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Originale
Slice of life
Prompt: Briscola
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Tradizioni di famiglia



Dopo ogni pranzo coi nonni, c’era la piccola tradizione alla quale Giulia ed Edoardo non potevano sottrarsi: la partita a briscola con il nonno e il papà. A briscola si gioca in quattro. Diceva il nonno, che era il promulgatore della tradizione e che teneva a mantenerla nel tempo. Appena i nipoti avevano avuto l’età per partecipare, la zia era stata ben felice di sottrarsi al gioco, non perché non le piacesse, ma perché il nonno prendeva la cosa molto sul serio e lei non era mai stata una persona competitiva.
I due bambini avevano sentimenti ambivalenti sul gioco: se da una parte si sentivano felici di passare del tempo con i due uomini adulti della famiglia, dall’altra sapevano che la possibilità di sbagliare a capire quale carta dovessero buttare sul tavolo li avrebbe messi nella condizione di essere rimproverati, anche se in modo giocoso. Il nonno in particolare aveva tutta una serie di segnali che prima della partita ripassava con il suo compagno di squadra, che rendevano le partite peggio di un’interrogazione a scuola.
“Se mi tocco la guancia col pollice, devi buttare carichi.” Disse il nonno a Giulia, dopo averla presa da parte in modo che gli altri non li sentissero.
Lei annuì in modo diligente. “Carichi pesanti?” Chiese.
“Sì: carichi, i più pesanti che hai. Se invece mi tocco la fronte, butta scartine, spazzatura.”
“E se non ho scartine, cosa faccio?”
Il nonno allargò le braccia. “Pensaci bene, come si risponde?”
“Devo fare l’occhiolino?”
“No, quello è per dire che hai briscole in mano!”
“Ah, giusto, devo grattarmi il naso!”
Il nonno sorrise soddisfatto. “Vedi che ti ricordi? Adesso ripetiamo tutto e poi andiamo a giocare. Non importa se perdiamo, ma dobbiamo capirci bene.”
Giulia sapeva che al nonno importava eccome di vincere, così come sapeva che sbagliare un gesto l’avrebbe messa nella lista nera dei compagni di squadra (lista che comprendeva ormai tutta la famiglia), ma le importava poco perché vedere la passione che lui metteva nelle loro partite insieme e avere la possibilità di condividere questi momenti con lui la faceva sentire felice. Era mentre giocavano che sentiva il loro legame farsi più forte.
Si sedettero al tavolo e il nonno, come sempre, fece le carte per primo, “Briscole di bastoni,” dichiarò girando la carta e mettendola bene in vista in fondo al mazzo. L’atmosfera era tesa e silenziosa. I partecipanti guardavano le carte con attenzione e si osservavano a vicenda, nel tentativo di cogliere gesti o espressioni che aiutassero a prevedere in qualche modo il gioco dell’avversario. Giulia nella prima mano aveva pescato due assi e una briscola. Una mano carica e difficile: non poteva scartare il quattro di bastoni, perché il nonno avrebbe emesso uno dei suoi lamenti di disappunto. Lo guardò fisso negli occhi e gli fece un occhiolino. Lui annuì.
“Avanti tranquilla.” Disse.
La bambina buttò il suo asso vicino al quattro di spade del padre, Edo sbuffò e scelse un sei di danari. Il nonno allora aggiunse all’asso un fante e le passò le carte: la prima mano era andata.
La prima partita proseguì tranquilla e alla fine fu vinta da Giulia e dal nonno. La ragazzina sentiva di aver fatto un buon lavoro ed era orgogliosa di se stessa. Vedeva lo stesso orgoglio in suo nonno, che appariva rilassato e sembrava aver fiducia in lei.
Al termine della quarta mano, però, si ritrovarono con due punti a squadra. La quinta, come sempre, era la mano decisiva, e a dare le carte sarebbe stato come sempre il nonno.
“Questa è la bella, l’unica che conta.” Esclamò divertito, sbattendo il mazzo di carte sul tavolo.
Era difficile per Giulia spiegare l’espressione di suo nonno mentre giocava. I suoi occhi si illuminavano e il suo aspetto sembrava ringiovanire, fino ad avere venti anni in meno. Sorrideva con gioia e pareva dimenticarsi dei suoi dolori, delle malattie che lo avevano colpito nel corso degli ultimi anni e della stanchezza, della quale si sarebbe tornato a ricordare appena la partita fosse finita. Avrebbe giocato ogni giorno, se avesse potuto. I nipoti sapevano che se il nonno fosse vissuto nella loro epoca sarebbe stato un grande appassionato di videogiochi o di giochi in scatola di ogni tipo, invece era cresciuto con le carte e, per fortuna, aveva scelto di restare fedele alla sua passione. Era stato lui a insegnare ai nipoti a giocare a dama e a scacchi, sempre in modo severo, ma con l’orgoglio di chi crede che impegnarsi nella vita, in ogni suo aspetto, sia importante per vivere bene.
Per questo i nipoti amavano giocare con lui. Alla fine non importava che vincessero o perdessero, perché nonostante il nonno si arrabbiasse, alla fine ciò che per tutti rimaneva era il ricordo di un bel momento condiviso tra tutti. Avrebbero giocato insieme fino a quando fosse stato possibile farlo. Fino a quando il nonno non fosse stato più in grado di tenere le carte in mano e di fare i suoi segnali.
“Briscola di spade,” disse, grattandosi il mento, negli occhi un’espressione divertita. Giulia sorrise, pensando che avrebbero vinto.
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Fandom: FF VII
Personaggi: Cloud, Zack, Soldati
Prompt: Poker
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Slice of life


La fortuna del novellino

Mentre camminava lungo le strade polverose di Mideel, Cloud all’improvviso si trovò di fronte un edificio familiare. Entrò nella taverna senza pensarci e si sedette a uno dei tavoli. “Un piatto unico di mare.” Chiese, con la certezza di sapere cosa stavano per portargli. I ricordi sfumati in una nebbia che gli faceva dolere la testa.
Solo quando vide il piatto, la voce di Zack gli tornò alla mente. Era stata una notte molto diversa dal solito. La notte della sua prima partita a poker con un amico. L’unica che avevano giocato insieme.
Cloud osservò il piatto che gli era stato servito dal cameriere della taverna con riluttanza. Non era abituato alla cucina di quella regione e gli pareva ancora strana. Zack, di fronte a lui, ne addentò una forchettata. “Fidati: anche se l’aspetto non è molto invitante vedrai che è buonissimo, non potrai più farne a meno.”
Il suo amico aveva ragione, perché Cloud dovette ammettere che, anche se non avrebbe saputo riconoscerne gli ingredienti, il piatto era saporito. Mangiarono in silenzio, affamati dopo la lunga giornata passata a combattere.
“Domani niente lavoro, cosa farai, Soldato?” Nonostante fosse superiore a lui di grado, Zack aveva dimostrato in molte occasioni di aver preso Cloud in simpatia. Lo trattava da amico, più che da sottoposto.
“Pensavo di andare a riposare e di fare un po’ di allenamento.” Si sentiva stanco e sapeva di avere bisogno di un po’ di riposo, “Forse farò un giro in città.” Per comprare qualcosa per la mamma e per Tifa.
Zack sbuffò, un po’ deluso, non sembrava impressionato dalle sue risposte. “Dovresti divertirti ora che puoi. La vita che facciamo è dura e non riuscirai a resistere a lungo senza impazzire se non ti concedi del tempo per te stesso e per rilassarti. Per esempio: vedi Martin, laggiù? Lui gioca a poker a volte. Ti fai una partita con noi, novellino?”
Il ragazzo scosse la testa, non era certo di volere ammettere che non aveva idea di come si giocasse.
“Coraggio, andiamo insieme.” Zack si alzò e lo trascinò prendendolo per il braccio. “Eccoci, Martin. Possiamo iniziare.”
Martin era un soldato esperto, dall’aria seria e dura. “Sedetevi. Iniziamo con 10, così facciamo un giro di riscaldamento.”
Zack, Martin e un tizio con cui non aveva mai parlato di persona di nome Luis lanciarono le loro monete sul tavolo, imitati con un lieve ritardo da Cloud, che cercava di far intendere a tutti di sapere ciò che stava facendo.
“Sai giocare?” Chiese Martin osservandolo di sbieco.
“È da tanto che non faccio una partita,” Mentì Cloud sperando di non essere colto nella bugia.
“Prima lezione: quando racconti una balla, cerca di farlo in modo convincente. Nel poker le balle si chiamano bluff. Nessuno sa che carte hai in mano, fingi di avere roba buona e ti porti a casa il piatto, fatti beccare o trova qualcuno che ha davvero carte buone e perdi tutto quello che punti.” Martin proseguì elencando velocemente il valore delle combinazioni possibili, poi iniziò a distribuire le carte.
Cloud osservò la sua mano con attenzione: due dieci, un asso, un re e un nove.
Gli altri tre giocatori lanciarono un’altra moneta sul tavolo. Zack quindi proseguì con la spiegazione. “Questa serve per giocare: se giochi puoi cambiare alcune delle carte che hai in mano e poi puntare ancora per accaparrarti il piatto o per vedere la mano di un avversario.”
Lanciò la sua moneta.
"Quante carte?” Gli chiese quindi Martin.
Confuso, Cloud pensò che gli conveniva provare a tenere i dieci e a cambiare le altre per sperare in un tris. “Tre.” Disse, passando le carte coperte al mazziere imitando il comportamento dei giocatori che lo avevano preceduto. Prese un re, un asso e un dieci. Non era andata così male. Ricordando le regole del gioco, tentò di apparire triste.
“Io punto cento.” Dichiarò Martin. A quel punto Zack e Luis lanciarono le loro carte nella pila degli scarti e Cloud si ritrovò addosso gli occhi di tutti. “Cosa fai, novellino? Vuoi vedere le mie carte, rilanciare o lasciare tutto a me?”
Il giovane soldato prese un respiro profondo e cercò di pensare a quante probabilità avesse di vincere. Giunse alla conclusione che non erano altissime, ma l’adrenalina e la curiosità lo spinsero a giocare: “Rilancio di altri cento.”
Martin si lasciò scappare una risata. “Vedo, novellino.”
Cloud, dopo un’occhiata di conferma, lasciò cadere le sue carte per rivelare il tris di dieci. Martin lo guardava con aria di rimprovero. Gettò le sue carte nel mucchio degli scarti e passò il mazzo a Luis. “Questa si chiama fortuna del principiante. Ora comincia il gioco vero.”
Zack e Cloud uscirono dalla taverna per ultimi, ridendo come due vecchi amici. Si erano divertiti e Cloud aveva vinto un piccolo gruzzoletto, che gli avrebbe fatto comodo per scegliere i regali che aveva deciso di spedire a casa senza pensare troppo al costo. “Non immaginavo che tu fossi così portato per il poker, è chiaro che quella tua faccia impassibile ti abbia aiutato. Li hai spolpati! Meno male che non siamo in gruppo con quei due, almeno per ora.”
“Non l’ho fatto di proposito, e comunque è un gioco.”
Il suo superiore continuava a ridere. “Sei proprio un tipo unico. Stavo scherzando, lo sappiamo tutti che è un gioco. Preparati comunque perché la prossima volta potrebbe andare male. Non a me, io ho il mio portafortuna. Dovresti procurartene uno anche tu.”
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Fandom: Persona 5
Personaggi: Ryuji, Makoto, Ann, Yusuke
Genere: Slice of life
Prompt: Cluedo
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Una partita seria

