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Prompt: Leggi
Fandom: Persona 5
Personaggi: Goro Akechi
Genere: Introspettivo
Partecipa al COWT 13

La mia giustizia

Che senso ha rispettare la legge a ogni costo, quando puoi piegarla a tuo uso senza conseguenze? Si chiede Goro Akechi mentre sorride di fronte all’obiettivo della telecamera che lo sta riprendendo.
“A soli quindici anni questo studente ha iniziato la sua carriera di nuovo Detective Prince risolvendo un caso impossibile, che aveva fatto brancolare nel buio detective con anni di esperienza alle spalle.” Gli viene da ridere nel sentire le frasi stantie del giornalista. Lo disprezza, ma non lo ammetterebbe mai. Del resto non può dire come è venuto a conoscenza della verità e in fin dei conti se lo facesse non ci crederebbe nessuno.
Si immagina mentre parla del mondo cognitivo e delle sue capacità fuori dal comune che gli permettono di farsi dire la verità dai criminali e di conoscere dettagli privati che a volte gli stessi colpevoli non ricordano. Nel Metaverso le ombre vivono soprattutto grazie a quella colpa e non dimenticano.
Quando ha scoperto il suo potere, Goro ha pensato di andare a cercare suo padre e di renderlo pazzo, proprio come ha già fatto con il gestore della casa-famiglia nella quale era stato maltrattato da piccolo. Era andato nei Memento - ancora non li chiamava così, per lui erano la coscienza collettiva - e le sue aspettative erano state premiate. Un piccolo crimine per fare rispettare le sue leggi personali, quelle di fronte alle quali il Detective Akechi non transige. Si è procurato un modo per conoscere l’uomo senza morale che gli ha tolto l’infanzia.
Finalmente ha la possibilità di incontrarlo faccia a faccia. Masayoshi Shido, la causa della morte di sua madre, è di fronte a lui e lo guarda con un sorriso che Goro vorrebbe spezzare con un colpo di pistola. Non può ucciderlo, però. Non ancora. Suo padre non sa ancora chi lui sia veramente, ma ascolta la sua proposta con vivo interesse. “Sarebbe un peccato non sfruttare questo potere così speciale per ottenere qualche vantaggio, no?” Gli chiede.
Il politico continua a sorridere, ma nei suoi occhi Goro vede la bramosia di un uomo che ha sempre avuto ciò che desidera. Al contrario di lui, suo padre ha calpestato ogni persona che gli si è parata davanti e che ha limitato il suo crescente potere.
Le uniche leggi che suo padre considera sono quelle che può sfruttare per ottenere più influenza, più voti. Mente ogni volta che apre la bocca e la sua voce è pulita, profonda e affidabile.
Akechi sa che sono tutte bugie. Sa anche che è un rischio giocare con lui, ma non ha mai avuto paura di rischiare. Gli propone un patto che non rifiuterà perché lo conosce, in fin dei conti si assomigliano più di quanto lui sarà mai disposto ad ammettere.
Da piccolo il ragazzo credeva nella legge. Era convinto che sua madre fosse morta per un eccesso di debolezza che lui ripugnava, ma confidava nello stato e nelle leggi che lo avrebbero protetto e messo sotto la tutela di suo padre, dell’uomo che fino a quel momento non si era dimostrato interessato a lui, ma che avrebbe accudito un povero orfano.
Non accadde.
Goro era passato da una casa famiglia all’altra. Aveva incontrato persone più o meno accettabili, ma tutti si erano approfittati di lui per ottenere benefici, per piegare le leggi e le regole in modo che fossero loro favorevoli. Lo accudivano per denaro, per puro interesse.
Adesso ha imparato. Porta ancora il cognome della madre e ogni volta che lo sente ricorda da dove proviene. Sa che lei aveva provato a seguire le regole, a chiedere aiuto con un avvocato che si era appellato alla legge per farle avere un aiuto concreto, che non è mai arrivato.
Lui si è distinto per la sua intelligenza, per il suo alto senso morale e per la fiducia che nutre nei confronti di tutto ciò che è legge. Anche lui mente, però.
Gli viene naturale.
Lo fa con Sae Nijima, che gli confida a che punto sono le indagini sui Phantom Thieves; lo fa con il mondo quando condanna il suo stesso operato nel Metaverso e incolpa proprio loro, parlando di giustizia e di rispetto delle leggi subito dopo avere ucciso persone delle quali lui è giudice e carnefice.
Mente quando guarda suo padre negli occhi e gli dice che il suo è solo un lavoro. Fa molta più fatica con Amamiya. Sente che loro due sono simili in un modo diverso, sa che lo capirebbe e che tenterebbe di salvarlo. Invece Akechi sta per ucciderlo, solo che lui non lo sa ancora.
In nome della legge, l’ha giudicato colpevole di essere troppo sciocco e di essere caduto nella sua trappola. I Phantom Thieves hanno combattuto per un mondo che non esiste, un ideale che gli dimostra la loro immaturità. Sono solo dei ragazzini e un po’ gli dispiace ucciderli tutti. Li lascerebbe vivi, se potesse, ma lui ha un ideale più grande e per il suo fine ultimo loro non possono sopravvivere.
Saluta il giornalista senza riuscire a togliersi dal volto quel ghigno, lo nasconde come se fosse imbarazzo e agita una mano, umile. Deve andare, il suo rivale lo aspetta per una serata tra amici. Sarà l’ultima volta che lo incontrerà fuori dal Metaverso, è quasi giunto il giorno che attende da tempo.
È già tutto pronto, non deve far altro che continuare a recitare la sua parte fino ad arrivare al palazzo di Nijima, poi finalmente potrà fare rispettare le sue leggi e ottenere la giustizia.
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Fandom: Persona 3
Personaggi: Mitsuru Kirijo, Akihiko
Genere: Introspettivo
Prompt: Orologio
Partecipa al COWT 13
La Dark Hour non c'è più, ma non è facile dormire sereni quando si sa che il tempo a volte può sparire.


L’ora che svanisce

Il sole stava tramontando sul mare. Mitsuru osservò l’orologio: erano le otto e un quarto, aveva ancora tempo.
Puntò lo sguardo sul sole rosso della sera pensando che non avrebbe dovuto farlo, perché si sarebbe solo rovinata gli occhi. Non le importava, però, perché il dolore che sentiva, contrastato dal suo corpo grazie alle lacrime che stavano cercando di lenire la cornea, non era che un sintomo naturale dovuto al suo sforzo di guardare la luce, e lei in quel momento aveva un bisogno disperato di essere a contatto con la realtà.
Dopo poco chiuse gli occhi, sconfitta: non aveva senso resistere, ormai lo aveva capito.

Per quanto fosse strano e sciocco ammetterlo, le mancava la Dark Hour. Almeno quando erano nel Tartarus lei valeva qualcosa, era utile a qualcuno. Ricordava come avesse passato le prime notti dopo la fine di tutto a fissare l’orologio, a osservare l’arrivo della mezzanotte fremendo all’idea di ciò che era stato, sempre immaginando che tutti intorno a lei si fermassero e lei tornasse a diventare l'artefice del destino dell'umanità e fosse costretta a combattere ancora per proteggere i cittadini comuni, che ignari di tutto continuavano le proprie vite.
Quando la mezzanotte scoccava, la ragazza andava alla finestra del condominio studentesco nel quale viveva e guardava fuori: niente bare, solo qualche persona che sghignazzava o chiacchierava. Di giorno controllava i giornali: niente strane sindromi, niente gente perduta.
Mitsuru non riusciva più a dormire. Per lei la notte era un susseguirsi di secondi, minuti, ore durante il quale lei osservava le lancette dell’orologio da parete rincorrersi, superarsi, nella prova tangibile che la Dark Hour non c’era più.

