sembrava davvero incapace di fermarsi. 

Rella cominciava davvero a preoccuparsi, nel dubbio iniziò a recitare una formula magica per provare a ipnotizzare sua sorella, che di punto in bianco si zittì, si alzò in piedi e le si avvicinò barcollando. 


Erano rari i momenti in cui le due sorelle potevano stare insieme con spensieratezza. Il segreto che Rella si portava dentro la stava consumando ogni giorno di più e Junah era la sola in grado di farle dimenticare quali nefandezze avesse compiuto nella sua breve vita. Quando era alla chiesa e operava come guaritrice, la Ishkia pregava di trovare un modo per eliminare la maledizione che aveva lanciato sul principe. Ci aveva provato ogni giorno, ogni volta che aveva un minuto libero. 

L’espiazione del suo enorme peccato non sarebbe mai avvenuta. Peggio, avrebbe finito col farsi odiare da sua sorella, dall’unica persona che Rella voleva davvero proteggere. Senza saperlo, sua sorella si era messa proprio contro di lei nel momento in cui aveva deciso di combattere per uccidere l’autore della maledizione che stava portando il Principe alla morte.


Ora il suo pensiero principale, però, era capire cosa fosse successo a Junah e perché non potesse smettere di ridere. Il suo controincantesimo avrebbe potuto rallentare gli effetti della maledizione, ma Rella non aveva molto tempo per capire che cosa fosse successo.


Si sedette di fronte a lei. "Sempre elegante, sempre perfetta." Sotto ipnosi, la voce di Junah era meccanica, ma comunque sincera.

"Grazie," rispose Rella, certa che quello non fosse un complimento. "Ma ora abbiamo pensieri più urgenti di cui occuparci: raccontami tutto ciò che hai fatto oggi, a partire da stamattina."

"Mi sono alzata e per prima cosa mi sono recata in bagno, poi ho cominciato a spazzolare i capelli, poi ho fat-"

"Va bene, va bene. Ferma un attimo. Non mi servono tutti i dettagli, mi basta sapere cosa hai mangiato, cosa hai bevuto, quando sei uscita e chi hai incontrato oggi."

Junah annuì. "Ho bevuto dell'acqua a casa, poi ho mangiato una mela e ho cucinato un piatto a base di uova per colazione, ho aggiunto sale e il timo di mare che era in cucina. Sono uscita di casa e ho fatto acquisti al mercato.

Ho incontrato Lucius, che mi ha regalato un pendente nuovo per il bracciale. Eccolo.” Junah mostrò un piccolo ciondolo a forma di mezzaluna, attaccato al suo bracciale da un anellino di metallo. “Poi sono andata da Hurlet per dirgli che canterò al festival della Luna. Ho bevuto un tè caldo insieme a lui e alla Santista che era lì. Tornando indietro ho… Ahah! Ho preso la cena, quella che ho preparato. Eh- E che è in cucina.”

Le risate stavano cominciando a tornare. Rella ripeté la formula magica nella sua mente. Mentre la pronunciava sentiva le spine muoversi lungo la sua schiena, fino alle braccia. Le ricacciò indietro stringendo i pugni. Non aveva tempo per pensare a se stessa.

Andò in cucina a esaminare il timo di mare e le altre erbe poste di fianco alla cucina economica. Sembrava tutto in ordine: Rella aprì ogni singolo vasetto e lo annusò, ma non trovò niente fuori posto. Si grattò il mento mentre si concentrava nei suoi pensieri. Camminò a passo veloce verso la sorella ed esaminò il suo bracciale. Niente maledizioni. Non sospettava di Lucius, ma non aveva idee, perché nessuno in città aveva brutti rapporti con Junah.

“Junah, pensi che qualcuno ti voglia fare del male? Hai litigato con qualcuno.”

La ragazza stava fissando il pavimento, intontita dall’incantesimo di protezione. “Sempre la solita gelosia.” Alzò lo sguardo. “Devo cantare sempre io? Ti sembra giusto?”

“E chi dovrebbe cantare?” Tentò la guaritrice.

“Sempre Junah, sempre lei. Le altre non valgono le sue scarpe.” Junah rise di nuovo, gli occhi incupiti.

Rella ripeté la formula una volta ancora. “Non è vero, io vorrei sentire qualcun altro cantare.”

Junah batté le mani. “Devi ascoltare Maya Mei, lei sì che è brava. Doveva cantare al festival della Luna, e lo farà.”

Era come se l’incantesimo stesse confessando le sue intenzioni, Rella sapeva che questo significava che era stato attivato da un novellino, incapace di renderlo efficace. 

"Vieni con me, Junah, andiamo a cercare Maya Mei."

Junah si alzò di scatto e alzò le braccia come per festeggiare. "Evviva! Andiamo ad ascoltare la mia Maya." Si fermò in mezzo alla stanza. "Mi farà un autografo? Canterà con me?"

Rella aprì la porta e la invitò a seguirla. "Certo, farà tutto quello che vorrai."

Camminavano veloci: Rella guidava il passo, elegante e sicura, ripetendo la formula di protezione. Junah la seguiva un po' barcollante, fermandosi di tanto in tanto per poi ripartire di corsa per raggiungere la sorella. Salirono sul carro che le avrebbe portate da Hurlet. Junah continuava a ridacchiare, ma non era in pericolo di vita, aveva ancora tempo sufficiente per trovare il colpevole e capire come dissolvere la maledizione. Nel caso in cui non ci fosse riuscita, anche se la cosa non le piaceva, sapeva che la soluzione era nelle fiamme. Avrebbe bruciato il regno intero per salvare Junah. Non avrebbe lasciato che morisse. Non avrebbe aggiunto alle sue colpe anche la morte dell'unica persona che aveva sempre giurato di proteggere a ogni costo.

Arrivò alle porte della piccola chiesa del borghetto di Luntim, dove Hurlet governava sotto la buona stella della chiesa Santista. Le porte si aprirono di fronte a lei nonappena si sporse dalla finestra del carro coperto.

Hurlet arrivò ad accoglierla con gioia, ma il suo sorriso si smorzò quando vide scendere anche Junah. "Oh, per il cielo! Cosa è successo?"

La sua preoccupazione parve sincera a Rella, che lo rassicurò: "Reggente Hurlet, la ringrazio per l'accoglienza. Sono venuta qui proprio per comprendere meglio la situazione. Junah mi ha riferito del vostro incontro poche ore fa. Purtroppo come può vedere, una maledizione ha colpito la canzoniera, ed è mio compito comprenderne le origini."

Il reggente scosse la testa con veemenza. "Io non ne so niente!" Affermò perentorio. "Ho insistito tanto perché accettasse di venire al festival della Luna."