Intorno al tavolo la tensione si poteva tagliare con un coltello, cosa che in effetti stava cercando di fare Ann che agitava il pugnale di plastica in dotazione col gioco in direzione di Yusuke, il quale osservava rapito i dettagli poco definiti del candeliere. Makoto invece stava osservando le gocce di sudore sulla fronte di Ryuji, che pareva confuso. “Hm, Hm…” Si schiarì la voce per ricordare all’amico che era il suo turno.
Lui annuì e si asciugò la fronte con una mano. Dopo qualche altro secondo di silenzio colpì il tavolo con la mano. Prese un oggetto dalla plancia di gioco e lo posizionò di fianco al suo investigatore. “È stata la rossa, intendo dire Scarlett, con il tubo di ferro in veranda!” Affermò con convinzione Ryuji. Makoto sospirò e gli passò una carta dalla sua mano.
“No! Ma questa l’avevo già vista…”
“Non è colpa mia se non hai ancora capito il gioco, Sakamoto.” La ragazza sembrava quasi irritata, al punto che Ryuji si sentì in obbligo di scusarsi. “Vuoi scriverti negli appunti che carta ti ho dato o pensi di chiamarla di nuovo al prossimo giro?”
Lui afferrò la penna e, tentando di tenere nascosto il foglio, scrisse qualcosa.
“Tocca a me!” Ann impiegò qualche secondo per confrontare le sue note con le carte che aveva in mano. “Secondo me è stato Mustard, in veranda, con la rivoltella!”
“E invece no!” Ryuji le passò una delle sue carte, sospirando nel tentativo di imitare Makoto. “Ma io non sono in biblioteca…” Gli rispose Ann bisbigliando, lui imprecò e le passò un’altra carta.
“Chi è che ha scelto questo gioco?” Domandò Yusuke, annoiato.
“L’ho scelto io!” Affermò Ann alzando la mano. “È divertente! Almeno quando non gioca questo idiota.”
Ryuji si lasciò sfuggire un lamento sconsolato. “Non è facile come sembra e questa è la prima volta che gioco.” Osservò tutti i suoi amici intorno al tavolo in cerca di un po’ di compassione, ma non raccolse molta compassione, in effetti sembravano quasi arrabbiati.
“Non ci vuole molto, basta mettere un po’ di serietà nel seguire le regole.” Il tono di Yusuke era sempre solenne, particolarmente adatto alla dichiarazione dell’investigatore.
“Da adesso faccio sul serio, lo prometto.”
Yusuke sollevò una mano attirando l’attenzione su di sé: “Ma ora la parola al detective Kitagawa: dichiaro che la Signorina Scarlett, conscia del tradimento dell’uomo che amava con Mrs Peacock, si è recata in sala da ballo e ha discusso con lui in modo animato, venendo alle mani prima di ucciderlo in uno scatto d’ira con la rivoltella che aveva portato con sé.”
“Complimenti per l’interpretazione, io non ho niente.” Ann si voltò verso Ryuji, che scosse la testa. “Neppure io.”
“Hai controllato bene?” Chiese allora Yusuke, dando voce al dubbio di tutti gli altri partecipanti.
“Sì, non sono un completo idiota. Ho detto che faccio sul serio, lasciatemi in pace.”
“Ne ho una io.” Makoto gli passò una carta coperta, la mano tesa a recuperarla in fretta. Aveva preso la partita a Cluedo con una serietà che gli altri non si aspettavano.
A dire la verità fino in fondo, quando Ann aveva proposto di fare una partita tutti insieme avevano pensato tutti che Makoto, da studentessa seria e impegnata, avrebbe salutato tutti per correre a studiare qualcosa di troppo complicato persino da spiegare ai suoi compagni di squadra. Quando però la sua amica aveva menzionato Cluedo, gli occhi di Makoto si erano illuminati e lei si era offerta di preparare un tè caldo da bere tutti insieme nel corso della partita.
Era inusuale che loro quattro si incontrassero insieme, soprattutto a casa di Ann e in assenza di Ren, ma quel pomeriggio si dovevano accordare su una piccola sorpresa per il loro leader, i cui preparativi si erano conclusi prima del previsto, lasciando loro sufficiente tempo libero da passare insieme prima di tornare a casa.L’idea del gioco era stata di Ryuji, che però non si aspettava di dover ragionare così tanto. Mi è venuto mal di testa da quanto ho pensato… Sarebbe stato più facile proporre di studiare qualcosa. Aveva confessato, dopo il primo giro di gioco. Makoto, al contrario, aveva mantenuto un’espressione compiaciuta sin da quando le erano state consegnate le sue carte. Dal primo istante, tutti loro sapevano che la loro amica avrebbe vinto. Se non per le sue buone doti di concentrazione e di deduzione, anche per l’impegno che stava mettendo nella partita.
“Ora tocca a me. È ora di finire la partita.” Makoto si alzò in piedi e puntò il dito contro la pedina di Scarlett. “Il detective Sakamoto era quasi arrivato alla soluzione del caso, ma non si è accorto di un piccolo particolare: Certo che è stata la signorina Scarlett. La sua sola presenza nella villa di Mr. Black avrebbe dovuto far suonare qualche campanello di allarme nelle teste di voi detective. Così come è certo che l’omicidio è avvenuto in veranda. L’arma del delitto invece, quella era stata indovinata dagli altri due detective: era una rivoltella. Sarebbe bastato osservare il cadavere del signor Black con un po’ più di attenzione per trovare la risposta.”
I tre ragazzi, che non si aspettavano che la loro amica si calasse nel ruolo di detective e stesse al gioco in modo così convincente, rimasero in silenzio per qualche istante prima di confermare di non avere le carte richieste da Makoto in mano.
Lei quindi prese la busta dal centro della plancia e mostro loro la soluzione del caso. “Come tutti si aspettavano la grande detective White, detta Queen, chiude il caso.” Makoto sollevò le braccia in un gesto di esultanza.
“Brava Queen!” La incitò Ann.
“Facciamo un’altra partita?” Chiese quindi la vincitrice.
“Io sì, per favore” Accettò Ryuji. “Questa volta giuro che mi impegno, lo prometto.”
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Fandom: Persona 5
Personaggi: Morgana, Ren, Futaba, Phantom Thieves
Prompt: tutti dentro
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Parole: 2370
Genere: Introspettivo

