quistisf: (Default)
Fandom: Persona 5
200 parole
Personaggi: Sojiro Sakura
Slice of life
Partecipa al COWT 13


Nostalgia


Ormai era passato un mese da quando Ren era tornato a casa. Era la cosa giusta per lui, Sojiro ne era convinto, ma doveva ammettere di sentire la mancanza del ragazzo che aveva cambiato la sua vita, permettendo a lui e a Futaba di iniziare a vivere nel presente, senza più rimorsi. A volte quando entrava al LeBlanc la mattina, cercava di non fare rumore per non svegliarlo, per poi ridere nel ricordare che non c’era nessuno.
Stava davvero invecchiando.
Rimase per un attimo ai piedi della scala, la mano posata sulla parete e la sensazione di non volere entrare in un luogo privato, che non gli apparteneva più del tutto.
Che sciocchezza, pensò, questo posto è mio.
Una volta nella stanza, aprì la finestra per lasciare entrare la luce e per cambiare l'aria. Avrebbe fatto bene a pulire ogni tanto, per non doverlo fare quando Ren avesse deciso di tornare a Tokyo per qualche giorno, perché lì sarebbe sempre stato il benvenuto.
Le sue tracce erano ancora presenti: i libri sugli scaffali, una vecchia console e delle cartucce vintage con un biglietto per Futaba, e la pianta. "A Sojiro, ora prenditi cura di lei. Grazie di tutto, Ren."
quistisf: (Default)
Fandom: Persona 5
One Shot
Slice of life
Prompt: Monopoly
Parole: 1514
Partecipa al COWT 13


La scatola dei ricordi


Quando Futaba aveva visto la scatola vecchia e impolverata sullo scaffale del negozio, aveva urlato di gioia ed era corsa a prenderlo, spaventando Ren a morte.

“Questo è Monopoly, ci giocavo sempre con la mamma quando ero piccola!” Si era voltata a guardare il suo amico con la scatola di una vecchia edizione del gioco in mostra, stretta tra le mani, la speranza negli occhi: “Lo compriamo? Ci giochiamo insieme?”

Lui aveva provato a rifiutare la proposta, poiché nei suoi ricordi quello non era esattamente un gioco nelle sue corde, ma non sembrava che Futaba avrebbe accettato un no, infatti prima ancora di ascoltare la risposta, era già partita verso la casa con la scatola stretta tra le braccia.

“Torno questa sera che facciamo una partita!” Aveva proposto, o meglio, aveva deciso.

Rassegnato, Ren aveva accettato. “Magari chiamo qualcun altro, almeno ci provo…” Era piuttosto sicuro che nessuno dei Phantom Thieves avrebbe accettato di andare da lui a giocare. Forse avrebbe potuto provare a sentire Hifumi, ma non credeva fosse una buona idea, dal momento che lei e Futaba non si conoscevano e non era molto semplice stare con Futaba, soprattutto quando si lasciava andare alle dinamiche delle sfide, anche quando erano rappresentate da semplici giochi in scatola, visto quanto si era dimostrata competitiva, non accettava la sconfitta senza prima combattere con tutte le sue forze.

“Stasera chi c’è per una partita a Monopoly con me e con Futaba?” aveva tentato, cercando di suonare affabile.

“No, grazie. Devo studiare.” La risposta di Makoto era arrivata all’istante.

“Che cos’è Monopoly?” Yusuke, fuori dal mondo come sempre.

“Tu no, Inari. Stai a disegnare le tue cose.” Almeno lui aveva una scusa, pensò Ren senza tentare di convincerlo a partecipare alla serata, meglio che ne approfittasse.

“Io ci sto! Arrivo alle otto, è da tantissimo che non gioco.” Ann era sempre una buona compagnia e sapeva mettere Futaba a suo agio, non sarebbe stato male giocare con lei.

Nell’attesa della risposta di Ryuji, Ren era sceso ad aiutare Sojiro e a prendersi un caffè. “Futaba mi ha detto che stasera ha impegni.”

“Sì, ti ha detto del suo nuovo, fantastico acquisto?”

“No… devo preoccuparmi?”

“Io devo preoccuparmi, credo. Ha comprato Monopoly, mi ha anche spiegato che ci giocava con Wakaba e che ne ha un bel ricordo.”

Sojiro aveva iniziato a ridere a crepapelle. “Certo che me lo ricordo. Non vorrei essere inopportuno, ma posso unirmi a voi stasera?”

Ren era rimasto spiazzato dalla richiesta, ma aveva annuito. Aveva scritto semplicemente “Trovato il quarto giocatore!” nella chat, per poi continuare a lavare le tazze sporche del LeBlanc.

“Sarà interessante.” Aveva aggiunto Morgana, mentre si grattava la testa.

Quando Futaba entrò, facendo trillare il campanello della porta di ingresso del locale, ad accoglierla c’erano già tutti i partecipanti alla gara serale. Sojiro aveva preparato una cena per tutti. “Ti stavamo aspettando.” Le aveva detto, i piatti pronti da riempire e la tavola già pronta.

Avevano cenato con calma, chiacchierando del recente problema che aveva causato Medjed con quelle strane richieste ai Phantom Thieves.

“È la prima volta che ceniamo tutti insieme,” aveva osservato Ann. “E anche la prima volta che giochiamo tutti insieme, solo che non ho capito chi è il quarto…” Aveva guardato Morgana, che però aveva scosso la testa, ridacchiando.

