La posa, capitolo 1: Di pozze e di fobie
Feb. 19th, 2021 09:49 pmFandom: originale
Generi: horror, introspettivo, sovrannaturale
Partecipa al COWT11
Prompt: Sereno/Oscurità
Questa storia è ispirata a un luogo che frequentavo da ragazza, un rifugio chiamato Posa Puner, un luogo fresco e affascinante in alto in montagna. Ovviamente quel luogo ha ispirato solo l'ambientazione, non la storia in sé, che è pura fantasia.
Ho deciso di farne un capitolo perché la cosa stava andando un po' troppo per le lunghe, spero di concludere la storia entro la fine del COWT
Forza team Meridian!
Stefania aveva sempre avuto paura del buio.
Fin da piccola, quando ricordava che suo cugino Simone la prendeva in giro e le faceva scherzi di cattivo gusto, chiudendola nell’armadio o spegnendo la sua lucina portatile per dispetto quando lei si distraeva o quando stava per addormentarsi.
Suo padre le aveva regalato una torcia ricaricabile, che lei portava sempre con sé, e un portachiavi con una lucina a LED per essere pronta a ogni imprevisto. Quando poi aveva avuto il suo primo cellulare si era procurata subito un caricabatterie esterno e aveva sviluppato una dipendenza dalla funzione torcia.
I suoi genitori l’avevano portata da diversi psicologi nel corso degli anni, ma nessuno di loro aveva svelato il mistero e Stefania, nonostante fosse una persona molto razionale, continuava la sua vita convivendo con il costante terrore del buio. Da donna adulta confessare questa fobia le sembrava quasi un’ammissione di stupidità, infatti cercava sempre di evitare situazioni che l’avrebbero costretta a dare spiegazioni.
Non aveva potuto nascondersi con Michele, però. Non dopo che avevano iniziato a vivere insieme. Si frequentavano da ormai quattro anni e lei era stata bravissima a non trovarsi mai al buio con lui, aveva usato ogni arma in suo possesso per evitarsi situazioni pericolose, come quando lui l'aveva invitata a vedere la luna e le stelle cadenti sotto il cielo d’agosto, e lei aveva avuto un gran mal di stomaco o quando le aveva proposto di andare in montagna a passare le vacanze in una cascina isolata, ma lei aveva appena acquistato una splendida offerta per un paio di notti in un centro benessere in città.
Michele aveva pensato che ci fosse qualcosa che lei non voleva dirgli, ma aveva anche capito che lei non desiderava parlarne e le voleva lasciare la libertà di esporsi coi suoi tempi. Forse riteneva una perdita di tempo il guardare le stelle, forse preferiva le feste o le luci della città alla montagna solitaria e silenziosa.
"Devo confessarti una cosa, sediamoci." Stefania, seria come raramente l'aveva vista, l'aveva invitato ad accomodarsi sul divano e si era messa di fronte a lui, sulla poltroncina gialla che insieme avevano scelto pochi giorni prima.
"Devo preoccuparmi?" Si chiedeva se fosse incinta, o malata, o se si fosse già resa conto che la loro vita insieme non aveva futuro.
"No, è una cosa mia... Non è grave, ma è una cosa che n-non..." Stefania era in difficoltà. Con un’espressione truce aveva preso fiato e stretto i pugni per darsi coraggio, evitando di sentire le lacrime che sembravano essersi fatte largo sul suo viso. "Ho paura del buio. Non posso stare al buio,” gli aveva confessato tutto d’un fiato osservandosi i piedi con vergogna.
Lui era scoppiato a ridere, si era immaginato chissà quale segreto e non gli pareva niente di grave.
“Eh, va bene, mi dispiace,” aveva cercato di minimizzare.
La reazione di Michele però aveva indotto in Stefania un pianto disperato, resosi conto del problema che aveva causato, Michele si era avvicinato a lei cercando di consolarla e l'aveva stretta a sé.
“Mi dispiace, non so come fare. Scusa!”
“Ma su, non è grave, stai tranquilla, la supereremo insieme.” L'abbraccio sembrava aver sciolto la tensione di Stefania, che dopo qualche minuto di pianto finalmente stava ricominciando a respirare con tranquillità.
Avevano deciso insieme che avrebbero tentato una terapia d’urto: sarebbero andati in campeggio. Stefania aveva avvertito un brivido quando quella parola era stata pronunciata per la prima volta dal suo compagno, ma non ci aveva voluto pensare troppo: avrebbe fatto ciò che sarebbe servito per diventare finalmente autonoma, per superare la sua fobia.
Stefania non aveva praticamente niente per il campeggio, quindi avevano iniziato la loro avventura direttamente dal negozio, dove avevano acquistato una tenda, un sacco a pelo, una grossa torcia con la carica manuale - giusto per sicurezza, perché Stefania sperava di riuscire a superare la paura, ma non aveva intenzione di passare la notte intera a piangere terrorizzata nella tenda, soprattutto senza il suo fidato cellulare - un pentolino elettrico e un aggeggio che si chiamava accumulatore o qualcosa del genere, per cucinare qualcosa senza corrente.
Michele, che da grande amante dei campeggi non vedeva l’ora di tornare a farne uno, era elettrizzato: “Non serve che andiamo in mezzo al bosco, visto che hai paura, ma conosco un posto che pare una meraviglia e non è neanche molto distante da qui: è consigliato per le famiglie con bambini piccoli, vicinissimo a un agriturismo con ogni comfort possibile e a un campeggio attrezzato con i bungalow. Così se vediamo che non te la senti, possiamo passare la seconda notte sempre vicino alla natura, ma in un ambiente più controllato.”
Era convinto che lei si sarebbe resa conto che la sua era una paura irrazionale e che, grazie alla forza che lui le avrebbe trasmesso, insieme avrebbero superato tutto.
Erano partiti la mattina presto sotto il sole già torrido della città.
Stefania si era stupita nel constatare la quantità di automobili in fila per la montagna. Avevano fatto chilometri a passo d’uomo e lei cominciava a sentire un gran bisogno di andare in bagno. Era abituata ad andare al mare, ma quella strada non le era nuova. Il muretto, la rete lungo la collina e in particolare un’insegna lungo la strada le erano in qualche modo risultate familiari. “Io sono già stata qui, su questa strada.” Aveva dichiarato dopo un lungo viaggio nelle sue memorie infantili. “Solo che non ricordo niente.”