Solo un gatto

Sono solo un gatto.
Una frase che si ripeteva quasi ogni giorno. Quando vedeva la sua immagine riflessa oppure quando, appena sveglio e un po’ annoiato, pensava a come avrebbe passato la giornata.
Morgana non aveva molto da fare e da quando aveva seguito Ren nella sua città natale sentiva ogni giorno la mancanza del Metaverso.
Sospirò mentre si guardava allo specchio: non riconosceva quella coda irrequieta che si muoveva ondeggiando a mostrare la tensione che provava; le zampe bianche non gli consentivano di scrivere o di utilizzare la sua fionda come aveva sempre fatto nel Metaverso. L’unica parte di lui che ancora riconosceva erano gli occhi: azzurri e profondi, rivelavano la sua essenza diversa da quella di un comune gatto domestico. Morgana scosse la testa per cercare di scacciare il ricordo delle sue origini, perché per lui era difficile anche solo ricordare di aver salvato quel mondo che non poteva vivere come desiderava.
Sono solo un gatto, si ripeteva quando vedeva qualcuno passeggiare lungo la strada del paese, pensando che avrebbe desiderato scambiare due chiacchiere per una volta con qualcuno di diverso da Ren. Si sentiva talmente solo e annoiato che si sarebbe accontentato persino di Ryuji, già, gli mancava anche lui.
Quella mattina Ren era a scuola e lui, dopo aver mangiato, si stava occupando della sua consueta pulizia mattutina seguendo una routine consolidata ormai da tempo che all’inizio non gli piaceva, ma che aveva accettato perché in fin dei conti lui era solo un gatto, e in quanto tale doveva comportarsi. Non avrebbe mai accettato di farsi lavare, molto meglio arrangiarsi.
Il computer del Joker era rimasto aperto, non per caso ovviamente, ma perché Futaba avrebbe chiamato per fare due chiacchiere e per Morgana l’evento era tutt’altro che comune, visto che in genere la ragazza si faceva sentire solo quando i due erano insieme. La sera prima però aveva scritto un messaggio dove aveva avvisato della chiamata e Ren era stato ben felice di lasciare tutto a disposizione del suo gatto speciale.
Premette sul pulsante di accensione e aprì l’applicazione per ricevere la chiamata, poi si appostò di fronte al computer cercando di sorridere. Peccato che i gatti non abbiano grandi capacità di esprimere emozioni e che i suoi sforzi non avessero dato grandi risultati. Non voleva che Futaba si preoccupasse per lui, perché anche se all’inizio i loro rapporti erano stati un po’ tesi, lei si era dimostrata un’amica, la più presente con lui da quando il Metaverso era stato cancellato.
Il suono della chiamata interruppe i suoi pensieri tristi e Morgana premette sul pulsante di risposta con entusiasmo.
“Mona Chan!” Gridò l’amica.
“Guarda un po’ chi si rivede,” tentò di mantenere un tono composto nonostante la sua gioia. “Sembri in forma, ma mai quanto me!”
Futaba sghignazzò e raccontò a Morgana della sua vita, sempre un po’ troppo sociale per lei, a scuola. Il gatto le confidò che nell’ultimo periodo si stava abituando alla tranquillità della campagna, così diversa dalla vita caotica e densa di Tokyo. “Qui ti piacerebbe, dovresti provarci. Io invece sto benissimo anche in mezzo alla gente, ma qui l’aria ha un odore diverso. Io sono un gatto, sento gli odori molto meglio di voi umani”
“Mi piacerebbe infatti,” rispose la ragazza, che poi assunse un’espressione più seria. “Non ho molto tempo ancora, tra poco devo andare ad aiutare Sojiro al LeBlanc e c’è una cosa importante che ti devo chiedere, Mona Chan.”
Il gatto, incuriosito, si ricompose e riprese il ruolo che gli piaceva di più: quello di mentore, che aveva interpretato in modo più che convincente coi Phantom Thieves. “Sono qui per questo, ci sono problemi?”
“Non problemi, solo questo.” Futaba mostrò lo schermo del suo cellulare alla telecamera, che mise a fuoco un’icona che tutti loro conoscevano bene. “Il Meta Nav è riapparso ieri sera. Non so cosa significhi e non ne ho parlato con gli altri, ma vorrei vederci chiaro. Puoi controllare tu con Ren?”
Morgana annuì, mentre i suoi pensieri navigavano veloci ai ricordi di ciò che era stato il cui ritorno, almeno per lui, sarebbe stato un sogno trasformato in realtà.
“Hai sentito qualche cosa di diverso? Tu hai un rapporto speciale col Metaverso e ho pensato che saresti stato il primo ad accorgersi se qualcosa fosse cambiato.”
Futaba aveva ragione, eppure lui non si era accorto proprio di niente. Negli ultimi giorni al massimo aveva provato solo più noia del solito, visto che Ren aveva dovuto studiare per gli esami ed era stato fuori casa tutto il giorno. “No, niente di diverso.” Aveva risposto con tono sconsolato, forse le sue capacità si erano arrugginite dopo tutto quel tempo passato da semplice gatto.
“Forse lì non si è attivato, magari è una cosa di Tokyo…” Aveva ipotizzato la ragazza, sempre un passo avanti rispetto a lui. “Comunque oggi proverò a investigare un po’ con Sumire e Yusuke, sono gli unici qui intorno in questi giorni, poi li chiamo. Per ora meglio non allarmare gli altri visto quanto hanno da fare. A prestissimo!”
Morgana aveva fatto appena in tempo a rispondere al saluto, che la comunicazione era stata chiusa. Era rimasto fermo in silenzio per un bel pezzo a ragionare sul significato della presenza di quell’applicazione, poi si era accoccolato sul letto di Ren e si era appisolato.
La sensazione che provava mentre le ruote grattavano sull’asfalto del Metaverso era indescrivibile. In quel momento era il centro dei Phantom Thieves: la loro guida - anche se erano loro a guidare lui - il loro mentore, il loro mezzo per muoversi veloci e sicuri nel labirinto della coscienza comune.
Ricordava ancora quando per la prima volta si era trasformato nel furgone e li aveva accolti sui suoi comodi sedili.
“Tutti dentro, si parte!” Aveva detto Lady Ann mentre accarezzava la sua carrozzeria con le mani leggere e morbide. Il rombo del motore non era poi così diverso dalle fusa che da gatto emetteva in modo naturale e automatico quando la sua amata Ann lo prendeva tra le sue braccia o gli grattava il mento sciogliendo ogni sua resistenza.
I ragazzi la prima volta si erano seduti tutti e tre nel sedile posteriore, stupiti nel comprendere che fosse necessario che uno di loro guidasse il Morgana-Van lungo le buie e pericolose vie della metropolitana fantasma. Il Joker aveva preso il volante e solo allora Morgana si era reso conto che mai nessuno era stato nel furgone prima dei Phantom Thieves. Non era proprio un ricordo, ma almeno era stata una delle sue prime, poche certezze, perché il van era una parte di lui, una rappresentazione derivante dalla coscienza comune che nessuno aveva ancora toccato. Nessuno era stato accolto dentro il suo corpo trasfigurato in furgone prima di Ann, Ryuji e Ren, lui ne era certo.
“Morgana, cosa senti quando diventi un Van?” Gli aveva chiesto Makoto la prima volta che erano stati nei Memento insieme.
“Niente di speciale, è una mia dote naturale e come tutto quello che riguarda il Metaverso, lo faccio benissimo. Uno dei miei poteri.”
All’epoca non ricordava ancora nulla delle sue origini - solo gli incubi, ma quelli non potevano rappresentare la verità - ma era piuttosto sicuro che lì nei sotterranei dei Memento ci fosse la risposta a tutte le sue domande e diventare un furgone era uno dei compiti che doveva svolgere per recuperare i suoi ricordi e trovare un senso alla sua esistenza. Per ritornare umano.
Il dubbio si insinuava in lui con forza mentre era trasfiguarato, perché nel rombo di quel motore non c’era niente di umano, come nelle sue fusa feline. Di una cosa però era sempre stato certo: quello era il suo posto e nessuno poteva sostituire la sua presenza, né l’intelligenza di Makoto, né le capacità di navigazione di Futaba.
I momenti in cui si sentiva meglio erano proprio quelli che passavano tutti insieme, tutti dentro al suo corpo trasfigurato nel camioncino con la coda e le orecchie, dove i suoi amici erano comodi e protetti, dove erano loro a guidare, ma era lui a tenerli uniti, lui a consentire loro di fuggire veloci e sicuri nel buio grazie alla vista felina data dai suoi fari.
Quanti combattimenti avevano fatto insieme prima che i suoi ricordi tornassero, e quante volte avevano inseguito le ombre attaccandole di sorpresa grazie a Morgana e alla velocità silenziosa della sua trasfigurazione. Grazie ai suoi fari nel buio, grazie alle sue conoscenze. In fondo lì sotto si era sempre sentito a casa al punto da provare nostalgia dei Memento quando non vi si recavano da un po’ di tempo.
Morgana aveva contribuito a distruggere la sua vecchia casa, l’aveva fatto per l’intera umanità anche se sapeva che forse non avrebbe più avuto la possibilità di fare ritorno al luogo in cui era nato. Quando Igor e Lavenza gli avevano presentato la possibilità di restare con loro nella Velvet Room e di continuare a vivere insieme a loro, come forma fisica della speranza dell’umanità, o di scegliere di tornare come semplice gatto nel mondo degli uomini, Morgana non aveva avuto dubbi: lui faceva parte dell’umanità. Era nato per concedere agli uomini una possibilità di salvarsi dalla fine imminente che la divinità impazzita aveva scelto di attuare e aveva svolto il suo ruolo con la speranza nel cuore che le cose si sarebbero risolte al meglio. Il destino lo aveva messo in contatto col Trickster, che era diventato per lui un motivo in più per continuare a lottare. Più volte si era chiesto se, conoscendo la verità, avrebbe abbandonato i suoi amici, sentendosi tradito dal suo creatore che gli aveva tenuto nascosta la verità, ma Morgana aveva sempre agito per l’umanità, più che per se stesso.

