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Genere: demenziale, commedia

Fandom: Originale

Partecipa al COWT11

Prompt: la storia inizia dalla fine

Jackson 


Una riunione come tante.

Jack salutò i colleghi come sempre, ma notò da subito che qualcosa non andava: al posto del solito viso che tutti avevano sempre visto, ecco un gatto dalla pelliccia grigia lucente, che pareva muoversi con fare umano e parlare. Agitava le zampe come se stesse scrivendo sulla tastiera,. 

L’incubo di Jackson era diventato infine realtà: aveva sbagliato qualcosa col computer e per quanto provasse a sistemare la situazione, a giocare inserendo e togliendo i filtri, non c’era niente che facesse tornare le cose com’erano.

“Jack, che succede? Sei diventato un gatto?”

Jack, terrorizzato e in imbarazzo, tentò di buttarla sul ridere. “Sì, oggi sono un gatto. Scusate, ma non so cos’abbia il computer, deve essere un virus…”

“Non ti preoccupare, ci faremo anche quattro risate così, ma che tu sia gatto o umano, la tua paga te la guadagni e va bene così. Da oggi ti chiamerò micio micio però.”

Che scenetta divertente, pensava Jack, sarcastico. Tutto sommato però sarebbe potuta andare peggio: avrebbero potuto vederlo sotto forma di cane… “Disattivo la webcam.” Aveva proposto e i suoi colleghi avevano accettato.
Quel problema poteva significare che la sua carriera era finita. Era stato bello. Aveva mangiato bene durante quei mesi.




Jackson era molto orgoglioso del ramo paterno della sua famiglia. Si definiva un siamese, anche se lo era solo in parte: erano gatti di famiglia nobile e pura, e suo padre, Louis, aveva scelto di seguire il suo cuore e di andare a vivere all’insegna dell’avventura con una ragazza umana che l’aveva amato finché era vissuto. Durante uno dei loro viaggi, avevano incontrato la madre di Jackson, Priss. 

Lady Priss era una Certosina piuttosto scontrosa, una gatta intelligente che da subito gli aveva insegnato come prendersi cura di se stesso, cacciando e facendosi benvolere dagli umani. Jackson in realtà non aveva mai conosciuto il padre, sapeva solo che i due padroni dei suoi genitori avevano avuto una storia e per un po’ umani e gatti avevano vissuto sotto lo stesso tetto. Poi la ragazza e suo padre se n’erano andati per non tornare mai più indietro.


Da piccolo, quando viveva ancora con sua madre, lei  aveva raccontato a lui e ai suoi fratelli tante storie sulle avventure di Louis il gatto che viveva nello zaino e Jackson ne era rimasto affascinato.

Era stato mentre immaginava di viaggiare, da solo e senza paura, che aveva iniziato a sentirsi speciale.

Purtroppo si era dovuto separare da Priss quando era ancora un gatto adolescente. “Non ci terranno tutti qui, dovete prepararvi a essere separati dai vostri fratelli, ma non disperate: ci rivedremo un giorno, al di là del ponte sull’arcobaleno. Siate furbi e non buttatevi dal quinto piano come quello sciocco di Pinto, il gatto di fronte, che si è spiaccicato come uno stupido.” 


Jackson era stato portato via durante un pomeriggio di pioggia. Il trasportino nel quale era stato messo era di stoffa e si era bagnato tutto. Era terrorizzato e quando l’umano l’aveva aperto si era spinto bene in fondo, troppo impaurito per uscire.

Solo allora aveva sentito la voce di Marilyn. “Vieni fuori e mangia, piccoletto,” gli aveva intimato con un tono che lui non era riuscito a identificare. “Non ti mangio, tranquillo.”

Marilyn era una gatta bianca a pelo lungo e subito Jackson si era reso conto che era molto miope, le pupille nere dei suoi occhi azzurri infatti si erano strette appena lui si era affacciato a guardarla.

“Benvenuto, piccoletto.” 

Marilyn era stata una figura materna da subito, l’aveva aiutato a prendere familiarità con l’ambiente e a capire l’umano che si prendeva cura di loro: Franco.


“Con gli umani devi imparare a farti adulare. Devi andare da loro, guardarli, lasciare che ti accarezzino e poi chiedere. Più ti fai vedere e più ottieni, ma devi imparare a non essere troppo disponibile, altrimenti si stancano.”

E Jackson, seguendo i consigli di Marilyn, aveva imparato come convivere con Franco.