Era davvero possibile che fosse stata su quella montagna? Non sarebbe certo stato impossibile, in fin dei conti non era così distante da casa ed era una meta piuttosto conosciuta, era probabile che da piccola i suoi l’avessero portata lassù per una scampagnata in mezzo alla natura. Forse a vedere le mucche o magari per un pranzo al rifugio. Eppure, per quanto cercasse nella sua memoria, era certa di non essere mai stata in montagna in vita sua. Loro erano una famiglia da mare, al massimo da lago.
Quell’insegna però: il rosso sbiadito con il nome del rifugio in bianco e il cerchio azzurro sul retro non le era nuova. Era brutta, non era possibile che ce ne fosse un’altra uguale.
Posa al bosc.
- Mamma, che vuol dire posa?
- è il laghetto nel quale bevono le mucche e gli uccelli
- e perché manca la o finale a bosco?
- Perché è scritto in dialetto
Il dialogo le era tornato in mente quasi come un sogno, un momento impossibile che non riusciva a mettere a fuoco, ma insieme aveva sentito un brivido freddo salirle lungo la schiena. Aveva abbassato l’aria condizionata scuotendo la testa: era soltanto spaventata in vista del campeggio, tutto lì.
Il sole picchiava forte anche se la temperatura della montagna era molto più bassa di quella della città. Il parcheggio del rifugio brulicava di automobili e di gente che correva qua e là. Stefania era scesa dalla macchina un po’ titubante, cercando di scacciare il ricordo della croce cementata in cima alla collinetta, di fianco al rifugio, e dell’ombra maestosa che questo proiettava verso di loro. Non capiva da dove arrivassero questi ricordi freschi e allo stesso tempo nebulosi, ma non le piaceva quello che stavano riportando a galla.
Michele aveva caricato il suo grosso zaino da campeggio sulle spalle e sorrideva felice stringendo gli occhi accecati dal sole. “Andiamo? Montiamo la tenda e torniamo qui, che ne dici?”
Stefania aveva annuito, poi si era messa in spalla il borsone e aveva iniziato a camminare al fianco del compagno.
“Io sono già stata qui.” aveva ripetuto con un tono preoccupato che il ragazzo non aveva colto.
“Anche io, tante volte, poi ti faccio fare un sentiero bellissimo da quella parte, si vedono sempre i cervi…” Michele aveva continuato a parlare per tempo indefinito di funghi, di more e di volpi, per poi cominciare a decantare le meraviglie dei fiori di montagna e le delizie del rifugio dove sarebbero andati a cenare insieme quella sera. Nonostante il cielo fosse così limpido e pulito, nonostante gli uccellini continuassero a cinguettare amabilmente e le cicale col loro frinire coprissero il silenzio per lei quasi innaturale, l’inquietudine aveva iniziato a crescerle dentro. Un sentimento primordiale di paura si stava facendo spazio in lei, che sembrava non riuscire a pensare ad altro che alla fuga. Era stata una pessima idea
“Sia- Siamo al sicuro quassù?” Aveva chiesto interrompendo il monologo di Michele, che si era fermato a osservarla accigliato, con una mano a proteggere gli occhi dal sole. “Ma certo, non preoccuparti, ci sono io!”
Dopo qualche minuto di camminata erano arrivati al punto che Michele aveva scelto per loro: uno spazio delimitato da quattro numeri, vicino al bagno messo a disposizione dal campeggio.
Le aveva aperto la sedia da campeggio perché se ne stesse comoda mentre lui era impegnato a montare la tenda. “Vedrai che staremo benissimo. Conta anche che stanotte c’è la luna piena, non sarà del tutto buio. Vedrai che la luna in montagna è ancora più bella che in città e potremo vedere le stelle insieme.”
Un incubo. Per Stefania quella prospettiva era simile a un incubo. Aveva stretto la presa sul suo cellulare, in quel momento attaccato al caricabatterie solare che aveva acquistato senza motivo, visto che non sembrava funzionare.
Finito di costruire la tenda, Michele l’aveva portata a dare un’occhiata ai bungalow del campeggio. Una decina di casette con porte, mura ed energia elettrica che le sembrarono un vero paradiso nell’inferno nel quale si era cacciata.
“M- Ma… non potremmo prenderne uno? È più comodo, no?”
Il sorriso sincero di Michele si era spento all’improvviso. “Non vuoi proprio provare a fidarti di me? Sono stato qui e sono sopravvissuto, posso aiutarti.”
Lui non poteva capire. La fobia non faceva parte di lui e non c’era verso per lei di convincerlo a comprendere quanto per lei invece fosse difficile essere lì in quel momento, quanto desiderasse scappare.. Senza contare l’assenza del bagno e dell’acqua potabile che per lei era una sciocchezza. Ma perché gli uomini amavano così tanto mettersi in condizioni meno agevoli. Il progresso esisteva per rendere le loro vite migliori, perché non sfruttarlo?
Stefania aveva tentato di sorridere. “E va bene, ma se stanotte dovrò andare in bagno, verrai con me.”
Michele l’aveva attirata a sé, sollevandola dalla sedia. “Fidati di me,” aveva sussurrato sfiorandole il viso. “Non ti metterei mai in pericolo.”
Lo sapeva, altrimenti non sarebbe mai andata a ficcarsi in quell’inferno travestito da paradiso. Mentre il suo compagno la viveva come una splendida vacanza, per lei quella era una prova estrema da superare, il suo passaggio finale all’età adulta. Si immaginava a dire a una sua futura figlia che avere paura del buio era sciocco, che anche lei un tempo temeva l’oscurità, ma che non era più così. E allora le avrebbe proposto di provare anche lei.
Avevano pranzato coi panini che avevano preparato prima di partire e poi avevano fatto una lunga camminata nel bosco. Stefania era stata costretta ad ammettere che in effetti l’atmosfera tranquilla della montagna stava facendo effetto sui suoi nervi. La paura che aveva sentito addosso quella mattina aveva lasciato il posto alla curiosità e al desiderio di conoscere meglio quel luogo pulito. Di esplorare, respirare, guardare il mondo sotto di loro che scorreva accelerato rispetto alla montagna. Doveva ammettere che quel luogo aveva una certa attrattiva.