Quando il Joker tornò a casa da scuola, Morgana gli rivelò le novità e gli chiese di vedere il suo telefono. Come immaginava, però, non c’era traccia dell’applicazione di navigazione. Tutto quello che potevano fare era attendere notizie da parte di Futaba, che però tardavano ad arrivare.
“Non credi che sarebbe meglio se andassimo a Tokyo?” Gli chiese Ren quella sera, sembrava preoccupato. “Noi due ce la potremmo cavare anche entrando nel Metaverso da soli, ma Sumire e Yusuke potrebbero avere bisogno di una mano. Futaba non è molto d’aiuto nel combattimento e non vorrei che si trovassero in difficoltà.”
Morgana era d’accordo e accettò di partire per la capitale con Ren, che aveva convinto i suoi genitori a lasciargli prendere un paio di giorni di vacanza dalla scuola, approfittando degli esami appena conclusi e del suo ottimo rendimento. Gatto e ragazzo avevano quindi preso il primo treno per un viaggio imprevisto con lo scopo ufficiale di festeggiare il compleanno di Futaba, che lui aveva descritto in modo struggente come la sua sorella di Tokyo, che lui ormai considerava una parte della famiglia.
L’aria della città odorava in modo molto diverso da quella a cui Morgana si era abituato negli ultimi mesi in campagna: lo smog, il profumo del cibo e l’umidità accompagnate dal sottofondo musicale della stazione della metropolitana gli fecero provare un po’ di nostalgia. Ren sollevò il cellulare e richiamò la sua attenzione: l’applicazione di navigazione era apparsa. Se lo aspettava.
Con un cenno del capo, il ragazzo premette sul logo a forma di occhio e il mondo intorno ai due iniziò a cambiare.
“È incredibile!” Strillò Morgana nel constatare che il suo aspetto era tornato quello di un tempo.
"Bentornato, Mona Monster Cat.” Rise il Joker, “Avevo dimenticato come ti stesse bene quella bandana gialla.”
Il gatto rise, carico di adrenalina al pensiero che un nuovo mistero si era dipanato di fronte a loro, una nuova avventura per i ladri fantasma. Non fece in tempo a pensare che sarebbe stato bellissimo essere di nuovo tutti insieme, che un grido di gioia riempì il silenzio di quel luogo spettrale. “Joker! Mona!”
Lady Ann si lanciò contro Ren in un abbraccio, mentre Haru e Futaba si contesero Morgana. Makoto, Ryuji, Yusuke e Sumire erano di fronte a loro, increduli e felici.
“Non ho capito perché il Metaverso sia riapparso così all’improvviso, ma sapere che ci siete anche voi mi rende più serena.” Confessò Makoto.
“Adesso cosa possiamo fare?” Chiese Ryuji, osservando Morgana.
Lui sapeva cosa fare. Con fare teatrale sorrise. “Lasciate che ci pensi io,” disse, mentre il suo corpo felino si trasformava nel van. “Tutti dentro, scopriamo cosa è successo.”
Ren fu il primo a entrare. Il leader dei Phantom Thieves si accomodò nel retro, lasciando il volante a Makoto come sempre da quando si era dimostrata così abile nel guidare.
Ann si sedette di fianco a lei. “Mi ero dimenticata quanto fossero comodi i tuoi sedili, Mona!” Esclamò accarezzando il cruscotto.
Anche Haru si mise al loro fianco e depositò un bacio sulla pelle della carrozzeria. “Grazie, Mona-Chan, per prenderti cura di noi così.”
Se fosse stato umano, Morgana sarebbe arrossito, da furgone si limitò a far suonare il clacson. “Forza, tutti dentro, altrimenti vi lascio qui!”
Ryuji si accomodò di fianco al Joker. “Avete mai pensato a quanto sia inquietante questa cosa che entriamo dentro il gatto? Ogni tanto mi domando che cosa sto toccando e spero di non scoprirlo mai.”
“Affascinante,” aggiunse Yusuke sedendosi dal lato opposto. “In effetti non ci avevo mai pensato.”
Sumire sembrava un po’ restia a entrare, soprattutto dopo i discorsi di Ryuji che avevano fatto calare il silenzio, decise perciò di tentare di sollevare la tensione. “Che bello! Qui dentro c’è posto per tutti! Pronti per partire!” Si sedette di fianco a Ren, che non sembrava impressionato da quella sciocca frase di circostanza. Sumire non era mai stata brava a improvvisare.
“Siamo tutti dentro. Andiamo a scoprire cosa sta succedendo, Phantom Thieves!”
Di fronte alla richiesta del leader, Makoto premette l’acceleratore e il furgone iniziò a muoversi.
Fu in quel momento, mentre proteggeva la sua squadra ed insieme esploravano il Metaverso, che si rese conto di una cosa: mentre tutti loro erano dentro il suo corpo, lui era in grado di donare loro una piccola parte di sé, e probabilmente era la speranza che gli aveva dato forma. Ma anche loro gli donavano qualcosa: ne respirava l’umanità.
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Prompt: Per sempre
Parole:
Fandom: Originale
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Link al primo capitolo: https://quistisf.dreamwidth.org/41998.html
Genere: Horror
Long fic