“Certo che potrebbe comprarci del cibo migliore di questo…” aveva osservato il gatto, mentre mangiava una pappa che tutto sommato era anche saporita, ma nulla a che vedere con quella che si era abituato a mangiare nella casa in cui era cresciuto. Per un po’ Jackson aveva cercato di far capire a Franco che le scatolette che comprava non erano di qualità, ma aveva dovuto rinunciare perché pareva che l’umano fosse duro a capire un concetto così semplice. “Devo rimettere il pranzo ancora tante volte secondo te perché capisca che mangiamo male?”

“Lascia perdere, non cambierà. Ci ho provato per anni anche io, ma lui è parsimonioso,” sosteneva l’anziana gatta di fronte alle lamentele continue del nuovo arrivato. 

“Ma lui mangia il pesce fresco, perché non lo dà a noi?”

“Perché siamo gatti.” Rispondeva Marilyn senza scomporsi.

Jackson però era determinato: avrebbe trovato una soluzione anche a costo di comprarsi il cibo da solo.


Franco usciva ogni mattina dal loro appartamento al primo piano di un condominio per andare al lavoro, dopo aver versato la scatoletta di cibo in una ciotola di plastica a Jackson e a Marilyn. Li salutava con delle affettuose carezze e poi chiudeva la porta per sparire per ore e ore.

Jackson si sentiva sprecato per quella vita di riposo, perché passava la giornata a prendere il sole sul terrazzino e a chiacchierare coi suoi vicini: due gatti certosini che vivevano nell’appartamento di fronte al suo. Aveva quindi dato voce alla sua strana passione, quindi: la programmazione. Si era creato un blog che aveva chiamato la vita e le aspirazioni di un gatto d’appartamento, nel quale raccontava le sue avventure e faceva qualche resoconto su ciò che imparava.

Non male, per essere un gatto. Non gli ci era voluto molto per iniziare a raccontare le sue gesta e le sue riflessioni, diventando così il gatto più famoso della città. Tutti quelli che commentavano erano certi che dietro al blog ci fosse un umano, persino Marilyn era rimasta piacevolmente impressionata dall’abilità di Jackson con il computer.
“E che ci vuole?” Aveva detto il gatto. “Il linguaggio degli umani non è così complicato, basta solo aver voglia di imparare. Io lo parlo perfettamente, ma il nostro è molto più musicale.”

La sua anziana compagna di avventure era d’accordo. “La lingua umana è così rude.” aveva confermato.

All'inizio del 2020, Jackson si era reso conto che qualcosa era cambiato nel suo umano, infatti non si alzava più la mattina presto a dargli da mangiare e non lo lasciava più da solo in casa. Se ne stava sul divano a dormicchiare e spesso usava il portatile per giocare e per guardare qualche film, si alzava solo per mangiare e per camminare in giro per casa. Non usciva neppure a comprare da mangiare, in compenso però erano arrivati dei corrieri a portare la spesa a casa. 


Jackson era preoccupato perché vista la presenza di Franco a casa aveva qualche difficoltà a usare il computer. Non poteva certo farsi vedere mentre scriveva o sistemava il suo sito. Immaginava che avrebbe presto dovuto chiudere il blog e si chiedeva se i suoi follower non sentissero la sua mancanza. Dopo qualche tempo però aveva studiato un buon metodo per usare il computer anche in presenza dell'umano. Gli era sufficiente aspettare di sentirlo russare, per poi aprire delicatamente il portatile e mettersi a scrivere.

Ogni volta si impegnava a navigare in incognito e usava Marilyn come sentinella, le aveva dato l’impegno di avvisarlo nel caso in cui Franco si fosse svegliato.


L'umano continuava a ripetere che il lavoro non andava bene. Si lamentava tutto il giorno, ma non sembrava che la cosa gli importasse poi molto, visto che si lamentava dal divano, mentre se ne stava lì a grattarsi la pancia e a guardarsi serie TV su Netflix.


Un giorno, Jackson era veramente stanco e decise di vuotare il sacco. “Senti, Franco, io vorrei iniziare a mangiare meglio. Mi pare che tu sia in difficoltà, quindi ho pensato di cercarmi un lavoro.”

L’umano aveva gli occhi sbarrati. Per un po’ non aveva parlato, né era stato in grado di muoversi. Poi gli si era avvicinato e l’aveva toccato come fosse qualcosa di spaventoso.

“Che c’è?” Aveva quindi domandato all’umano. “Guarda che se volessero i gatti parlerebbero tutti. Non pensare neanche a darmi via o a farmi studiare da qualche scienziato a caso, perché penserebbero solo che sei pazzo. Come ogni gatto, so benissimo cosa posso e cosa non posso fare. Lo so che quando parliamo vi spaventate.

