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Fandom: Persona 3
Personaggi: Mitsuru Kirijo, Akihiko
Genere: Introspettivo
Prompt: Orologio
Partecipa al COWT 13
La Dark Hour non c'è più, ma non è facile dormire sereni quando si sa che il tempo a volte può sparire.


L’ora che svanisce

Il sole stava tramontando sul mare. Mitsuru osservò l’orologio: erano le otto e un quarto, aveva ancora tempo.
Puntò lo sguardo sul sole rosso della sera pensando che non avrebbe dovuto farlo, perché si sarebbe solo rovinata gli occhi. Non le importava, però, perché il dolore che sentiva, contrastato dal suo corpo grazie alle lacrime che stavano cercando di lenire la cornea, non era che un sintomo naturale dovuto al suo sforzo di guardare la luce, e lei in quel momento aveva un bisogno disperato di essere a contatto con la realtà.
Dopo poco chiuse gli occhi, sconfitta: non aveva senso resistere, ormai lo aveva capito.

Per quanto fosse strano e sciocco ammetterlo, le mancava la Dark Hour. Almeno quando erano nel Tartarus lei valeva qualcosa, era utile a qualcuno. Ricordava come avesse passato le prime notti dopo la fine di tutto a fissare l’orologio, a osservare l’arrivo della mezzanotte fremendo all’idea di ciò che era stato, sempre immaginando che tutti intorno a lei si fermassero e lei tornasse a diventare l'artefice del destino dell'umanità e fosse costretta a combattere ancora per proteggere i cittadini comuni, che ignari di tutto continuavano le proprie vite.
Quando la mezzanotte scoccava, la ragazza andava alla finestra del condominio studentesco nel quale viveva e guardava fuori: niente bare, solo qualche persona che sghignazzava o chiacchierava. Di giorno controllava i giornali: niente strane sindromi, niente gente perduta.
Mitsuru non riusciva più a dormire. Per lei la notte era un susseguirsi di secondi, minuti, ore durante il quale lei osservava le lancette dell’orologio da parete rincorrersi, superarsi, nella prova tangibile che la Dark Hour non c’era più.

Continuava a cavarsela bene nello studio, ma poco a poco si era rassegnata a cambiare le sue routine, perché non riusciva più a vivere il giorno e la notte come tutti gli altri: andava a scuola come tutti, ma al suo ritorno andava a dormire. Si svegliava la sera, quando gli altri cominciavano a prepararsi per riposare, faceva colazione e studiava. Passava la notte in silenzio, per non farsi sentire e per non far capire ai vicini quanto fosse strana. I suoi compagni di corso la invitavano a studiare insieme, in fin dei conti era una Kirijo, una delle studentesse coi voti migliori all’università, perché non avrebbero dovuto desiderare di passare del tempo con lei?
Se solo avessero saputo la verità, Mitsuru era sicura che avrebbero pensato che fosse pazza e forse lo era: era ossessionata dal tenere traccia del passare del tempo e non c’era un solo istante nella sua vita in cui lei non avesse il suo orologio a portata di mano.
Ormai erano passati mesi da quando Makoto si era addormentato per sempre, abbandonando tutti gli altri SEES con i quali aveva combattuto senza risparmiarsi.
Era ancora in coma, proprio come Shinjiro. Forse un giorno almeno uno di loro si sarebbe risvegliato, pensava, ma sapeva che le speranze erano flebili. In ogni caso continuava a pagare l’ospedale perché i suoi amici continuassero a stare lì, nel loro sonno innaturale, nella serenità apparente che era stata causata proprio dalla sua famiglia.

Gli incubi popolavano le sue giornate: sognava di non accorgersi che il tempo era fermo, di trasformarsi in una bara come capitava a tutte le persone normali durante la Dark Hour. Spesso avrebbe giurato di vedere un movimento strano della lancetta, come se qualcosa fosse cambiato da un secondo all’altro, ma dopo un po’ si era convinta che fosse tutto nella sua mente. Aveva messo telecamere in giro per il suo appartamento, contatori meccanici indipendenti per non perdere neppure un secondo. Quando controllava tutti i suoi aggeggi tecnologici però non riusciva a rassicurarsi, anche se non dimostravano anomalie.

Si era chiesta spesso cosa provassero le persone comuni quando si addormentavano per un’ora ogni singola notte, ma non aveva trovato ancora risposte soddisfacenti.

Avrebbe desiderato tanto tornare a vivere come gli altri, come una persona comune. Non ci riusciva, perché anche se il Tartarus non c’era più, continuava a pensare che fosse sempre lì e che lei semplicemente non riuscisse più a percepirne l’esistenza, come non sentiva più la sua Persona che le era stata vicino per così tanto tempo da considerarla una parte di lei. Lo era in effetti. Lo era stata.