La posa, capitolo 3 - ​​Per sempre

Dopo avere toccato l’acqua, Stefania vide un mondo differente da quello che conosceva: l’acqua della posa, bassa e opaca, diventò cristallina, quasi brillante.
Più la ragazza si avvicinava alla donna, al mostro della posa, più ne vedeva le sembianze tornare umane. I suoi occhi divennero azzurri e i capelli intrecciati, di un castano ramato, erano folti e lucenti. Gli abiti della creatura tornarono integri, puliti.
Stefania si fermò e prese la mano della creatura. Nell’istante in cui la toccò, il mondo divenne pulito, luminoso e reale. La luce del sole splendeva nel cielo privo di nubi, Stefania lo osservava a bocca aperta, pensando come gli alberi fossero più rigogliosi, l’acqua pulita e l’erba più verde. La creatura le sorrideva. “Benvenuta, Stefania.” le disse, per poi guidarla fuori dalla posa, tenendole la mano. “Quella è la nostra casa, ho già preparato la tua stanza.”
La sensazione di paura era passata, al suo posto Stefania provava nostalgia: per la sua vita passata a cui sapeva non sarebbe mai tornata, per Michele che forse non l’avrebbe mai perdonata per non avere lasciato perdere la sua caccia ai fantasmi, per i suoi genitori e per tutto ciò che aveva lasciato. Sapeva che sarebbe stata confinata per sempre lì, in quel mondo cristallino, incantato. Prigioniera come il paesaggio in una delle palle di neve che collezionava.
La casa era strutturata come il rifugio ed era arredata in modo semplice, ma decoroso. Un tavolo enorme contornato da un’altrettanto grande quantità di sedie era al centro della sala da pranzo. Salirono le scale per trovarsi in un corridoio contornato da porte. Maria la accompagnò proprio nella sua stanza, la stanza che occupava nella vita reale.
Entrarono insieme e fu allora che Stefania sentì le risate. Risate di bambini, risate di gioia. “Ti aspettiamo giù.” Maria la lasciò sola nella stanza, dove Stefania si osservò allo specchio: non aveva traccia di stanchezza sul volto, al contrario, sembrava rilassata e appena uscita da una settimana in un centro benessere. Persino i suoi vestiti non erano più bagnati, né sporchi, né tantomeno stropicciati o consumati. Forse non erano mai stati così belli. Li toccò, incredula.
Nel sentirne la struttura tangibile sotto i polpastrelli delle sue mani, Stefania iniziò a ridere. Fino a quel momento aveva tentato di convincersi che quello fosse solo un brutto incubo troppo reale, ma ogni secondo quella realtà diventava più tangibile. Con una mano, si colpì il volto con forza con l’intento di sentire il dolore, le bastava sentire qualcosa di diverso dal senso di ammaliamento che provava. Si colpì di nuovo, mentre continuava a ridere, le lacrime agli occhi, ma il dolore non arrivava. In questo mondo non c’è dolore. Pensò, come se quella fosse una verità universalmente riconosciuta.
Si asciugò le lacrime e prese fiato prima di scendere.
Attorno al tavolo si era radunata tutta la famiglia: Maria era a capotavola, di fronte a lei un vassoio con una torta dall’aspetto invitante. Sebastiano sorrideva, non era invecchiato dal giorno della sua sparizione. Gli altri bambini scomparsi erano tutti lì, impazienti all’idea di mangiare la torta della mamma e di conoscere la nuova arrivata, sembravano felici.
“Finalmente ci siamo tutti. Bambini, salutate Stefania.”
I bambini risposero con entusiasmo alla richiesta di Maria, gridando il loro benvenuto in modo disordinato e felice. La ragazza pensò che l’amore che si respirava in quella casa era quasi tangibile. “Grazie a tutti, sono felice di essere qui con voi.” pronunciò quelle parole senza neanche rendersene conto. Avrebbe tanto desiderato tornare alla sua vita, ma lì non si stava male, per niente.
“Stefania resterà con noi per sempre, se deciderà di passare qui la notte.” Dichiarò la mamma con un sorriso amorevole. “Adesso è l’ora della torta,” continuò afferrando il coltello e iniziando a tagliare le fette, che presto furono distribuite a tutti.
Quando Sebastiano le porse la fetta, la ragazza pensò che non fosse una buona idea mangiarla, ma qualcosa dentro di lei le disse che doveva fidarsi, perché lì era al sicuro.
I bambini conversavano insieme in modo giocoso e spensierato e, finita la torta, la salutarono e uscirono a giocare.
Le due adulte rimasero sole, ai due capi del tavolo. Maria si alzò e si sedette al suo fianco, rimase in silenzio ad attendere che Stefania le facesse le solite domande.
“Cosa significa che devo decidere se passare la notte qui?”
Maria non si scompose. “Subito alla domanda più importante, del resto sei un’adulta. Sei la prima che viene da me. Io qui sto bene, ma a volte penso di sentirmi un po’ in difficoltà a fare tutto da sola. Loro aiutano, ma non è la stessa cosa…” Lo sguardo impaziente della nuova arrivata la spinse a continuare. “Nessuno è costretto a stare qui. I bambini che sono arrivati, prima soffrivano. Io li ho accolti e ho mostrato loro cosa significa essere amati. Nessuno deve provare ciò che hanno sofferto i miei bambini, non posso accettarlo. Se ti addormenterai qui, nel mio mondo, resterai con noi per sempre, altrimenti tornerai a casa.”
Le domande di Stefania erano tante, troppe per il tempo che aveva: cosa mangiavano? Come funzionava quel mondo? Avevano animali, frutti, farina? Maria le stava dicendo la verità?
“Se vuoi, puoi restare coi bambini e parlare un po’ con loro prima di decidere. A me farebbe davvero piacere se tu restassi… se potessi avere un po’ di compagnia con una donna… ma capirò se vorrai tornare a casa.” Quella creatura che l’aveva terrorizzata quando era piccola, si alzò leggiadra, quasi eterea, per andare in cucina a preparare la cena. Bastò un suo cenno perché due bambini la raggiungessero e iniziassero ad aiutarla.
Stefania voleva solo tornare a casa e qualcosa dentro di lei le diceva che non correva rischi, che aveva veramente la libertà di scegliere cosa fare e di tornare nel mondo reale, ma la sorpresa nel trovarsi in una sorta di paradiso l’aveva confusa e colpita al cuore. Uscì a cercare Sebastiano, per avere risposte. Il bambino corse verso di lei appena la vide avvicinarsi.
“Stefania! Io mi ricordo di te! Che bello sei tornata!” L’entusiasmo nella sua voce appariva sincero come quello che solo un bambino può provare.
“Non voglio restare.” Di fronte alla sua affermazione, il suo vecchio amichetto si rabbuiò.
“E perché? Qui si sta bene, ci puoi fare compagnia con la mamma!”
“Perché questa non è casa mia, io abito da un’altra parte e vorrei tornare lì.” Lui annuì con un’espressione un po’ triste. “Non ti manca la tua famiglia?”
Un’espressione di dolore lo colpì, mentre lui scuoteva la testa con vigore. “No, la mamma è buona, noi stiamo bene con lei.” Stefania gli accarezzò la fronte, ripensando ai discorsi risalenti a una vita fa sui presunti maltrattamenti, ricordando come Sebastiano zoppicasse e sembrasse aver timore del padre. Nel toccarlo visse i suoi ricordi e sentì la sua paura, così vivida e profonda, così in contrasto con la vita nel rifugio incantato nel quale si trovavano in quel momento. Sebastiano si sentiva grato alla mamma per averlo portato nel mondo della posa. Un mondo di eterna fanciullezza nel quale sarebbe stato protetto e difeso dalla crudele realtà per sempre.
Si distese ai piedi di un albero, osservando i bambini che giocavano spensierati e pensò che erano più fortunati di tanti altri. Capì che Maria, la creatura, non agiva per crudeltà, e si ricordò di averlo già saputo molto tempo prima. Il senso di pace che la inebriava la convinse a chiudere gli occhi. Rivide Michele, i suoi genitori e tutti gli amici che la aspettavano. Loro avrebbero sentito la sua mancanza, le sarebbero mancati per sempre, per tutta l’eternità che la aspettava nella sua nuova vita.

Equilibrio

Mar. 14th, 2023 10:55 pm
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Fandom: Persona 5

Personaggi: Makoto Nijima, Phantom Thieves, Sae Nijima

One Shot

Prompt: Trovare Equilibrio 

Parole: 1022 

Partecipa al COWT 13


Equilibrio


Makoto aveva sempre pensato di avere uno stile di vita equilibrato: non mangiava sregolato, frequentava la scuola con regolarità e studiava di volta in volta sempre un po’ più di quanto necessario. Le stava bene così.

A casa, preparava la cena a Sae e teneva pulito. Le pareva il minimo visto che sua sorella si prendeva cura di lei in modo a dir poco eccellente da quando erano rimaste orfane. Non si lamentava, perché non credeva di averne il diritto. Le poche volte in cui aveva provato a riferire la sua opinione l’aveva fatto con voce flebile e con poca convinzione, perché in fondo sapeva di essere una ragazzina agli occhi di Sae e del mondo.

Fino poche settimane prima, Makoto aveva seguito le regole che si era imposta senza troppe difficoltà, ma da quando il preside Kobayakawa le aveva dato il compito confidenziale di seguire i Phantom Thieves, la sua vita era cambiata. Non in meglio, anzi.

Aveva i suoi sospetti, erano parecchi nomi all’inizio, ma nel giro di pochi giorni la maggior parte dei presunti colpevoli erano stati depennati dalla sua lista. La sua vita aveva iniziato a cambiare quando Makoto aveva deciso di seguire Sakamoto, che quel giorno per puro caso era in compagnia di Ann Takamaki, anche lei nella sua lista. Erano due ragazzi del secondo anno che avevano avuto tensioni con Kamoshida. Il primo aveva litigato col professore e l’aveva criticato apertamente più di una volta, causando anche lo scioglimento della squadra di atletica e attirandosi addosso le ire di mezza scuola. La seconda invece era in rapporti più intimi con Kamoshida, ma il giorno della confessione del professore si era rivolta a lui con critiche che dimostravano quanto invece lo disprezzasse.

Makoto pensava che i due ragazzi fossero immaturi e incapaci di vivere con equilibrio la loro vita studentesca. Quel pomeriggio erano usciti per bighellonare in giro. Erano rumorosi e non avevano interesse per l’ambiente che li circondava. Più di una volta la ragazza li aveva sentiti scherzare su come avrebbero di certo fallito gli esami dimostrando di non avere alcun interesse o pensiero nei confronti del loro futuro.

Makoto all’inizio si era sentita triste per loro e aveva pensato che avrebbe potuto aiutarli, avrebbe potuto insegnare loro l’equilibrio e la scelta del giusto cammino per vivere con successo, ma era chiaro che loro non avrebbero mai accettato il suo aiuto. Almeno così si giustificava, perché non aveva intenzione di aggiungere ai suoi numerosi e stancanti impegni anche la redenzione di quei due ragazzini, non era il suo compito farlo.

Continuava a seguirli per cercare un motivo per scartarli, ma non ci era ancora riuscita e più li seguiva, più si interessava alle loro vite, ai loro discorsi leggeri e al modo serio che avevano di affrontare sciocchezze come lo "scegliere il dolce perfetto”.

I problemi veri, però erano iniziati con Amamiya. La prima volta che l’aveva seguito, era insieme a Sakamoto. Makoto aveva osservato come il comportamento di quel mezzo teppista cambiava in presenza di Amamiya, al punto da farlo sembrare una persona migliore. Al punto che Makoto si era convinta che Sakamoto non fosse una causa persa.

Da quel giorno aveva iniziato a seguire Amamiya e l’esperienza si era rivelata interessante, perché quel ragazzo aveva amici particolarmente variegati: l’aveva seguito quando era andato a fare compere al centro commerciale con Takamaki, l’aveva osservato lavorare con impegno e dedizione, l’aveva ammirato mentre studiava senza perdere la concentrazione in biblioteca. Una sera l’aveva persino notato mentre aiutava un anziano politico durante un comizio.