"Ne sono a conoscenza." Confermò Rella con tranquillità. "Le sue buone intenzioni non sono in discussione. Volevo solo sapere se  qualcuno fosse contrario all'esibizione di Junah. Forse qualcuno devoto a Maya Mei."

"Maya Mei! Dov'è?" Junah si guardava intorno con occhi sognanti. 

Hurlet rimase pensieroso per qualche istante, d'un tratto sgranò gli occhi. "Io... Io credo di sapere chi è stato."


La cuoca Tina apparve sorpresa quando Rella la Guaritrice apparì in tutta la sua eleganza di fronte a lei, nel corridoio cupo che portava alla sua umile stanza.

"Buonasera, le dovrei parlare un attimo." La Santa accompagnò la richiesta con un sorriso, ma  la signora Tina ne colse l'urgenza e si mise in fretta lo scialle per poi avviarsi verso la cucina.

Le due donne si sedettero una di fronte all'altra.

"Oggi dalla cucina sono stati serviti dei biscotti al miele e del tè, li ha preparati lei?"

La donna apparve sorpresa. "S-sì, li ho preparati io personalmente. Ho preparato le infusioni e i biscotti con le mie mani. Sono perfetti, ne ho ancora qui." La donna indicò una scatola di latta.

Rella annuì: "Posso vederli? Anche le erbe per le infusioni per favore."

La cuoca porse la scatola coi biscotti e aprì il coperchio, rivelando un intenso profumo di cannella e miele. Rella ne prese uno e lo esaminò con attenzione, poi lo addentò. "Davvero buono." Ammise guardando la cuoca che stava finendo di posare sul tavolo i barattoli che contenevano le erbe per gli infusi. Rella aprì ogni scatola e ne esaminò con attenzione il contenuto. "Niente. Non è stata lei." Disse rivolta alla guardia che l'aveva accompagnata in cucina.

"Cosa è successo?" domandò la donna con un filo di voce.

"Qualcuno ha lanciato una maledizione su Lady Junah." Ammise Rella, osservando nella donna una reazione di sorpresa.

"Maya..." Sussurrò la donna.

Una ragazza nella penombra della stanza stava piangendo in silenzio. Rella camminò elegante e leggera verso di lei. "Sei tu Maya Mei?"

La ragazza annuì. "Io non so come sia successo, non volevo..."

Rella le posò un braccio sulla spalla, rassicurante. “Tu volevi solo cantare, vero?”

Maya alzò lo sguardo, colpevole. “Non ho fatto niente.”

La guaritrice mandò a chiamare Junah. Le due stavano una di fronte all’altra mentre Rella pronunciava le sue parole di guarigione. 

“Fatto, ora non ci dovrebbero essere altri problemi, non preoccuparti, non l’hai fatto di proposito.” 

“Sono mortificata, Lady Junah e Santa Rella.”  Si scusò ripetutamente Maya.

Sulla via del ritorno, Rella sedeva pensierosa. Quella ragazza aveva una dote pericolosa da gestire e si sarebbe dovuta occupare di lei. Doveva aiutarla a conoscere il suo potere.
Come Junah le aveva insegnato: o
gni vita è preziosa. Sorrise. La sua cara sorella era salva.

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Fandom: Persona 3
Personaggi: Shinjiro, Kotone Shiomi, S.E.E.S.
Incipit: Entrò nella stanza chiedendosi perché lo stesse facendo.
Partecipa al COWT 14
One shot, what if?


La guarigione di un fiore appassito

Entrò nella stanza chiedendosi perché lo stesse facendo. Shinjiro la richiuse dietro di sé tenendo gli occhi chiusi. Prese fiato prima di guardarsi intorno e nel farlo sentì il suo profumo.
Che profumo? Si chiese, ma non sapeva distinguere i fiori e le essenze che lo componevano. Conoscendo Kotone, era probabile fosse un bagnoschiuma che aveva preso al supermercato. A lui ricordava la primavera, gli alberi fioriti e il calore tiepido del sole sulla pelle.
Quante volte si era domandato perché lei avesse insistito nell’approfondire il loro rapporto, quando lui aveva usato tutte le sue forze per tenerla a distanza, lei e tutti gli altri.

Il coma nel quale era caduto per lui non era stato che un sogno, neppure tanto lungo a dirla tutta. Si era svegliato e lei era seduta di fronte al letto, leggeva a voce alta un libro che lui non conosceva, era seduta rivolta alla finestra, la testa appoggiata a uno dei braccioli della poltrona, una gamba ciondolava sull’altro. “Cosa leggi?” Le aveva chiesto.
Quando i loro occhi si erano incontrati, Shinjiro l’aveva vista stanca come mai prima di allora.
Era rimasta a bocca aperta per qualche istante, prima di cominciare a parlare. “Pensavo che non ci saremmo mai più visti in questa vita.” Il suo sorriso così sincero l’aveva spinto a tentare di andarle incontro, ma il suo corpo non aveva risposto come avrebbe dovuto: il braccio aveva scostato il lenzuolo a fatica, il resto del suo corpo era rimasto immobile. Si era lasciato sfuggire un sibilo di dolore e frustrazione.
“No, stai fermo, arrivo!” Aveva urlato Kotone, alzandosi di scatto e rischiando di cadere dalla poltroncina scomoda dell’ospedale.
Gli si era avvicinata a braccia aperte, Shinjiro ricordava ancora il suo abbraccio caldo, la delicatezza delle sue mani mentre sistemavano il lenzuolo, gli accarezzavano il viso.
Si chiese perché fosse ancora lì, di fronte a lei. Proprio quando si era convinto di avere accettato la morte, si era ritrovato a sperare di potere vivere.
Con fatica, Shinjiro alzò le mani e le posò sul viso di Kotone, che non si oppose, neanche quando il suo viso si avvicinò di più, neanche quando portò le sue labbra alle sue fino a baciarla.


Shinjiro strinse i pugni. Un tempo si sarebbe abbandonato alla rabbia, ma era cambiato da quando l’aveva vista morire: Kotone si era addormentata tra le sue braccia e non si era più svegliata. Le aveva promesso che avrebbe continuato a vivere, che le avrebbe raccontato ciò che avrebbe visto una volta dall’altra parte, perché ormai lui era certo che ci fosse un’altra parte, oltre alla vita. Non poteva credere che tutto smettesse semplicemente di esistere.

Aprì gli occhi e si lasciò inondare di ricordi: il computer sulla scrivania, le sue cuffie, i libri e la matita gialla con cui una volta gli aveva scritto un biglietto. “Stasera usciamo, non andare in giro, aspettami! Kotone.” Lui l’aveva gettato nella spazzatura, che sciocco.
Il suo zaino posato sulla sedia, la giacca invernale appesa al gancio.
Shinjiro aprì l’armadio e prese la sciarpa rossa che spesso indossava. La strinse tra le mani e si distese sul letto, pianse fino a dormire.