Riprese a osservare l’orologio, i secondi passavano regolari: uno dopo l’altro, dopo l’altro.
Aveva smesso di vivere, non incontrava nessuno, non parlava con i suoi coetanei e le sue tapparelle erano sempre chiuse, l’unico compagno era il suo orologio, testimone del passare del tempo, il suo nemico era il senso di colpa, lo combatteva ogni giorno, ogni notte. Ecco perché aveva chiamato Akihiko, invitandolo da lei.
Le costava tanto ammettere di avere bisogno del suo amico, quasi di più di quanto le costasse pensare che lui per Mitsuru era molto di più. La faceva sentire bene, grazie al suo pensiero e alla sua voce al telefono a volte le era capitato di dormire bene, senza incubi, senza brutti pensieri.
Gli aveva chiesto di incontrarla lì, vicino al mare. Era un posto romantico, tranquillo e in inverno col freddo che c’era non era affollato. Le otto e trentacinque, di lui ancora nessuna traccia.
Forse stava diventando pazza, si disse prendendo il cellulare e controllando i messaggi. Per quanto il suo stile di vita fosse indice di uno stato mentale instabile, era sicura che lui non l’avrebbe lasciata ad aspettarlo senza giustificazioni. Non c’erano messaggi.

La ragazza si sentì vuota, distrutta. Si lasciò cadere a terra. Lo fece in modo dignitoso, mantenendo il controllo anche il quel momento di assoluta sconfitta. Gli occhi erano sempre puntati sull’orologio: otto e trentasette. Desiderava piangere, ma si limitò a osservare i secondi che passavano, cercando di regolare insieme a loro il ritmo del suo respiro e del suo cuore. Otto e trentotto.
“Mitsuru? Sei già qui?” Lei non sollevò lo sguardo, pensando che la sua alterazione fosse ancora troppo scoperta, troppo visibile. “Va tutto bene?”
Fu lui ad abbassarsi. Chinato sulle ginocchia, coprì il quadrante dell’orologio con la sua mano e le sollevò il mento con l’indice. “Va tutto bene?” Ripeté.
Lei scosse la testa lentamente e Akihiko la abbracciò. “Anch’io ho paura di non vederla più,” le confessò. “Ma ce la faremo.”
Non era stata una domanda, neanche una proposta. Sembrava più un fatto certo. “Forse.” Aggiunse lei.
Lui le prese la mano e la sollevò. “Cerchiamo di passare una bella serata adesso, abbiamo tanto da raccontarci.”
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 Fandom: Persona 3

Personaggi: Yukari Takeba, Mitsuru Kirijo, SEES

Prompt: ideali a cui aspirare

One Shot

Partecipa al COWT10

 

 

Ideali a cui aspirare

 

 

Yukari si era sempre considerata una ragazza ottimista.

Per quanto le cose nella sua vita non fossero andate sempre come aveva sperato, aveva cercato di superare i problemi con il sorriso.

Ricordava ancora di quando aveva ricevuto la notizia della morte di suo padre. Le sue lacrime, la rabbia al pensiero che non gli avrebbe mai parlato, ma soprattutto un senso di tristezza perché non era certa che lui sapesse quanto era stato importante per lei e quanto lei gli volesse bene. L’aveva sempre visto come un uomo difficile da fare ridere, duro e severo, ma dopo la sua morte si era resa conto di non averlo conosciuto come gli altri.

Era serio nel lavoro, questo era risaputo da tutti, ma pareva sempre troppo triste. Come se ciò che faceva non gli piacesse.

Qualche volta Yukari glielo aveva chiesto. Ma tu sei contento del tuo lavoro, papà?

Gli chiedeva. 

Sono uno scienziato, faccio cose segrete che a volte non mi piacciono, ma il mio lavoro mi piace.

E cosa fai adesso, papà, gli chiedeva, lui allora le spettinava i capelli fingendo di non aver sentito la domanda.

La risposta era arrivata a Yukari solo molto tempo dopo. 

Aveva sempre rispettato Mitsuru. L’aveva considerata un’amica anche perché all’inizio era l’unica ragazza su cui potesse fare affidamento nei SEES, ma soprattutto per i suoi numerosi pregi: era seria e sempre affidabile e le era sempre sembrata molto più matura rispetto a tutti loro.

Le pareva impossibile che avessero soltanto un anno di differenza.

Mitsuru era anche dotata di un’intelligenza per la quale Yukari avrebbe venduto l’anima. Più volte la ragazza si era chiesta come facesse a far quadrare i combattimenti, il lavoro nel consiglio studentesco e i suoi voti sempre al massimo, soprattutto visto che Yukari sapeva quanto si impegnasse anche alla guida dei SEES. Lo sguardo di Mitsuru però era sempre stato estremamente triste. Era come se sapesse qualcosa che tutti loro ignoravano, o se avesse capito che il loro compito era quasi impossibile da portare a termine con successo. 

Yukari si vergognava al ricordo della prima volta che aveva avuto la possibilità di usare l’evoker. 

Mitsuru e Akihiko erano andati con lei nel Tartarus, domandandole se lei fosse pronta almeno cento volte. 

Tutti loro sapevano che combattere era necessario per la sopravvivenza della città. Il continuo aumento dei casi di sindrome dell’apatia rendeva la loro attività di combattimento vitale perché nel mondo reale continuassero a vivere normalmente.

Yukari però nonostante si fosse sentita pronta ed elettrizzata all’idea di essere finalmente in prima linea nel combattimento, aveva deluso i suoi amici. Era rimasta ferma a fissare la canna della pistola. Tremante e inutile, incapace di fare la sua parte anche quando Akihiko era stato ferito dall’ombra contro la quale stava combattendo da solo, ed era soltanto colpa di Yukari.