 

L’idea di intraprendere una sua carriera era iniziata per caso: un giorno si era reso conto di aver imparato a parlare piuttosto bene il linguaggio umano. Per migliorare Jackson aveva studiato moltissimo i comportamenti umani e, grazie al suo seguitissimo blog su wordpress, aveva iniziato a proporsi in giro. Un po' per gioco aveva deciso di candidarsi per un annuncio di lavoro quando avevano chiesto un web designer. Jackson aveva dato il nome del suo umano e aveva scritto un'ottima lettera di presentazione. Non credeva sarebbe stato possibile, e invece l'avevano preso. Ora aveva dei capi, dei colleghi. Tutti scherzavano con lui come se fosse un essere umano e la cosa gli piaceva molto.

Solo una collega non gli era per niente simpatica, una che gli aveva raccontato di odiare i gatti, che l'aveva preso in giro quando aveva sentito miagolare. La donna non aveva idea che il miagolio venisse nientemeno che dal suo collega: il gatto Jackson.

Fare le fusa lo aiutava a non urlare e a mantenere la calma quando i suoi colleghi si sarebbero meritati solo delle belle strigliate, era incredibile come gli umani fossero svogliati e approssimativi sul lavoro. E sostenevano di essere evoluti. Certo, come no: meglio che ne fossero convinti.


Quando era arrivata la prima busta paga a nome di Franco, Jackson era stato chiaro: da adesso lui e Marilyn avrebbero mangiato meglio, ciò che spettava loro di diritto in quanto gatti. Cioè pesce e carne freschi, e crocchette di ottima qualità come quelle che consumava da piccolo.



Un giorno gli avevano chiesto di fare una riunione su zoom e Jackson si era chiesto come avrebbe potuto fare. Aveva pensato di chiedere aiuto al suo umano, ma quello passava tutto il tempo a dormire e non gli avrebbe fatto fare una bella figura. Aveva tentato di fingere un guasto alla connessione internet proprio durante la riunione, ma i suoi colleghi tenevano molto a vederlo al punto che l'avevano rinviata.

Il punto di svolta era avvenuto quando Jackson aveva scoperto i filtri: aveva trovato il filtro umano, che gli aveva dato un aspetto più accettabile.





Aveva iniziato a usarlo subito e da allora aveva iniziato a partecipare alle riunioni coi colleghi senza troppe remore, felice di essere finalmente un umano ai loro occhi, oltre che alle loro orecchie. 

Jackson era arrivato in soggiorno e aveva trovato l'umano che dormiva. 

"Hey!", L'aveva svegliato di soprassalto. 

Franco non era ancora abituato a sentirlo parlare e aveva trattenuto a stento un grido di terrore.

"Jackson... T-ti serve qualcosa?" Franco gli aveva grattato il mento e per un attimo Jackson aveva rischiato di dimenticarsi perché fosse andato fin lì.

"Ho fatto la spesa, dovrebbe arrivare tra poco. Mettila via per favore, ma portami il pesce." Jackson aveva pensato sia all’umano che a Marilyn: oltre a una valanga di carne e pesce, aveva preso anche della verdura e della frutta per Franco. Una bella confezione di lettiera profumata e del tonno in scatola per ogni evenienza. Non una spesa eccezionale, ma Franco apprezzava molto il tentativo del suo gatto. Gli aveva promesso che un giorno sarebbe stato di nuovo in grado di provvedere al loro sostentamento e avrebbe anche voluto cercarsi un lavoro, ma c'era il Lockdown e il computer era proprietà esclusiva del gatto, a seguito dei loro accordi.


Franco aveva iniziato a fare molta attenzione alla pulizia della lettiera e delle ciotole. Marilyn ogni tanto chiacchierava con l’umano, visto che tanto non c’era più niente da nascondere. Erano in armonia, tutti insieme.


Jackson si faceva chiamare Jack, un nome un po’ meno strano ed era molto apprezzato in azienda per il suo sarcasmo. 

Ormai si era abituato a utilizzare il filtro umano durante le riunioni. Era andato tutto bene, almeno fino a quel giorno...


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Fandom: COWTverse (personaggi del COWT11)
Personaggi: Calico



Hidden desires


Ogni notte, da quel maledetto giorno della sagra del Kulutrek, Calico faceva lo stesso sogno.

Più che un sogno forse avrebbe potuto considerarlo un incubo.

E pensare che fino a quel momento si era sempre considerato un uomo molto equilibrato… era cambiato. Forse la colpa era dei suoi nipoti, così innocenti nelle espressioni dei loro ideali. Ingenui, eppure difficili da tenere a bada.

Nel sogno erano proprio i due gemelli a mostrarsi a lui e a tentarlo: Meridian, coperta dai suoi veli leggeri, lo prendeva per mano e la invitava a seguirlo. 