“Giochiamo con Sojiro.” Ren aveva pronunciato la frase tra un boccone e l’altro, senza neppure sollevare la testa.

Futaba aveva lanciato un urlo di gioia, terrorizzando la povera Ann che non si era ancora abituata alle reazioni di entusiasmo della sua nuova amica. “Che bello, come ai vecchi tempi!”

Il gruppo aveva ripulito, mentre Futaba aveva iniziato a preparare la plancia di gioco.

“A me piacerebbe questo funghetto!” Ann aveva preso la pedina e l’aveva posizionata di fronte al suo posto.

“La mamma usava sempre la pera, io la mela. Perché lei era più alta e io più piccola. Le dicevo sempre così.” Futaba aveva preso entrambe le pedine e poi aveva posizionato la mela sulla plancia. “Questa la tengo come portafortuna.”

“Io invece usavo il fiaschetto.” Aggiunse Sojiro, scegliendo la pedina.

“Questo significa che io posso essere la candela, oppure questa bella piantina. Il verde porta bene, dicono. Pianta sia.”

La partita era iniziata in modo tranquillo: tutti compravano sistematicamente le proprietà sulle quali capitavano, sperando poi di riuscire ad accaparrarsi almeno un gruppo di proprietà complete sulle quali costruire le proprie case e poi gli alberghi.

Ren amava la competizione, ma quel genere di gioco non l’aveva mai attirato. Non gli piaceva l’idea di dovere fare aste per vincere le proprietà, come non amava il pensiero di guadagnare soldi alle spese di altri partecipanti basandosi sulla fortuna dei dadi. Lui amava la strategia e proprio perché conosceva le caratteristiche di Futaba si era chiesto come mai la sua nuova amica, così abile nell’uso delle sue doti tattiche, aveva scelto proprio un gioco basato sulla persuasione e sulle doti sociali, più che sulla strategia pura e mentale.

La partita era stata tutto sommato noiosa, fino a quando Ann non aveva convinto Sojiro a venderle Parco della Vittoria al costo nominale della proprietà, alla quale lei aveva aggiunto viale Costantino, sostenendo che gli sarebbe potuta essere utile per il futuro. Le capacità di persuasione della ragazza avevano avuto effetto, proprio come lo avevano sulle Ombre che combattevano ogni volta che andavano nel Metaverso, e in breve Ann aveva iniziato ad arricchirsi, grazie alle case e agli alberghi che aveva iniziato a costruire in tutte le sue proprietà.

Ren tutto sommato se la stava cavando discretamente, ma tra Sojiro e Futaba era in corso una sorta di guerra tra poveri. Come immaginava, Futaba al contrario di Ann non possedeva tecniche di persuasione adatte al gioco, la sua strategia non poteva avere effetto per il semplice fatto che non aveva mai avuto le carte per riuscire a vincere la partita e i dadi le erano stati tutt’altro che amici nel corso dei primi giri di gioco.

Nell’ipotecare una proprietà, Futaba aveva sbuffato sonoramente. “Questo gioco non è divertente come me lo ricordavo. Ed è anche parecchio lungo.”

Ann, al contrario, appariva così a suo agio nella sua ricchezza da sembrare una principessa malvagia. Morgana la stava osservando con adorazione, in silenzio per una volta.

Sojiro ridacchiava ogni volta che qualcuno capitava su una delle sue proprietà e chiedeva i soldi con fare solenne, perfettamente calato nella parte.

“Ho perso.” Aveva constatato Futaba nel tentare di vendere l’ultima delle sue proprietà. A quel punto i giocatori si erano guardati e avevano convenuto che la partita fosse durata abbastanza.

Ann si era proclamata vincitrice e Futaba le aveva regalato il gioco, sostenendo che non fosse stato divertente, ma accettando di fare una nuova partita insieme a lei in futuro, “Quando sarò più allenata a trattare con le persone.” Aveva proposto.

Sojiro si era offerto di accompagnare a casa la ragazza, dal momento che si era fatto tardi, e Futaba era rimasta rannicchiata sulla panca del LeBlanc.

“Bevi qualcosa prima di tornare a casa?” Le aveva chiesto Ren.

“Sai, quando ero piccola non giocavo così a Monopoly all’inizio. Le prime volte usavo le vie per inventarmi storie e la mamma le ascoltava.”

“Te ne ricordi qualcuna?” Le aveva chiesto.

“No. Ricordo poco di quel periodo, ma so che le mie pedine preferite erano sempre la mela e la pera, e so anche che la mamma all’inizio non voleva che giocassi così perché il gioco non era suo. Ora credo che fosse di Sojiro. Lui però non mi ha mai detto niente di male. Non si è mai lamentato.”

Ren si era seduto di fronte a lei. “Ti è dispiaciuto giocare così? Con le regole?”

Lei aveva scosso la testa. “No, dopo un po’ la mamma mi ha insegnato le regole giuste. A me non piacevano e ne avevo proposte di migliori, ma lei mi ha convinto a stare alle regole come tutti, anche se non mi piacevano.”

“Credo sia una cosa importante.”

“Tu le assomigli, sai?”

Ren non sapeva cosa dire. “A Wakaba?”

“Sì, perché mi proteggi da quello che mi fa paura e mi aiuti ad accettarlo. Anche adesso coi Phantom Thieves mi stai aiutando a prendermi cura di voi, usando i miei punti di forza per la squadra. Io sono contenta di poter stare insieme a voi, di combattere insieme.”