 

Nessuno l’aveva incolpata dell’accaduto. Non apertamente almeno, ma lei sapeva bene che Mitsuru era delusa dal suo comportamento immaturo e inadeguato. E di fronte al suo fallimento Yukari non aveva fatto niente di buono. Aveva semplicemente passato la notte a piangere, rinnegando il passato e sperando che i due le avrebbero permesso di riprovarci. Solo che non c’era nessuno che desiderasse combattere con lei, e come poteva biasimarli? Era inutile sotto pressione, debole e stupida. Continuava a chiedere se la natura, il mondo o qualunque cosa le avesse dato il potere di invocare la sua Persona non si fosse sbagliato con lei. Non sarebbe mai stata un’eroina in grado di salvare il mondo.

Avrebbe continuato a osservare Mitsuru, però, sperando ogni giorno di diventare più simile a lei. 

Sull’intelligenza non c’era nulla che potesse fare, ma tutto sommato non era quello il suo punto più debole. Semmai era il coraggio a mancarle. Al pensiero di Akihiko che combatteva anche per lei, senza mollare neanche per un istante, le erano tornate le lacrime agli occhi. Si era chiesta quanto fosse potuta sembrare una stupida con la pistola tra le mani, incapace di utilizzare l’evoker  e piangente come una bambina. Era certa che quando Akihiko era stato colpito il suo primo pensiero fosse andato a quanto lei fosse stata inutile in quel combattimento. Perché non c’era alcuna giustificazione al suo comportamento, per quanto si sforzasse Yukari non riusciva a trovarla. 

Li aveva delusi e soprattutto aveva deluso se stessa.

La sua determinazione sembrava dissolta nell’aria e Yukari non faceva che piangere da sola nella sua stanza. Combattuta tra il desiderio di vedere Mitsuru e di dirle che ce l’avrebbe fatta, che desiderava un’altra possibilità e la paura che la ragazza le avrebbe semplicemente chiesto di tornare da dov’era arrivata. Di andarsene dal dormitorio in quanto persona non più desiderata. Lei avrebbe fatto questo. Lei non si sarebbe mai perdonata.

E se invece avesse fallito di nuovo? E se con la sua inettitudine avesse causato danni più gravi della ferita di Akihiko? Come avrebbe convissuto con se stessa se avesse causato la morte di qualcuno?

 

Eppure a pensarci aveva i suoi punti di forza. Quando tirava con l’arco per esempio si sentiva come se nulla potesse fermarla. Lì al club era considerata la migliore e si rendeva conto di essere capace di far scomparire il resto del mondo concentrandosi solo e unicamente sul bersaglio, sul suo respiro e sulle braccia tese che sentiva un tutt’uno con l’arco. Perché non riusciva ad avere la stessa determinazione anche quando si trovava a dover utilizzare l’evoker?

Il fatto che a scuola fosse considerata una delle ragazze più popolari poi la faceva sentire speciale in qualche modo. Sapeva di non essere anche in quel senso ai livelli di Mitsuru, ma i suoi compagni di scuola la rispettavano e consideravano forse più di quel che valeva.

 

Quando era andato a stare al dormitorio il ragazzo nuovo però si era sentita diversa. Prima di tutto perché non era più l’ultima arrivata e poi perché lui coi suoi modi tranquilli e pacati l’aveva fatta sentire un po’ sciocca con tutte le sue paure.

Yukari da piccola aveva pensato di morire, forse era per questo che non riusciva a esorcizzare la morte premendo il grilletto, i suoi pensieri tornavano sempre alla perdita di suo padre e alla sua tristezza quando gli aveva detto addio l’ultima volta.

Il combattimento di Minato con l’ombra l’aveva fatta sentire ancora meno utile di quanto lo era stata fino a quel momento.

Il ragazzo nuovo aveva capito subito cosa doveva fare e senza paura aveva combattuto con successo contro le due ombre che li avevano attaccati. E lei invece? Lei era rimasta a terra come una stupida a farsi salvare.

 

Avrebbe imparato da quella esperienza, più di quanto era riuscita a fare dai combattimenti precedenti. 

Quella notte Yukari aveva giurato a se stessa che nulla l’avrebbe fermata, non più.

Poteva anche morire, era vero, ma non sarebbe stato l’evoker a ucciderla, semmai la sua completa mancanza di coraggio avrebbe messo in pericolo lei e i suoi amici, e questo non poteva permetterlo.

Avrebbe combattuto prima di tutto per tutte le persone che amava, per fare in modo che fossero protette dalla sindrome dell’apatia che pareva prendere di mira sempre più ragazzi anche della loro scuola, avrebbe combattuto per dimostrare a se stessa che faceva bene a credere in se stessa, perché aveva un valore unico e nessuno degli altri poteva invocare la sua Persona, che era sua e unicamente sua.

Avrebbe combattuto per dimostrare a Mitsuru che meritava la sua fiducia, che la pazienza che le aveva dimostrato avrebbe ripagato, e l’avrebbe fatto anche per Akihiko, per proteggerlo in futuro e per curarlo se ne avesse avuto bisogno.

Sarebbe stata utile al gruppo dei SEES per Minato, perché fin da subito aveva capito quanto quel ragazzo fosse speciale, quanto fosse portato al combattimento e sapeva che li avrebbe guidati attraverso un percorso che li avrebbe infine portati alla vittoria sulle Ombre, alla fine del Tartarus.