Continuava a cavarsela bene nello studio, ma poco a poco si era rassegnata a cambiare le sue routine, perché non riusciva più a vivere il giorno e la notte come tutti gli altri: andava a scuola come tutti, ma al suo ritorno andava a dormire. Si svegliava la sera, quando gli altri cominciavano a prepararsi per riposare, faceva colazione e studiava. Passava la notte in silenzio, per non farsi sentire e per non far capire ai vicini quanto fosse strana. I suoi compagni di corso la invitavano a studiare insieme, in fin dei conti era una Kirijo, una delle studentesse coi voti migliori all’università, perché non avrebbero dovuto desiderare di passare del tempo con lei?
Se solo avessero saputo la verità, Mitsuru era sicura che avrebbero pensato che fosse pazza e forse lo era: era ossessionata dal tenere traccia del passare del tempo e non c’era un solo istante nella sua vita in cui lei non avesse il suo orologio a portata di mano.
Ormai erano passati mesi da quando Makoto si era addormentato per sempre, abbandonando tutti gli altri SEES con i quali aveva combattuto senza risparmiarsi.
Era ancora in coma, proprio come Shinjiro. Forse un giorno almeno uno di loro si sarebbe risvegliato, pensava, ma sapeva che le speranze erano flebili. In ogni caso continuava a pagare l’ospedale perché i suoi amici continuassero a stare lì, nel loro sonno innaturale, nella serenità apparente che era stata causata proprio dalla sua famiglia.

Gli incubi popolavano le sue giornate: sognava di non accorgersi che il tempo era fermo, di trasformarsi in una bara come capitava a tutte le persone normali durante la Dark Hour. Spesso avrebbe giurato di vedere un movimento strano della lancetta, come se qualcosa fosse cambiato da un secondo all’altro, ma dopo un po’ si era convinta che fosse tutto nella sua mente. Aveva messo telecamere in giro per il suo appartamento, contatori meccanici indipendenti per non perdere neppure un secondo. Quando controllava tutti i suoi aggeggi tecnologici però non riusciva a rassicurarsi, anche se non dimostravano anomalie.

Si era chiesta spesso cosa provassero le persone comuni quando si addormentavano per un’ora ogni singola notte, ma non aveva trovato ancora risposte soddisfacenti.

Avrebbe desiderato tanto tornare a vivere come gli altri, come una persona comune. Non ci riusciva, perché anche se il Tartarus non c’era più, continuava a pensare che fosse sempre lì e che lei semplicemente non riuscisse più a percepirne l’esistenza, come non sentiva più la sua Persona che le era stata vicino per così tanto tempo da considerarla una parte di lei. Lo era in effetti. Lo era stata.

Riprese a osservare l’orologio, i secondi passavano regolari: uno dopo l’altro, dopo l’altro.
Aveva smesso di vivere, non incontrava nessuno, non parlava con i suoi coetanei e le sue tapparelle erano sempre chiuse, l’unico compagno era il suo orologio, testimone del passare del tempo, il suo nemico era il senso di colpa, lo combatteva ogni giorno, ogni notte. Ecco perché aveva chiamato Akihiko, invitandolo da lei.
Le costava tanto ammettere di avere bisogno del suo amico, quasi di più di quanto le costasse pensare che lui per Mitsuru era molto di più. La faceva sentire bene, grazie al suo pensiero e alla sua voce al telefono a volte le era capitato di dormire bene, senza incubi, senza brutti pensieri.
Gli aveva chiesto di incontrarla lì, vicino al mare. Era un posto romantico, tranquillo e in inverno col freddo che c’era non era affollato. Le otto e trentacinque, di lui ancora nessuna traccia.
Forse stava diventando pazza, si disse prendendo il cellulare e controllando i messaggi. Per quanto il suo stile di vita fosse indice di uno stato mentale instabile, era sicura che lui non l’avrebbe lasciata ad aspettarlo senza giustificazioni. Non c’erano messaggi.

La ragazza si sentì vuota, distrutta. Si lasciò cadere a terra. Lo fece in modo dignitoso, mantenendo il controllo anche il quel momento di assoluta sconfitta. Gli occhi erano sempre puntati sull’orologio: otto e trentasette. Desiderava piangere, ma si limitò a osservare i secondi che passavano, cercando di regolare insieme a loro il ritmo del suo respiro e del suo cuore. Otto e trentotto.
“Mitsuru? Sei già qui?” Lei non sollevò lo sguardo, pensando che la sua alterazione fosse ancora troppo scoperta, troppo visibile. “Va tutto bene?”
Fu lui ad abbassarsi. Chinato sulle ginocchia, coprì il quadrante dell’orologio con la sua mano e le sollevò il mento con l’indice. “Va tutto bene?” Ripeté.
Lei scosse la testa lentamente e Akihiko la abbracciò. “Anch’io ho paura di non vederla più,” le confessò. “Ma ce la faremo.”
Non era stata una domanda, neanche una proposta. Sembrava più un fatto certo. “Forse.” Aggiunse lei.
Lui le prese la mano e la sollevò. “Cerchiamo di passare una bella serata adesso, abbiamo tanto da raccontarci.”
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Partecipa al COWT 13
Prompt: Naufrago
Cloud Strife
One Shot

Il Naufrago sulle rive di Mideel

Il ragazzo era disteso sul divano, i vestiti ancora sporchi dell’acqua di mare. Mika e sua sorella Hila l’avevano trovato sulla riva, di fianco alla loro casa, pochi minuti prima.

La ragazza aveva chiesto alla sorella di chiamare aiuto, in particolare il dottore per capire se ci fosse qualcosa da fare per lui, se si sarebbe risvegliato.

Quando le due sorelle avevano trovato il naufrago erano corse verso di lui e l’avevano voltato. I suoi occhi erano aperti e vuoi, ma non sembravano morti. Mika accostò l’orecchio al suo petto e sentì il suo cuore battere, il suo respiro lieve, ma regolare.

Lo chiamarono, cercarono di svegliarlo anche con qualche piccolo schiaffo sul volto, ma sembrava svenuto. Solo che non era svenuto, bastava guardare quegli occhi per capirlo.

Hila era spaventata da lui.

“Aiutami a prenderlo per portarlo dentro,” le chiese.

La sorella fece un passo indietro, quasi a volergli negare il suo aiuto. “Lo vuoi portare in casa nostra?” Domandò, incredula.

“Solo fino a quando non lo viene a prendere il dottore. A occhio questo potrebbe essere uno di quegli avvelenamenti da Mako di cui parlava qualche giorno fa il capo. Aveva detto che ce ne sono stati parecchi ultimamente. Non ne avevo mai visto uno, ma guarda.” Mika Schioccò le dita di fronte al viso dello sconosciuto, che non sbatté neanche le palpebre. “Gli occhi blu sembrano finti. È vivo, ma è come se fosse morto. Mi fa pena, non paura.”

Hila si avvicinò per aiutare la sorella. Insieme sollevarono il ragazzo, un braccio ciascuna. Era pesante, più di quanto immaginassero. A fatica, lo trascinarono come un sacco pieno di patate fino dentro la loro casa, sul divano. “Ora vai a chiedere aiuto.” Le ordinò.

Poi Mika prese una bacinella di acqua pulita e un asciugamano e gli sciacquò il viso e i capelli, facendo attenzione a tamponare con delicatezza. I suoi capelli biondi erano sporchi di sabbia e di alghe, la ragazza li pettinò e li pulì con cura. Non aveva il coraggio di avvicinarsi con la pezza ai suoi occhi profondi che fissavano il soffitto come se non potessero fare altro. Si sollevò e provò a incrociare il suo sguardo, per capire se lui fosse in grado di vederla. Gli passò la mano a pochi centimetri dal viso. “Puoi sentirmi? Mi vedi?” Gli chiese.

Lui emesse un lamento flebile, ma non le parve una risposta.

Gli mancava uno stivale, Mika completò l’opera togliendo anche l’altra e continuando con il resto dei vestiti bagnati e sporchi di salsedine. Dovevano pizzicare, si chiese se lui sentiva qualcosa. Nonostante l’imbarazzo continuò a spogliarlo, un capo alla volta. Un lenzuolo a coprirlo perché sapeva che se fosse capitato a lei, avrebbe desiderato lo stesso trattamento.