“Non c’è niente di male a voler passare del tempo seguendo le proprie regole, a volte.”

“No, lo so. Infatti mi sono un po’ pentita di avere lasciato il gioco a Panther. Quasi quasi domani glielo chiedo indietro per farmi una partita come quando ero piccola. O semplicemente per inventarmi delle regole migliori.”

“Oppure potremmo fare un altro gioco, uno adatto ai tuoi punti di forza.”

“Come il gioco dei mimi!” Aveva proposto scherzando Futaba. “O Pictionary, quello che piacerebbe tanto a Inari dove si fanno i disegni!” Futaba aveva sollevato l’indice. “Ho un’idea…”

Quando Sojiro era tornato, pochi minuti dopo, li aveva trovati seduti sul tavolo a scrivere una lunga lista. Il titolo era GIOCHI DA PROVARE CON REN E SOJIRO.
quistisf: (Default)
Fandom: Persona 5
One shot
Partecipa al COWT9
Prompt: Arcani maggiori
Note: In Persona 5 ogni personaggio è associato a uno degli Arcani Maggiori, che ne determina le caratteristiche.

Afficionado
La Veggente
Sadayo
Il Tonfo
Doubts
Il test
Yaldabaoth


 
"There are probably a lot of people who have high hopes for the Phantom Thieves' next move. So I've also implemented an anonymous poll on the site. "Do you believe in the Phantom Thieves, or not?""

—Yuuki Mishima, Persona 5
Dopo aver confessato ad Amamiya e a Sakamoto ciò che veramente accadeva con Kamoshida, Yuuki si era sentito più leggero.
Arrivato a casa, si era domandato perché tutti continuassero a mantenere il segreto, visto che la gloria per le vittorie della squadra di pallavolo era tutta per il professore, loro, che si impegnavano al massimo per ottenere risultati, spesso sforzandosi più di quanto sarebbe stato accettabile in una scuola, non avevano che rimproveri e vessazioni continue. Dove era la soddisfazione che avevano l’anno precedente? Quando prima che arrivasse Kamoshida la squadra non vinceva sempre, ma almeno era unita e non cercavano continuamente di incolparsi a vicenda per evitare di dover subire le ire del loro allenatore.
Quei due avevano ragione e il giorno seguente Yuuki avrebbe parlato anche con gli altri della squadra, avrebbe tentato di mettersi in prima linea per trovare una soluzione.
Shiho aveva pagato le conseguenze delle paure della squadra. Il solo pensare di essere stato lui a mandarla nell’ufficio di quel maiale lo faceva stare male. Aveva la nausea da quando aveva visto la ragazza volare giù dal tetto della scuola e si chiedeva cosa avrebbe potuto fare per evitare quella situazione. Lui, un codardo. Sapeva benissimo che non avrebbe mai veramente agito, nemmeno quando lui era stato colpito dalla crudeltà di Kamoshida era stato in grado di reagire.
Era un debole, lo era sempre stato e la cosa non sarebbe cambiata da un giorno all’altro, ma Yuuki avrebbe provato a lavorarci.
 
Il giorno seguente a scuola aveva visto tutti quegli strani adesivi:
Ruberemo il tuo cuore
Sig. Suguru Kamoshida
Il lussurioso bastardo
Speriamo che tu sia pronto.
the Phantom Thieves of Hearts
 
Dal giorno seguente, Kamoshida non si era più presentato a scuola e Yuuki immaginava, sebbene fosse quasi assurdo, potesse esserci una correlazione tra quei biglietti e l’improvvisa malattia del professore, ma non riusciva a immaginare come qualcuno potesse rubare il cuore di qualcun altro.
Aveva osservato Amamiya, Sakamoto e Takamaki e li aveva visti più sereni, soddisfatti. Ann l’aveva anche ringraziato per aver detto loro la verità, anche se era chiaro che pensava fosse troppo tardi.
 
Aveva avuto la certezza che i Phantom Thieves fossero loro solo il giorno della confessione di Kamoshida. Come potevano avere fatto? Le domande continuavano a frullargli in testa, ma non otteneva alcuna risposta, perché quello che avevano fatto era semplicemente impossibile.
 
Mishima aveva preso coraggio, era andato da Ren a chiedergli come avessero fatto a rubare il cuore del professore e se avessero in mente un nuovo obiettivo.
“Voglio aiutarvi,” gli occhi gli brillavano, conscio che avrebbe potuto farlo veramente.
Ren aveva negato. “Non so di cosa tu stia parlando, mi sembra una roba da film, non crederai davvero che sia possibile rubare i cuori della gente, vero?”
Yuuki aveva ignorato le sue negazioni, era sicuro che lui fosse uno di loro e non aveva certo bisogno di conferme, anche se avrebbe voluto avere almeno qualche risposta. “Il Phantom Afficionado Website, sarà un sito nel quale la gente potrà commentare, in più posterò anche dei sondaggi per aiutarvi a trovare il nuovo obiettivo, per aiutarvi.”
A Mishima non era sfuggito lo sguardo sorpreso di Amamiya, era evidente che l’avesse preso sottogamba, ma lui non era un semplice fan e non sarebbe stato un peso per loro, al contrario: li avrebbe aiutati, finalmente aveva uno scopo nella vita.