Calico cercava di sottrarre la mano alla sua presa invadente e allora arrivava Fabian, dietro di lui, ad accarezzargli le spalle. “Non farti pregare, zio Calico, cedi anche tu ai tuoi desideri per una volta.” Fabian lo guidava verso la perdizione, le mani leggere all’improvviso pesanti e convincenti sulle sue spalle. Meridian, di fronte a lui, camminava leggiadra tenendogli le mani, sorridente.

Poco più avanti, Calico poteva iniziare a mettere a fuoco la sua condanna. Regis dell’Aliante sorrideva e lo chiamava. “Vieni qui Calico, non cercare di negarti il piacere che proveresti nel soddisfare i tuoi desideri.”

Nel sogno, Calico tentava di fermarsi. Forse nell’inconscio non desiderava parlare per convincerli a lasciarlo andare. Forse era ora che la smettesse di resistere così strenuamente a ciò che il suo corpo gli domandava.

“Al diavolo!” Esclamò alzandosi dal letto ancora assonnato, incapace di togliersi dalla testa quel pensiero fisso.

A quell’ora era possibile che riuscisse ancora a trovarli, da qualche parte. In molti a Tanit erano ancora svegli all’una e mezza di notte, soprattutto nei giorni prefestivi come quello.

Si infilò gli abiti puliti che aveva preparato per il giorno seguente, maledicendo il suo equilibrio mentale che da qualche settimana ormai sembrava essere perso. Indossò un mantello e si avviò all’uscita. 

Le strade erano ancora dense di cittadini allegri. Molti di essi apparivano alticci, quasi tutti erano allegri. Qualcuno lo riconobbe e lo salutò chiamandolo per nome. 

Non era così amato da sentirsi al sicuro, ma le guardie che lo stavano seguendo a pochi passi di distanza gli davano la forza per proseguire.

Una luce di gioia illuminò gli occhi di Calico quando lo vide: il baracchino coi panini al salame di Kulutrek era di fronte a lui, ancora aperto. Come un bambino, trotterellò verso il bancone. 

“Buonasera, quanti panini avete ancora?”

L’uomo al bancone si mise a contare, imbarazzato. “Stavamo per chiudere, ma direi una dozzina.” 

“Li prendo, incartateli per favore, tutti.” Poi Calico si rivolse alle guardie: “Vi prego di non farne parola con nessuno, soprattutto coi miei nipoti che ne approfitterebbero per derubarmi di nuovo. Ma voi prendetene, sono buoni ora che sono così caldi.” Asserì, porgendo due panini alle guardie. Poi inspirò il profumo dei panini con evidente trasporto e ne addentò uno, che divorò a grossi morsi sotto gli occhi confusi delle due guardie, intente a osservarlo con i panini ancora integri tra le mani.

“Non li volete?” Chiese allora Calico, bofonchiando a causa della bocca piena.

I due addentarono il gentile dono del sommo Priore di Tanit, confusi e un po' divertiti, e lo seguirono nel ritorno al palazzo.
Il sacchetto carico di panini era pesante, ma per lui non era un problema. Era un peso tutt’altro che fastidioso da portare, visto il calore e il profumo che i panini emanavano.

Tornò in camera in silenzio. Per un po’ forse avrebbe dormito sonni privi di incubi.


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Prompt: I feel very attacked right now! (Laganja Estranja)

Il prompt è tradotto in italiano, segnalato dagli asterischi (*)

Fandom: originale

Genere: soprannaturale, introspettivo

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Insonnia 


La maledetta sveglia ticchettava regolare. Gabriele la prese con una mano e la lanciò contro il muro, sbuffando.

Lui voleva solo dormire sereno nel suo letto caldo e comodo, e invece si stava rigirando come un serpente da ore nonostante la stanchezza, nonostante le gocce di valeriana che secondo il suo farmacista avrebbero fatto miracoli.

Non era abituato all’insonnia e non ne aveva mai sofferto, ma da quando sua nonna era morta lui aveva praticamente smesso di dormire.

Si sentiva osservato, era come se il fantasma della sua parente defunta fosse lì a giudicarlo, come da viva la nonna aveva sempre fatto.

 

Non avevano mai avuto un bel rapporto, perché sua nonna aveva la tendenza ad attaccarlo per insegnargli a vivere, così diceva lei. 

 

Secondo lei, Gabriele avrebbe dovuto smettere di uscire con gli amici a divertirsi, farsi assumere in banca e trovare una brava ragazza con la quale avere tanti marmocchi da portare alla bisnonna. 

Ma quello non era il suo sogno.

Un giorno, cinque anni prima che morisse, avevano litigato in modo pesante, irrevocabile.