“Il dottore sta arrivando.” Hila rimase di fianco alla porta, senza mostrare alcun desiderio di avvicinarsi al naufrago. “Ha detto qualcosa?”

Mika scosse la testa. “No, solo un lamento, ma non credo che ci veda.”

Proprio in quel momento, il ragazzo tentò di alzarsi e diresse il suo sguardo vuoto verso di lei. Mika fece un balzo all’indietro, rovesciando in parte l’acqua con la quale lo aveva lavato. “Ri- uh…”

Restò sollevato, di nuovo del tutto privo di segni vitali. Mika decise di aspettare il dottore, che non tardò ad arrivare.

“Questo ragazzo dovrebbe essere morto.” Dichiarò, la luce puntata sulle sue pupille. “È il caso di avvelenamento da Mako più grave che io abbia mai visto. Su un essere umano in vita, si intende.” Sbuffò. “Chissà da dove arriva. Dai suoi occhi direi che è stato esposto all’energia in modo volontario, almeno all’inizio.”

“Un soldato?” Chiese Hila, confusa.

“Non sarebbe il primo a subire questa sorte. Non credo che si renda conto di essere qui con noi. Ora lo porto in clinica, vedremo se qualcuno lo verrà a cercare o se morirà così.”

Nel corso dei giorni seguenti, Mika andò dal soldato misterioso ogni volta che ne aveva l’occasione. La risposta del medico era sempre la stessa: non ci sono novità, sembra stabile. La ragazza gli parlava di Mideel e del mare e gli raccontava come stava passando le giornate. Si era convinta che se lui si fosse risvegliato si sarebbe ricordato di lei. Si vedeva a vivere con lui in un futuro prossimo, ad attenderlo a casa dopo il lavoro, a raccogliere insieme le verdure nell’orto di casa. A vivere insieme, dopo che lei l’aveva salvato.

Questo fino a quando non era arrivata la ragazza. Si chiamava Tifa e appena l’aveva visto si era messa a piangere in un modo così sincero che a Mika si era stretto il cuore. Vederli insieme la fece sentire una sciocca per le sue fantasie romantiche. Non andò più a trovarlo, ma scoprì che in effetti alla fine era guarito.

Avrebbe sempre portato nel suo cuore uno spazio per Cloud, il naufrago che lei aveva salvato.
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Originale
Prompt: Fossili
Partecipa al COWT 13
One shot


La gita al fiume

La prima volta che aveva visto un fossile, Giulio aveva sette anni.
Era molto probabile che gliene fossero passati altri sotto gli occhi, ma all’epoca un sasso valeva l’altro. A scuola poi però avevano parlato dell’origine dell’universo e l’idea che qualcosa potesse arrivare alle sue mani da un passato così lontano lo affascinava e attirava come una formica viene attirata dallo zucchero.
Doveva vederne uno anche lui, magari un po’ di più. Sognava di andare a caccia di fossili, perché la sua amica Alice gli aveva assicurato di averne visti almeno dieci mentre camminava lungo il fiume, tra i migliaia di ciottoli arrotondati dallo scorrere dell’acqua.

“Forse la tua amica ha esagerato un pochino,” aveva provato a convincerlo sua madre, ma Giulio non aveva voluto sentire ragioni e aveva usato tutte le armi a sua disposizione per cercare di farsi portare al fiume: li aveva pregati con occhi dolci e tristi, aveva promesso che si sarebbe impegnato a scuola come mai prima di allora e si era offerto di giocare con il suo fratello più piccolo senza lamentarsi come faceva di solito. La mamma non era apparsa impressionata da tutti i suoi tentativi, ma non aveva detto di no. “Giulio: non pensarci adesso che è lunedì, vediamo cosa succede fino a domenica, chissà quanto durerà quest’idea di cercare fossili.”

“No, mamma, ma è per la scuola, la maestra ha detto che non se ne trovano, ma Alice invece ne ha tanti.”

“Davvero? E come mai secondo te non ne ha portati?” Gli aveva chiesto, e la motivazione del bambino era improvvisamente calata.

Giulio aveva osservato il pavimento con intensità, aggrappandosi all’idea che la sua amica non gli avesse mentito, che ci fossero davvero. “Ma…”

La mamma allora aveva sospirato. “Non preoccuparti, magari non ne ha visti cento, ma due o tre e ha esagerato un pochino. Non aspettarti che se andiamo al fiume ci saranno fossili dappertutto, perché è una ricerca da fare con attenzione e non è detto che ne troveremo. E se dovesse piovere dovremo rimandare, lo sai?”

Il bambino aveva annuito, il volto illuminato da un sorriso. “Allora possiamo andare?”

“Per una volta che dici che ti vuoi impegnare per la scuola, come faccio a dirti di no?” Gli aveva risposto, chinandosi ad accarezzagli il capelli con una mano.

Giulio aveva urlato e le era saltato al collo. “Grazie, mamma!”

Il giorno seguente, a scuola, aveva rivelato le sue intenzioni alla maestra di storia, che aveva continuato a scrivere alla lavagna, ma gli era sembrata felice del suo interessamento al passato. “Ci racconterai come è andata, allora”

Per tutta la settimana, Giulio si era immaginato impegnato a controllare i sassi uno per uno. Nei suoi sogni era vestito di tutto punto, con una cintura col pennellino come gli archeologi e i paleontologi disegnati nel suo sussidiario. Una torcia per illuminare meglio i suoi reperti. Sognava di trovare trilobiti, felci e interi invertebrati visibili in modo perfetto e preciso, proprio come quelli che popolavano le pagine del suo sussidiario e dei libri che gli avevano regalato i genitori per aiutarli a rispondere alle continue domande di Giulio sul mondo preistorico, ormai quasi del tutto svanito.
Poi domenica era arrivata e, con suo grande disappunto il cielo era buio, carico di nuvole. Una fitta pioggia cadeva dal cielo. Niente fiume, niente fossili.

La mamma l’aveva chiamato per la colazione e lui si era diretto al tavolo mesto. Si era seduto e, giocherellando col cucchiaino, aveva guardato la tazza piena di latte e cacao senza il desiderio di mangiare.

“Hai visto, alla fine piove.”

Giulio aveva sospirato. “Non possiamo andare al fiume.”

“Chissà,” gli aveva risposto la mamma, dando al figlio un barlume di speranza. “Il fiume non è l’unico posto dove trovare dei fossili, lo sai?”

“E dove li posso prendere?”

“Prima di tutto, devo confessarti che trovare i fossili non è per niente facile. Quando ne trovi uno, lo devi consegnare, non te lo puoi tenere a casa. Resta il fatto che osservare le pietre è molto interessante, spesso dentro ci puoi trovare tracce degli insetti che le hanno percorse, il colore e la forma spesso ci raccontano dove le rocce e i sassi sono stati e la storia che hanno avuto. A te questo interessa, vero?”

“Sì! Per quello voglio vederle.”

“Perfetto! Allora non andiamo al fiume, ma al museo di storia naturale. Lì vedrai: si possono vedere tutti i fossili che vuoi, e poi ci sono anche le ossa di alcuni animali preistorici. In più ci sono anche tutte le spiegazioni, così a scuola poi magari non porti niente, ma puoi spiegare cosa hai visto ai tuoi compagni. Ti piacerebbe andarci?”

Il bambino piegò la testa, pensoso. Sapeva cos’è un museo, ma non era sicuro di volerci andare. Quando era stato al museo coi genitori, l’estate prima, avevano passato ore a guardare quadri tutti uguali e si era annoiato a morte. Da quella gita gli era rimasto solo un grande male ai piedi.

La madre parve leggergli nella mente. “Non preoccuparti, non è un posto grande come quello che abbiamo visto a Firenze. Questa volta andiamo insieme, solo io e te. Lasciamo a casa il papà e Filippo e noi cerchiamo di passare una bella giornata insieme, ti va?” Giulio corse ad abbracciarla. Aveva fiducia in lei ed era sicuro che non l’avrebbe preso in giro.