 





Sin da piccola, Chihaya aveva avuto delle intuizioni difficili da attribuire al caso.
Riusciva sempre a capire cosa stesse per succedere e non sapeva spiegarsi come facesse a indovinare ogni volta. Sua nonna le aveva raccontato di avere lo stesso dono. “L’ho sentito in te quando ti ho vista per la prima volta.” E un giorno le aveva regalato un mazzo di Tarocchi.
Chihaya li aveva trovati splendidi: i colori vibranti la attiravano e i disegni erano a volte quasi spaventosi, ma in ciascuno di essi lei vedeva bellezza e opportunità.
Appena aveva toccato le carte, aveva sentito un calore diffondersi nel suo corpo a partire dalle sue mani, come se quegli arcani fossero sempre stati parte di lei, come se prima le fosse mancato qualcosa.
La nonna l'aveva invitata a mescolarle, a sentirle sulle mani una a una e a fare amicizia con le carte per avere la loro fiducia, perché non la tradissero quando chiedeva loro di avere le risposte che cercava.
Chihaya aveva sentito dentro di sé che l'avevano accettata quasi subito e, quando si era sentita pronta, aveva preso una carta e l'aveva messa sul tavolo di fronte sé.
"Come immaginavo," La nonna sembrava contenta. "Sai cosa significa?"
"Che il destino può cambiare?"
"No, Aya, significa che il destino non cambia, che dobbiamo accettare i cambiamenti della nostra vita, che non è altro che un piccolo frammento nel disegno cosmico del destino. La carta ti dice che questo è il tuo destino e ti invita ad accettarlo e a compierlo."
Chihaya sentiva da sempre la voce dell’universo e aveva accettato la sua sorte sin dalla prima volta che ne aveva avuta la possibilità, quando aveva aiutato una delle sue amiche a capire cosa desiderasse sua madre per il compleanno.
"Pensi di poter accettare un destino così bello e così difficile?"
"Sì."
"Sai che qualcuno potrebbe non capire e avere paura delle tue facoltà, anche la tua mamma forse. Quindi stai attenta. Se hai dubbi, chiedi aiuto alle carte, loro non ti mentiranno, se seguirai il tuo destino."
Chihaya l'aveva abbracciato, ma aveva ascoltato il consiglio della nonna e non aveva mai fatto previsioni apertamente, soprattutto non aveva mai usato le carte in pubblico.
Un giorno però tornando a casa aveva avuto una pessima sensazione: il suo sguardo continuava a essere catturato da un condominio che vedeva ogni giorno tornando da scuola e non l'aveva mai notato, non così. In particolare osservava una finestra e continuava a pensare alla distruzione.
Era corsa in camera sua a tirare fuori le carte, mentre l'inquietudine dentro di lei continuava a crescere, e aveva chiesto loro di aiutarla a capire. Aveva estratto la torre, la distruzione, e subito dopo la morte rovesciata: sciagura, morte, esplosione. Aveva visto tutto nella sua mente.
Aveva capito subito ed era corsa da sua madre con le lacrime agli occhi: "Mamma, il palazzo, quello laggiù, esploderà, dobbiamo fermarlo."
Sia madre la guardava come se si fosse appena svegliata da un incubo
"Cosa? Calmati, Aya, cosa stai dicendo?"
"L'ho visto."
Chihaya era corsa fuori e uscita sulla strada. Il condominio era uno dei più grandi nel loro paese e di certo se fosse successo qualcosa sarebbe stato un disastro, sia per la gente per le strade che per gli abitanti del condominio.
Era corsa a suonare a tutti i campanelli, chiedendo agli abitanti di uscire e di chiamare i pompieri.
C'era gente ovunque, qualcuno era preoccupato, altri erano semplicemente curiosi di capire cosa volesse quella bambina.
I pompieri avevano fatto un controllo e in effetti avevano riscontrato un'importante fuga di gas.
"Hai sentito l'odore?" Chihaya, che da ore urlava disperata finalmente si stava calmando, ora che le avevano detto che grazie a lei era andato tutto bene, ma si chiedeva se fosse davvero quello il suo destino: l'essere trattata da pazza dalla quasi totalità della gente.
Quando erano tornate a casa, sua madre le aveva chiesto come avesse fatto a sentire l'odore di gas da quella distanza e Aya aveva scosso la testa. "Non lo so, io... l'ho sentito."
Sua madre non aveva messo in dubbio quelle parole, anche se aveva capito che sua figlia molto probabilmente possedeva lo stesso dono di sua nonna, la maledizione che l'aveva costretta a cambiare casa da ragazza. Sperava che lei l'avrebbe superato, perché sua madre sapeva quanto la sua Aya fosse speciale e l'avrebbe protetta a ogni costo.




 
 
Sadayo aveva chiesto a Takase di presentarsi nel suo ufficio dopo la scuola. Si sentiva in colpa per ciò che avrebbe dovuto dirgli, sotto ordine del preside, e aveva pensato di tentare di conoscere le sue ragioni prima di chiedergli gentilmente di andarsene da quella scuola, cosa che avrebbe semplicemente fatto partire un circolo vizioso che avrebbe ridotto il povero ragazzo a cambiare parecchie scuole e a finire col perdere la possibilità di completare gli studi.
Takase era entrato nella sala professori con uno sguardo spaventato, sembrava avere capito ciò che lo aspettava ed era evidente che fosse rassegnato a eseguire gli ordini della sua professoressa.
"Buongiorno, Takase."
"Buongiorno professoressa Kawakami." Lei l'aveva invitato a sedersi.