Erano risaliti sulla collina che ospitava il rifugio dal lato opposto a quello da cui erano arrivati con l’automobile. Una salita ripida, ma tutto sommato affrontabile. Arrivati in cima, la brezza fresca pomeridiana le aveva causato un brivido. La temperatura era scesa più rapidamente del previsto.
“Vuoi che vada a prenderti la giacca? È rimasta in macchina, vero?”
Michele era sempre stato un osservatore, dote rara, e lei amava sentirsi coccolata dalle sue attenzioni. “Grazie, amore.”
“Aspettami qui, o se vuoi vai verso l’ingresso. Io arrivo tra poco.”
L’aveva osservato scendere veloce la collina, quindi si era diretta verso l’ingresso. Solo in quel momento l’aveva vista: la posa. Una pozza, in pratica. Ai suoi occhi un piccolissimo, microscopico lago.
Quel colore sporco, verdastro, e il recinto. Si era voltata di scatto a osservare l’ingresso del rifugio: la doppia porta in legno consumato dal tempo, la stalla sul lato e la pavimentazione di fronte alla porta in ciottolato. Lei era già stata lì. Nausea, paura. Stefania sentiva di essere molto vicina a perdere del tutto il controllo di sé. Respirava, lenta, come se stesse facendo yoga. Il tocco della mano di Michele sulla sua spalla l’aveva fatta urlare. Stefania aveva iniziato a ridere, gli occhi le lacrimavano senza che lei riuscisse a fermarli, ma sperava che lui credesse che erano lacrime dovute al troppo ridere. “Scusa, non riesco a smettere.”
- Perché non posso entrare nel lago per fare il bagno?
- Perché quella è l’acqua da cui bevono le mucche. Tu non sei una mucca, sbaglio?
- Ma non posso neanche entrare? Perché hanno messo il recinto? Io se voglio ci passo.’
- Non lo farai, perché se ci provi e cadi lì dentro io non ti faccio salire in macchina. Resti qui, sei avvisata.
- Se resto qui posso pettinare le mucche?
Un ricordo sereno, che una volta messo a fuoco l’aveva fatta sorridere.
Era grata a Michele per avere insistito a portarla lassù, le sembrava di star recuperando pezzi del suo passato che altrimenti non avrebbe mai più ricordato. Spesso le era capitato di avere dei déja vu che non era in grado di spiegarsi e quando era stata dall’ipnotista lui le aveva confessato di non avere idea del motivo di quel suo blocco così totale. Michele stava riuscendo a riportare alla luce quel passato che lei aveva cancellato. Non soltanto lei, anche i suoi genitori.
La cosa la inquietava. Perché i suoi, così razionali e trasparenti con lei, le avevano sempre detto di non essere mai stati insieme in montagna? Forse era stato solo un pomeriggio come un altro. forse però era successo qualcosa di terribile. Stefania era terrorizzata, ma doveva sapere. La determinazione si stava facendo spazio in lei, sostituendo la sua convinzione primordiale di fuggire da quel luogo così calmo.
La coppia era andata a cenare al rifugio. Michele aveva detto il vero: il cibo era fantastico, semplice, rustico, ma degno di un ristorante stellato.
“È anche per l’aria, sai? Qui l’aria è diversa, pura. Fa cambiare il sapore a ciò che mangiamo.”
Stefania aveva annuito convinta. “Domani a pranzo torniamo. Anzi, a colazione.” Sorrideva, ma il ragazzo aveva notato la sua inquietudine. “Senti, ma tu quante volte sei venuto qui?”
Michele aveva alzato lo sguardo sul soffitto, concentrandosi per contare. “Direi almeno una ventina? Forse anche di più.”
“E non ci sono leggende su questo posto? Qualcosa che magari in passato è successa, storie di cronaca?”
Michele era rimasto a bocca aperta, domandandosi cosa le stesse passando per la mente. “Leggende, non so, forse… Mi pare qualcosa sull’arca di Noè, ma credo sia una sciocchezza. Poi so che qualcuno ha parlato di Draghi, se ci credi, boh… io non penso, e non è neanche qui, ma tutto da un’altra parte. Ma cronaca, non credo. Non mi ricordo sinceramente, forse potresti chiedere a quello del rifugio, magari ha delle storie.”
Stefania si era illuminata. “Questa è un’ottima idea!” Si era alzata di colpo lasciandolo lì a domandarsi a cosa fosse dovuto questo suo improvviso cambio di umore.
La piccola Stefania era rimasta affascinata dalla montagna, al punto che i suoi genitori si erano chiesti come mai fino a quel momento non ci fossero mai andati. Entrambi preferivano il mare, ma un po’ di aria pura avrebbe di certo fatto bene alla loro bambina, questo era certo.
Stefania era attirata dalla posa in modo quasi magico. Era abituata all’acqua: al mare verde e alle alghe, ai laghi contornati da giunchi e bambù. Ma mai aveva visto una posa. Una pozzanghera gigante. Nella sua mente da bambina si continuava a chiedere come fosse possibile che lì ci fosse ancora acqua. Immaginava fosse più profonda di quanto sembrava e una parte di lei ne era terrorizzata, ma si sentiva attratta da quel minuscolo specchio d’acqua al punto di non riuscire a pensare ad altro. Persino a cena, seduta su una delle panche fuori dal rifugio, aveva continuato a fissarla.
Stefania sentiva un richiamo fatto di campanelli, ma quando aveva detto a sua madre che lì sotto c’erano le fate, lei si era messa a ridere e le aveva fatto notare i grossi campanacci appesi ai colli delle mucche che giravano oltre il recinto, vicino alla posa.
La bambina si era risentita, perché conosceva bene la differenza tra il trillo di un campanellino e il rumore basso e sordo di un campanaccio.
Era stato in quel momento che suo padre le aveva confessato che quella notte avrebbero dormito lì. Stefania era saltata sulla sedia, felice di potersi svegliare il mattino dopo e di avere ancora la possibilità di osservare la posa.
Il proprietario del rifugio era un uomo anziano, un contadino gentile che amava le sue mucche e che produceva i formaggi con passione. Quella sera aveva accompagnato Stefania e gli altri due bambini che avrebbero dormito lì alla stalla e la bambina aveva dato la buonanotte alle mucche, riparate nei loro giacigli di fieno e crusca.