La nonna gli aveva ripetuto per l’ennesima volta di non sprecare la sua vita con il cellulare, fai qualcosa di utile per una volta, esci e trovati una brava moglie, poi cercati un lavoro serio e smettila di giocare.

Gabriele aveva deciso allora di dirle la verità: quello non era il suo sogno e non lo sarebbe mai stato. Non avrebbe mai avuto una moglie e dei figli, semmai un marito, se la gente come lei glielo avrebbe mai permesso. Lavorava felice e realizzato come grafico e non ci pensava proprio ad andare in banca, non sarebbe mai successo. Le disse che lei aveva sprecato la sua vita, rinchiusa in un matrimonio privo di amore e di rispetto che era peggio di una prigione, una donna senza passioni che viveva solo per abitudine.

Gabriele si era pentito subito del fiume di parole che le aveva vomitato addosso. Ricordava ancora l’espressione severa e delusa della nonna che non avrebbe mai ammesso, orgogliosa com’era, di aver subito l’attacco verbale del nipote, di esserne stata toccata nel profondo.

Dopo quel giorno nulla era più stato lo stesso. 

La nonna sospirava, guardandolo. Non giudicava più apertamente, ma sbuffava spesso e il ragazzo sapeva che non sarebbe mai tornato indietro. La vedeva a Natale e al suo compleanno e lei gli riservava sempre sguardi di pena. Il suo giudizio strisciava fino a lui, facendolo sentire inadeguato e tutto ciò che desiderava era andarsene. 

Aveva provato a parlarne a sua madre, ma la donna aveva minimizzato: È fatta così, è sempre stata così, cosa possiamo farci? Mi ha detto di essere preoccupata per te, lei non ti capisce. Ormai è vecchia, non cambierà più.

Si era allontanato da lei senza guardarsi indietro e da allora aveva ignorato le richieste, anche quelle di aiuto, che arrivavano dalla nonna.

Il senso di colpa arrivava proprio da quell’ultima richiesta, il giorno della sua morte. Forse se fosse andato lui a farle la spesa come la nonna gli aveva chiesto, lei non sarebbe morta.

 

 

Constatando la vittoria dell’insonnia, decise di alzarsi, sconfitto. Uscì dalla sua stanza ignorando la sveglia, che comunque non gli serviva più: erano le quattro del mattino e lui aveva dormito per poco più di dieci minuti? Forse era arrivato a un’ora di sonno totale, poco male.

La sua iguana riposava nel terrario al sole artificiale della lampada, Gabriele si avvicinò al rettile per capire se era sveglio e il suo animale domestico rivolse la testa verso l’uomo, che aveva aperto la gabbia per portarlo con lui sul divano. “Ciao, bella!”

Niente lo rilassava come accarezzare la pelle liscia della sua Lilly. Sperava che la presenza dell’iguana lo aiutasse a rilassarsi per permettergli di dormire almeno un paio di ore prima dell’inizio della giornata.

 

“Non ho mai capito come tu faccia a toccare quella bestia orribile.” Stanco com’era, la voce della nonna gli sembrò reale. Rise al pensiero che gli avrebbe detto proprio quella stessa frase. Scimmiottò, ripetendola, il giudizio indesiderato sulla sua amata Lilly e rispose, ancora mezzo addormentato. “Avresti dovuto provare a toccarla, nonna, è piacevole. E a lei piaccio io perché la scaldo.” 

“Ne faccio a meno volentieri, caro.” Per quanto fosse impossibile, quella era la sua voce ed era nella stanza. Gabriele, pietrificato e più sveglio di quanto non fosse mai stato nell’ultimo mese, alzò la testa per trovarsi di fronte una figura semitrasparente con le fattezze della cara nonna defunta.

 

“Non mi saluti neanche?” Gabriele boccheggiava mentre Lilly si arrampicava sulle sue spalle, pronta a farsi proteggere dal suo umano preferito.

Il fantasma si sedette sulla poltroncina di fronte al divano, le gambe accavallate e un’espressione di disappunto. “Cosa ci fai sveglio a quest’ora? Non credi sia ora di smetterla con queste sciocchezze?”

“Ch-cosa?” 

“Lo sai cosa: ti senti in colpa perché sono morta e ti avevo chiesto di farmi la spesa, sarei morta lo stesso, sai?” il fantasma si fermò un attimo, per poi riprendere vista l’incapacità di parlare del nipote. “Allora, come te lo spiego? Fai bene a sentirti in colpa perché sei stato un nipote assente.”

“Ma nonna… F- Fantasma? Sto sognando?”