E sarebbe stata forte per suo padre che le aveva sempre detto di credere in se stessa quando era piccola, che non sarebbe mai tornato indietro, ma che un giorno era sicura che avrebbe rincontrato, e allora lui sarebbe stato fiero della sua Yukari e del coraggio, della determinazione che aveva dimostrato.

Non mirava a diventare la migliore, ma desiderava combattere, alla fine si era resa conto che la sua paura era scomparsa, sostituita da un’iniezione di coraggio che l’aveva fatta sentire in grado di cambiare le cose una volta per tutte.

 

 

 

Erano passati ormai mesi da quando per la prima volta aveva premuto il grilletto dell’evoker per invocare la sua Persona. 

Solo poche ore prima Mitsuru le aveva rivelato il grande segreto che aveva tenuto fino a quel momento. Yukari si sentiva delusa, perché prima di allora l’aveva sempre considerata quanto di più vicino avesse a un’amica e sentiva di aver perso una parte di se stessa e del suo passato con quella notizia. 

Suo padre era morto a causa della Kirijo group. Suo padre lavorava per il nonno di Mitsuru.

Yukari si era sentita una stupida per non avere mai chiesto alla madre o ai suoi nonni qualcosa in più sulla morte del padre, in fin dei conti non era un segreto per nessuno per chi stesse lavorando quando era morto, solo che lei aveva sempre evitato i dettagli, sempre per quella sua paura di affrontare la realtà che aveva sempre avuto, sin da piccola. Si chiedeva come Mitsuru l’avesse guardata in faccia fino a quel giorno, come avesse potuto rimproverarla e trattarla da ragazzina immatura quando sapeva che in realtà lei era in parte il motivo per cui si sentiva così sola, senza radici, senza una guida.

 

Quella notte la ragazza si era addormentata esausta, con le lacrime agli occhi e i pensieri che le vorticavano in testa. Ma la mattina appena sveglia aveva iniziato a vedere la situazione con un po’ di chiarezza in più: suo padre non era certo una vittima innocente di quell’esplosione perché ci aveva lavorato. Sapeva bene cosa fossero le Ombre e non si era fatto scrupoli a cercare di sfruttarle assieme ai Kirijo, anche lui in cerca di gloria, di fortuna, di un riconoscimento da parte del mondo scientifico nel quale sperava di diventare una figura di spicco, un giorno.

Mitsuru invece a essere sinceri non poteva avere colpa in quella situazione. Stava cercando di rimediare in prima persona, combattendo e prendendo sulle spalle gli errori che l’azienda della sua famiglia aveva commesso.
Mitsuru stava soltanto cercando di riparare ai loro errori mettendoci tutto l’impegno che poteva. Non era certo difficile capire perché se ne vergognasse. Si sentiva in colpa per loro e per tutte le morti che avevano causato. Si incolpava per ogni singola persona che cadesse nella sindrome dell’Apatia, ma lei non c’entrava per nulla. Yukari aveva sempre visto nello sguardo dell’amica una vena di tristezza e di preoccupazione costante e aveva sempre pensato che fosse a causa del suo senso di responsabilità, non aveva mai pensato che avrebbe potuto sentirsi complice della causa dell’apparizione del Tartarus.

Mitsuru era solo una bambina quando c’era stata l’esplosione e nonostante tutto aveva da subito cercato di fare la sua parte per risolvere il problema causato dalla sua famiglia.
Aveva utilizzato l’evoker per la prima volta quando era ancora una bambina, come poteva incolparsi? Era semmai una vittima di quella situazione, esattamente come lei.

 

Yukari nonostante in fondo avesse sempre saputo che Mitsuru non c’entrava niente non aveva esitato a incolparla per la morte di suo padre, a farle pesare il suo silenzio che probabilmente già pesava come un macigno sulla sua testa ogni volta che le parlava. Non era stata una buona amica per lei, non certo migliore di Mitsuru, che invece aveva fatto il possibile perché fosse sempre a suo agio nonostante il suo carattere penosamente pavido.

Yukari era stata una palla al piede per il gruppo all’inizio e la sua amica l’aveva difesa e protetta sempre, nonostante tutto.

 

Era il momento di ricambiare. Sarebbe andata da lei e avrebbe detto a Mitsuru che doveva smetterla di prendersi le colpe della sua famiglia, che lei era coraggiosa, forte , determinata e intelligente, ma soprattutto era stata per lei una vera amica. 

 

Yukari avrebbe preso in mano la situazione per una volta, dimostrando una maturità che non sapeva di avere e che avrebbe fatto su. Avrebbe desiderato conoscere prima la verità, ma non era certa di come l’avrebbe presa, perché era molto meno emotivamente stabile di quanto volesse dare a credere. Forse se l’avesse saputo qualche mese prima se ne sarebbe andata da lì sbattendo la porta, per poi rendersi conto del suo errore e non essere in grado di ritornare a causa del suo onore, o meglio, della sua immaturità che non le permetteva di riconoscere i suoi errori. Non aveva neppure bisogno di perdonare Mitsuru, perché non c’era niente da perdonare. 

Finalmente Yukari poteva dire di essere diventata, forse, una persona migliore. Alla fine poteva essere fiera di se stessa e delle sue decisioni.