Makoto non riusciva a inquadrarlo e la cosa non le piaceva, ma non le permetteva di allontanarsi da lui, che più di una volta con atteggiamento serafico le si era avvicinato per salutarla e per farle capire che sapeva della sua presenza. Amamiya si impegnava con lo studio e col lavoro, ma non disdegnava un po’ di divertimento; riusciva a non preoccuparsi troppo di ciò che tutti a scuola pensavano di lui, scherzando sul suo passato criminale. Ren sembrava vivere in modo molto più equilibrato di lei e per questo lo odiava.

Una sera Makoto era tornata a casa e aveva iniziato a cucinare come faceva ogni sera e la sua vita le era sembrata vuota, meccanica. Mentre ripassava gli argomenti di studio, in cucina, si era chiesta se davvero quelle conoscenze l’avrebbero portata dove desiderava e per un attimo aveva pensato di uscire con un’amica, magari di andare a passare due ore al cinema o semplicemente di fare un giro per la città, ma si era resa conto di non avere compagne che l’avrebbero accompagnata.

Persa nei pensieri, aveva guardato l’uovo cuocersi, sfrigolare e bruciarsi.

All’arrivo di Sae, le due avevano ripetuto una sera di più la conversazione che ormai era sempre la stessa:

“Come è andata al lavoro?”

“Stanca, e tu, a scuola? Hai studiato?”

“Sì.”

Makoto avrebbe voluto fare tante domande alla sorella: Come hai fatto a scegliere la tua strada? Sei felice? Cosa devo fare?

Ma taceva di fronte all’espressione severa e stanca di Sae.

Poi la sua vita era cambiata davvero, quando si era infine unita ai Phantom Thieves. La sensazione che aveva sentito quando la sua Persona si era risvegliata era stata la più bella che avesse mai provato: libertà. Si era sentita viva e finalmente utile a qualcosa.

Aveva messo da parte lo studio, mettendo in dubbio tutto ciò che fino a quel momento l’aveva resa Makoto, non si riconosceva quasi più, ma non poteva dire che la cosa le dispiacesse così tanto, perché non era felice e non stava agendo per se stessa, ma per soddisfare le aspettative che il mondo adulto e Sae avevano nei suoi confronti.

Era stato Ren a farle trovare una prospettiva differente, mettendola di fronte alla possibilità di cambiare il suo futuro per realizzare ciò che desiderava davvero, e Makoto si era sentita improvvisamente motivata.

Il futuro non sarebbe stato semplice, perché il suo sogno era grande, ma finalmente sentiva di avere la forza e l’equilibrio necessari per riuscire a realizzarlo.


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Prompt: scuola
Partecipa al COWT 13
Fandom: Persona 5
Personaggi: Sadayo Kawakami, Ren Amamiya, Ann Takamaki
One shot
 
Uno studente rispettabile.




Appena aveva messo piede nella metropolitana, Ren si era sentito addosso gli sguardi di tutti gli studenti della Shujin. Aveva cercato di mantenere la sua consueta calma, sorridendo con distacco quando incrociava i loro sguardi a volte stupiti, altre volte curiosi.

Nel cortile della scuola aveva trovato ad accoglierlo Ann e Ryuji, pronti a mantenersi fedeli alla storia raccontata da Kawakami sul viaggio di Ren nella sua città nativa per un imprevisto in famiglia.

Ann l’aveva abbracciato con trasporto e lui per un attimo aveva pensato a quanto gli sarebbe mancata quando sarebbe davvero tornato a casa. Mancava davvero poco.

Aveva ricambiato l’abbraccio stringendola forte a sé. “Mi sei mancata.”

“Anche tu, sono contenta che tu sia tornato.”

“Oh, ma che scena sdolcinata! E io allora?” Ryuji si era unito al benvenuto dando un pugno amichevole alla testa del suo amico. “Bentornato.”

La scenetta era stata osservata con attenzione da tutti gli studenti presenti, che durante il mese di assenza del nuovo studente si erano chiesti se fosse morto, se fosse veramente lui il leader dei Phantom Thieves.

Ren si era sentito osservato per tutta la giornata. Sia i professori che i compagni avevano evitato di parlargli, in compenso continuava a notare sguardi e sussurri che si interrompevano ogni volta che li intercettava. Stanco per la situazione, in pausa pranzo aveva deciso di farla finita. “Allora, posso rispondere a qualche domanda: Yuko?”

La ragazza era arrossita. “I-Io non…”

“E tu, Shinji?”

“Lo sai cosa ci chiediamo tutti: dove sei stato?”

“Sono stato via per problemi in famiglia, come vedete sto benissimo e non ho intenzione di andarmene fino alla fine dell’anno.”

“Sei uno dei Phantom Thieves?” Yuko aveva trovato il coraggio di fare la domanda per tutto.”

“Ne sarei felice, lo racconterei a tutti.”

“Invece sei un povero studente che non ha ricevuto gli appunti dell’ultimo mese di lezione e che da oggi avrà ogni minuto occupato per recuperare.” Kawakami era entrata in quel momento trasinandosi dietro un borsone pesante. “Avete cinque minuti.”

Il resto delle lezioni era trascorso tranquillo, la professoressa pareva di ottimo umore e si era dilungata sul ripassare quanto visto nel corso dell’assenza di Ren “Per gli esami,” a suo dire.

Alla fine delle lezioni, proprio quando stava per uscire, Ren si era sentito chiamare.

“Amamiya, posso rubarti un attimo del tuo tempo.” Kawakami lo guardava con aria severa. Il ragazzo aveva atteso che tutti uscissero dall’aula, a quel punto la professoressa aveva chiuso le porte. “Che bello rivederti a scuola!” Aveva esclamato, saltellando verso di lui. “Non sai che paura mi hai fatto prendere, potevi almeno rispondere ai messaggi, razza di ingrato.”

Ren si stupiva sempre di quanto in fretta Sadayo fosse in grado di cambiare tono di voce e umore. Ormai la considerava più di una professoressa, conosceva la parte segreta della sua vita. Lei l’aveva protetto, proprio come aveva fatto con Takase prima della sua morte.

“Cos’è quella faccia da rimbambito? Non ti ho coperto perché tu restassi indietro con gli esami. Ti avrei anche mandato tutto al LeBlanc se tu fossi stato così gentile da degnarti di rispondermi.” Aveva tirato fuori dal borsone una plico di fogli preoccupante e l’aveva lanciato con un rumoroso tonfo sulla cattedra. “Ora avrai tempo di rimetterti in pari, se cominci subito.”

Ren aveva spalancato gli occhi, cercando di contrastare il suo istinto a fuggire.

“So già che per te non sarà un problema, ma nel caso in cui dovessi avere bisogno di una mano, sai già che numero chiamare per contare su di me.”

“Potrei chiamarti stasera.” Aveva risposto Ren mentre sfogliava le pagine fitte di appunti, sempre più pallido.

“Se pensi di farlo davvero, mi aspetto un bel regalo, capo.” Sadayo aveva fatto l’occhiolino, sorridendo con spensieratezza.

Il ragazzo aveva annuito, l’espressione di nuovo seria, glielo doveva, eccome. Senza il suo prezioso aiuto non sarebbe stato così semplice giustificare la sua assenza e il suo rientro. Raccolse il materiale e prima di uscire le rivolse un inchino. “Grazie davvero, per tutto.”

 

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One shot
Originale
Partecipa al COWT 13
Prompt: Pioggia
Parole:
 

Un lunedì come un altro


Come vuole il cliché, anche per Eva il lunedì mattina era il giorno in cui la sveglia faceva più male. Quella mattina però da subito aveva avuto il presentimento che sarebbe andata peggio del solito. 

Aveva fatto colazione con un caffè e un pezzo di panettone avanzato - ne aveva ancora, chissà se l’avrebbe finito entro la fine dell’inverno - e aveva accumulato un lieve ritardo, indugiando più del solito nel leggere le notizie del giorno e si era rimproverata per essere caduta nella classica trappola del clickbait almeno un paio di volte, poi aveva iniziato a prepararsi per uscire e, come sospettava, era arrivato l’imprevisto: si era macchiata la camicia con il dentifricio. In un attimo aveva vagliato tutte le opzioni possibili e aveva optato per un cambio rapido: corsa al suo armadio aveva preso un maglione pesante e poi aveva continuato a prepararsi come sempre. 

Era uscita un po’ di corsa, ma sicura che sarebbe arrivata puntuale. 

L’aria delle sette del mattino le pungeva il viso, ghiacciata come i finestrini e il parabrezza della sua auto. Eva aveva acceso il motore e si era stretta la sciarpa intorno al viso per scaldarsi un po’. Il parcheggio che utilizzava abitualmente era a circa un chilometro dall’ufficio, ma non le dispiaceva fare un po’ di strada a piedi e lì trovava quasi sempre un posto libero, infatti così era stato anche quella mattina. 

Appena aveva girato la chiave per spegnere il motore, però, aveva notato le prime gocce di pioggia sul parabrezza. Aveva sospirato con rassegnazione, pensando che avrebbe preso un po’ di pioggia, ma che non sarebbe stata la fine del mondo visto che aveva sempre un ombrello in macchina. 