“No, non stai sognando. Lasciami finire una volta tanto! Dicevo: non sei stato un nipote modello, tante volte ho chiesto il tuo aiuto e tu l’hai ignorato, perché non sei mai stato capace di fare una gentilezza a tua nonna. Ma non sono morta per causa tua. Avevi le tue cose e io non le ho mai capite. Adesso però quando passo da te sei sempre sveglio a ripensare a quello che mi dicevi, a quanto stavamo insieme da bambino. Ma basta! Quello è il passato e credimi: io sto benissimo adesso. Magari comincia a comportarti bene con chi è vivo, tipo tuo nonno, invece di scaldare la sedia e il serpente! Credo sia ora che tu cambi registro, se vuoi che la tua vita sia migliore.”

Gabriele non riusciva a parlare, osservava lo sguardo severo del fantasma e si sentiva del tutto inerme. “Mi attacchi sempre! La vuoi smettere di farmi sentire in colpa? Da sempre, non sei mai capace di stare zitta.”

“Cosa? Stai dando la colpa a me della tua incapacità di vivere e di dormire? Ma io sono morta, che cosa posso farci adesso, eh? Semmai io mi sento molto attaccata adesso*. Come mi ci sono sentita quella volta, quando abbiamo litigato.”

“Puoi anche smettere di essere così. Possibile che anche da morta tu riesca a comportarti da stronza? A rinfacciare ogni cosa? Dovresti smetterla di ferire tutti di proposito. A me la mia vita piace, escluso l’ultimo mese.”

“Pfff… se non ho imparato da viva a farmi gli affari miei, puoi immaginare quanto ti ascolterò adesso, da defunta. E sai una cosa? Non mi interessa per niente di ascoltarti. Anzi. Si sente attaccato?* Oh, poverino.”

“Ma io…”

“No: niente ma. Metti nella gabbia la tua lucertola e torna a dormire. E da domani sveglia presto e basta scemenze. In realtà sono venuta qui a ringraziarti… ”

“Cosa? Ringraziarmi per cosa?” Gabriele si alzò e rimise Lilly nel terrario. L’iguana protestò timidamente, ma subito tornò sul ramo a scaldarsi. Osservava il fantasma, confuso.

“Un po’ avevi ragione. Ci ho messo anni per dirtelo e alla fine non ci sono neanche riuscita da viva… Ho ripensato spesso alla nostra litigata e devo ammettere che non è stato facile per me ragionare su quello che mi avevi detto. Sul mio giudicare sempre tutti e voler decidere per ogni membro della mia famiglia. Lo sai che ho iniziato a dipingere? Era un hobby che avevo quando ero giovane, prima che mollassi tutto per occuparmi dei miei doveri familiari. Ho ricominciato pochi giorni dopo la nostra litigata. Avrei voluto dirti che eri stato tu a spingermi, ma non ce l’ho mai fatta. Avrei molti più rimpianti se tu non mi avessi mandata a quel paese cinque anni fa. Ho cercato di non giudicare più, di provare a capirvi meglio tutti. Non credo di esserci riuscita, anche perché non ho mai trovato il coraggio di dirti che avevi ragione, e questo è il mio più grande rimpianto.”

Gabriele stava fermo a bocca aperta a fissare il fantasma.

La nonna si mise a ridere. “Voglio solo dirti che dovresti smetterla di sentirti in colpa, perché non è tua. Ma voglio sperare anche che tu abbia imparato dai tuoi errori, perché se provi senso di colpa è perché in fondo mi volevi bene e ti è costato starmi distante. L’hai fatto per te stesso e lo capisco, ma la prossima volta che tuo nonno ti chiederà di accompagnarlo da qualche parte, magari dirai la verità e non inventerai stupide scuse all’ultimo secondo.”

 

“P- Posso toccarti?”

“Non proprio.” La nonna si avvicinò a lui e fece scivolare una mano verso la sua, la mano era eterea, aria.

“Mi dispiace, nonna.”

“Lo so, tesoro. Mi spiace di averti osservato così tanto in questo periodo, ero preoccupata per te, ti vedevo così triste… Ora però capisco. Ti ho osservato tanto e ho visto quanto tu sia felice con quel Marco. Dovresti presentarlo a casa perché tua madre sarebbe felice di sapere che non sei solo. Anche il tuo lavoro, per me era strano, come la tua biscia lì, che non capisco come faccia a piacerti. Però non siamo tutti uguali, e finalmente credo di averlo capito. Adesso vieni, andiamo a dormire.”

Gabriele si diresse verso la camera assieme alla nonna. “Guarda che ti controllerò, sai. Non voglio più sentire scuse. Da domani dormi e non ci pensi più.”

Gabriele annuì, grato alla nonna per essersi rivelata a lui quella notte. Si mise sotto le coperte mentre gli cantava la ninna nanna di quando era bambino.