"Parliamoci chiaro, Taiki, sei qui perché i tuoi voti sono i peggiori della scuola e tu sai benissimo che così non si può andare avanti."
Il ragazzo teneva gli occhi bassi, si osservava le mani rovinate dal contatto con l'acqua. "Lo so... Solo che io non riesco a fare meglio. Vorrei andare meglio, ma devo lavorare da quando i miei genitori sono morti, se non lo facessi non potrei venire a scuola."
Sadayo aveva sentito un groppo allo stomaco nel constatare quanto il ragazzo all'apparenza duro e svogliato sembrasse tenere alla propria istruzione. "Quante ore lavori a settimana?"
Lui aveva iniziato a contare sottovoce. "Di solito almeno trentacinque, a volte di più..."
"Cosa? Ma è un lavoro a tempo pieno!"
"Sono tre part time."
Sadayo aveva intenzione di parlare al preside della situazione difficile di Takase, ma aveva l'impressione che a lui non importasse conoscere le motivazioni dietro lo scarso rendimento del ragazzo, voleva soltanto liberarsi del problema per mantenere alte le medie della scuola.
"Ti posso aiutare io, dare qualche lezione privata. Gratuita, ovviamente. Perché il tuo impegno mostra dedizione e ti meriti un aiuto."
"Grazie, professoressa Kawakami." Taiki si era alzato e aveva fatto un inchino in segno di referenza.
"Di niente, fammi avere una lista dei tuoi orari liberi e faremo un piano per le lezioni private."
Il ragazzo sembrava sollevato, e Sadayo sentiva che era proprio con quel genere di studenti che aveva la possibilità di dimostrare la sua dedizione al lavoro di insegnante che aveva scelto anche per poter aiutare i ragazzi più bisognosi di attenzione e di tempo. Non avrebbe lasciato perdere, avrebbe combattuto con Taiki per la sua promozione.
"Ora devo andare al lavoro, grazie, davvero."
Il preside non aveva accolto con gioia l'iniziativa di Sadayo, ma le aveva detto di fare come credeva.
I due si incontravano tre volte a settimana. La professoressa si era impegnata a fargli recuperare alcune materie, partendo da quelle per le quali doveva recuperare di più e recuperando man mando e stava avendo dei risultati che qualcuno avrebbe potuto definire mediocri, ma che vista la situazione di Takase erano in realtà ottimi.
Il ragazzo era sempre più stanco, ma si impegnava più che poteva per far sì che l'impegno di entrambi non fosse vanificato dal suo fallimento, che quasi tutti si aspettavano.
Le aveva raccontato dei suoi tutori, che non si prendevano cura di lui dal punto di vista economico e l'avevano praticamente lasciato a se stesso, consci del fatto che in quel modo non sarebbe stato in grado di diplomarsi. Lui però si era rimboccato le maniche e aveva iniziato a lavorare per mantenersi. Sadayo lo considerava uno dei ragazzi più forti che conosceva.
Purtroppo in quel periodo le voci sul conto di Takase avevano iniziato a moltiplicarsi e qualcuno aveva iniziato a insinuare che il ragazzo fosse coinvolto in affari loschi non ben definiti. Le chiacchiere erano arrivate anche al preside che l'aveva convocata.
"Può scegliere: o lascia perdere il ragazzo o io mi vedrò costretto a perdere un'insegnante che rispetto a causa di un piccolo delinquente che non merita il nostro tempo."
Sadayo si era trovata con le spalle al muro. Non voleva lasciare Takase a se stesso, ma non poteva perdere il suo lavoro, non riusciva a immaginare di dover rinunciare a tutta la sua classe, ai ragazzi che aveva portato a crescere fino a quel momento, per lui.
Avrebbe trovato un modo per aiutarlo.
"Se vuole restare, glielo deve dire adesso." Il preside le aveva indicato il telefono del suo ufficio. "Lo chiami e gli dica che non potete continuare con le lezioni private."
Sadayo aveva avuto l'impulso di andare via sbattendo la porta. Per lei era impensabile che un preside decidesse in modo volontario di lasciare che uno studente, forse non troppo promettente, ma comunque proveniente da una situazione difficile, venisse abbandonato dal sistema scolastico che avrebbe dovuto invece tutelarlo.
Era combattuta, ma sapeva che avrebbe sistemato le cose, avrebbero fatto di nascosto, bastava solo che lei lo chiamasse e poi avrebbero parlato di persona, le cose potevano ancora risolversi.
"Pronto, Takase. Sono Kawakami. Mi dispiace, ma non posso più darti le mie lezioni private..."
Il ragazzo aveva salutato con entusiasmo quando aveva sentito la voce della professoressa, per poi attaccare immediatamente appena aveva compreso il motivo di quella chiamata.
Avrebbero trovato una soluzione. Lei nel peggiore dei casi avrebbe pagato un tutor al ragazzo e le cose sarebbero andate bene. Ci voleva solo un po' di tempo.
Il giorno dopo Sadayo leggendo il giornale aveva appreso la terribile verità. Non avrebbe avuto altro tempo per risolvere le cose con Taiki, perché quel ragazzo problematico non c'era più. Complici la forte pioggia e la stanchezza accumulata lavorando era andato a sbattere contro un mezzo pesante e aveva perso la vita.
Sentiva che la colpa era sua.
 