Arrivarono al museo dopo un lungo viaggio in automobile, durante il quale Giulio aveva studiato il suo libro sugli animali preistorici. Un po’ gli dispiaceva che il padre e il fratellino fossero rimasti a casa, ma la motivazione della mamma gli era sembrata più che valida: “Così possiamo andare con calma, perché sia il papà che Filippo non hanno molta pazienza, sei d’accordo?” Lo era.

Nei sogni del bambino, la ricerca dei fossili era poetica, come una caccia al tesoro divertente, come un gioco. La visita al museo invece fu molto diversa: fu un viaggio attraverso il tempo che lo portò a conoscere dettagli che alcuni dei suoi compagni di classe potevano sognarsi di conoscere. Era abbastanza sicuro che anche la maestra non fosse a conoscenza di tutto quello che Giulio aveva avuto la possibilità di imparare.

Vide scheletri quasi completi di animali che non esistevano più; ricostruzioni e video che li mostravano in movimento nell’ambiente nel quale vivevano.

Ammirò minerali, fossili e meteoriti dell’epoca dei dinosauri, che fino a quel momento aveva potuto osservare solo nei libri. Non aveva idea che così vicino a lui ci fossero tutte quelle cose meravigliose.

Nel corso della sua visita si immaginò da grande a studiare i reperti: geologia, paleontologia, zoologia, archeologia. Conosceva i nomi di tutte quelle scienze e sognava, un giorno, di potere dedicare la sua vita a studiare il passato.

Quando salirono in auto, Giulio si sentiva stremato dalla giornata intensa e dal carico di conoscenze che avrebbe portato con sé e che avrebbe condiviso con tutti i suoi compagni di classe. La sera raccontò al padre e al fratello tutto ciò che aveva visto, insieme promisero che sarebbero andati a visitare insieme il museo. “Quello o anche un altro,” propose Giulio, tentato dalla curiosità e dal desiderio di vedere di più.

Dopo cena andò a dormire e sognò il suo futuro da paleontologo: si vide a toccare, pulire, ricostruire i fossili. A raccontarne la storia e a scrivere libri che altri bambini un giorno avrebbero letto.

Forse non sarebbe stato il suo sogno per sempre, ma quella notte dormì sereno, come se avesse compiuto la prima parte del suo destino.
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Fandom: The legend of Zelda - BOTW
Personaggi: Link, Zelda
One shot
Prompt: stella cadente
Partecipa al COWT 13