 

 

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Fandom: Persona 3
Personaggi: Mitsuru Kirijo, Takeharu Kirijo
Prompt: 
La speranza lascia il posto alla disperazione
Partecipa al COWT10









Disperare

Stava morendo.

Takeharu aveva fallito un’altra volta e finalmente sarebbe stata l’ultima. 

Anche nella morte non era in grado di perdonare se stesso per tutti gli innumerevoli errori che aveva compiuto nella sua vita e che non sarebbero bastate dieci vite per espiare.

 

Avrebbe voluto soltanto pensare a lei, alla sua bambina. 

Da piccola, Mitsuru era vivace. Spesso lui e la moglie la sgridavano per le ginocchia sbucciate dopo una corsa o per la sua continua ricerca di nuove avventure. Nonostante non si potesse dire che l’enorme giardino di casa somigliasse a una prigione, immenso e meraviglioso com’era, sua figlia era comunque sola e cercava in continuazione  nuovi stimoli, nuove avventure.

Era sempre stata una bambina coraggiosa, indomita. Sua moglie la definiva selvaggia a volte, ed era un po’ vero che nei suoi primi anni, prima che l’educazione severa delle insegnanti private e dei genitori riuscisse a domarla, pareva che il suo spirito libero avrebbe sempre avuto la meglio su qualsiasi tentativo di reclusione.

Lui non era mai stato così: Takeharu aveva sempre seguito le regole, sin dal primo ricordo che aveva di sé non era mai stato come lei e l’uomo si chiedeva se non avesse in realtà preso dalla moglie, anche lei all’apparenza così innocua, ma forte come una roccia quando si aveva a che fare con lei, e lui l’aveva scoperto a sue spese.

 

Rimpiangeva di aver messo sua figlia in una gabbia in nome della famiglia e dell’azienda che lei avrebbe un giorno avuto in eredità. Invece di sgridarla avrebbe dovuto imparare da lei a essere sempre libero, a non avere paura di esprimere i suoi desideri e le sue paure.

 

Invece le cose erano andate in modo molto diverso. Si era sempre affidato a qualcun altro per prendere le decisioni nella sua vita, e ogni volta aveva sbagliato.

Fin da quando erano iniziati i primi esperimenti con le ombre lui non era mai stato d’accordo con suo padre: era sbagliato giocare con quel potere sconosciuto, grande e troppo pericoloso per ignorarne le possibili conseguenze.

Lui non era innocente. All’inizio aveva seguito il padre senza remore, senza rimorsi. Le conseguenze non gli interessavano poi tanto, giovane e stupido com’era l’unico suo pensiero era il profitto, la gloria che sarebbe arrivata dopo la scoperta di riuscire a gestire le ombre, di ricavare da loro la magia, che avrebbe potuto essere usata da chi era in grado di gestire il potere dell’evoker. Il potere che sarebbe derivato dalla capacità di far fruttare quel mondo nuovo e sconosciuto ai più, che avrebbe dato loro in conseguenza anche molto denaro.

Il denaro era ciò che di più importante aveva in quel periodo in testa. Per lui era importante che l’azienda crescesse e diventasse la più ricca del Giappone. Da sempre i Kirijo si erano distinti per la loro determinazione e la sua guida che prima o poi avrebbe seguito quella di suo padre sarebbe iniziata in un periodo di grande prosperità per l’azienda. 

Mitsuru l’avrebbe ereditata, lui pensava anche alla sua meravigliosa figlia, che anche se piccola e innocente ancora, stava già imparando a comportarsi come loro tutti si aspettavano da lei e a dimostrare la sua intelligenza e determinazione.

 

Il presidente però non era ancora lui, e non immaginava che lo sarebbe diventato in tempo così breve. Immaginava infatti che suo padre sarebbe stato a guida dell’azienda per molto tempo ancora, ma le cose stavano iniziando a prendere una brutta piega già da un po’ di tempo ormai. Takeharu dopo più di dieci anni ricordava ancora la rabbia che aveva esploso contro di lui quando aveva scoperto degli esperimenti che suo padre aveva condotto all’orfanotrofio. Quei poveri bambini innocenti erano stati condannati a una vira che non meritavano. Solo per il fatto che erano orfani, era stato deciso che il loro fosse un destino sacrificabile. Takeharu si era opposto con forza all’inizio, prima di rendersi conto che la situazione era ormai irrecuperabile.

Le ombre erano senza controllo e l’unico modo di cercare di contenerle era attraverso l’utilizzo degli evoker e di quei bambini che erano gli unici in grado di difendere l’umanità dal pericolo che la Kirijo group aveva liberato sul mondo.

Alcuni di quei bambini erano morti, si erano suicidati dando forma e voce all’accettazione della morte che gli evoker simboleggiavano, ma suo padre le considerava perdite accettabili per il bene superiore, il fine ultimo era, in quel periodo, il contenimento del potere delle ombre.

 

Ma le cose infine erano sfuggite loro di mano.

L’esplosione aveva distrutto anni e anni di lavoro e aveva portato con sé le vite di quasi tutti quelli che avevano lavorato a quel progetto maledetto. Scienziati, guardie, bambini innocenti e persino suo padre avevano perso la vita nell’inferno che era esploso dal Tartarus ormai dieci anni prima.