 
 


 

Di nuovo il tonfo.
Quel rumore terribile e cupo che l'aveva accompagnato per anni nelle sue notti piene di incubi era tornato a tormentarlo.
Da un paio di notti, Akechi si svegliava di soprassalto, spaventato da quel rumore.
Poteva ricordare quel giorno come se fosse appena successo: era solo un bambino, ancora quasi innocente ed era appena tornato da scuola. La mamma non era andato a prenderlo e lui ci era rimasto male, ma era ormai abituato alla sua assenza costante. Da quando il padre se n'era andato lei non era più stata la stessa persona.
Era sempre stanca, nell'ultimo periodo aveva anche smesso di cucinare e Goro si trovava a mangiare soltanto del riso bollito a cui lui cercava di aggiungere qualcosa per dare un po' di sapore. Doveva chiederle di lavare i suoi vestiti, perché lui non era capace di farlo e spesso si ritrovava con la divisa della scuola sporca la mattina ed era costretto a mettersela comunque.
Quando era entrato in casa aveva visto la mamma in cucina, stava piangendo distesa sul pavimento. "Goro, vieni qui, vieni dalla mamma." Lui le era andato incontro, preoccupato.
"Stai male, mamma?" Le aveva domandato, sempre più terrorizzato nel constatare che non rispondeva e continuava singhiozzare.
"Goro, amore, non preoccuparti per me. Non è colpa tua."
Il bambino si era messo a piangere. Per quanto provasse a capire cosa avesse sua madre, non riusciva a fare nulla per farla stare meglio. L'assenza del padre l'aveva buttata completamente a terra e lei aveva anche smesso di andare a lavorare.
"Vado a fare i compiti." Goro se n'era andato lasciandola distesa sul pavimento della cucina. In quel momento non stava piangendo.
Poi aveva sentito la porta del terrazzo che si apriva e aveva guardato fuori dalla finestra della sua camera, che dava sul terrazzo. Aveva visto sua madre in terrazzo, si stava sporgendo per guardare giù e lui non ne comprendeva il motivo.
Aveva pensato di andare a farle compagnia, anche perché sentiva addosso un brivido di inquietudine che non riusciva a scacciare. Quando era arrivato di fronte alla porta del terrazzo, aveva fatto giusto in tempo a incrociare con lei lo sguardo per un unico, eterno, istante, prima che lei si lasciasse andare e volasse come un angelo fino a colpire l'asfalto. Quel suono cupo che lui avrebbe ricordato per sempre.
Crescendo aveva capito che sua madre era depressa, ma ovviamente da bambino non avrebbe potuto immaginarlo e per un lungo periodo aveva incolpato se stesso della sua morte.
Goro era corso fuori dall'appartamento e aveva preso l'ascensore per scendere i cinque piani che lo separavano da lei. Era lì per terra, in una strana posizione innaturale, contornata da un'aura di sangue.
Subito una signora l'aveva preso per portarlo via di lì. L'aveva preso in braccio e tenuto con sé per un tempo che a lui era sembrato indefinibile. Era eterno e breve allo stesso tempo, perché Goro non riusciva a pensare e aveva passato quel tempo a farsi sempre la stessa domanda: Perché? Perché?
Non era giusto, Non meritava il destino che si era ritrovato a dovere sopportare.
Anche anni dopo, quando il suo piano per vendicarsi finalmente si era delineato e lui iniziava a pensare che avrebbe potuto portarlo a compimento, si domandava se il suo nuovo potere non fosse un modo della giustizia di ripagarlo della sua pessima infanzia, di tutte le famiglie affidatarie che aveva dovuto sopportare, di sua madre, troppo debole per la vita, e di suo padre, un uomo che presto sarebbe stato costretto a riconoscere la sua esistenza.
Tutto sommato forse era vero che c'era una giustizia che comandava le vite degli esseri umani e dopo tutta la sua sofferenza, dopo tutti i suoi sforzi per prendere ciò che gli spettava, finalmente qualcosa di inaspettato in senso positivo era successo: Goro Akechi era diventato un Dio.
 
 
 
 



 
 
 

 
 
 
La prima volta che Sojiro aveva incontrato Ren, aveva notato il suo sguardo era profondo e sincero e si era convinto di aver fatto la scelta giusta, perché forse aveva ragione, forse le cose non erano andate come dicevano.
Sojiro aveva letto della faccenda ed era andato subito a informarsi dai suoi vecchi colleghi. Quando Wakaba era stata uccisa, lui era certo che non si fosse suicidata, si era ripromesso di fare tutto ciò che era in suo potere per farla pagare al mandante ed era convinto di avere bene in mente chi fosse. Aveva seguito le mosse di quell'uomo e per questo alla fine si era ritrovato a osservare il processo al ragazzo, che era stato praticamente una farsa.
Non poteva essere un caso che improvvisamente la testimone avesse cambiato completamente idea e che questo avesse messo il ragazzo in una pessima posizione, confermando le dichiarazioni di quel vile che non aveva neanche messo il suo nome o la sua faccia nel rovinare il futuro a un ragazzo che, ormai ne era quasi convinto del tutto, era innocente.
Quando aveva accettato di prendersi cura di lui, Sojiro non sapeva con chi avrebbe avuto a che fare: poteva essere davvero un delinquente, una testa calda che non vedeva l'ora di attaccare briga con chiunque gli si presentasse di fronte, ma solo il pensiero che il ragazzo fosse stato incastrato l'aveva spinto ad agire.