Quando si svegliò, fuori era buio. Shinjiro si alzò e si mise in ascolto: poteva sentire in lontananza le voci di Junpei e di Akihiko. Non avrebbe potuto evitare di vederli. Prese la matita gialla e la ripose nella tasca della giacca, mise al collo la sciarpa e uscì dalla stanza.

Scese le scale cercando di fare rumore per annunciare la sua presenza. Non voleva che qualcuno si spaventasse nel trovarselo di fronte come era già successo in passato.
“Shinji-” Mitsuru fu la prima ad avvicinarsi. “Come stai? Sono passati… giorni.”
Lui annuì. “Sono passato a prendere… un ricordo.” Indicò la sciarpa.
“Hai fatto bene a tornare.” Akihiko si avvicinò lentamente, come si fa con le creature selvagge quando non si vuole che scappino. “Resti con noi per cena? Stiamo preparando un… non so cosa in effetti, ma ce n’è anche per te.”
Desiderava andare via, continuare ad aggrapparsi al suo lutto e al dolore che provava in ogni istante, ma annuì e si lasciò guidare al tavolo dai suoi amici. “Grazie dell’invito.”
“Dove stai dormendo?” Mitsuru era sempre stata diretta.
“Ho dormito così tanto che ultimamente non ho molto sonno.” Tentò di scherzare, ridacchiando in modo forzato.
“Dormi qui, allora.”
Di nuovo, Shinjiro si ritrovò ad annuire.
Era certo che Akihiko desiderasse fargli un centinaio di domande, lo osservava mentre preparava la tavola. Sembrava nervoso, preoccupato, ma felice di vederlo.
Shinjiro si schiarì la voce: “Chi avrebbe mai immaginato che sarei arrivato vivo oltre il vostro diploma? Eppure eccomi qui!”
“Stai prendendo qualcosa?” Akihiko aveva un tono serio.
“No, da quando mi sono svegliato non ho preso i soppressori, né altro. Devo ammettere che mi sento un po’ meglio da quando è tutto finito.”
“Bene,” Mitsuru sorrise e alzò lo sguardo con prudenza prima di continuare. “Domani chiamo qualcuno, vorrei fare dei controlli con un medico per capire se è possibile aiutarti, se vuoi.”
“Mmh- ti ringrazio. Non ti prometto che mi farò di nuovo trattare come un esperimento da laboratorio, ma apprezzo per la proposta.” Shinjiro avrebbe voluto rispondere che non gli interessava della sua vita, che non se ne sarebbe fatto niente di sapere se sarebbe vissuto oppure no, ma doveva la sua vita a Kotone e l’avrebbe rispettata, avrebbe fatto del suo meglio per togliersi di dosso quel senso di colpa che si stava portando dietro da ormai troppo tempo. “Farò del mio meglio.”

Le cose non stavano andando così male. Shinjiro aveva iniziato la sua riabilitazione nell'ospedale dove era stato ricoverato durante il coma, inoltre aveva accettato l'aiuto di Mitsuru. Gli avevano fatto una quantità enorme di esami, aveva dovuto seguire diverse terapie per sopportare il dolore e per tentare di far regredire i suoi sintomi.
Dopo sei mesi, finalmente Shinjiro poteva dire di stare abbastanza bene. L'Ora Buia non esisteva più ormai, e la vecchia vita dei S.E.E.S. era rimasta nel passato.
I medici gli avevano spiegato che la sua condizione era migliorata proprio in virtù di questo mutamento nella realtà, che si era ripercosso anche nella sua condizione fisica.

Il telefono iniziò a vibrare e Shinjiro lesse il nome di Mitsuru, si sentivano spesso, ma in genere lei non lo chiamava. "Pronto, come va?"
"Ciao, direi che va bene! Ho sentito le buone notizie, pare che resterai con noi ancora un po' di tempo."
"Pare di sì, la terapia sembra funzionare, anche il dolore è diminuito parecchio."
"Io ti ho chiamato perché, lo sai: dobbiamo liberare la stanza. Io non vorrei, ma... Volevo chiederti se vuoi farlo tu, se desideri tenere qualcosa." Se lo aspettava. Immaginò quando la sua amica avesse aspettato prima di chiamarlo.
"Ci vediamo stasera."

Entrò per l’ultima volta nella stanza di Kotone sperando di ritrovare ancora il suo profumo nell'aria, che la sua presenza fosse ancora tangibile negli oggetti della stanza. Era passato troppo tempo, però, infatti il profumo era svanito. La stanza odorava di polvere, infatti il ragazzo aprì la finestra. Iniziò a riempire lo scatolone coi suoi libri, scorrendone le pagine in cerca di un appunto, di una frase. Aprì il cassetto della scrivania e cominciò a riporre gli oggetti. Si sentiva quasi in colpa per la sua intrusione, frugare tra le sue cose era sbagliato, ma lei non c'era più e non sarebbe tornata a sgridarlo.
Dentro il cassetto più piccolo c’era un contenitore con il simbolo dei S.E.E.S. disegnato a mano. Shinjiro lo aprì, rivelando delle lettere indirizzate a ciascuno di loro.
Prese la sua e si lasciò cadere a sedere sul letto. Le sue mani tremavano mentre strappava la busta.

Caro Shinjiro,
in questo momento stai dormendo. So che dormirai ancora a lungo, ma sono certa che un giorno ti sveglierai e forse chiederai di me. Io però in questi giorni mi sento molto stanca. Non sono certa che ci rivedremo. Sembra che gli altri si stiano dimenticando di ciò che è successo, temo che anche la mia memoria presto svanirà dalla loro mente e io, l'ora buia e il motivo per cui tu sei in coma diventeranno una domanda alla quale non saranno in grado di rispondere. Forse è meglio così. Nel cuore, spero che anche tu mi dimenticherai e vivrai nella serenità fino alla vecchiaia. La lettera è per me. Sono io che voglio dirti addio, vorrei che tu sapessi che senza il tuo pensiero, forse io sarei già svanita dai ricordi e dal mondo.
Strano il destino, vero? Né io, né tu abbiamo chiesto di avere un ruolo nella storia del mondo, invece eccomi qui a chiedermi perché proprio io.
Però sono contenta, sai? Perché anche se voi non saprete chi sono, io potrò portarvi tutti nel mio cuore. Saprò che ho contribuito a permettere agli altri e spero anche a te di vivere.
Mi mancherai, Shinjiro.
Tua, Kotone.