Quando Stefania aveva inquadrato il proprietario del rifugio, si era resa conto che non era più lo stesso dei suoi ricordi. La donna gli si era avvicinata sorridente, pensando a come introdurre il discorso.
“Buonasera, complimenti per la cena, era tutto ottimo.”
“Passerò i complimenti alla cuoca, grazie.” L’uomo sembrava affabile, nulla a che vedere con l’immagine dei burberi montanari che era abituata a vedere in televisione.
“Mi scusi, lei conosce il vecchio proprietario? Io venivo qui da bambina e mi farebbe piacere rivederlo, se fosse possibile.”
“Oh, mio padre… Ho preso il suo posto qualche anno fa. Lui vive giù in paese, qui è tutto più scomodo. Non si può vivere in alta montagna a ottant’anni, anche se, fosse per lui, sarebbe ancora qui a lavorare con le mucche.” l’uomo aveva iniziato a ridere, forse nervoso.
“Pensi che mi ero dimenticata di questo posto, ma oggi quando sono arrivata qui mi sono resa conto di esserci stata, ho anche dormito qui.” Stefania non era sicura di dove il discorso l’avrebbe portata, ma doveva fare un tentativo. “Ero certa di avere visto solo le foto nei giornali dopo che era successa quella disgrazia, e invece…”
L’espressione del proprietario si era rabbuiata all’improvviso. Stefania aveva colto nel segno. L’uomo aveva sospirato e allargato le braccia. “Storie simili avvengono spesso in montagna, purtroppo. Anche noi abbiamo avuto la nostra dose di sfortuna, temo sia inevitabile.”
“In quel periodo io ero piccola, ricordo anche di avere dormito qui.”
“Quella sera… c’erano tre bambini.”
Stefania aveva fatto la doccia e la mamma le stava pettinando i capelli ancora umidi. Le stanze spartane del rifugio non avevano gli asciugacapelli, ma il proprietario era stato così gentile da prestarne loro uno, che suo padre era andato a restituire subito dopo l’uso.
La luna piena brillava sul cielo limpido della notte e Stefania ne era ipnotizzata. Non era abituata a guardare le stelle e la luna, ma così in alto in montagna il cielo era differente da quello che era abituata a vedere.
Un leggero vento muoveva le fronde degli alberi, ed era l’unico rumore che Stefania sentiva.
Non c’era la televisione in camera, la bambina era abituata ad averla in albergo al mare e le sembrava una mancanza tutt’altro che trascurabile. Un po’ delusa, aveva deciso di usare la finestra per osservare la calma all’esterno e, come le era capitato nel pomeriggio, la posa la stava chiamando. Sentiva il rumore dell’acqua stagna nelle orecchie. Ne sentiva l’odore acre e il suo colore era quello dato dal riflesso della luna sulle acque.
Era rimasta a guardare fuori dalla finestra fino a quando sua madre non l’aveva invitata ad andare a letto, cosa che Stefania aveva immediatamente fatto.
Le chiuse non erano state usate e le pesanti tende doppie non bastavano a eliminare del tutto la luce della luna piena che filtrava dalla finestra.
Stefania si era addormentata quasi subito, ma aveva continuato a sognare quella piccola pozza d’acqua, sentendone di nuovo il richiamo oscuro. La sensazione non era semplice da descrivere: per quanto se ne sentisse attratta, una parte di lei le ripeteva di fuggire, di non lasciarsi ammaliare dalla voce soave che le parlava del mondo lì sotto. Sotto la montagna, nella pozza.
Stefania si era alzata e aveva notato che qualcosa era cambiato: la stanza era più buia. Aveva tirato la finestra per trovarsi di fronte a una luna non più piena, ma mangiata da qualcosa. Ne vedeva a malapena una piccola parte, che non illuminava più gli alberi, ma che si riverberava ancora nell’acqua scura della posa.
Allora l’aveva visto: il bambino. Il piccolo Sebastiano, avevano visto le mucche insieme.
Il richiamo non era più forte come prima, forse la pozza aveva già trovato la sua preda e non aveva bisogno di altre vittime. Stefania aveva posato entrambe le mani sul vetro della finestra, la voce ferma in gola. La luna era stata inghiottita dall’oscurità quasi del tutto e soltanto il suo contorno ora era visibile sulla pozza.
Sebastiano aveva scavalcato la recinzione e stava camminando verso la posa.
Stefania era preoccupata, sentiva dei tamburi batterle nella testa, i campanelli suonavano e l’acqua sembrava aver assunto un colore più limpido.
Una mano, un invito a entrare. Un canto leggiadro.
La paura teneva Stefania inchiodata alla finestra, un silenzio che le urlava dentro. Avrebbe voluto battere le mani contro la finestra e gridare con tutta la forza che aveva a Sebastiano di non ascoltare la posa, di fuggire più lontano che poteva, di tornare al rifugio.
Chissà se i suoi genitori erano nei loro letti a dormire tranquilli, forse anche loro lo stavano cercando. Sarebbe bastato poco, doveva fermarlo.
Stefania era uscita di corsa dalla stanza e aveva tentato di svegliare i suoi genitori, ma a nulla erano servite le sue richieste, perché i due sembravano essere caduti in un sonno così profondo da non essere in grado di sentirla.
Aveva aperto la porta, urlando a tutti di svegliarsi, ma nessuno pareva sentirla.
Per un istante aveva pregato che quello fosse soltanto un sogno, che non ci fosse qualcosa nella posa che stava chiamando il suo nuovo amico, perché lei era certa che qualunque cosa fosse, ormai l’aveva scelto e lei non sarebbe stata in grado di fermarla.
Aveva corso a perdifiato giù dalla collinetta, rischiando anche di cadere più di una volta, ma quando era arrivata di fronte al recinto si era dovuta fermare. Una luce pareva illuminare la pozza da sotto. Un canto, una mano che sporgeva dal centro della posa.