 

Il mattino seguente, Gabriele si svegliò quando il sole era già alto. Sarebbe arrivato in ritardo al lavoro, ma non gli importava: aveva dormito. Dopo due mesi finalmente aveva dormito.

Non sapeva se la visita della nonna fosse stata solo un sogno, ma si sentiva più leggero, più libero di vivere. “Grazie, nonna.” sussurrò.


I Maledetti

Mar. 1st, 2019 12:04 pm
quistisf: (Default)
Autore: Quistis (Fabi_)
Fandom: Originale
Genere: Soprannaturale (Vampiri)
Oneshot
  
I Maledetti


Tutti i bambini crescono, meno uno. (J.M. Barrie, Peter Pan)

 



Un mostro: a soli quattro anni suo figlio non era altro che un mostro.

Il dottor Verri stava osservando il piccolo Emilio, sangue del suo sangue, che dormiva nascosto nel buio della sua stanza. Quella mattina aveva tentato di tirarlo su dal letto, ma Emilio aveva ringhiato quando il padre l’aveva preso di peso per portarlo fuori dalla sua camera, si era disperato invece quando aveva aperto le serrande per fare entrare la luce.

Il bambino aveva emesso un urlo così forte da indurre il padre a richiudere il tutto in fretta. Sudava freddo, già da qualche giorno.

Il ricordo di ciò che era accaduto pochi giorni prima era ancora vivido nella sua mente: Angela, sua moglie, aveva fatto un incidente. Il dottor Verri era corso in ospedale con il piccolo Emilio per vedere come stava e l’aveva trovata sul letto, al buio, con una flebo in vena. L’aveva visitata e aveva subito constatato che qualcosa non andava, qualcosa era sbagliato in ciascuno dei risultati che rilevava dalle misurazioni. Era tornato il giorno dopo e quello dopo ancora e le cose non erano migliorate. L’aveva lasciata nella stanza con il figlio ed era andato a chiedere maggiori spiegazioni a chi l’aveva visitata.

 

Al suo ritorno, Emilio era a terra, sanguinava dal collo e dalla bocca. Angela era per terra di fianco al figlio, la bocca sporca di sangue.

“Ti voglio bene, resta con me…” Aveva detto Angela al piccolo, per poi rivolgersi al marito: “Mi dispiace tanto.” A quel punto Angela aveva preso il figlio in braccio e aveva tentato di uscire, ma il dottor Verri era riuscito a fermarla, a prendere il bambino dalle sue braccia mentre urlava di chiamare un dottore, una guardia, un’infermiera. Angela appariva stanca, sconvolta e indebolita dalla luce che aveva trovato una volta fuori dalla sua stanza buia.

Si era fermata e aveva iniziato a piangere. 

 

Quella notte, sua moglie era andata via dall’ospedale. Sparita come fumo nella notte. Nessuno l’aveva vista uscire, nessuno l’aveva notata nei corridoi, le porte erano rimaste chiuse. Eppure lei non c’era più. Aveva lasciato la finestra aperta come se avesse deciso di saltare dal sesto piano dell’ospedale per andare a trovare la pace che in quegli ultimi giorni pareva aver perso. Sembrava in costante lotta col mondo e con se stessa. C’erano stati dei segnali? Si chiedeva il dottore. Evidentemente no.

 

Una parola si continuava a formare nella mente del dottore, ma aveva troppa paura per pronunciarla. Una parola da film, da romanzo per ragazzi, da folklore: Vampiro. 

Il dottore continuava a scacciare l’idea balorda che però continuava a ripresentarsi da quando Emilio aveva iniziato a reagire in quel modo alla luce, da quando aveva iniziato a cambiare colorito, come era successo alla madre. 

 

Emilio appariva normale, il padre lo osservava dormire e il suo viso era sereno, disteso. Ma c’era ancora qualcosa che non andava. Non stava respirando. Non si muoveva, era morto. Era morto?

Il padre gli aveva cercato il battito premendo sul collo di Emilio con due dita. Non c’era battito. Il dottor Verri aveva fatto due passi indietro. Quando il figlio aveva aperto gli occhi, il padre era arretrato ancora. Gli occhi lucidi di pianto, di paura, di incredulità. Poteva essere vero? Un vampiro, veramente?

 

In quel momento, Angela era entrata nella stanza. Il suo volto appariva luminoso, il suo sorriso era sereno e sincero. Era bella, bella come quando l’aveva conosciuta. Aveva perso la stanchezza data dalla vita quotidiana, dal lavoro, dallo stress familiare.

 

“Ciao, Gianluca.”