Ricordo di una stella

Link spesso si soffermava a osservare il cielo.
Gli capitava soprattutto di notte, quando le stelle brillavano nel cielo e la luna si muoveva lenta, impercettibile ai suoi occhi rigenerati.
I suoi ricordi del mondo prima del suo sonno centenario erano ancora pochi e confusi, e non gli consentivano di orientarsi come era certo di sapere fare prima.
Conosceva il suo nome: si chiamava Link, quello era certo. Sapeva di essere l'unico in grado di sconfiggere la calamità Ganon, perché glielo aveva detto il vecchio.
E poi c’era Zelda, si ricordava anche di lei. Non avrebbe saputo descriverla, perché non sapeva di che colore fossero i suoi occhi, né se fosse giovane, anziana o bionda. La memoria di lei era senza forma, c’era solo un forte sentimento di protezione.
Sapeva che il suo ruolo era quello di proteggerla e che aveva fallito in modo catastrofico. Alla fine era stata lei a salvarlo e a consentirgli di riposare, di rigenerarsi fino a quando sarebbe stato pronto per tentare un’altra volta.
Determinazione, paura, coraggio, forza, amore.
Quando cercava di ricordarsi di lei, sentiva queste sensazioni.
Si vergognava del suo fallimento, che aveva causato ripercussioni che il popolo di Hyrule stava ancora pagando dopo cento anni, che avrebbe continuato a pagare per i prossimi mille, se lui non fosse riuscito a portare a termine la sua impresa.
Vergogna, morte.
Morte. Nella nebbia della sua memoria c’erano i guardiani e i Colossi Sacri, ma niente aveva una forma definita, era tutto confuso.
Si sedette su una roccia, gli occhi fissi sul castello in lontananza, i pensieri alla principessa. Che fosse davvero ancora in vita? Che avesse realmente resistito tutto quel tempo con la speranza che lui arrivasse un giorno e finalmente mettesse fine all’esistenza della Calamità?
Prese una mela e la addentò, abbandonando per il momento la sua esplorazione dell’Altopiano delle Origini. Sentiva di dovere fare ordine nelle sue idee, solo che non aveva idea di come riuscirci. Non poteva scendere da lassù senza la paravela e gli mancavano ancora due Sacrari da visitare.
Link era ancora intrappolato, ma si sarebbe rimesso in forze e presto sarebbe arrivato al castello, era sveglio solo da pochi giorni e quel corpo era ancora troppo debole, sapeva che sarebbe stato un suicidio correre verso il castello fino a quando non fosse stato pronto. Doveva proseguire con calma: un passo alla volta.
La mela non era stata un pasto molto nutriente, infatti lo spadaccino aveva ancora fame, ma decise che prima di occuparsi di riempire il suo stomaco avrebbe dovuto pensare a raccogliere ciò che gli serviva per raggiungere il prossimo Sacrario, quindi si rimise in marcia per recuperare qualche caldoperone da cucinare, che gli avrebbe permesso di riuscire a sopportare meglio la salita sulla montagna. Lo aspettava una lunga marcia, durante la quale avrebbe recuperato armi e oggetti utili a combattere e a superare i due Sacrari.
Quando finalmente trovò i caldoperoni era ormai quasi buio. I cespugli erano ai piedi di una muraglia di pietra, molto vicino alla grande porta ad arco dove un tempo c’era stato di sicuro un cancello di protezione che divideva la zona di montagna, abitata dalle creature selvagge, dalla collina, molto più ospitale. La porta non c’era più, ma era di certo stata maestosa. Raccolse tutti i caldoperoni che riuscì a prendere e oltrepassò il cancello per farsi un’idea della strada che avrebbe dovuto percorrere l’indomani.
Davanti a lui vide il picco innevato della montagna. Stando a quanto ricordava procedendo oltre avrebbe incontrato un largo fiume ghiacciato. Sentì un rumore di fronte a lui e si fermò a nascondersi dietro un albero. Una creatura simile a un cavallo, con grandi corna bianche e una folta criniera rossa stava camminando poco distante da lui. Link si mosse lento e furtivo, nella memoria quella era l’immagine del pericolo di cui non ricordava il nome. Forse gli avrebbe chiesto come si chiamasse prima di dargli il colpo di grazia, se per disgrazia fosse stato costretto a battersi con lui per raggiungere il Sacrario. Sempre ammesso che il suo viaggio non terminasse prima del tempo a causa di uno stupido Ly… Lynel?
Sospirò, incerto. Non poteva ancora fidarsi delle sue memorie, che arrivavano senza preavviso e che spesso ancora lo tradivano.
La creatura era fiera ed era sicuro che fosse forte, ma lui non avrebbe ucciso, se non fosse stato necessario farlo. Quella fu la sua promessa mentre in silenzio si ritirava dalla montagna.
Lo aspettava una serata di preparazione: doveva cucinare le provviste e riposare per essere in grado di svolgere la sua missione in modo veloce e pulito, come un vero guerriero, per Zelda e per il popolo di Hyrule.
Si distese a riposare ai piedi del fuoco che aveva acceso, ma nonostante fosse stanco non riusciva a cedere al sonno. Link osservava il cielo. Osservare il cielo lo calmava e Link aveva l’idea che fosse sempre stato così, anche prima.
Le stelle erano le stesse che vedeva cento anni prima, loro non erano cambiate e una parte di lui gli continuava a dire che forse osservandole avrebbe trovato qualche risposta o almeno un po’ di fiducia nelle sue apparentemente scarse capacità di combattimento.
Anche se si ripeteva che gli sarebbe bastato un po’ di tempo, la sua convinzione stava scemando ogni giorno di più. Che avessero salvato la persona sbagliata? Che avessero preso un contadino o un mercante convinti che fosse il grande Link e vanificando lo sforzo della principessa, che ancora lottava per tutti loro.
Che le sue memorie fossero tutte bugie impiantate in lui dagli Sheikah per convincerlo a lanciarsi in una missione suicida?
Una stella cadente tracciò la sua scia nel cielo, lenta e silenziosa.
Nel vederla Link si sollevò, ipnotizzato da un’immagine che gli riempì la mente all’improvviso.
Risate. Una giovane ragazza dai capelli biondi lo prese per mano. Una treccia le coronava il viso, mettendo in risalto le orecchie a punta, proprio come le sue. La ragazza gli sorrideva, gli occhi azzurri, come la sua veste ornata ed elegante, apparivano tristi.
I due ragazzi erano in una capanna, non erano soli perché la principessa aveva sempre degli accompagnatori oltre a lui. Poteva sentire due voci femminili in lontananza.
Zelda lo guidò fuori dalla capanna e insieme continuarono a camminare fino a quando le luci della capanna non furono abbastanza distanti da non accecare più i loro occhi. Nel buio della notte i due si sedettero ai piedi di un albero.
“Sai, Link, non ero mai stata qui senza mia madre prima di oggi. Mio padre mi ha detto tantissime volte che se voglio imparare a combattere e fare la mia parte contro la Calamità non devo perdere tempo a fare le scampagnate. Però questo posto mi ha sempre attirata: qui c’è un grosso potere che gli Sheikah hanno trovato e utilizzato. Nei libri che ho letto lo chiamano ‘Sacrario della Rinascita’. Penso che forse potrebbe aiutarmi a risvegliare i miei poteri, sempre che io li abbia.”
“Sono sicuro che ci riuscirai.” Sentì dire alla sua stessa voce.
Il luogo era lo stesso che Link aveva scelto per bivaccare più di cento anni dopo. Sentì il desiderio di abbracciarla e di rassicurarla, ma non era quello il suo ruolo e non si sarebbe mai permesso di farlo.
Non le disse che anche lui aveva dei dubbi sulle sue possibilità di vincere uno scontro con Ganon, anche se avrebbe desiderato gridarle che non era l’unica ad avere dubbi e che la sua sensazione la rendeva ancora più bella ai suoi occhi.
Una stella cadente.
“Ecco, hai visto?” Gli chiese.
Link annuì, poi le chiese: “Possiamo esprimere un desiderio?”
“Questa è una buona idea!” Zelda chiuse gli occhi, un sorriso di speranza.
Link non le chiese quale fosse il suo desiderio. Sapeva benissimo che non sarebbe servito a niente, ma anche lui ne espresse uno: chiese di essere in grado di proteggere la principessa qualunque cosa fosse successa. Pregò la stella di avverare il suo desiderio, promettendole che avrebbe fatto il suo meglio per riuscirci, da parte sua.
Rimasero lì a osservare il cielo in silenzio fino a quando il ragazzo si accorse che Zelda stava piangendo.
“Tutto bene?” Le chiese. Una domanda sciocca che avrebbe fatto bene a tenere per sé. Non era bravo con le parole, non lo era mai stato.
“Non voglio deluderti, come non voglio deludere mio padre, ma non credo che una stupida stella possa fare qualcosa per aiutarmi.”
“Di certo non se la insulti…” Aggiunse, sperando che la battuta la aiutasse a ritrovare la serenità di prima, ma senza successo. La prossima volta anziché parlare avrebbe fatto meglio a mordersi quella sua lingua impertinente.
La giovane principessa era triste. Il suo sguardo scese a terra mentre una prima lacrima solcò il suo viso. “Vedi, non sono capace di prendere decisioni. So già che quando tornerò a casa, senza poteri come quando sono partita per questo ennesimo viaggio inutile, mio padre mi guarderà pensando che gli faccio pena, perché non valgo neanche le scarpe della mamma. Non merito la fiducia di nessuno, mi dispiace.”
Zelda singhiozzava, un pianto incontrollabile nel quale la principessa stava sfogando tutta la sua frustrazione. Tutta la tristezza che doveva tenere nascosta nella vita di corte e nei suoi viaggi di ricerca, tutta la sua paura, il senso di inadeguatezza che la accompagnava da sempre quando si trattava di confrontare lei - impulsiva, troppo giovane e senza guida - con la madre - potente, controllata, in una parola: perfetta -.
Link si sentì utile, in quel momento. Capì che lui poteva aiutarla perché era l’unico che conosceva quella parte di Zelda, l’unico con cui lei si sentiva davvero libera. La abbracciò. Non sapeva cosa altro fare, soprattutto perché aveva già dimostrato di non essere in grado di pronunciare le parole giuste per lei, ma doveva farle capire che lui ci sarebbe sempre stato, che avrebbe sempre creduto nella sua capacità di prendere il posto della regina.
L’abbraccio sembrò funzionare, infatti il pianto di Zelda iniziò a farsi più calmo, il suo respiro più regolare. La principessa stava ricambiando l’abbraccio, all’inizio stringendo con i pugni serrati la tunica dell’eroe all’inizio, infine rilassandosi, finalmente in pace.
Rimasero fermi, ancora abbracciati. Il silenzio era espressione pura della fiducia che i due provavano l’uno per l’altra, del volere di entrambi di affidarsi alla loro amicizia per cedere, ogni tanto, a rivelare la verità, evitando di ostentare una forza che in realtà non avevano.
Forse anche lui avrebbe dovuto dirle la verità, rivelandole che non era l’unica a sentirsi inadeguata al compito che la aspettava. Anche lui provava la stessa paura, anche lui non si sentiva degno della fiducia del Re e del supporto dei quattro Campioni che presto li avrebbero raggiunti nella lotta contro la Calamità Ganon.
Non disse niente, come sempre inferiore a lei, e il senso di colpa lo investì mentre l’immagine si dissolveva dalla sua mente.
Link sapeva che quella notte erano rimasti lì fuori per parecchio tempo, fino a quando Zelda si era addormentata tra le sue braccia. Lui l’aveva cullata, tenendola solo per lui fino a quando le tracce delle sue lacrime si dissolsero, pensando che era la persona più cara che aveva al mondo.
In quel momento capì che il loro legame era più forte di quanto immaginasse. Era davvero lui l’eroe, lo spadaccino che avrebbe utilizzato la Spada che Esorcizza il Male per eliminare la Calamità Ganon una volta per tutte, doveva farlo. Ricordava ancora il profumo dei capelli di Zelda, il battito del suo cuore e il ritmo del suo respiro. Era quasi come se lei fosse lì insieme a lui.
Si distese di nuovo. Da laggiù il castello non era più a portata di vista, ma se lo fosse stato Link era certo che avrebbe potuto osservare una luce brillare, avrebbe potuto vedere la principessa che continuava a credere in lui, che lottava per tutta Hyrule.
Il giorno seguente sarebbe stato importante, doveva impegnarsi per ottenere la paravela il più in fretta possibile, per lei. Finalmente si addormentò.
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400 parole:
Fandom: Harry Potter
Slice of life
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Forse la magia esiste davvero