Sempre… almeno così credeva, perché l’ombrello sembrava svanito nel nulla. 

Nel nulla… o più probabilmente era in ufficio, nel comodo portaombrelli posto di fianco alla porta di ’ingresso.


Si era innervosita, del resto la prospettiva di correre sotto la pioggia non la faceva sentire esattamente al settimo cielo e nei pochi secondi che erano passati le gocce erano diventate parecchie: si sarebbe fatta una bella doccia. 

Aveva al massimo un paio di minuti di tempo prima di essere davvero costretta a uscire da lì: cosa poteva fare per evitare di arrivare come un pulcino bagnato? La risposta era ovvia, perché l’auto era completamente vuota: niente sacchetti, o scatole o libri o giacche o sciarpe. Niente di niente visto che l’aveva pulita proprio per bene. Era stata bravissima.

Avrebbe anche potuto chiamare l’ufficio e annunciare il suo ritardo, ma sapeva che le avrebbero chiesto di recuperare ogni singolo minuto, facendole pesare per almeno due mesi e mezzo questa sua grande fortuna chiamata flessibilità, concetto che pareva non fossero in grado di comprendere fino in fondo.

“Al diavolo,” aveva esclamato, più a se stessa che alla pioggia. Aveva preso fiato, raccolto  la valigetta che conteneva il suo computer con l’idea di proteggerla meglio che poteva, ed era uscita dall’auto con decisione, pronta a una corsetta mattutina.


“Eva! Aspetta!” Si era sentita chiamare da qualcuno poco distante. Si era voltata con la sciarpa premuta sulla testa, senza fermarsi, e aveva notato un ragazzo che, munito di un grande ombrello, stava correndo verso di lei. All’inizio non l’aveva riconosciuto, ma nel guardarlo più da vicino aveva capito che era il barista della pasticceria dove a volte andava a fare colazione prima di iniziare a lavorare. 

Dopo averla raggiunta, il ragazzo l’aveva accolta sotto il suo ombrello ed Eva si era sentita fortunata per la prima volta dall’inizio della giornata.

“Grazie, sta piovendo davvero tanto.” 

Lui aveva scosso la testa. “Questo è il minimo, tanto facciamo la stessa strada.” Aveva sollevato il braccio e lei d’istinto si era agganciata a lui. Una parte di lei si era sentita imbarazzata, perché non avevano mai parlato molto prima di allora, ma lui le aveva sempre dato l’impressione di essere un tipo gentile e sincero. 

“Sei molto gentile, mi sarei presa un raffreddore con tutta quest’acqua. Ora sono in debito.” 

Lui di nuovo aveva minimizzato. “Ma non pensarci neanche, l’ombrello è grande abbastanza per tutti e due, non potevo lasciare che arrivassi fino all’ufficio sotto la pioggia, saresti arrivata zuppa. Se ti senti davvero in colpa però accetto volentieri un caffè, o un passaggio sotto il tuo ombrello la prossima volta che pioverà.”


Eva era stata al gioco, rispondendo a tono. “Potrei anche passare più tardi, per scroccare il viaggio di ritorno.” 

Lui aveva annuito: “Allora ti aspetto lì.” 

Per il resto del tragitto erano rimasti in silenzio a camminare sotto la pioggia battente. Eva nella sua testa lo aveva definito un silenzio rilassato, durante il quale aveva pensato che non le sarebbe dispiaciuto per niente passare un po’ di tempo in più con quel ragazzo di cui non ricordava neanche il nome per essere sincera del tutto. Per questo aveva provato un po’ di imbarazzo in effetti. 


Il suo accompagnatore la aveva lasciata di fronte alla porta. Nonostante il freddo e i piedi bagnati, Eva non aveva potuto fare a meno di pensare che la passeggiata in compagnia del suo accompagnatore era stata piacevole e che tutto sommato non le sarebbe dispiaciuto se fosse stata un po' più lunga.


La giornata era passata lenta, tra le richieste complicate dei clienti e quelle forse anche più impegnative dei colleghi. Fuori però continuava a piovere e più le ore passavano, più Eva sperava che non smettesse.

Osservava la finestra di fronte a lei ogni volta che i suoi pensieri si rabbuiavano e si ritrovava a sentire un senso di calore che forse avrebbe potuto associare al suo gentile amico con l'ombrello.
Chissà se si vede con qualcuno…

Non lo conosceva ed Eva pensava che era molto probabile che lui fosse stato gentile con lei solo perché sapeva che era una cliente abituale del locale per cui lavorava. Al contrario, lei si sentiva in imbarazzo al pensiero di non ricordare neppure il suo nome e il film che si era fatta in testa nel quale grazie a un giorno di pioggia aveva scoperto l’amore della sua vita sarebbe rimasto un sogno a occhi aperti, ma sarebbe stato così sciocco darsi una possibilità?
Se poi fosse andata male al massimo avrebbe evitato lui, e forse avrebbe anche cambiato lavoro per evitare di vederlo, ma non c’era niente di male nel provare almeno a parlargli. In fondo non era una ragazzina e in ambito lavorativo affrontava ogni giorno situazioni ben più complicate, perché si sentiva così in imbarazzo al pensiero di rivederlo?

All’uscita dall’ufficio Eva aveva osservato il suo ombrello con esitazione, ma alla fine, preso il suo poco coraggio, l'aveva lasciato lì dov’era per correre alla pasticceria, dove lui la stava aspettando seduto a un tavolo mentre leggeva un giornale.

“Ben arrivata, speravo di non essere rimasto ad aspettarti per niente.” 

Il suo collega dietro il bancone si era rivolto alla collega con un sorriso complice. “Adesso ho capito cosa stava aspettando Ale, ecco perché non se ne andava anche se ha finito il turno due ore fa!”
Giusto: si chiamava Alessio, le si era presentato più di una volta ormai.

“Gli dovevo un caffè, quindi prendiamo due caffè, per me macchiato e per te, Alessio?” aveva risposto Eva tentando di sembrare sicura di sé, porgendo una banconota da cinque Euro al cassiere.

“Lui lo prende sempre liscio, faccio io.”


I due erano rimasti seduti per qualche minuto insieme, ma il silenzio rilassato della mattina si era trasformato in un’attesa fatta di tensione, dovuta anche alla presenza dei colleghi di Alessio che sembravano avere fatto una scommessa su cosa si sarebbero detti.

Dopo aver bevuto il caffè, Alessio aveva indicato la porta con lo sguardo e i due erano usciti. Di nuovo sotto il suo ombrello, ma questa volta la complicità che aveva sentito solo poche ore prima pareva essersi tramutata in tensione.



A Eva era tornato in mente Paolo la fine della loro storia insieme. Si erano lasciati durante un giorno di pioggia invernale, proprio come quello.

Era passato un anno ormai e lei non aveva mai sentito la necessità di trovare qualcuno per rimpiazzare il suo ex, ma era sempre stata convinta che prima o poi qualcosa in lei sarebbe cambiato, che sarebbe stata pronta per fidarsi di nuovo di una persona al punto da lasciarsi andare come aveva fatto con Paolo.

Era stata lei a lasciarlo, dopo mesi durante i quali aveva cercato di recuperare un rapporto morto, perché sembrava che tra loro non ci fosse che la forza dell’abitudine che li spingeva a restare insieme nonostante nessuno dei due si decidesse ad ammettere che qualcosa non andava.

Alla fine entrambi avevano smesso di lottare e si erano lasciati proprio per una giornata di pioggia e per un ombrello. A volte il destino sa essere beffardo, pensava.


Senza pensarci troppo, Eva aveva preso il braccio di Alessio, che all’inizio aveva reagito con stupore, ma che poi si era rilassato. La sensazione di naturalezza che provava nel contatto con lui le faceva pensare che in una ipotetica vita precedente i due si conoscessero bene, e subito si era sentita a suo agio.

“Grazie per essere rimasto.” Gli aveva sussurrato, lasciando che la sua voce sovrastasse di poco il rumore continuo della pioggia.

“Grazie per essere tornata,” Alessio l’aveva guardata negli occhi. “E per non avere recuperato l’ombrello in ufficio.”

Eva era rimasta a bocca aperta. “E tu come…” aveva iniziato.

Alessio aveva riso. “Non sapevo, ma speravo. Prenderò come un buon segno il tuo ritorno, ancora più di prima. Magari la prossima volta potremmo fare la strada insieme anche senza l’ombrello.”

“Oppure potremmo andare a bere un caffè in un posto senza avvoltoi,” aveva proposto lei.


Arrivati alla sua automobile si erano salutati. Nonostante la pioggia, nonostante il lunedì, nonostante la camicia macchiata, quella giornata alla fine si era rivelata tutt’altro che pessima. L’avrebbe quasi definita una bella giornata.


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One Shot
Fandom: Persona 5
Missing moment
Prompt: Lanterna
Partecipa al COWT 13


Amnesia
 

Morgana aveva aperto gli occhi per ritrovarsi in un luogo sconosciuto. Niente di ciò che vedeva gli era in alcun modo familiare. Conosceva solo il suo nome, che non gli si addiceva per niente, ma che gli piaceva nonostante fosse sempre stato associato a una donna.