Il nostro è un mondo dentro la montagna
Luogo felice, luogo di cuccagna
I tuoi desideri noi esaudiremo
E tutti insieme qui canteremo
Entra nella casa nella posa
Qui con noi avrai qualsiasi cosa
Insieme a noi non temerai più nulla
Sarai sicuro come in una culla
Sebastiano si muoveva al rallentatore. Stefania piangeva, i suoi piedi restavano piantati a terra, come se qualcosa li stesse tenendo fermi. La bambina si sforzava, gridava, ma nessuno pareva sentirla in quel mondo addormentato. Anche il vento era cessato, nessun movimento attorno a loro. In compenso l’acqua stagnante della posa danzava, quasi fosse un oceano.
Sebastiano era a un passo dalla riva e quando aveva posato il piede sull’acqua non era andato a fondo, ci stava camminando sopra. In compenso la voce che Stefania sentiva da quando il sole era tramontato era più vicina, più limpida. Una donna dalla pelle liscia, luminosa come la luna, stava emergendo dalla pozza, tendendo la mano a Sebastiano.
Il bambino le era corso intorno, pochi passi verso la fine, la figura si era avvolta intorno a lui, materna.
L’abbraccio nel quale l’aveva stretto sembrava caldo e amorevole, ma Stefania sapeva che non avrebbe mai più rivisto il suo amico, perché la creatura che lo stava stringendo non apparteneva al loro mondo.
Lenti, erano scesi dentro la posa, che dopo averli inghiottiti era tornata calma e piatta.
Stefania era crollata in ginocchio, segno che il potere della creatura era debole, se non inesistente ormai.
Una voce le aveva iniziato a dire che andava tutto bene.
Carezze tiepide l’avevano riaccompagnata nella sua stanza, ripetendole che non c’era nulla che non andasse, ora puoi dormire, dicevano melliflue, non ti devi preoccupare.
Stefania si era svegliata di soprassalto, spaventando a morte Michele che dormiva profondamente al suo fianco.
“Che succede?” Aveva chiesto il ragazzo ancora intontito dal sonno.
“Sai se ci sarà un’eclissi di luna?” la voce di Stefania era calma, ma nei suoi occhi illuminati dal lumino elettrico che avevano nella tenda c’era un’inquietudine profonda.
“Domani, forse?”
Non capiva come fosse possibile, ma la memoria era tornata di colpo: lei sapeva cosa era successo quella notte.
Il buio in quel momento non la spaventava, ma temeva ciò che sarebbe successo di lì all’eclissi. Nella mente aveva un ricordo nebuloso riguardante un articolo che aveva letto mentre scorreva distratta i titoli delle notizie su un sito a caso. Non ricordava la data, ma sapeva che era vicina.
“L’eclissi mi pare domani? Volevo portare il telescopio di mio padre per vederla bene, ma non…”
“Domani dobbiamo dormire al rifugio.” I pensieri della ragazza stavano volando nella ricerca di risposte: aveva davvero modo di fermare quella creatura? Pareva che fosse lei a decidere chi poteva sentirla e chi no e Stefania era convinta che solo i bambini fossero immuni al suo incantesimo. Il pensiero dei suoi genitori addormentati come morti la fece rabbrividire. Forse, visto che l’aveva già sentita si era in qualche modo immunizzata? Forse la creatura avrebbe voluto dirle qualcosa? E se avesse provato a prenderla con sé come aveva fatto con Sebastiano?
Stefania scosse la testa, sveglia come un grillo. Si voltò per trovarsi di fronte lo sguardo pensieroso di Michele. “Non dormi?” Le chiese, sbadigliando.
“Scusa, io… ho una cosa da fare.”
Nel buio della notte, Stefania si era messa le scarpe e la giacca a vento, poi aveva aperto la tenda ed era uscita quasi di corsa, senza neppure prendere con sé la sua torcia. Michele l’aveva seguita subito, incredulo e anche un po’ preoccupato. “M- Ma… è buio? Lo vedi che è buio?”
“Sì, lo vedo. Mi sa che sono guarita,” aveva risposto sardonica. Doveva andare a controllare, doveva entrare nella posa.
Lungo la strada aveva raccattato alcuni rami, i più lunghi che aveva trovato, poi aveva scavalcato il recinto ed era faccia a faccia con la posa.
“Stef? Cosa fai?” Michele si era chiesto se non sarebbe stato meglio per lui restare a letto, ma non aveva intenzione di lasciare da sola la sua compagna, anche perché non era certo delle sue intenzioni. Voleva forse entrare nella posa? “Guarda che non è acqua pulita.” Aveva tentato di dissuaderla.
Stefania aveva fatto due passi nell’acqua. A occhio e croce il diametro della posa era di sei, forse poteva arrivare a otto, metri. Dopo averne percorso il perimetro esterno si era convinta che non poteva nascondere niente. Coi bastoni aveva iniziato a tastare il fondo, rivelando ciò che si aspettava: niente buchi, niente ingressi a mondi sconosciuti sotterranei. Niente campanelli e niente voce fatata.
Un po’ delusa, Stefania era tornata a dormire, seguita da un Michele preoccupato e curioso. “Domani ti spiego,” gli aveva sussurrato all’orecchio dopo essersi pulita i piedi e le gambe con delle salviette monouso.
Stefania era stata svegliata dalle grida di una donna. Non sapeva chi fosse, ma nel suo cuore sentiva di sapere che c’entrava Sebastiano, che era successo qualcosa.
La sua mamma le era corsa incontro e l’aveva abbracciata.
- Meno male, sei qui!
- Che cosa è successo a Sebastiano? - aveva domandato, sua madre era rimasta a fissarla senza parlare.
- Come lo sai? Hai visto qualcosa? - ma Stefania aveva scosso la testa, incerta. Aveva parlato seguendo il suo istinto, ma ciò che le arrivava alla mente le pareva sciocco a pensarci bene.
- No, ma è la sua mamma, vero? - Sua madre aveva annuito e l’aveva stretta di nuovo.
Nessun altro aveva notato i piedi sporchi di terra di Stefania, solo lei se n’era accorta quando era entrata in bagno a lavarsi i denti. Aveva nascosto le tracce, preoccupata che qualcuno le avrebbe altrimenti chiesto spiegazioni che non sarebbe riuscita a dare.
Quel pomeriggio i poliziotti erano stati a parlare con i suoi genitori e lei aveva sentito il bisogno di dire che Sebastiano secondo lei era nella posa.
Loro avevano riso della sua innocenza infantile, le avevano accarezzato la testa ignorando la sua idea.