Harry posò lo straccio e osservò la cucina splendente dei Dursley orgoglioso. Sognante, pensò a quanto la sua vita sarebbe stata diversa se solo fosse stato possibile usare la magia, magari anche solo per pulire le case.
Scosse la testa, ritornando alla cruda realtà, poi prese il suo libro dallo scaffale dove zia Petunia l’aveva lasciato con la minaccia di farlo sparire se non avesse finito di pulire prima di ricacciare il naso su quelle pagine ingiallite.
Storie di maghi che lo allontanavano dalla realtà e che gli zii per qualche motivano odiavano in modo esagerato. Harry sapeva che invece non erano niente di importante. Leggere La spada nella roccia o Il mago di Oz non gli avrebbe permesso di cambiare la sua vita, ma lo faceva sentire meglio. Sognava che la casa dei Dursley fosse rapita da un tornado e portata in un mondo magico nel quale lui sarebbe stato in grado di cambiare le sorti del mondo. Erano solo sogni e non avevano niente a che fare con la realtà.
Mentre si dirigeva verso la sua camera, se così poteva chiamare il suo letto nel sottoscala, Harry ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse guardando. Si avvicinò alla finestra del soggiorno nel buio della sera. Sapeva che non erano i Dursley, erano usciti per un gelato e non c’era ancora traccia dell’automobile. Scostò la tenda e vide solo un gatto grigio tigrato che sembrava osservare proprio lui. D’istinto, Harry aprì la finestra e chiamò il gatto allungando la mano, porgendogli uno dei due biscotti che gli erano stati dati dalla zia. L’animale zampettò sicuro verso di lui.
“Ciao,” gli disse allungando la mano per accarezzarlo. “Sai, potremmo diventare amici se solo io potessi tenere un gatto. Purtroppo però non me lo permetterebbero mai.” Il felino miagolò e si strusciò sulla sua guancia destra. Poi gli mise una zampa sulla mano in un gesto che a Harry sembrò quasi consolatorio. Per un attimo incrociò lo sguardo col gatto, occhi severi e amorevoli. I fari dell’automobile apparvero in lontananza e l’animale corse via. Il bambino chiuse la finestra proprio quando l’auto dei Dursley imboccò il vialetto di casa.
Sospirò, pensando che preferiva non incontrarli. Mentre chiudeva la porta del sottoscala dietro di sé, pronto a sognare un futuro diverso da quello che gli si prospettava davanti, pensò “Forse la magia esiste davvero”.
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300 parole
Fandom: FFVII
Personaggi: Cloud, Tifa

Crollo

Era stata una sciocca, lo aveva capito.
Le lacrime di suo padre che la stringeva a sé nel letto dell’ospedale le fecero capire quanto egoista era stata a mettersi in pericolo. Le sue mani ruvide le accarezzavano i capelli e le spalle con delicatezza, come se lei fosse una bambola di porcellana e lui un elefante che avrebbe potuto spezzarla con un movimento azzardato.
“Dov’è Cloud?” Chiese.
Gli occhi del padre si fecero seri mentre si allontanava da lei. “Quello sciocco… è tutta colpa sua.”
Tifa ricordava ancora il tentativo disperato dell’amico di salvarla, impedendole di cadere giù dal dirupo del monte Nibel. In quel momento la ragazza stava pensando proprio alle sue parole: “Non farlo, è pericoloso. E comunque non contare su di me, perché io non ci vado lassù.”
Invece l’aveva seguita. Non si era fatto vedere, ma era stato al suo fianco nascosto, senza impedirle di proseguire, cercando di proteggerla anche se non era compito suo.
“Non è colpa sua…” Tentò di difenderlo, ma sapeva che il padre non avrebbe ascoltato. “Lui non voleva che andassi, ha provato a dirmi che era pericoloso…”
“L’importante adesso è che tu stia bene. Al resto penseremo, ora riposati.”
Tifa annuì. Era stata in coma una settimana, non poteva immaginare cosa suo padre avesse detto a Cloud. Si chiese se lui avrebbe accettato di restare suo amico, o magari… magari non solo un amico, perché per lei, nel momento in cui l’aveva salvata dalla morte lui era diventato molto di più: era stato l’immagine che l’aveva tenuta aggrappata alla vita. Stretta al suo corpo in memoria del ricordo della sua mano che la afferrava e cercava di salvarla dalla sua stupidità e dalla ricerca di qualcosa che non esisteva più.
Gli avrebbe parlato, sperava tanto che potesse perdonarla.
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Fandom: Persona 5
200 parole
Personaggi: Sojiro Sakura
Slice of life
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Nostalgia


Ormai era passato un mese da quando Ren era tornato a casa. Era la cosa giusta per lui, Sojiro ne era convinto, ma doveva ammettere di sentire la mancanza del ragazzo che aveva cambiato la sua vita, permettendo a lui e a Futaba di iniziare a vivere nel presente, senza più rimorsi. A volte quando entrava al LeBlanc la mattina, cercava di non fare rumore per non svegliarlo, per poi ridere nel ricordare che non c’era nessuno.
Stava davvero invecchiando.
Rimase per un attimo ai piedi della scala, la mano posata sulla parete e la sensazione di non volere entrare in un luogo privato, che non gli apparteneva più del tutto.
Che sciocchezza, pensò, questo posto è mio.
Una volta nella stanza, aprì la finestra per lasciare entrare la luce e per cambiare l'aria. Avrebbe fatto bene a pulire ogni tanto, per non doverlo fare quando Ren avesse deciso di tornare a Tokyo per qualche giorno, perché lì sarebbe sempre stato il benvenuto.
Le sue tracce erano ancora presenti: i libri sugli scaffali, una vecchia console e delle cartucce vintage con un biglietto per Futaba, e la pianta. "A Sojiro, ora prenditi cura di lei. Grazie di tutto, Ren."
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Prompt: Tombola

La supertombola di Natale


La tombola era un evento che si ripeteva ogni anno a casa De Nardo. Nessuno dei presenti al pranzo di Natale aveva la possibilità di sottrarsi a questa tradizione, nè le scuse erano accettata dai nonni, che ogni anno preparavano premi per i nipoti e per i figli, spesso pescando tra i regali non graditi o tra i cimeli di famiglia accumulati nel corso degli anni.

Quella volta, però, Giulio aveva deciso di aiutare nella preparazione del montepremi, e per essere inserito nel ristretto comitato formato unicamente dai nonni aveva dovuto firmare un breve trattato di segretezza, che immaginava comunque più complesso di un qualunque accordo tra azienda e dipendenti.

“Tanto nessuno partecipa per i regali, state tranquilli che anche se dico che mettete in palio il vaso a nessuno verrà un colpo al cuore.” Aveva fatto notare, senza però ottenere l’effetto che sperava.

“Tu vuoi aiutarci a organizzare, dici, solo perché vuoi chiamare i numeri, di’ la verità.” L’indice puntato della nonna aveva su di lui lo stesso effetto che aveva da bambino. Lo metteva in soggezione e lo faceva sentire piccolo e sbagliato.

“No, solo per aiutarvi.” Mentì. Perché la verità era che avevano perfettamente ragione: lui voleva il ruolo della nonna. Desiderava chiamare i numeri, almeno per una parte della tombola. “Ma magari una volta…”

La realtà era che tutti i nipoti avevano tentato di partecipare al comitato, ma i più piccoli non avevano mai veramente avuto la minima possibilità di partecipare, mentre tra i più grandi la maggior parte mollava alla sedicesima richiesta insensata da parte degli organizzatori dell’evento, che sostenevano la serietà di quella tombola, la cui vera utilità era procurare i soldi per il pranzo di Natale.

In tutto i nonni raccoglievano, catalogavano e mettevano in palio ogni anno almeno un centinaio di premi, che poi sarebbero stati spartiti tra i tredici nipoti, una decina tra cugini e zii, i cinque figli coi rispettivi consorti e gli organizzatori stessi. In totale un paio di premi a testa.

Giulio aveva lavorato alacremente per portare a termine tutte le richieste dei nonni. In quel momento, prima del pranzo, era in taverna a sistemare i gruppi di regali divisi per le varie tombolate e a posizionare sedie e tavoli in modo da rendere il gioco più semplice da seguire. Sapeva bene che il nonno non gli avrebbe permesso di chiamare i numeri più di una volta, quindi aveva pensato di prendere una lavagna e di utilizzarla per scrivere i numeri man mano che uscivano, ovviando al problema delle continue richieste da parte dei più distratti.

“Così sembra proprio di essere al bingo o a una tombolata seria,” aveva detto la nonna, entusiasta dell’idea, e in quel momento Giulio aveva capito che i nonni avrebbero gestito da soli sia i numeri che la lavagna.

Non gli importava, però, perché lavorando al progetto aveva capito quanto ci fosse sotto quella preparazione a tratti maniacale e cioè l’amore per la famiglia intera che li spingeva a un impegno che andava oltre i soldi o i regali e che aveva lo scopo di renderli una famiglia.