 
La sua famiglia sarà ben lieta di liberarsi di lui, non hanno opposto resistenza quando è stato condannato. Sicuro di volerti tenere sulle spalle un fardello simile, Sakura?
 
E Sojiro aveva confermato di volere avere in affido il ragazzo. Lo doveva a Wakaba, era come se prendere lui con sé avrebbe potuto in parte cancellare le colpe che sentiva di avere con lei, per non averla salvata. Poteva aiutare qualcuno a ripararsi dall'oscurità di cui quel tale Shido si circondava. Non poteva neanche immaginare che la gente intorno a lui riuscisse a credere alle sue fandonie, invece sembravano tutti incantati da quel suo modo di fare da politico nuovo, da uomo onesto trascinato in un mondo corrotto che non accettava, quando in realtà si era macchiato di crimini terribili, perché aveva ucciso lui Wakaba, ne era sicuro.
 
 
Quel ragazzo sembrava arrabbiato, era vero, ma chiunque al suo posto lo sarebbe stato. Non gli avrebbe neanche domandato se avesse davvero assalito quel tipo, non gli interessava. Se davvero l'avesse fatto probabilmente gli avrebbe raccontato una bugia e a Sojiro non serviva una rassicurazione, era capacissimo di rendersi conto da solo del valore del ragazzo e in tutta sincerità anche lui avrebbe assalito quell'uomo se ne avesse avuta la possibilità. Gli aveva riferito la sua unica richiesta: "Non creare problemi."
 
Col tempo forse gli avrebbe fatto le dovute domande, nel frattempo si sarebbe limitato a osservarlo, senza interferire, dandogli la possibilità di esprimersi e aiutandolo quando glielo avesse chiesto. Era giusto dargli questa opportunità di dimostrarsi per ciò che era dandogli la libertà di farlo secondo i suoi termini e i suoi tempi. Solo così l'esperienza avrebbe potuto essere positiva per lui.
Sojiro sentiva che se avesse scommesso di credere in lui, il ragazzo non l'avrebbe deluso.
 




 
 
Tae non era il tipo di persona che si arrende di fronte ai problemi, ma quella volta sentiva di non avere voce per decidere.
"Io sono contraria, vorrei che la mia posizione fosse chiara a tutti. È troppo presto per la sperimentazione di quel farmaco. Va perfezionato, ci sono ancora dei test da fare e io non credo sia il caso."
"Non è il tuo progetto, dottoressa Takemi, è di tutto il gruppo di ricerca, io ho deciso che si può fare e si farà, soprattutto se l'unica a opporsi sei tu. Preoccupati di annotare i dati in questa fase e non lamentarti mai più."
Il dottor Shoichi Oyamada sembrava voler sfruttare la sua posizione per decidere da solo come agire. Forte della presenza del padre e dello zio nell'ospedale, era diventato direttore prima di raggiungere una sufficiente maturità e questo rischiava di ricadere sui pazienti.
Aveva dei meriti, certo, ma il suo comportamento quando qualcuno gli andava contro ricordava quello di un bambino viziato che si vede negata una caramella.
Tae era giovane ed era entrata in quel progetto per le sue doti nella chimica farmaceutica, superiori a quelle di tutti i medici che avevano partecipato alle prime fasi dell'esperimento.
Quel pomeriggio era andata a pregare al tempio Meiji perché i test continuassero in modo positivo.
La paura più grande di Tae era che i fisici debilitati dei malati non avrebbero retto il principio attivo del farmaco e la cosa avrebbe potuto debilitarli ulteriormente, rendendo quindi la guarigione impossibile. Andava fatto prima un esperimento su soggetti sani, o almeno un po' meno gravi di quella ragazza, la piccola guerriera che Tae andava spesso a trovare in camera, tra una somministrazione e l'altra.
Dopo soli due giorni, Tae aveva cercato di convincere il dottor Oyamada a fermare il progetto, spiegando che lo stato dei pazienti era peggiorato, e gli esami ne confermavano la debilitazione. La ricercatrice era stata messa a tacere con la minaccia di essere cacciata e lei aveva accettato di non opporsi, continuando lei stessa a somministrare il farmaco.
Il quinto giorno, la domenica, aveva ricevuto una chiamata nella quale veniva informata che il test era concluso e che lei non si sarebbe più dovuta preoccupare di presentarsi al laboratorio. L'avevano licenziata.
L'unica contraria, a ragione viste le prove, era stata scelta per pagare al posto dei veri responsabili. Si aspettava che sarebbe potuto succedere, ma la cosa non la rendeva certo meno furibonda.
Il giorno seguente, Tae aveva cercato di entrare nel laboratorio a prendere le sue cose, ma era stata fermata all'ingresso dell'area privata: "Gliele manderemo a casa il prima possibile. Non si preoccupi."
"Sta dicendo che non posso recuperare le mie cose? Almeno me le faccia avere adesso. E mi faccia parlare con Oyamada.
Alla fine, dopo qualche telefonata, la receptionist l'aveva invitata a recarsi all'ufficio del supervisore, che aveva trovato seduto, solo e rosso in volto. Lo sguardo di chi prova vergogna, ma ha perso ogni dignità.
"Avete avuto un bel coraggio a scacciarmi. Ero l'unica contraria alla vostra idea."
 