Il dottor Verri non riusciva a proferire parola, aveva la bocca aperta ed era congelato dal terrore, aveva paura dei suoi pensieri, di quelle conclusioni insensate a cui aveva dato voce e che ora gli sembravano quasi verosimili. 

Sua moglie era una vampira? 

Non era possibile. 

I vampiri non esistono, sono solo leggende popolari. 

Il dottor Verri si ripeteva che tutto ciò che stava vivendo poteva molto più verosimilmente essere un incubo, non certo la realtà. 

Forse stava sognando, un lungo incubo che gli aveva fatto perdere tutte le persone che amava di più, quelle che nell’ultimo periodo aveva un po’ dato per scontate nella sua vita. 

 

Eppure lui si sentiva vivo, sveglio. Il suo cuore martellava come non mai nel petto, il respiro era veloce, l’adrenalina era in circolo e lui era pronto a scattare, a scappare, a urlare.

 

“Non c’è una cura, vero?” Aveva chiesto Angela, con un’espressione rassegnata. 

Il dottor Verri aveva deglutito. Si sentiva la bocca impastata, faceva fatica a parlare. “Cosa ti è successo?”

Angela aveva iniziato a parlare. “Cosa è successo, chiedi? Non sono sicura di ricordarmelo bene, è tutto così confuso… Durante la trasformazione facevo fatica anche a ricordarmi di voi, quando arrivavate nella stanza sentivo i vostri odori e mi chiedevo dove li avessi sentiti prima. A vedervi, pensavo di dovermi ricordare qualcosa, ma solo concentrandomi bene la memoria di voi tornava. Ero confusa, stanchissima. La luce mi faceva stare male. Il cibo mi dava la nausea. Quando mi hai lasciata sola con Emilio, lui è corso ad abbracciarmi appena tu sei uscito dalla stanza. Io dormivo, credo, o comunque ero incosciente in quel momento. Non so come si chiami il nostro sonno. 

Il suo profumo mi ha svegliata. È arrivato a me prima della memoria di mio figlio. La mia parte istintiva ha reagito mordendolo. 

Mi dispiace. 

Ora mi ricordo di voi. Ricordo a fatica dell’incidente, ma so che qualcuno era in piedi di fronte alla mia macchina e che quel qualcuno mi ha fatta fermare, mi ha morsa, mi ha lasciata in fin di vita. Ricordavo che mi avesse fatto bere il suo sangue, per questo ho fatto lo stesso con Emilio.”

 

“L’hai condannato.” Il dottor Verri non capiva come in una settimana avesse perso prima la moglie e poi il figlio. Era rimasto solo in quella casa, solo.

 

“Lo terrò al sicuro. Staremo bene. Verremo a trovarti, se lo desideri.”

 

Gianluca Verri era terrorizzato, ma aveva fatto qualche passo in direzione della moglie e aveva allargato le braccia. Non era sicuro che lei fosse sincera, ma aveva bisogno di lei, del suo calore umano che forse era andato per sempre.” La donna, per quanto fosse ancora possibile definirla tale, l’aveva abbracciato. Era fredda, ma il suo contatto non era così terribile per l’uomo, sembrava una bambola di porcellana. “Tienilo con te, non lasciare che gli succeda qualcosa di male.” 

 

“Sono sua madre.”

 

“Come vivrete?”

 

“Non farmi questa domanda. Non lo so. Ho evitato di pensarci per ora, ho scoperto che non devo mangiare spesso e che non devo necessariamente uccidere per sopravvivere.”

 

“Pensi che riuscireste a vivere qui con me?” Il dottor Verri osservava la moglie, che aveva un sorriso dipinto nel volto etereo. Era preoccupato, ma sentiva crescere in lui una sorta di serenità mentre pensava alla loro vita futura, mentre pensava che potevano essere insieme, nonostante tutto.

 

“Pensi che saresti tranquillo stando sotto lo stesso tetto di due vampiri in un appartamento?” Lei aveva riso.

 

“Penso che ci trasferiremo in una casa con una bella cantina.”

 

Angela sembrava felice. “Non adesso, però. Devo insegnargli a vivere. Molte cose sono… diverse.”

Emilio si era alzato dal letto, li osservava con agitazione, forse preda di sentimenti contrastanti, di sensazioni complicate.

 

Angela aveva preso per mano il loro bambino, quel piccolo mostro che sarebbe vissuto per sempre senza crescere, senza conoscere l’amore e l’adolescenza. Gianluca si era chiesto che cosa avrebbe fatto, come avrebbe spiegato l’assenza della moglie e del figlio, come avrebbe giustificato l’asilo? 

Ci avrebbero pensato insieme, in quel momento la cosa più importante era cercare una bella casa con una cantina spaziosa.

 

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