Per i nonni quello era il momento da passare insieme, era un avvenimento che nel corso degli anni era cresciuto fino a diventare un momento di gioia condivisa, di speranza e di complicità che a volte veniva interrotto da futili battibecchi o da manifestazioni teatrali di invidia di fronte alla fortuna di uno o alla mancanza della stessa, ma che in ogni caso aveva creato ricordi che poi avevano accompagnato tutti loro nel corso degli anni.

Quando i parenti avevano iniziato a prendere posto sui tavoli, Giulio aveva dato il pennarello nero in mano al nonno. “In bocca al lupo, io vado a sedermi con gli altri.” Gli aveva detto. “Questa è la vostra tombola.” Aveva aggiunto di fronte allo sguardo un po’ confuso dell’anziano parente.

Il nonno aveva sorriso e aveva preso posto di fianco alla lavagna.

“Sarò il valletto oggi, perché grazie all’idea di Giulio abbiamo una bella lavagna che ci aiuterà a tenere traccia dei numeri.”

“E adesso, tutti seduti, che si inizia col numero…” E la nonna aveva frugato nel grande e usurato sacchetto che aveva cucito quasi mezzo secolo prima. “col numero 24!”

Come sempre, i commenti e le risate erano iniziati già a partire dal secondo numero e si erano mantenuti più o meno costanti fino alla fine della partita, quando i partecipanti avevano iniziato a tirare i bilanci della giornata.

Giulio alla fine non aveva chiamato i numeri, quando la nonna era andata a chiamarlo aveva detto che gli andava bene così, gli era bastato aiutarli coi preparativi. Quella sera sarebbe andato a casa con la sua piccola cornice con una foto della famiglia, un terno, unico premio che aveva vinto, ma si sentiva felice, perché finalmente aveva capito il vero significato della tombola.
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Fandom: Persona 5
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Slice of life
Prompt: Monopoly
Parole: 1514
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La scatola dei ricordi


Quando Futaba aveva visto la scatola vecchia e impolverata sullo scaffale del negozio, aveva urlato di gioia ed era corsa a prenderlo, spaventando Ren a morte.

“Questo è Monopoly, ci giocavo sempre con la mamma quando ero piccola!” Si era voltata a guardare il suo amico con la scatola di una vecchia edizione del gioco in mostra, stretta tra le mani, la speranza negli occhi: “Lo compriamo? Ci giochiamo insieme?”

Lui aveva provato a rifiutare la proposta, poiché nei suoi ricordi quello non era esattamente un gioco nelle sue corde, ma non sembrava che Futaba avrebbe accettato un no, infatti prima ancora di ascoltare la risposta, era già partita verso la casa con la scatola stretta tra le braccia.

“Torno questa sera che facciamo una partita!” Aveva proposto, o meglio, aveva deciso.

Rassegnato, Ren aveva accettato. “Magari chiamo qualcun altro, almeno ci provo…” Era piuttosto sicuro che nessuno dei Phantom Thieves avrebbe accettato di andare da lui a giocare. Forse avrebbe potuto provare a sentire Hifumi, ma non credeva fosse una buona idea, dal momento che lei e Futaba non si conoscevano e non era molto semplice stare con Futaba, soprattutto quando si lasciava andare alle dinamiche delle sfide, anche quando erano rappresentate da semplici giochi in scatola, visto quanto si era dimostrata competitiva, non accettava la sconfitta senza prima combattere con tutte le sue forze.

“Stasera chi c’è per una partita a Monopoly con me e con Futaba?” aveva tentato, cercando di suonare affabile.

“No, grazie. Devo studiare.” La risposta di Makoto era arrivata all’istante.

“Che cos’è Monopoly?” Yusuke, fuori dal mondo come sempre.

“Tu no, Inari. Stai a disegnare le tue cose.” Almeno lui aveva una scusa, pensò Ren senza tentare di convincerlo a partecipare alla serata, meglio che ne approfittasse.

“Io ci sto! Arrivo alle otto, è da tantissimo che non gioco.” Ann era sempre una buona compagnia e sapeva mettere Futaba a suo agio, non sarebbe stato male giocare con lei.

Nell’attesa della risposta di Ryuji, Ren era sceso ad aiutare Sojiro e a prendersi un caffè. “Futaba mi ha detto che stasera ha impegni.”

“Sì, ti ha detto del suo nuovo, fantastico acquisto?”

“No… devo preoccuparmi?”

“Io devo preoccuparmi, credo. Ha comprato Monopoly, mi ha anche spiegato che ci giocava con Wakaba e che ne ha un bel ricordo.”

Sojiro aveva iniziato a ridere a crepapelle. “Certo che me lo ricordo. Non vorrei essere inopportuno, ma posso unirmi a voi stasera?”

Ren era rimasto spiazzato dalla richiesta, ma aveva annuito. Aveva scritto semplicemente “Trovato il quarto giocatore!” nella chat, per poi continuare a lavare le tazze sporche del LeBlanc.

“Sarà interessante.” Aveva aggiunto Morgana, mentre si grattava la testa.

Quando Futaba entrò, facendo trillare il campanello della porta di ingresso del locale, ad accoglierla c’erano già tutti i partecipanti alla gara serale. Sojiro aveva preparato una cena per tutti. “Ti stavamo aspettando.” Le aveva detto, i piatti pronti da riempire e la tavola già pronta.

Avevano cenato con calma, chiacchierando del recente problema che aveva causato Medjed con quelle strane richieste ai Phantom Thieves.

“È la prima volta che ceniamo tutti insieme,” aveva osservato Ann. “E anche la prima volta che giochiamo tutti insieme, solo che non ho capito chi è il quarto…” Aveva guardato Morgana, che però aveva scosso la testa, ridacchiando.

“Giochiamo con Sojiro.” Ren aveva pronunciato la frase tra un boccone e l’altro, senza neppure sollevare la testa.

Futaba aveva lanciato un urlo di gioia, terrorizzando la povera Ann che non si era ancora abituata alle reazioni di entusiasmo della sua nuova amica. “Che bello, come ai vecchi tempi!”

Il gruppo aveva ripulito, mentre Futaba aveva iniziato a preparare la plancia di gioco.

“A me piacerebbe questo funghetto!” Ann aveva preso la pedina e l’aveva posizionata di fronte al suo posto.

“La mamma usava sempre la pera, io la mela. Perché lei era più alta e io più piccola. Le dicevo sempre così.” Futaba aveva preso entrambe le pedine e poi aveva posizionato la mela sulla plancia. “Questa la tengo come portafortuna.”

“Io invece usavo il fiaschetto.” Aggiunse Sojiro, scegliendo la pedina.

“Questo significa che io posso essere la candela, oppure questa bella piantina. Il verde porta bene, dicono. Pianta sia.”

La partita era iniziata in modo tranquillo: tutti compravano sistematicamente le proprietà sulle quali capitavano, sperando poi di riuscire ad accaparrarsi almeno un gruppo di proprietà complete sulle quali costruire le proprie case e poi gli alberghi.

Ren amava la competizione, ma quel genere di gioco non l’aveva mai attirato. Non gli piaceva l’idea di dovere fare aste per vincere le proprietà, come non amava il pensiero di guadagnare soldi alle spese di altri partecipanti basandosi sulla fortuna dei dadi. Lui amava la strategia e proprio perché conosceva le caratteristiche di Futaba si era chiesto come mai la sua nuova amica, così abile nell’uso delle sue doti tattiche, aveva scelto proprio un gioco basato sulla persuasione e sulle doti sociali, più che sulla strategia pura e mentale.

La partita era stata tutto sommato noiosa, fino a quando Ann non aveva convinto Sojiro a venderle Parco della Vittoria al costo nominale della proprietà, alla quale lei aveva aggiunto viale Costantino, sostenendo che gli sarebbe potuta essere utile per il futuro. Le capacità di persuasione della ragazza avevano avuto effetto, proprio come lo avevano sulle Ombre che combattevano ogni volta che andavano nel Metaverso, e in breve Ann aveva iniziato ad arricchirsi, grazie alle case e agli alberghi che aveva iniziato a costruire in tutte le sue proprietà.