Shinjiro finì di riporre i suoi oggetti nelle scatole e uscì dalla stanza. “Ciao, Kotone.”
Chiuse la porta con un sorriso, e scese le scale. Non l’avrebbe mai dimenticata, ma proprio come lei stessa gli aveva chiesto di fare, non si sarebbe più fermato a rimpiangerla.
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Fandom: Persona 3
Personaggi: Mitsuru Kirijo, Akihiko
Genere: Introspettivo
Prompt: Orologio
Partecipa al COWT 13
La Dark Hour non c'è più, ma non è facile dormire sereni quando si sa che il tempo a volte può sparire.


L’ora che svanisce

Il sole stava tramontando sul mare. Mitsuru osservò l’orologio: erano le otto e un quarto, aveva ancora tempo.
Puntò lo sguardo sul sole rosso della sera pensando che non avrebbe dovuto farlo, perché si sarebbe solo rovinata gli occhi. Non le importava, però, perché il dolore che sentiva, contrastato dal suo corpo grazie alle lacrime che stavano cercando di lenire la cornea, non era che un sintomo naturale dovuto al suo sforzo di guardare la luce, e lei in quel momento aveva un bisogno disperato di essere a contatto con la realtà.
Dopo poco chiuse gli occhi, sconfitta: non aveva senso resistere, ormai lo aveva capito.

Per quanto fosse strano e sciocco ammetterlo, le mancava la Dark Hour. Almeno quando erano nel Tartarus lei valeva qualcosa, era utile a qualcuno. Ricordava come avesse passato le prime notti dopo la fine di tutto a fissare l’orologio, a osservare l’arrivo della mezzanotte fremendo all’idea di ciò che era stato, sempre immaginando che tutti intorno a lei si fermassero e lei tornasse a diventare l'artefice del destino dell'umanità e fosse costretta a combattere ancora per proteggere i cittadini comuni, che ignari di tutto continuavano le proprie vite.
Quando la mezzanotte scoccava, la ragazza andava alla finestra del condominio studentesco nel quale viveva e guardava fuori: niente bare, solo qualche persona che sghignazzava o chiacchierava. Di giorno controllava i giornali: niente strane sindromi, niente gente perduta.
Mitsuru non riusciva più a dormire. Per lei la notte era un susseguirsi di secondi, minuti, ore durante il quale lei osservava le lancette dell’orologio da parete rincorrersi, superarsi, nella prova tangibile che la Dark Hour non c’era più.

Continuava a cavarsela bene nello studio, ma poco a poco si era rassegnata a cambiare le sue routine, perché non riusciva più a vivere il giorno e la notte come tutti gli altri: andava a scuola come tutti, ma al suo ritorno andava a dormire. Si svegliava la sera, quando gli altri cominciavano a prepararsi per riposare, faceva colazione e studiava. Passava la notte in silenzio, per non farsi sentire e per non far capire ai vicini quanto fosse strana. I suoi compagni di corso la invitavano a studiare insieme, in fin dei conti era una Kirijo, una delle studentesse coi voti migliori all’università, perché non avrebbero dovuto desiderare di passare del tempo con lei?
Se solo avessero saputo la verità, Mitsuru era sicura che avrebbero pensato che fosse pazza e forse lo era: era ossessionata dal tenere traccia del passare del tempo e non c’era un solo istante nella sua vita in cui lei non avesse il suo orologio a portata di mano.
Ormai erano passati mesi da quando Makoto si era addormentato per sempre, abbandonando tutti gli altri SEES con i quali aveva combattuto senza risparmiarsi.
Era ancora in coma, proprio come Shinjiro. Forse un giorno almeno uno di loro si sarebbe risvegliato, pensava, ma sapeva che le speranze erano flebili. In ogni caso continuava a pagare l’ospedale perché i suoi amici continuassero a stare lì, nel loro sonno innaturale, nella serenità apparente che era stata causata proprio dalla sua famiglia.

Gli incubi popolavano le sue giornate: sognava di non accorgersi che il tempo era fermo, di trasformarsi in una bara come capitava a tutte le persone normali durante la Dark Hour. Spesso avrebbe giurato di vedere un movimento strano della lancetta, come se qualcosa fosse cambiato da un secondo all’altro, ma dopo un po’ si era convinta che fosse tutto nella sua mente. Aveva messo telecamere in giro per il suo appartamento, contatori meccanici indipendenti per non perdere neppure un secondo. Quando controllava tutti i suoi aggeggi tecnologici però non riusciva a rassicurarsi, anche se non dimostravano anomalie.

Si era chiesta spesso cosa provassero le persone comuni quando si addormentavano per un’ora ogni singola notte, ma non aveva trovato ancora risposte soddisfacenti.

Avrebbe desiderato tanto tornare a vivere come gli altri, come una persona comune. Non ci riusciva, perché anche se il Tartarus non c’era più, continuava a pensare che fosse sempre lì e che lei semplicemente non riuscisse più a percepirne l’esistenza, come non sentiva più la sua Persona che le era stata vicino per così tanto tempo da considerarla una parte di lei. Lo era in effetti. Lo era stata.

Riprese a osservare l’orologio, i secondi passavano regolari: uno dopo l’altro, dopo l’altro.
Aveva smesso di vivere, non incontrava nessuno, non parlava con i suoi coetanei e le sue tapparelle erano sempre chiuse, l’unico compagno era il suo orologio, testimone del passare del tempo, il suo nemico era il senso di colpa, lo combatteva ogni giorno, ogni notte. Ecco perché aveva chiamato Akihiko, invitandolo da lei.
Le costava tanto ammettere di avere bisogno del suo amico, quasi di più di quanto le costasse pensare che lui per Mitsuru era molto di più. La faceva sentire bene, grazie al suo pensiero e alla sua voce al telefono a volte le era capitato di dormire bene, senza incubi, senza brutti pensieri.
Gli aveva chiesto di incontrarla lì, vicino al mare. Era un posto romantico, tranquillo e in inverno col freddo che c’era non era affollato. Le otto e trentacinque, di lui ancora nessuna traccia.
Forse stava diventando pazza, si disse prendendo il cellulare e controllando i messaggi. Per quanto il suo stile di vita fosse indice di uno stato mentale instabile, era sicura che lui non l’avrebbe lasciata ad aspettarlo senza giustificazioni. Non c’erano messaggi.