Appena sveglia, Stefania aveva iniziato a cercare col cellulare qualche notizia su ciò che era successo quella notte. Sebastiano era più stato ritrovato?
Erano forse scomparsi altri bambini?
Quanto spesso avvenivano le eclissi lunari totali?
Alcune delle sue domande avevano avuto risposte: purtroppo nessuno aveva più avuto notizie di Sebastiano. L’ultima intervista di sua madre risaliva a pochi mesi prima e la donna appariva vecchia e stanca, eppure Stefania ricordava che avesse all’incirca l’età di sua madre.
Le eclissi non avevano una regola, ma negli ultimi dieci anni ce n’erano state altre tre oltre a quella che stava per verificarsi, nessuna di queste con la luna piena, però. Stefania aveva iniziato a incrociare i dati andando indietro nel tempo. Era risalita a tre eventi precedenti alla scomparsa di Sebastiano: un bambino era scomparso dal paese a valle nel 1948, poi era stata la volta di una ragazza, che era in campeggio con degli amici. Era il 1974, lei era ubriaca e tutti avevano dato la colpa all’alcool, credevano si fosse persa e fosse caduta in un crepaccio. Un’altra volta invece, nell’estate del 1983, la posa era vuota a causa della siccità. Quell’anno non erano avvenuti incidenti, se così si poteva chiamarli.
Stefania era rimasta affascinata nell’osservare le foto della buca vuota e aveva constatato che si era svuotata anche altre volte. Non faceva paura per niente così, nuda e innocente. Solo un po’ di terra fangosa.
Forse la soluzione era proprio quella: doveva svuotare la pozza.
Quando Michele l’aveva raggiunta, insieme si erano diretti verso il rifugio per la colazione, come d’accordo. Lungo la strada, Stefania gli aveva raccontato della scomparsa di Sebastiano, di come lei fosse stata presente quella notte e di come fosse convinta che la sua paura del buio fosse originata proprio da quella notte. Non aveva intenzione di rivelargli tutto, perché era certa che non le avrebbe creduto, come avrebbe potuto? Lei stessa dubitava che i suoi fossero ricordi e non pezzi di un sogno che aveva immaginato da piccola.
“Avete una stanza libera per questa notte?” il proprietario le aveva sorriso, quella ragazza gli stava simpatica e sperava che sarebbe diventata una cliente affezionata.
“Certo, ne abbiamo giusto una. Sarebbe una familiare, ma ve la lascio volentieri, vi posso fare entrare dopo pranzo, ma se volete potete lasciare qui i bagagli, ve li porto in camera io.”
“Perfetto, grazie.”
Stefania aveva ancora troppe domande e per cominciare aveva deciso che avrebbe sentito sua madre.
“Ciao, mamma, come va?”
La voce felice di sua madre aveva risposto con trasporto: “Steffy, sei al mare in vacanza?”
“No. Questa volta siamo andati in montagna, siamo al rifugio posa al bosc.”
Come si aspettava dall’altro capo della linea sua madre attendeva in silenzio, “sai, sono venuta qui con Michele perché pensavo che fosse una buona terapia d’urto contro la mia fobia del buio, e ha funzionato. Non mi spaventa più.”
Ancora silenzio da parte della madre.
“Mamma… perché non abbiamo mai parlato della gita in montagna?”
Un sospiro pesante, poi un lamento. “Hai ragione… adesso ti ricordi, quindi.”
“Sì. Ricordo di Sebastiano, dell’eclissi e… Cosa è successo dopo che siamo tornati a casa, mamma?”
“È giusto che te lo dica. Preferisci venire qui a parlarne?”
“No, dimmelo subito, devo sapere tutto.”
Lorella aveva sempre capito la sua bambina al volo, si riteneva una madre fortunata perché aveva con sua figlia un ottimo rapporto. Sapeva che troppo presto sarebbe arrivata la pubertà e con essa tutti i problemi che ne sarebbero derivati, ma sperava tanto che il loro rapporto sarebbe rimasto buono, almeno.
Dopo il ritorno dal rifugio Posa al Bosc, però qualcosa tra lei e Stefania si era spezzato in modo irrimediabile, e lei non riusciva a capire cosa fosse.
Forse a causa di un meccanismo di difesa psicologica, sua figlia non ricordava nulla di ciò che era successo lassù, al punto che appena qualcuno nominava la montagna, lei d’istinto sosteneva con forza di non esserci mai stata, come a volersi difendere da accuse che nessuno le avrebbe mai rivolto.
- Ti ricordi della posa? Ti ricordi delle mucche?
- Non ho mai visto le mucche, non sono mai stata in montagna.
- Steffy, cosa è successo a Sebastiano? Tu lo sai?
- Non conosco nessun Sebastiano, chi è?
- Steffy, perché hai paura del buio?
- Ho paura di stare sotto la luna senza la luce. La luna è anche sotto di noi.
Dopo il primo periodo, durante il quale la donna aveva tentato di estorcerle la verità con domande a trabocchetto, Lorella aveva rinunciato a capire cosa avesse visto. Né lei, né gli psicologi erano riusciti a capire perché la bambina avesse rimosso tutta la gita in montagna. Seguendo i loro consigli, i genitori avevano buttato via le fotografie e nascosto i loro ricordi, chiudendo per sempre quel discorso che causava loro un dolore troppo forte da sopportare.
Lorella si era chiesta tante volte cosa fosse potuto accadere a Sebastiano, ma ogni risposta la spaventava e nessuna era certa. Che fosse stato rapito? Che l’avesse ucciso uno dei suoi genitori e poi avesse fatto sparire il corpo? Che fosse uscito in preda al sonnambulismo e si fosse perso da qualche parte nella profondità della montagna?
Era certa che, se la risposta non era pervenuta fino a quel momento, non ne avrebbe mai avuta una, anche se il pensiero che la figlia forse avesse una risposta non le consentiva di dormire tranquilla. Si chiedeva sempre cosa sarebbe successo se lei un giorno si fosse ricordata, quale verità sarebbe affiorata allora?
“Mamma, io so che fine ha fatto Sebastiano, ma so anche che tu non mi crederesti.”
“Dimmelo, forse non ti crederò, ma io d- devo sapere…”
E Stefania aveva parlato, sua madre l’aveva ascoltata senza proferire parola per poi restare in silenzio.