Il primo pensiero di Takeharu era stato di chiudere tutto e di fingere che nulla fosse successo. Insabbiare, nascondere, far sparire le prove. Ma non era più possibile ormai, perché era comparsa la dark hour, e gli strani eventi che avvenivano nel Tartarus si erano propagati al mondo reale. E se era in pericolo ora era tutta colpa loro, era soltanto colpa della Kirijo group. Era colpa sua.

Sopravvivendo all’esplosione aveva avuto una possibilità: avrebbe potuto sistemare le cose e rinchiudere le ombre nel Tartarus, da dove erano arrivate.

 

La situazione però appariva irreparabile e se n’era reso conto dopo la prima luna piena, quando i rapporti avevano indicato l’intensa attività delle ombre, e non solo durante la dark hour.

 

Suo malgrado, Takeharu non aveva potuto fermare gli esperimenti su quei poveri bambini. Era stato costretto a continuare a metterli in pericolo. Nel primo periodo dopo l’esplosione gli capitava spesso di piangere quando era da solo a casa, pensando a quante vite l’azienda avesse spezzato o distrutto. A quanti ancora avrebbero potuto pagare le conseguenze delle azioni che suo padre aveva preso e che lui aveva seguito senza battere ciglio.

Non aveva scusanti, non poteva smettere.

Persino Mitsuru aveva imparato a usare l’invoker, per aiutarlo, per difenderlo grazie alla sua Persona, come gli aveva dichiarato trionfante dopo il primo successo. Era piccola, innocente e fragile ai suoi occhi, e invece una volta di più gli aveva dimostrato di essere molto più forte di lui, la degna erede di un’azienda che sarebbe tornata pulita per lei, per regalarle un futuro degno di lei. 

La differenza tra lei e gli altri evocatori però era che lei aveva fatto una scelta: aveva preso l’evoker, aveva guardato nella canna della pistola e aveva sparato. Senza attesa, senza pianti. Suo padre non aveva visto in lei la minima paura, né un cenno di esitazione. Lei aveva scelto, non come gli altri che erano stati costretti a sentire il potere crescere dentro di loro fino a quando, in molti, non erano stati più in grado di sopportarlo.

Alcuni di quei bambini erano impazziti, altri erano morti. In molti erano stati considerati minacce e lui non aveva più neppure idea di dove fossero.

Si ricordava di Shinjiro. Quel ragazzino aveva una forza fuori dal comune, e grazie ai supplementi era diventato imbattibile. Takeharu nutriva grandi aspettative su di lui, ma il ragazzo era instabile, lo stava diventando ogni giorno di più e la colpa era di certo di quei supplementi che Ikutsuki si ostinava a dar loro, nonostante lui non fosse d’accordo. 

Avevano smesso poco prima dell’incidente. Una volta di più un innocente aveva pagato le conseguenze di quelle scelte scellerate che non erano mai state sue, che non avrebbe mai potuto contrastare.

Per questo dopo l’esplosione avevano costruito la scuola. Per cercare di nascondere la vergogna che continuava a tracimare dalle barriere che loro cercavano di mettere ovunque per riparare ai danni che ormai non erano più controllabili.

Nulla di ciò che aveva fatto era servito a riparare un bel niente.

 

Aveva sbagliato tutto, a cominciare dalla fiducia che aveva dato a Ikutsuki che aveva avuto la possibilità di fare tutto ciò che desiderava a spese dell’azienda, che era stato vicino a Mitsuru quando persino lui non ci era riuscito conquistando anche la fiducia della figlia. Ora tutti sulla terra avrebbero pagato le conseguenze dei suoi errori, tutti a meno che sua figlia e i SEES non fossero riusciti a cambiare il corso del destino che in quel momento appariva deciso e senza speranza.

 

Avrebbe voluto dirle che aveva sempre creduto in lei, che non si sarebbe mai perdonato di non essersi opposto fin da subito alle idee di suo padre. Che avrebbe desiderato passare più tempo con lei, anche solo per farle capire quanto le voleva bene. 

Lei era l’unico motivo per cui nell’ultimo periodo aveva lottato con le unghie e con i denti per riparare a quella situazione che lui stesso aveva contribuito a creare. Non era stato facile resistere, ma senza di lei non ce l’avrebbe mai fatta. 

Sarebbe morto entro pochi minuti e l’unico desiderio che aveva era che lei vivesse anche per lui. Lei sarebbe riuscita dove lui aveva fallito miseramente.

Si sarebbe distinta come avrebbe sempre fatto.

 

Dipendeva tutto da lei, dalla sua sopravvivenza. E anche in quei momenti lui sentiva di non essere in grado di fare nulla per lei. Legata in attesa della morte per mano di Aigis, la creatura che lui e Ikutsuki avevano creato. Un altro dei suoi errori.
Di nuovo lui era inutile: non aveva ucciso Ikutsuki, non aveva aiutato sua figlia e i SEES, non riusciva a muoversi, la sua vista si stava annebbiando.

Poi l’aveva sentita: Aigis li aveva liberati.


Sapendo che sua figlia era viva, sapeva di poter finalmente morire. Di potersi lasciare andare a quel destino che forse aveva invocato un po’ troppo spesso nell’ultimo periodo.