La ragazza si sentì vuota, distrutta. Si lasciò cadere a terra. Lo fece in modo dignitoso, mantenendo il controllo anche il quel momento di assoluta sconfitta. Gli occhi erano sempre puntati sull’orologio: otto e trentasette. Desiderava piangere, ma si limitò a osservare i secondi che passavano, cercando di regolare insieme a loro il ritmo del suo respiro e del suo cuore. Otto e trentotto.
“Mitsuru? Sei già qui?” Lei non sollevò lo sguardo, pensando che la sua alterazione fosse ancora troppo scoperta, troppo visibile. “Va tutto bene?”
Fu lui ad abbassarsi. Chinato sulle ginocchia, coprì il quadrante dell’orologio con la sua mano e le sollevò il mento con l’indice. “Va tutto bene?” Ripeté.
Lei scosse la testa lentamente e Akihiko la abbracciò. “Anch’io ho paura di non vederla più,” le confessò. “Ma ce la faremo.”
Non era stata una domanda, neanche una proposta. Sembrava più un fatto certo. “Forse.” Aggiunse lei.
Lui le prese la mano e la sollevò. “Cerchiamo di passare una bella serata adesso, abbiamo tanto da raccontarci.”
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Partecipa al COWT 13
Prompt: Naufrago
Cloud Strife
One Shot

Il Naufrago sulle rive di Mideel

Il ragazzo era disteso sul divano, i vestiti ancora sporchi dell’acqua di mare. Mika e sua sorella Hila l’avevano trovato sulla riva, di fianco alla loro casa, pochi minuti prima.

La ragazza aveva chiesto alla sorella di chiamare aiuto, in particolare il dottore per capire se ci fosse qualcosa da fare per lui, se si sarebbe risvegliato.

Quando le due sorelle avevano trovato il naufrago erano corse verso di lui e l’avevano voltato. I suoi occhi erano aperti e vuoi, ma non sembravano morti. Mika accostò l’orecchio al suo petto e sentì il suo cuore battere, il suo respiro lieve, ma regolare.

Lo chiamarono, cercarono di svegliarlo anche con qualche piccolo schiaffo sul volto, ma sembrava svenuto. Solo che non era svenuto, bastava guardare quegli occhi per capirlo.

Hila era spaventata da lui.

“Aiutami a prenderlo per portarlo dentro,” le chiese.

La sorella fece un passo indietro, quasi a volergli negare il suo aiuto. “Lo vuoi portare in casa nostra?” Domandò, incredula.

“Solo fino a quando non lo viene a prendere il dottore. A occhio questo potrebbe essere uno di quegli avvelenamenti da Mako di cui parlava qualche giorno fa il capo. Aveva detto che ce ne sono stati parecchi ultimamente. Non ne avevo mai visto uno, ma guarda.” Mika Schioccò le dita di fronte al viso dello sconosciuto, che non sbatté neanche le palpebre. “Gli occhi blu sembrano finti. È vivo, ma è come se fosse morto. Mi fa pena, non paura.”

Hila si avvicinò per aiutare la sorella. Insieme sollevarono il ragazzo, un braccio ciascuna. Era pesante, più di quanto immaginassero. A fatica, lo trascinarono come un sacco pieno di patate fino dentro la loro casa, sul divano. “Ora vai a chiedere aiuto.” Le ordinò.

Poi Mika prese una bacinella di acqua pulita e un asciugamano e gli sciacquò il viso e i capelli, facendo attenzione a tamponare con delicatezza. I suoi capelli biondi erano sporchi di sabbia e di alghe, la ragazza li pettinò e li pulì con cura. Non aveva il coraggio di avvicinarsi con la pezza ai suoi occhi profondi che fissavano il soffitto come se non potessero fare altro. Si sollevò e provò a incrociare il suo sguardo, per capire se lui fosse in grado di vederla. Gli passò la mano a pochi centimetri dal viso. “Puoi sentirmi? Mi vedi?” Gli chiese.

Lui emesse un lamento flebile, ma non le parve una risposta.

Gli mancava uno stivale, Mika completò l’opera togliendo anche l’altra e continuando con il resto dei vestiti bagnati e sporchi di salsedine. Dovevano pizzicare, si chiese se lui sentiva qualcosa. Nonostante l’imbarazzo continuò a spogliarlo, un capo alla volta. Un lenzuolo a coprirlo perché sapeva che se fosse capitato a lei, avrebbe desiderato lo stesso trattamento.

“Il dottore sta arrivando.” Hila rimase di fianco alla porta, senza mostrare alcun desiderio di avvicinarsi al naufrago. “Ha detto qualcosa?”

Mika scosse la testa. “No, solo un lamento, ma non credo che ci veda.”

Proprio in quel momento, il ragazzo tentò di alzarsi e diresse il suo sguardo vuoto verso di lei. Mika fece un balzo all’indietro, rovesciando in parte l’acqua con la quale lo aveva lavato. “Ri- uh…”

Restò sollevato, di nuovo del tutto privo di segni vitali. Mika decise di aspettare il dottore, che non tardò ad arrivare.

“Questo ragazzo dovrebbe essere morto.” Dichiarò, la luce puntata sulle sue pupille. “È il caso di avvelenamento da Mako più grave che io abbia mai visto. Su un essere umano in vita, si intende.” Sbuffò. “Chissà da dove arriva. Dai suoi occhi direi che è stato esposto all’energia in modo volontario, almeno all’inizio.”

“Un soldato?” Chiese Hila, confusa.

“Non sarebbe il primo a subire questa sorte. Non credo che si renda conto di essere qui con noi. Ora lo porto in clinica, vedremo se qualcuno lo verrà a cercare o se morirà così.”

Nel corso dei giorni seguenti, Mika andò dal soldato misterioso ogni volta che ne aveva l’occasione. La risposta del medico era sempre la stessa: non ci sono novità, sembra stabile. La ragazza gli parlava di Mideel e del mare e gli raccontava come stava passando le giornate. Si era convinta che se lui si fosse risvegliato si sarebbe ricordato di lei. Si vedeva a vivere con lui in un futuro prossimo, ad attenderlo a casa dopo il lavoro, a raccogliere insieme le verdure nell’orto di casa. A vivere insieme, dopo che lei l’aveva salvato.

Questo fino a quando non era arrivata la ragazza. Si chiamava Tifa e appena l’aveva visto si era messa a piangere in un modo così sincero che a Mika si era stretto il cuore. Vederli insieme la fece sentire una sciocca per le sue fantasie romantiche. Non andò più a trovarlo, ma scoprì che in effetti alla fine era guarito.

Avrebbe sempre portato nel suo cuore uno spazio per Cloud, il naufrago che lei aveva salvato.
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Originale
Prompt: Fossili
Partecipa al COWT 13
One shot


La gita al fiume

La prima volta che aveva visto un fossile, Giulio aveva sette anni.
Era molto probabile che gliene fossero passati altri sotto gli occhi, ma all’epoca un sasso valeva l’altro. A scuola poi però avevano parlato dell’origine dell’universo e l’idea che qualcosa potesse arrivare alle sue mani da un passato così lontano lo affascinava e attirava come una formica viene attirata dallo zucchero.
Doveva vederne uno anche lui, magari un po’ di più. Sognava di andare a caccia di fossili, perché la sua amica Alice gli aveva assicurato di averne visti almeno dieci mentre camminava lungo il fiume, tra i migliaia di ciottoli arrotondati dallo scorrere dell’acqua.