“Mamma, stanotte ci sarà un’altra eclissi totale. Io resto qui.”
Aveva ancora qualche ora per capire come contrastare quella creatura, perché era certa che sarebbe tornata a cercare qualcuno e lei era l’unica che poteva impedirlo.
Avrebbe combattuto, doveva soltanto capire come fare.
Persona 5 - Il mio sole
Feb. 17th, 2021 09:48 pmFandom: Persona 5
One shot
Personaggi: Sadayo Kawakami, Takase
Warning: morte
Prompt: pioggia/sereno
Parteciipa al COWT11, forza team Meridian!
Il mio sole
Il tonfo del telefono l'aveva fatta tornare alla realtà. Sadayo non aveva idea di quanto tempo fosse passato, di quanto avesse pianto cercando di respirare e di riprendere il controllo del suo stesso corpo.
Come era potuto succedere? Era morto davvero o era uno stupido scherzo pensato con crudeltà da uno dei suoi studenti?
Teneva a lui, forse più che a tutti gli altri alunni. Il suo viso continuava a tornarle in mente, lo vedeva, accigliato e stanco, e lo sentiva lì al suo fianco. Forse avrebbe dovuto parlargli, forse il suo spirito avrebbe potuto sentirla.
È colpa mia...
Aveva biascicato. Tutto intorno a lei non vedeva che nebbia. Aveva stretto le palpebre e si era resa conto che stava piangendo.
Che ore sono?
Si era guardata intorno e aveva messo a fuoco la finestra. La pioggia. Forse la colpa era della pioggia.
Sadayo continuava a piangere, maledicendo il terribile destino che l’aveva condotto da lei, perché se lei non fosse stata così tenace nel convincerlo a impegnarsi a lavorare e a studiare sodo in nome del futuro lui forse non sarebbe stato così stanco. Se non l’avesse abbandonato a se stesso lui non sarebbe morto.
Continua così, puoi farcela... Studia ancora un po', non accontentarti!
Sei giovane, ne hai di tempo per riposare, ora stai costruendo il tuo futuro.
Lo aveva spronato ogni volta che ne aveva avuto l'occasione nel corso degli ultimi mesi. Grazie alle lezioni private che gli aveva dedicato e alle ore di studio, spesso notturno, era diventato uno studente promettente. L'intelligenza non gli mancava e finalmente aveva qualcuno pronto a credere in lui. Sadayo non lo aveva mai giudicato per le sue frequentazioni passate e per il suo carattere burrascoso e difficile, dovuto solo alle difficili prove che la vita gli aveva messo davanti. Lei credeva davvero in Takase e glielo ricordava ogni volta che ne aveva la possibilità.
Sono stanco, non so se avrò le forze per resistere fino alla fine dell'anno.
Glielo aveva confessato con un mezzo sorriso, come a dire che non era realmente così, che in realtà si stava lamentando solo per sentirsi dire quanto invece avesse tutto sotto controllo, quanto il suo futuro fosse sempre più chiaro e limpido ogni giorno.
La classica luce in fondo al tunnel che nessuno sembrava avergli dato la possibilità di vedere fino a quel momento e che Kawakami, la sua professoressa, finalmente gli aveva mostrato.
Lei sperava di essere diventata il faro che l'avrebbe guidato verso il futuro, non avrebbe mai pensato che invece sarebbe stata la causa della sua morte.
La prima volta che la professoressa si era presentata alla sua porta per le lezioni private si era sentito invaso dalla speranza, come se il sole fosse tornato a far parte della sua vita. All'inizio era convinto che avrebbe rinunciato, che se ne sarebbe andata senza rimpianti, come tutti quelli che gli avevano dato fiducia ed erano rimasti delusi.
Questa volta però si era sbagliato: era rimasta con lui. Kawakami era paziente e molto precisa, come a scuola, e pareva determinata a insegnargli tutto ciò di cui aveva bisogno per superare gli esami, costringendolo a dimostrare a tutti di essere un ragazzo intelligente, come lei gli ribadiva ogni volta.
"Non puoi proprio lasciare almeno uno dei tuoi lavori?" gli aveva chiesto, il suo sorriso illuminato di speranza.
"Non posso. Non guadagnerei abbastanza per vivere." Era rassegnato al fatto che i suoi tutori non gli avrebbero mai regalato niente. Lo sapeva e in fondo non gli importava molto: non avrebbe più avuto bisogno di loro di lì a breve. Una volta maggiorenne sarebbe andato a vivere da solo, ovunque pur di non stare più con gli zii che ogni giorno gli ricordavano quanto lui fosse solo un peso, un costo per loro. Una vergogna che occupava una stanza in casa e che consumava cibo e spazio, utile solo a racimolare qualche soldo.
Kawakami si rabbuiava ogni volta che lui tirava fuori l'argomento soldi. Era certo che lei non gli credesse fino in fondo, perché lei aveva vissuto nella normalità, col calore di una famiglia che l'aveva sempre amata. Non avrebbe mai capito, e non era colpa sua.
"Ce la farai, ne sono certa," glielo ripeteva prima di andarsene. "Mi raccomando, cerca di dormire stanotte!"
C'erano poche certezze nella vita di Takase, una era lei: il raggio di sole che lo stava guidando verso un futuro nel quale non avrebbe mai più dovuto affidarsi ai suoi tutori e ai loro ricatti subdoli, un futuro senza senso di colpa.
Era andato tutto liscio per qualche mese, Takase si stava quasi abituando ad avere un'amica, ma quella chiamata aveva rovinato tutto.
Aveva risposto sorridendo dopo aver visto che a chiamare era proprio Kawakami, ma la sua voce al telefono era ombrosa, triste. Desolata.
Non posso più aiutarti, mi dispiace.
Aveva fermato la bicicletta e aveva accostato, incapace di prendere fiato. Un altro rifiuto, una porta in faccia. Si sentiva solo, piccolo e indifeso come da bambino, quando i suoi zii l'avevano accompagnato nella sua nuova stanza completamente vuota, a eccezione del tatami e del borsone che aveva portato da casa, e avevano chiuso la porta uscendo, lasciandolo solo. Aveva imparato a difendersi da solo, ad arrangiarsi, e avrebbe continuato così.