Si rendeva conto che in un certo senso fosse comodo morire e lasciare che il destino di tutto il mondo restasse nelle mani di sua figlia. Lasciare andare le responsabilità e la paura, concedersi alla fine la pace che non sentiva da troppi anni ormai.

 

Sentendo le braccia di Mitsuru prenderlo e stringerlo a sé, la voce di  Mitsuru ad avvolgerlo e a salutarlo, sapeva di potersi lasciare andare. Aveva cercato di accarezzarla, ma il braccio si era fermato troppo presto e lei aveva stretto la sua mano.

L’oblio era così vicino da non permettergli più di pensare a qualcosa che non fosse lei.

Con le sue ultime forze aveva pregato che ci fosse un aldilà perché lui potesse vegliare su di lei e sulla sua vita. Perché lui riuscisse a darle forza quando non ce n’era più. Perché lei si rendesse conto di quanto valeva. Lei era la sua luce, Misturu doveva saperlo.

 

 

 

Mitsuru l’aveva tenuto stretto a sé fino a quando non aveva esalato l’ultimo respiro. 

Lui l’aveva guardata negli occhi per tutto il tempo. Non aveva più parlato, dopo aver pronunciato il suo nome. Alla ragazza era parso quasi che desiderasse accarezzarle il volto, ma il suo braccio non era riuscito ad alzarsi. Mitsuru gli aveva preso la mano. e l’aveva stretta con forza, causando solo un gemito strozzato nel padre. Piangeva di rabbia e di dolore, perché avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava in Ikutsuki, avrebbe dovuto seguire il pensiero che serpeggiava in lei da ormai qualche mese. Lui era tutto per lei e non era mai stata in grado di dimostrarglielo. 

Suo padre la stava lasciando per sempre e Mitsuru in quel momento stava realizzando quanto avesse perso non riuscendo a stare con lui, evitandolo solo per riuscire a diventare ancora migliore, e in quel momento si era resa conto di aver perso così tanto mettendo una barriera tra loro.

Negli suoi occhi aveva sempre visto un’espressione un po’ triste, ma in quel momento era diversa. Vedeva quasi felicità ed era convinta che ci fosse anche amore. Con il suo sguardo, il padre le stava dicendo di essere orgoglioso di lei, e Mitsuru sperava che anche a lui fosse chiaro che lei gli aveva sempre voluto bene. 

Non c’è un sentimento più triste del pentimento e la ragazza stava provando proprio quella sensazione in quegli ultimi istanti con il padre. Se solo avesse capito che la fiducia che avevano nei confronti di Ikutsuki era mal riposta lui sarebbe ancora con lei.

Se solo avesse potuto tornare indietro nel tempo avrebbe sparato lei stessa in mezzo agli occhi di Ikutsuki, senza pentimento, senza paura.

 

Gli occhi di suo padre stavano perdendo la loro luce. Mitusu aveva lasciato andare ogni risentimento e aveva salutato il padre, pensando solo a quanto avrebbe desiderato avere più tempo con lui e a quanto bene gli volesse. Certa che un giorno l’avrebbe riabbracciato.

 

 

Avrebbe pianto ancora per lui nei giorni a seguire, Mitsuru lo sapeva bene. Ma avrebbe trovato il modo per finirla con quella storia. Per chiudere col Tartarus una volta per tutte.

Ci sarebbe stato il tempo per la vendetta e Ikutsuki avrebbe pagato. 

In cuor suo sperava che stesse morendo dissanguato da qualche parte, anche se una parte di lei desiderava ucciderlo, voleva che fosse la sua mano a calare su di lui e a dargli la morte per tutto ciò che le aveva tolto. Per ciò che aveva tolto a tutti loro.

Si era alzata in piedi lasciando andare il padre.

Nessuno aveva parlato, non c’era nulla da dire. L’unica cosa che dovevano fare era continuare a combattere.

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Fandom: Persona 3

Personaggi: Tatsuya Tanaka

Genere: introspettivo

Prompt: Inopiae Desunt pauca, avaritiae omnia

Flashfic

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Inopiae Desunt pauca, avaritiae omnia



 

Da bambino i suoi compagni di classe l'avevano preso in giro per la sua povertà: per la divisa consumata e per il suo pranzo sempre povero che spesso consisteva solo nel riso in bianco. 

Lui li sentiva, sapeva che lo consideravano solo un poveraccio, ma era certo che prima o poi avrebbe messo tutti a tacere: sarebbe diventato ricco, più ricco di tutti loro messi assieme e allora avrebbe riso lui della loro mediocrità.


Aveva cominciato contando solo sulle sue capacità, vendendo oggetti inutili che la gente acquistava affascinata dalle sue doti di commerciale nato. Lui sapeva come convincere il cliente medio che quel che vendeva fosse fatto su misura per lui e in tantissimi ci cascavano.

Quando il suo conto in banca aveva iniziato a crescere, aveva cominciato a sentirsi finalmente nel posto che meritava nella società, poco importavano le lamentele di chi diceva che gli mancava l'etica e che non avrebbe retto molto vendendo delle fregature. 

Ma lui faceva di più, lui distribuiva idee e sogni. 


Si era arricchito più di quanto avrebbe potuto immaginare e il denaro continuava ad arrivare a fiumi, quando aveva conosciuto Saya. Se il povero ha poco, l'avaro non ha nulla.