“Forse la tua amica ha esagerato un pochino,” aveva provato a convincerlo sua madre, ma Giulio non aveva voluto sentire ragioni e aveva usato tutte le armi a sua disposizione per cercare di farsi portare al fiume: li aveva pregati con occhi dolci e tristi, aveva promesso che si sarebbe impegnato a scuola come mai prima di allora e si era offerto di giocare con il suo fratello più piccolo senza lamentarsi come faceva di solito. La mamma non era apparsa impressionata da tutti i suoi tentativi, ma non aveva detto di no. “Giulio: non pensarci adesso che è lunedì, vediamo cosa succede fino a domenica, chissà quanto durerà quest’idea di cercare fossili.”

“No, mamma, ma è per la scuola, la maestra ha detto che non se ne trovano, ma Alice invece ne ha tanti.”

“Davvero? E come mai secondo te non ne ha portati?” Gli aveva chiesto, e la motivazione del bambino era improvvisamente calata.

Giulio aveva osservato il pavimento con intensità, aggrappandosi all’idea che la sua amica non gli avesse mentito, che ci fossero davvero. “Ma…”

La mamma allora aveva sospirato. “Non preoccuparti, magari non ne ha visti cento, ma due o tre e ha esagerato un pochino. Non aspettarti che se andiamo al fiume ci saranno fossili dappertutto, perché è una ricerca da fare con attenzione e non è detto che ne troveremo. E se dovesse piovere dovremo rimandare, lo sai?”

Il bambino aveva annuito, il volto illuminato da un sorriso. “Allora possiamo andare?”

“Per una volta che dici che ti vuoi impegnare per la scuola, come faccio a dirti di no?” Gli aveva risposto, chinandosi ad accarezzagli il capelli con una mano.

Giulio aveva urlato e le era saltato al collo. “Grazie, mamma!”

Il giorno seguente, a scuola, aveva rivelato le sue intenzioni alla maestra di storia, che aveva continuato a scrivere alla lavagna, ma gli era sembrata felice del suo interessamento al passato. “Ci racconterai come è andata, allora”

Per tutta la settimana, Giulio si era immaginato impegnato a controllare i sassi uno per uno. Nei suoi sogni era vestito di tutto punto, con una cintura col pennellino come gli archeologi e i paleontologi disegnati nel suo sussidiario. Una torcia per illuminare meglio i suoi reperti. Sognava di trovare trilobiti, felci e interi invertebrati visibili in modo perfetto e preciso, proprio come quelli che popolavano le pagine del suo sussidiario e dei libri che gli avevano regalato i genitori per aiutarli a rispondere alle continue domande di Giulio sul mondo preistorico, ormai quasi del tutto svanito.
Poi domenica era arrivata e, con suo grande disappunto il cielo era buio, carico di nuvole. Una fitta pioggia cadeva dal cielo. Niente fiume, niente fossili.

La mamma l’aveva chiamato per la colazione e lui si era diretto al tavolo mesto. Si era seduto e, giocherellando col cucchiaino, aveva guardato la tazza piena di latte e cacao senza il desiderio di mangiare.

“Hai visto, alla fine piove.”

Giulio aveva sospirato. “Non possiamo andare al fiume.”

“Chissà,” gli aveva risposto la mamma, dando al figlio un barlume di speranza. “Il fiume non è l’unico posto dove trovare dei fossili, lo sai?”

“E dove li posso prendere?”

“Prima di tutto, devo confessarti che trovare i fossili non è per niente facile. Quando ne trovi uno, lo devi consegnare, non te lo puoi tenere a casa. Resta il fatto che osservare le pietre è molto interessante, spesso dentro ci puoi trovare tracce degli insetti che le hanno percorse, il colore e la forma spesso ci raccontano dove le rocce e i sassi sono stati e la storia che hanno avuto. A te questo interessa, vero?”

“Sì! Per quello voglio vederle.”

“Perfetto! Allora non andiamo al fiume, ma al museo di storia naturale. Lì vedrai: si possono vedere tutti i fossili che vuoi, e poi ci sono anche le ossa di alcuni animali preistorici. In più ci sono anche tutte le spiegazioni, così a scuola poi magari non porti niente, ma puoi spiegare cosa hai visto ai tuoi compagni. Ti piacerebbe andarci?”

Il bambino piegò la testa, pensoso. Sapeva cos’è un museo, ma non era sicuro di volerci andare. Quando era stato al museo coi genitori, l’estate prima, avevano passato ore a guardare quadri tutti uguali e si era annoiato a morte. Da quella gita gli era rimasto solo un grande male ai piedi.

La madre parve leggergli nella mente. “Non preoccuparti, non è un posto grande come quello che abbiamo visto a Firenze. Questa volta andiamo insieme, solo io e te. Lasciamo a casa il papà e Filippo e noi cerchiamo di passare una bella giornata insieme, ti va?” Giulio corse ad abbracciarla. Aveva fiducia in lei ed era sicuro che non l’avrebbe preso in giro.

Arrivarono al museo dopo un lungo viaggio in automobile, durante il quale Giulio aveva studiato il suo libro sugli animali preistorici. Un po’ gli dispiaceva che il padre e il fratellino fossero rimasti a casa, ma la motivazione della mamma gli era sembrata più che valida: “Così possiamo andare con calma, perché sia il papà che Filippo non hanno molta pazienza, sei d’accordo?” Lo era.

Nei sogni del bambino, la ricerca dei fossili era poetica, come una caccia al tesoro divertente, come un gioco. La visita al museo invece fu molto diversa: fu un viaggio attraverso il tempo che lo portò a conoscere dettagli che alcuni dei suoi compagni di classe potevano sognarsi di conoscere. Era abbastanza sicuro che anche la maestra non fosse a conoscenza di tutto quello che Giulio aveva avuto la possibilità di imparare.

Vide scheletri quasi completi di animali che non esistevano più; ricostruzioni e video che li mostravano in movimento nell’ambiente nel quale vivevano.

Ammirò minerali, fossili e meteoriti dell’epoca dei dinosauri, che fino a quel momento aveva potuto osservare solo nei libri. Non aveva idea che così vicino a lui ci fossero tutte quelle cose meravigliose.

Nel corso della sua visita si immaginò da grande a studiare i reperti: geologia, paleontologia, zoologia, archeologia. Conosceva i nomi di tutte quelle scienze e sognava, un giorno, di potere dedicare la sua vita a studiare il passato.