"Ma c'era la tua firma, Takemi, sui fogli del test." Il vile uomo sorrideva, a metà tra l'imbarazzato di chi sa di mentire e il soddisfatto di chi ha portato a termine un piano ben definito. Ne era uscito vincitore e lei aveva solo le sue parole contro quell'uomo e tutti gli altri, che di sicuro si sarebbero lasciati convincere piuttosto in fretta a usare lei come capro espiatorio e poi a dimenticarla. A fare finta che non fosse mai esistita.
A pensare che fino a qualche giorno prima Tae rideva con loro, passava il suo tempo con loro, raccontava loro le sue giornate e i suoi desideri. Ed ecco come era stata ripagata: con bugie e occhiate sfuggevoli.
"Il nome sul medicinale è comunque tuo. Sai perché il test è stato interrotto?"
"No, ma presumo per ciò che avevo detto e dimostrato?"
"Sarebbe stato bello, per te. Invece no: Miwa è morta. Ecco perché abbiamo smesso."
Tae era distrutta, non riusciva a capire come superare quel momento. Avrebbe dovuto combattere con le unghie e con i denti per farsi valere, doveva andarsene lei per impedire questo terribile epilogo che le aveva fatto perdere tutto: il lavoro, la passione, la fiducia nelle sue possibilità e, soprattutto, la sua dolce, piccola guerriera, la sua Miwa-chan.
 
 
 
 



Yaldabaoth
Yaldabaoth
La memoria di Igor era ancora molto confusa: si era risvegliato in quella prigione buia, senza finestre, la cui porta sembrava essere sbarrata da incanti e da lucchetti di ogni genere. Si sentiva molto stanco, come se avesse compiuto un grande sforzo prima di essere imprigionato. Qualcosa di importante.
Dopo aver atteso per giorni, i ricordi avevano iniziato a ritornare.
Quando l'essere si era presentato nella Velvet room, Igor l'aveva accolto come sempre aveva fatto con tutti: con educazione e curiosità. Lavenza si era innervosita, invece, era evidente che la sua creatura fosse stata più attenta di lui in quel caso.
"E così tu saresti il proprietario di questo posto?" Yaldabaoth lo osservava con supponenza. "Direi che mi piace qui, anche se ci sarebbe bisogno di una piccola aggiustatina all'arredamento."
"Posso sapere il motivo della sua visita, esimio Yaldabaoth?"
"Ma certo," il divino essere si era seduto di fronte a Igor. "Sono qui perché abbiamo un interesse in comune: l'umanità. Ho sempre avuto il desiderio di metterli alla prova per capire se davvero meritino il libero arbitrio o se invece farebbero bene a non avere la possibilità di scegliere. Mi piacerebbe governarli come un giusto Dio."
Igor cominciava a capire, sapeva di avere poche possibilità di fare qualcosa contro un essere come Yaldabaoth e temeva che per quanto si fosse impegnato avrebbe comunque perso. Quindi aveva radunato le sue forze mentre il Dio, il Sacro Graal raccontava il suo piano studiato nei dettagli, stava impiegando quel tempo prezioso a raccogliere la speranza dell'umanità e a darle forma. Come in passato era riuscito a dare vita a Margaret, a Elizabeth, a Theodore e infine a Lavenza, stava formando Morgana: la speranza, l'unica che restava all'umanità.
Nel frattempo il Dio raccontava di come avesse individuato un Trickster: un ragazzo guidato dall'Arcano del Matto, che l'avrebbe aiutato a testare l'umanità, iniziando il suo percorso verso lo scontro con la sua nemesi che sarebbe stato inevitabile, grazie a lui.
Non c'era molto tempo prima che Yaldabaoth si stancasse di parlare, il processo di creazione forse non sarebbe giunto al termine in tempo. Lavenza, che aveva capito che cosa stava succedendo, aveva allora attirato l'attenzione del Dio.
"Non cederemo tanto facilmente, non hai in diritto di giocare con il destino dell'umanità nonostante la tua natura divina.” Lavenza aveva lanciato un incantesimo contro il Dio, certa che non avrebbe funzionato.
Yaldabaoth aveva parato il colpo senza sforzo e aveva risposto con un unico incanto che l’aveva messa fuorigioco. Rideva, conscio che contro il suo potere non avevano speranza di vincere.
"Veniamo a lei, signor proprietario: non si deve preoccupare, quando avrò completato il mio piano le restituirò questo luogo al quale pare essere così affezionato."
Igor aveva fatto in tempo a sentire la nascita della creatura nel suo cuore prima di cedere all'incanto di Yaldabaoth.
 
Non c'erano vie d'uscita da quella prigione, per quanto ne cercasse.
Si chiedeva cosa fosse successo a Lavenza e purtroppo la risposta più plausibile a quella domanda non gli piaceva per niente: Yaldabaoth poteva benissimo averla uccisa, perché se così non fosse stato di certo lei sarebbe andata a liberarlo.
Era anche possibile che l'avesse imprigionata da qualche parte, ma dove. Concentrandosi Igor avrebbe forse potuto sentire la sua presenza, ma era ancora troppo provato dalla creazione per riuscirci.
Tutto ciò che poteva fare era aspettare e affidarsi alla speranza. E con lui tutto il resto dell'umanità.
 

Profile

quistisf: (Default)
quistis

April 2025

S M T W T F S
  1234 5
678 9101112
13 141516 17 18 19
20212223242526
27282930   

Syndicate

RSS Atom

Most Popular Tags

Style Credit

Expand Cut Tags

No cut tags
Page generated May. 13th, 2025 10:35 am
Powered by Dreamwidth Studios