Lui era un ragazzo, questo lo ricordava. 

Si sollevò dalla branda nella quale stava dormendo per cercare di capire dove fosse: la stanza era illuminata da due lanterne fioche ed era quasi del tutto vuota. Oltre alla branda e alle lanterne c’erano delle catene, una coperta logora e un catino con dell’acqua. Al posto di una delle pareti c’erano sbarre. Morgana era in una prigione.

Si alzò e cercò di guardare fuori dalle sbarre, ma c’era qualcosa che non andava sia perché ci vedeva un po’ troppo bene considerata la luce davvero scarsa, che perché era troppo basso. Quando si osservò le mani, però, lanciò un urlo di paura: erano zampe, come quelle di un animale.

Morgana prese una delle lanterne e si avvicinò al catino. Quello non poteva essere lui: un essere dal pelo bianco e nero con orecchie a punta, artigli sulle zampe e una lunga coda nera con la punta bianca.  Il suo aspetto era molto simile a quello di un gatto, ma a cercare una definizione forse sarebbe stato più corretto dire che era un mostro. Un gatto mostruoso.

Forse era vittima di una maledizione che l’aveva trasformato? 

“Tu non sei un gatto, sei speciale.” Una voce dentro la sua testa, qualcuno che conosceva, ma che non riusciva a inquadrare.

“Dovrai combattere, io posso aiutarti.” Sempre quella voce. 

Lenta, una lanterna si stava avvicinando. Morgana d’istinto si nascose nella cella.

Una delle guardie, un’Ombra con una lanterna in mano, si avvicinò alle sbarre.

Lo sentì armeggiare con le chiavi. “Gatto! Dove sei?” Una voce metallica, innaturale. Morgana sapeva che avrebbe dovuto aspettare che l’Ombra aprisse la porta per combatterlo e uscire di lì. 

Appena sentì i passi trascinati della guardia nella cella, il gatto saltò contro di lui. Fu allora che una parte delle sue memorie si materializzò al suo fianco: Zorro, la sua Persona, che mise a tappeto l’Ombra con un solo attacco magico per poi sparire veloce come era apparso. 

Morgana uscì di corsa dalla cella, ma la sua fuga terminò alle porte del castello, perché non c’era via d’uscita. Rimase di fronte al cancello aperto a osservare l’esterno per un tempo indefinito, conscio che quello che vedeva non era il mondo reale, ma il metaverso.

Cercava di ricordare, ma i suoi sforzi sembravano inutili. 

Non oppose resistenza quando le guardie, con le loro lanterne ondeggianti, lo catturarono per riportarlo alla sua cella. Decise che sarebbe rimasto lì fino a quando la memoria non fosse tornata o fino a quando qualcuno non fosse arrivato ad aiutarlo a capire chi fosse.

Solo con se stesso, a osservare la sua ombra mostruosa proiettata dalla luce della lanterna. Lui era umano, ne era sicuro. Doveva solo capire come fare a ritornare tale.



Fiducia

Feb. 25th, 2023 05:04 pm
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Fandom: Originale

Genere: sentimentale

Prompt: E poi ti chiamo subito, ma dubito che tu voglia rispondermi (Will – Stupido)

Parole: 951

Partecipa al COWT13

Fiducia


Questa volta sono stato io a scappare. Ti ho lasciato solo un foglio sul tavolo e ho bloccato il tuo numero.

Due valigie, tanto a casa tua avevo pochissime cose, tu mi hai detto tante volte che è perché non ho voglia di impegnarmi, ma la verità è che non mi sono mai fidato davvero di te.

Col senno di poi, come si dice, ho fatto bene.

Non fosse stato per il caso, non avrei mai saputo della tua vera natura, dei tuoi tradimenti.

Quando ti ho vista seduta con quello in pasticceria ho pensato subito di entrare a salutarti. Mi sono chiesto se fosse un amico o un collega, ma eravate troppo vicini.

Ma oltre all’atmosfera c’era di più, e me n’ero accorto al primo sguardo.

Ti ho chiamato subito, ma dubitavo che mi avresti risposto, infatti il tuo telefono ha squillato e ti ho visto prenderlo dalla borsa e rifiutare la chiamata. La mia chiamata. 

Allora ti ho scritto, ti ho chiesto dove tu fossi per vederci, ma tu hai risposto che avevi da fare e che ci saremmo visti a casa tua in serata come d’accordo.

Non mi hai detto dov’eri, quindi sono rimasto ad aspettare. Vi ho seguiti fuori e tu non te ne sei accorta. Ti ho vista salire sulla sua automobile, ma non ho potuto seguirvi. Sciocco io a non avere pensato a un modo per farlo.

La sera mi hai raccontato della tua serena giornata al lavoro e sembravi felice, più di quanto io ti abbia mai vista felice. Mi hai detto di aver lavorato tutto il pomeriggio. Solo per un istante hai esitato e mi sei sembrata sul punto di rivelare qualcosa. 

Non sapevo cosa significasse provare gelosia, ma in quel momento mi sentivo disgustato dalla tua spensieratezza.

Ho tolto il disturbo perché sono del parere che la sincerità sia necessaria come l’acqua che beviamo e che non sia possibile nutrire una relazione quando manca. Come piante, anche noi appassiamo in mancanza di rapporti sinceri.

 

Ormai è passato un mese da quando ti ho lasciata. So che hai provato a chiamarmi, so che hai tentato di raggiungermi a casa. Hai detto a mia madre che non ho capito, che è solo un fraintendimento, ma io non ho intenzione di farmi tradire perché so ciò che dico: l’ho visto coi miei occhi e loro non mentono.

 

La lettera che mi rigiro tra le mani mi tenta, perché mi potrebbe dare risposte, ma ho il timore che siano solo altre bugie e ho paura che finirei col crederti.

Da quando l’ho ricevuta, ormai tre settimane fa, è rimasta a prendere polvere sullo scaffale sotto al citofono di casa insieme ai volantini delle agenzie immobiliari e al menù per asporto della pizzeria che ti piaceva tanto.

Oggi ho deciso di fare un po’ di pulizie e mi è tornata in mano. Mi è affiorata alla mente la tua immagine e ho pensato a quanto in fretta il mio orgoglio mi abbia portato via da te. Non ti ho dato la possibilità di spiegarmi chi fosse quell’uomo e perché tu non mi avessi detto dove avevi passato la tua giornata, ma nei miei panni tu cosa avresti fatto?

Il dubbio è arrivato, infine. E se mi fossi sbagliato?

In fin dei conti la nostra storia è stata veloce, intensa. Solo tre mesi di frequentazione durante i quali abbiamo parlato troppe volte del futuro e di quello che avremmo vissuto insieme. Forse al punto da convincerci che fosse passato più tempo.

Io non so molto di te e di chi eri prima di conoscermi. Mi hai sempre fatto tante domande sulla mia famiglia, sul mio passato e sui miei amici. Hai conosciuto i miei genitori e mio fratello, sei venuta in vacanza nel paese originario dei miei nonni.

Di te conosco il presente, ma non ho molto sul tuo passato.

Mi hai portato al cimitero a incontrare i tuoi nonni, dicendomi che loro erano la tua unica famiglia, ma era davvero così?

 

Senza pensare più, apro la lettera.

Dentro ci sono delle foto: due bambini di circa cinque anni, insieme su un’altalena, sullo sfondo colline e un recinto di legno; una donna seduta su una poltrona insieme a quei due bambini, appare sorridente anche se pallida e stanca.

L’ultima foto mostra di nuovo i due bambini, questa volta quasi adolescenti. I due sorridono, ma non sembrano felici.

Oltre alle foto, solo un biglietto. Tre righe pesanti come macigni tra le sue mani.

Mi dispiace che sia finita così.

Un giorno ti avrei parlato del mio passato, ma non era ancora il momento per me.

Forse un giorno ci rivedremo.

 

Solo adesso unisco i pezzi. Ripenso a quanto ti incupivi quando ti parlavo delle mie vacanze spensierate con mamma e papà. Ricordo l’album di fotografie che un giorno hai preso dalla libreria e che io non ho voluto vedere. Forse avevi deciso di parlarmi, ma io non sapevo ci fosse qualcosa da dire.

Non posso immaginare come tu ti sia sentita quando ti ho abbandonata, soprattutto ora che mi rendo conto che forse non era la prima volta che ti accadeva.

Ho trovato un modo per farti soffrire, e ora mi dispiace.

Sblocco il tuo numero di telefono e vedo i tuoi messaggi: tristezza, paura, rabbia, rassegnazione. Mi hai scritto molte volte, mi rendo conto adesso della sofferenza che ti ho causato e so che non avrei dovuto cedere alla paura, alla rabbia e al mio orgoglio.

“Addio,” l’ultimo messaggio. Ormai è troppo tardi, penso, e poi ti chiamo subito, ma dubito che tu voglia rispondermi.

Quando sento la tua voce so già che non basteranno le mie scuse, ma credimi: “Mi dispiace, ho sbagliato tutto.”


 
 

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