Quando salirono in auto, Giulio si sentiva stremato dalla giornata intensa e dal carico di conoscenze che avrebbe portato con sé e che avrebbe condiviso con tutti i suoi compagni di classe. La sera raccontò al padre e al fratello tutto ciò che aveva visto, insieme promisero che sarebbero andati a visitare insieme il museo. “Quello o anche un altro,” propose Giulio, tentato dalla curiosità e dal desiderio di vedere di più.

Dopo cena andò a dormire e sognò il suo futuro da paleontologo: si vide a toccare, pulire, ricostruire i fossili. A raccontarne la storia e a scrivere libri che altri bambini un giorno avrebbero letto.

Forse non sarebbe stato il suo sogno per sempre, ma quella notte dormì sereno, come se avesse compiuto la prima parte del suo destino.
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Fandom: The legend of Zelda - BOTW
Personaggi: Link, Zelda
One shot
Prompt: stella cadente
Partecipa al COWT 13



Ricordo di una stella

Link spesso si soffermava a osservare il cielo.
Gli capitava soprattutto di notte, quando le stelle brillavano nel cielo e la luna si muoveva lenta, impercettibile ai suoi occhi rigenerati.
I suoi ricordi del mondo prima del suo sonno centenario erano ancora pochi e confusi, e non gli consentivano di orientarsi come era certo di sapere fare prima.
Conosceva il suo nome: si chiamava Link, quello era certo. Sapeva di essere l'unico in grado di sconfiggere la calamità Ganon, perché glielo aveva detto il vecchio.
E poi c’era Zelda, si ricordava anche di lei. Non avrebbe saputo descriverla, perché non sapeva di che colore fossero i suoi occhi, né se fosse giovane, anziana o bionda. La memoria di lei era senza forma, c’era solo un forte sentimento di protezione.
Sapeva che il suo ruolo era quello di proteggerla e che aveva fallito in modo catastrofico. Alla fine era stata lei a salvarlo e a consentirgli di riposare, di rigenerarsi fino a quando sarebbe stato pronto per tentare un’altra volta.
Determinazione, paura, coraggio, forza, amore.
Quando cercava di ricordarsi di lei, sentiva queste sensazioni.
Si vergognava del suo fallimento, che aveva causato ripercussioni che il popolo di Hyrule stava ancora pagando dopo cento anni, che avrebbe continuato a pagare per i prossimi mille, se lui non fosse riuscito a portare a termine la sua impresa.
Vergogna, morte.
Morte. Nella nebbia della sua memoria c’erano i guardiani e i Colossi Sacri, ma niente aveva una forma definita, era tutto confuso.
Si sedette su una roccia, gli occhi fissi sul castello in lontananza, i pensieri alla principessa. Che fosse davvero ancora in vita? Che avesse realmente resistito tutto quel tempo con la speranza che lui arrivasse un giorno e finalmente mettesse fine all’esistenza della Calamità?
Prese una mela e la addentò, abbandonando per il momento la sua esplorazione dell’Altopiano delle Origini. Sentiva di dovere fare ordine nelle sue idee, solo che non aveva idea di come riuscirci. Non poteva scendere da lassù senza la paravela e gli mancavano ancora due Sacrari da visitare.
Link era ancora intrappolato, ma si sarebbe rimesso in forze e presto sarebbe arrivato al castello, era sveglio solo da pochi giorni e quel corpo era ancora troppo debole, sapeva che sarebbe stato un suicidio correre verso il castello fino a quando non fosse stato pronto. Doveva proseguire con calma: un passo alla volta.
La mela non era stata un pasto molto nutriente, infatti lo spadaccino aveva ancora fame, ma decise che prima di occuparsi di riempire il suo stomaco avrebbe dovuto pensare a raccogliere ciò che gli serviva per raggiungere il prossimo Sacrario, quindi si rimise in marcia per recuperare qualche caldoperone da cucinare, che gli avrebbe permesso di riuscire a sopportare meglio la salita sulla montagna. Lo aspettava una lunga marcia, durante la quale avrebbe recuperato armi e oggetti utili a combattere e a superare i due Sacrari.
Quando finalmente trovò i caldoperoni era ormai quasi buio. I cespugli erano ai piedi di una muraglia di pietra, molto vicino alla grande porta ad arco dove un tempo c’era stato di sicuro un cancello di protezione che divideva la zona di montagna, abitata dalle creature selvagge, dalla collina, molto più ospitale. La porta non c’era più, ma era di certo stata maestosa. Raccolse tutti i caldoperoni che riuscì a prendere e oltrepassò il cancello per farsi un’idea della strada che avrebbe dovuto percorrere l’indomani.
Davanti a lui vide il picco innevato della montagna. Stando a quanto ricordava procedendo oltre avrebbe incontrato un largo fiume ghiacciato. Sentì un rumore di fronte a lui e si fermò a nascondersi dietro un albero. Una creatura simile a un cavallo, con grandi corna bianche e una folta criniera rossa stava camminando poco distante da lui. Link si mosse lento e furtivo, nella memoria quella era l’immagine del pericolo di cui non ricordava il nome. Forse gli avrebbe chiesto come si chiamasse prima di dargli il colpo di grazia, se per disgrazia fosse stato costretto a battersi con lui per raggiungere il Sacrario. Sempre ammesso che il suo viaggio non terminasse prima del tempo a causa di uno stupido Ly… Lynel?
Sospirò, incerto. Non poteva ancora fidarsi delle sue memorie, che arrivavano senza preavviso e che spesso ancora lo tradivano.
La creatura era fiera ed era sicuro che fosse forte, ma lui non avrebbe ucciso, se non fosse stato necessario farlo. Quella fu la sua promessa mentre in silenzio si ritirava dalla montagna.
Lo aspettava una serata di preparazione: doveva cucinare le provviste e riposare per essere in grado di svolgere la sua missione in modo veloce e pulito, come un vero guerriero, per Zelda e per il popolo di Hyrule.
Si distese a riposare ai piedi del fuoco che aveva acceso, ma nonostante fosse stanco non riusciva a cedere al sonno. Link osservava il cielo. Osservare il cielo lo calmava e Link aveva l’idea che fosse sempre stato così, anche prima.
Le stelle erano le stesse che vedeva cento anni prima, loro non erano cambiate e una parte di lui gli continuava a dire che forse osservandole avrebbe trovato qualche risposta o almeno un po’ di fiducia nelle sue apparentemente scarse capacità di combattimento.
Anche se si ripeteva che gli sarebbe bastato un po’ di tempo, la sua convinzione stava scemando ogni giorno di più. Che avessero salvato la persona sbagliata? Che avessero preso un contadino o un mercante convinti che fosse il grande Link e vanificando lo sforzo della principessa, che ancora lottava per tutti loro.