 

Gli aveva detto un giorno dopo che lui l'aveva messa alle strette per non essere stata abbastanza produttiva. Non potrei mai vivere sapendo di aver guadagnato alle spese di qualcun altro.

 

Oltre a lei poi c'era stato il ragazzino, lo sciocco credulone che gli aveva dato soldi in cambio di una stupida promessa che lui ovviamente non aveva intenzione di mantenere. Era stato così puro di cuore nella sua intenzione di imparare da un uomo di successo come lui che Tanaka l'aveva preso sotto la sua ala, insegnandogli come si fanno i soldi.

Ci aveva preso gusto, anche se sapeva che il ragazzino l'aveva definito addirittura il diavolo, andava fiero di quella descrizione, il diavolo era, in fin dei conti, potente.


La vicinanza di Saya e di Tatsuya l'aveva cambiato, anche se era stata dura ammetterlo all'inizio.

Aveva riflettutto sulla sua vita ed era arrivato alla conclusione che la sua ricchezza non lo stava rendendo felice. La sua motivazione era sbagliata, perché oggettivamente vendere per lui era così facile che non c'era gusto ad approfittarsi degli allocchi, mentre insegnare alle menti plasmabili a seguire la sua strada lo faceva sentire davvero realizzato.

Per questo aveva fatto la donazione all'orfanotrofio, perché era vero: da povero non aveva molto, ma nell'ultimo periodo sentiva di aver perso anche quel poco in cambio della sua ricchezza. Le cose potevano cambiare e lui avrebbe fatto il possibile per pensare prima di tutto alla sua felicità e non al desiderio di rivalsa che l'aveva portato a dimenticare se stesso.

 

 

 

Fandom: Persona 3

Personaggi: Mitsuru Kirijo

Genere: introspettivo

Prompt: semel in anno licet insanire

Flashfic

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Semel in anno licet insanire

una volta all'anno è lecito impazzire


 

 

Una volta all’anno è lecito impazzire, le aveva detto suo nonno il giorno del suo quinto compleanno, quando per la prima volta le era stato concesso tutto ciò che desiderava. 

Fin da quando era piccola a Mitsuru era stato chiaro che lei non sarebbe stata mai come gli altri bambini, perché era l'unica erede della Kirijo group e si sarebbe dovuta abituare da subito a essere responsabile e a studiare. Da noi ci si aspetta questo, ma impazziremmo del tutto se non riuscissimo a lasciarci andare ogni tanto, ricordatelo quindi.

Per anni Mitsuru aveva pensato che forse il nonno esagerasse, nonostante la sua vita non fosse stata facile fin da quando era piccola non aveva più seguito il suo consiglio. 

Quel pomeriggio, però, mentre passava di fronte al parco dei divertimenti, si era sentita attratta dalle montagne russe. Non ci era mai stata. Aveva da studiare e avrebbe dovuto controllare il Tartarus, ma per quel giorno avrebbe ascoltato suo nonno: avrebbe fatto tutto ciò che desiderava.

 

Una volta tornata in dormitorio aveva salutato Akihiko, seduto sul divano a leggere il giornale.

“Ti vedo allegra, hai passato una bella giornata?”

“Splendida.” Gli aveva risposto, poi gli si era avvicinata e gli aveva dato un bacio ascoltando l’istinto che le diceva di farlo da mesi. “Una volta all’anno è lecito impazzire,” aveva dichiarato, lasciandolo ammutolito sul divano, col giornale stropicciato tra le mani. 

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Prompt: Imperatrice (in Persona ogni personaggio è rappresentato da un arcano maggiore, per Mitsuru è, appunto, l'imperatrice)
Fandom: Persona 3
Genere: introspettivo
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One in perfection


 
Mitsuru non si era mai sentita molto a suo agio a scuola.
Fin da quando era piccola la sua vita era stata diversa da quella degli altri bambini. Lei non aveva mai assaggiato un hamburger e non sapeva che sapore avessero i Takoyaki. I suoi genitori le avevano insegnato da subito a comportarsi con educazione, impegnandosi per ottenere il meglio e per avvicinarsi il più possibile alla perfezione e lei aveva sempre seguito i loro insegnamenti senza protestare, da brava Kirijo sapeva che avrebbe un giorno avuto sulle spalle una grande responsabilità e il suo desiderio era di essere all'altezza del padre e del nonno, che vedeva come esempi per la vita che desiderava condurre.
 
I suoi risultati a scuola erano sempre stati eccellenti e i genitori spesso le facevano dei regali per premiarla: oggetti di valore che chiunque avrebbe sognato, ma che lei vedeva come l'unica prova del loro affetto nei suoi confronti. Lei li ammirava, il suo desiderio era diventare un giorno come loro: rispettata e capace.
 
A volte si sentiva abbandonata, soprattutto quando i suoi sparivano per affari e la lasciavano a casa da sola con la domestica. Abbiamo del lavoro da fare, ma è anche per il tuo bene: un giorno tutto questo sarà tuo, Mitsuru.
 
La notte le capitava di sognare una giornata felice e spensierata con tutta la sua famiglia, magari un giorno avrebbe proposto al nonno di andare a mangiare insieme uno di quegli hamburger che piacevano tanto ai suoi compagni di scuola.

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