Anche dopo settimane, la voce della professoressa Kawakami continuava a risuonargli nella testa. Era l'ultimo dell'anno, un giorno di festa e di divertimento per quasi tutti i suoi coetanei, ma anche un giorno nel quale c'era da lavorare.
Pioveva a dirotto e c'erano parecchie consegne da fare, la gente come sempre era scontrosa e lui si sentiva stanco.
Anche la sera della telefonata pioveva.
Non posso più aiutarti, mi dispiace.
Aveva detto che le dispiaceva, ma lui non ci credeva. Takase aveva imparato a bastare a se stesso già da piccolo, solo che questa volta non se l'aspettava, non da lei. Kawakami gli era sempre sembrata sincera, e allora perché? Perché l'aveva abbandonato anche lei?
Nonostante il suo cuore si fosse inaridito nel corso degli anni di solitudine vissuti coi suoi tutori, Takase non era stato in grado di trattenere le lacrime per quell'ennesimo abbandono. Aveva ricominciato a provare un minimo di fiducia nel genere umano soltanto grazie a Kawakami e aveva sbagliato, di nuovo.
Nessuno, neanche un amico. Era solo ed era stanco. Troppo stanco per continuare a pedalare, troppo per lottare ancora. La pioggia che impregnava i suoi vestiti era pesante e fredda, gli occhi bruciavano e Takase provava un forte desiderio di gridare.
Contro i suoi tutori, che si erano approfittati di lui e non gli avevano mai dato la possibilità di vivere la sua età con spensieratezza.
Contro i suoi genitori, morti troppo presto, che non si erano preoccupati di ciò che ne sarebbe stato di lui alla loro morte e che l'avevano condannato.
Contro la scuola, indifferente ai suoi tentativi di studiare, al suo impegno nonostante la stanchezza e la fatica.
Contro i suoi amici, inesistenti, che erano svaniti nel nulla perché lui era diverso, perché lui non aveva i soldi.
Contro i clienti al lavoro, che non avevano mai una parola di conforto, un ringraziamento, e anche contro il ristorante che gli chiedeva di essere veloce e sorridente, anche dopo ore di pedalate senza riposo.
Contro Kawakami, che era stata la personificazione della speranza e che l'aveva abbandonato dopo averlo illuso.
Ma soprattutto contro se stesso, che non ce la faceva più, che aveva esaurito la speranza.
Non avrebbe mai più creduto in niente. Sarebbe rimasto da solo, proprio come aveva sempre fatto da quando i suoi erano morti.
Alla fine aveva gridato, gli occhi chiusi e la bocca spalancata. aveva lasciato andare il dolore che sentiva dentro, dandogli voce e corpo. Ruggendolo fuori come a lasciarlo andare, a farlo sentire a tutti.
Non aveva neanche sentito l'impatto con il camioncino. Non aveva fatto in tempo a rendersi conto di ciò che stava succedendo.
All'improvviso aveva smesso di piovere.
Takase non aveva più freddo, non era più bagnato. Il sole brillava tiepido nel cielo irreale, azzurro e limpido, illuminando un mondo differente da quello in cui aveva sempre vissuto.
La sua bicicletta era di fronte a lui, scolorite, sgretolata, distrutta dall'impatto. Anche il suo corpo era lì, inerte, rosso di sangue e grigio di morte. Takase sapeva che non avrebbe potuto toccarlo, perché era in un mondo diverso dal suo.
Era rimasto fermo a osservare l'arrivo dell'ambulanza, le lacrime dell'autista del camion, lo sconforto dei passanti che parevano tenere a lui più dei suoi tutori.
Erano arrivati anche loro, le sanguisughe, dopo un tempo indefinibile. Fingevano di disperarsi, rossi di rabbia e di rancore verso il ragazzo che era deceduto prima della maggiore età e che aveva tolto loro i sussidi che fino a quel momento avevano sperperato senza remore.
Takase aveva sentito i sentimenti di tutte quelle persone: la desolazione dell'autista, la pena sincera dei passanti e l'ingordigia di quelli che mai lui avrebbe chiamato genitori. Tutta questa tristezza per la morte triste e spaventosa del giovane ragazzo senza nome lo faceva sorridere: gli sconosciuti piangevano per lui.
Ma il dolore più grande era arrivato con lei: lutto, senso di colpa. Kawakami aveva portato con sé dei fiori che aveva posato sul ciglio della strada; era rimasta chinata, in silenzio. Non era colpa sua e Takase desiderava tanto che lei lo sapesse, continuava a ripeterlo, a ringraziarla, a scusarsi per essere stato così stupido e incosciente da buttarsi contro la morte. Doveva saperlo.
Aveva iniziato a seguirla, ad accompagnarla e a incitarla a resistere nei momenti difficili. Aveva osservato con disprezzo le due sanguisughe avvicinarsi a lei, incolparla e pretendere da lei il denaro che lui non avrebbe più potuto fruttare. Si era arrabbiato e aveva sperato di poter diventare uno di quei fantasmi dei film, in grado di attraversare le dimensioni e di farsi vedere e sentire, per spaventarli e per costringerli al pentimento. Ma non ci riusciva, per quanto ci provasse.
Aveva osservato Kawakami mentre lavorava come maid, sempre più stanca, sempre più rassegnata a dover espiare una colpa che non aveva mai avuto. In nome di Takase era diventata la pedina triste nelle mani dei due disgraziati che gli avevano messo un tetto sulla testa.
L'aveva vista rasserenarsi quando aveva trovato un nuovo ragazzo impossibile, come lui. Amamiya, si chiamava. Gli aveva raccontato della sua morte, dei due viscidi tutori che la minacciavano.
E lui aveva avuto successo in ciò che Takase non era mai riuscito a realizzare: li aveva costretti a desistere. Aveva costretto i loro cuori a cambiare.
Nel suo mondo c’era sempre il sereno, ma quel giorno Takase aveva capito che qualcosa era cambiato quando gocce di pioggia avevano iniziato a cadere attorno a lui, donandogli un ultimo ricordo dell’esistenza da vivo. La pioggia era piacevole, quasi tiepida, e sembrava guidarlo lieve verso il passo successivo, verso un altro viaggio. Takase salutò Kawakami e iniziò a camminare verso il sole bianco di quella dimensione. Seguendo la luce, forse avrebbe rivisto i suoi genitori.