Che le sue memorie fossero tutte bugie impiantate in lui dagli Sheikah per convincerlo a lanciarsi in una missione suicida?
Una stella cadente tracciò la sua scia nel cielo, lenta e silenziosa.
Nel vederla Link si sollevò, ipnotizzato da un’immagine che gli riempì la mente all’improvviso.
Risate. Una giovane ragazza dai capelli biondi lo prese per mano. Una treccia le coronava il viso, mettendo in risalto le orecchie a punta, proprio come le sue. La ragazza gli sorrideva, gli occhi azzurri, come la sua veste ornata ed elegante, apparivano tristi.
I due ragazzi erano in una capanna, non erano soli perché la principessa aveva sempre degli accompagnatori oltre a lui. Poteva sentire due voci femminili in lontananza.
Zelda lo guidò fuori dalla capanna e insieme continuarono a camminare fino a quando le luci della capanna non furono abbastanza distanti da non accecare più i loro occhi. Nel buio della notte i due si sedettero ai piedi di un albero.
“Sai, Link, non ero mai stata qui senza mia madre prima di oggi. Mio padre mi ha detto tantissime volte che se voglio imparare a combattere e fare la mia parte contro la Calamità non devo perdere tempo a fare le scampagnate. Però questo posto mi ha sempre attirata: qui c’è un grosso potere che gli Sheikah hanno trovato e utilizzato. Nei libri che ho letto lo chiamano ‘Sacrario della Rinascita’. Penso che forse potrebbe aiutarmi a risvegliare i miei poteri, sempre che io li abbia.”
“Sono sicuro che ci riuscirai.” Sentì dire alla sua stessa voce.
Il luogo era lo stesso che Link aveva scelto per bivaccare più di cento anni dopo. Sentì il desiderio di abbracciarla e di rassicurarla, ma non era quello il suo ruolo e non si sarebbe mai permesso di farlo.
Non le disse che anche lui aveva dei dubbi sulle sue possibilità di vincere uno scontro con Ganon, anche se avrebbe desiderato gridarle che non era l’unica ad avere dubbi e che la sua sensazione la rendeva ancora più bella ai suoi occhi.
Una stella cadente.
“Ecco, hai visto?” Gli chiese.
Link annuì, poi le chiese: “Possiamo esprimere un desiderio?”
“Questa è una buona idea!” Zelda chiuse gli occhi, un sorriso di speranza.
Link non le chiese quale fosse il suo desiderio. Sapeva benissimo che non sarebbe servito a niente, ma anche lui ne espresse uno: chiese di essere in grado di proteggere la principessa qualunque cosa fosse successa. Pregò la stella di avverare il suo desiderio, promettendole che avrebbe fatto il suo meglio per riuscirci, da parte sua.
Rimasero lì a osservare il cielo in silenzio fino a quando il ragazzo si accorse che Zelda stava piangendo.
“Tutto bene?” Le chiese. Una domanda sciocca che avrebbe fatto bene a tenere per sé. Non era bravo con le parole, non lo era mai stato.
“Non voglio deluderti, come non voglio deludere mio padre, ma non credo che una stupida stella possa fare qualcosa per aiutarmi.”
“Di certo non se la insulti…” Aggiunse, sperando che la battuta la aiutasse a ritrovare la serenità di prima, ma senza successo. La prossima volta anziché parlare avrebbe fatto meglio a mordersi quella sua lingua impertinente.
La giovane principessa era triste. Il suo sguardo scese a terra mentre una prima lacrima solcò il suo viso. “Vedi, non sono capace di prendere decisioni. So già che quando tornerò a casa, senza poteri come quando sono partita per questo ennesimo viaggio inutile, mio padre mi guarderà pensando che gli faccio pena, perché non valgo neanche le scarpe della mamma. Non merito la fiducia di nessuno, mi dispiace.”
Zelda singhiozzava, un pianto incontrollabile nel quale la principessa stava sfogando tutta la sua frustrazione. Tutta la tristezza che doveva tenere nascosta nella vita di corte e nei suoi viaggi di ricerca, tutta la sua paura, il senso di inadeguatezza che la accompagnava da sempre quando si trattava di confrontare lei - impulsiva, troppo giovane e senza guida - con la madre - potente, controllata, in una parola: perfetta -.
Link si sentì utile, in quel momento. Capì che lui poteva aiutarla perché era l’unico che conosceva quella parte di Zelda, l’unico con cui lei si sentiva davvero libera. La abbracciò. Non sapeva cosa altro fare, soprattutto perché aveva già dimostrato di non essere in grado di pronunciare le parole giuste per lei, ma doveva farle capire che lui ci sarebbe sempre stato, che avrebbe sempre creduto nella sua capacità di prendere il posto della regina.
L’abbraccio sembrò funzionare, infatti il pianto di Zelda iniziò a farsi più calmo, il suo respiro più regolare. La principessa stava ricambiando l’abbraccio, all’inizio stringendo con i pugni serrati la tunica dell’eroe all’inizio, infine rilassandosi, finalmente in pace.
Rimasero fermi, ancora abbracciati. Il silenzio era espressione pura della fiducia che i due provavano l’uno per l’altra, del volere di entrambi di affidarsi alla loro amicizia per cedere, ogni tanto, a rivelare la verità, evitando di ostentare una forza che in realtà non avevano.
Forse anche lui avrebbe dovuto dirle la verità, rivelandole che non era l’unica a sentirsi inadeguata al compito che la aspettava. Anche lui provava la stessa paura, anche lui non si sentiva degno della fiducia del Re e del supporto dei quattro Campioni che presto li avrebbero raggiunti nella lotta contro la Calamità Ganon.
Non disse niente, come sempre inferiore a lei, e il senso di colpa lo investì mentre l’immagine si dissolveva dalla sua mente.
Link sapeva che quella notte erano rimasti lì fuori per parecchio tempo, fino a quando Zelda si era addormentata tra le sue braccia. Lui l’aveva cullata, tenendola solo per lui fino a quando le tracce delle sue lacrime si dissolsero, pensando che era la persona più cara che aveva al mondo.
In quel momento capì che il loro legame era più forte di quanto immaginasse. Era davvero lui l’eroe, lo spadaccino che avrebbe utilizzato la Spada che Esorcizza il Male per eliminare la Calamità Ganon una volta per tutte, doveva farlo. Ricordava ancora il profumo dei capelli di Zelda, il battito del suo cuore e il ritmo del suo respiro. Era quasi come se lei fosse lì insieme a lui.
Si distese di nuovo. Da laggiù il castello non era più a portata di vista, ma se lo fosse stato Link era certo che avrebbe potuto osservare una luce brillare, avrebbe potuto vedere la principessa che continuava a credere in lui, che lottava per tutta Hyrule.
Il giorno seguente sarebbe stato importante, doveva impegnarsi per ottenere la paravela il più in fretta possibile, per lei. Finalmente si addormentò.

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