Ren tutto sommato se la stava cavando discretamente, ma tra Sojiro e Futaba era in corso una sorta di guerra tra poveri. Come immaginava, Futaba al contrario di Ann non possedeva tecniche di persuasione adatte al gioco, la sua strategia non poteva avere effetto per il semplice fatto che non aveva mai avuto le carte per riuscire a vincere la partita e i dadi le erano stati tutt’altro che amici nel corso dei primi giri di gioco.

Nell’ipotecare una proprietà, Futaba aveva sbuffato sonoramente. “Questo gioco non è divertente come me lo ricordavo. Ed è anche parecchio lungo.”

Ann, al contrario, appariva così a suo agio nella sua ricchezza da sembrare una principessa malvagia. Morgana la stava osservando con adorazione, in silenzio per una volta.

Sojiro ridacchiava ogni volta che qualcuno capitava su una delle sue proprietà e chiedeva i soldi con fare solenne, perfettamente calato nella parte.

“Ho perso.” Aveva constatato Futaba nel tentare di vendere l’ultima delle sue proprietà. A quel punto i giocatori si erano guardati e avevano convenuto che la partita fosse durata abbastanza.

Ann si era proclamata vincitrice e Futaba le aveva regalato il gioco, sostenendo che non fosse stato divertente, ma accettando di fare una nuova partita insieme a lei in futuro, “Quando sarò più allenata a trattare con le persone.” Aveva proposto.

Sojiro si era offerto di accompagnare a casa la ragazza, dal momento che si era fatto tardi, e Futaba era rimasta rannicchiata sulla panca del LeBlanc.

“Bevi qualcosa prima di tornare a casa?” Le aveva chiesto Ren.

“Sai, quando ero piccola non giocavo così a Monopoly all’inizio. Le prime volte usavo le vie per inventarmi storie e la mamma le ascoltava.”

“Te ne ricordi qualcuna?” Le aveva chiesto.

“No. Ricordo poco di quel periodo, ma so che le mie pedine preferite erano sempre la mela e la pera, e so anche che la mamma all’inizio non voleva che giocassi così perché il gioco non era suo. Ora credo che fosse di Sojiro. Lui però non mi ha mai detto niente di male. Non si è mai lamentato.”

Ren si era seduto di fronte a lei. “Ti è dispiaciuto giocare così? Con le regole?”

Lei aveva scosso la testa. “No, dopo un po’ la mamma mi ha insegnato le regole giuste. A me non piacevano e ne avevo proposte di migliori, ma lei mi ha convinto a stare alle regole come tutti, anche se non mi piacevano.”

“Credo sia una cosa importante.”

“Tu le assomigli, sai?”

Ren non sapeva cosa dire. “A Wakaba?”

“Sì, perché mi proteggi da quello che mi fa paura e mi aiuti ad accettarlo. Anche adesso coi Phantom Thieves mi stai aiutando a prendermi cura di voi, usando i miei punti di forza per la squadra. Io sono contenta di poter stare insieme a voi, di combattere insieme.”

“Non c’è niente di male a voler passare del tempo seguendo le proprie regole, a volte.”

“No, lo so. Infatti mi sono un po’ pentita di avere lasciato il gioco a Panther. Quasi quasi domani glielo chiedo indietro per farmi una partita come quando ero piccola. O semplicemente per inventarmi delle regole migliori.”

“Oppure potremmo fare un altro gioco, uno adatto ai tuoi punti di forza.”

“Come il gioco dei mimi!” Aveva proposto scherzando Futaba. “O Pictionary, quello che piacerebbe tanto a Inari dove si fanno i disegni!” Futaba aveva sollevato l’indice. “Ho un’idea…”

Quando Sojiro era tornato, pochi minuti dopo, li aveva trovati seduti sul tavolo a scrivere una lunga lista. Il titolo era GIOCHI DA PROVARE CON REN E SOJIRO.
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Prompt: Risiko


Una serata tra amici

Gabriele si fermò allo stop chiedendosi per un secondo se tornare a casa e fingere un improvviso mal di stomaco.
Con tutti i giochi che ci sono al mondo, proprio Risiko hanno scelto…
E pensare che era stato felice quando i suoi amici gli avevano proposto di incontrarsi per una partita a un gioco in scatola, proprio come facevano ai vecchi tempi. Era da così tanto tempo che non succedeva, che avrebbe accettato anche il gioco dell’oca, per quanto lo riguardava, ma Risiko no: era un gioco pericoloso per lui, perché gli faceva tornare alla mente brutti ricordi, ricordi di vere e proprie guerre durante la sua infanzia.
Parecchie volte, in passato, era riuscito a evitare di presentarsi quando i suoi amici ci giocavano. “Ho smesso,” scherzava, “è un gioco che mi fa diventare cattivo.”
Il problema era che non scherzava per niente. Non aveva mai capito quale fosse il motivo, ma giocare a Risiko lo rendeva davvero troppo competitivo. Gli dispiaceva soprattutto perché odiava farsi vedere così da Laura, che pareva avere una capacità di controllo sopra la norma, soprattutto quando si trovava a dover accettare una sconfitta.
Ormai sono cresciuto, prenderò la partita con estrema calma e non mi farò trasportare dal gioco, questa volta. Si era detto, promettendo a se stesso che non avrebbe ripetuto gli errori del passato. Ricordava ancora di quando si era lanciato sul tavolo, sopra la plancia di gioco contro suo fratello nel momento in cui un attacco di quest’ultimo era stato un po’ più fortunato del solito. I genitori li avevano dovuti staccare con la forza e solo dopo qualche ora finalmente Gabriele si era calmato e aveva deposto bandiera bianca. Poi era successo un’altra volta, l’ultima. Aveva lanciato la plancia contro la finestra aperta, facendo cadere alcune pedine. Poi era corso in camera sua urlando di rabbia per la sconfitta.
Il fatto era che il gioco era davvero stupido e, dopo aver provato e perso ad altri giochi in scatola, aveva finalmente la certezza che fosse poco bilanciato e basato un po’ troppo sulla fortuna. C’era di meglio e la serata passata a bisticciare per accaparrarsi obiettivi irrealizzabili e tutti uguali non era esattamente il suo ideale di “bel momento con gli amici.”
Prima di suonare il campanello di Laura, sospirò profondamente. “La prendo leggera, se perdo non importa,” ripeté a se stesso, con poca convinzione.
“Magari cambiamo, troviamo qualcosa di meglio o semplicemente non giochiamo.” continuò a pensare mentre saliva le scale.
Quando entrò dalla porta, sul tavolo c’era già la plancia di gioco. Dentro di sé, Gabriele sentì il desiderio di vincere farsi strada e cercò di strozzarlo, per non farlo arrivare in vista.
Laura lo abbracciò. “Quanto tempo è passato! Mettiti comodo e poi scegli, ordiniamo una pizza e la mangiamo in cucina.” Nel corso degli ultimi anni l’aveva vista poco, poi avevano recuperato i rapporti da quando si era lasciata con Samuele, il suo fidanzato storico. Era sempre stata la sua migliore amica nel gruppo e vederla finalmente sorridere di nuovo in modo sincero, non solo con le labbra, ma anche con gli occhi scuri e profondi, lo fece sentire bene, più tranquillo.
Massimo ed Elisa erano seduti sul divano, mentre Christian stava finendo di sistemare i piccoli carri armati di fronte alle varie postazioni di gioco. “Io prendo i neri.” Comunicò all’amico, che alzò le spalle con indifferenza. “Io prendo quello che avanza.” Non avrebbe ammesso che lui aveva sempre e solo giocato col verde e che avrebbe fatto fatica ad accettare che qualcuno glielo rubasse. “Non c’è Nicky?” cambiò discorso.
“Lei non ama Risiko, non gioca con noi. Viene per la pizza però.”
“Ah, era un’opzione, avrei potuto seguirla anche io.” Rise da solo per la sua battuta, pensando che a fingersi indifferente stava facendo una pessima figura.
“Pizza, devo ordinare perché altrimenti non ce la portano. Scegliete veloci." Laura era riapparsa. “Giallo per me!” La sentì dire mentre leggeva il listino per la cena. Un altro colore andato.
Aggiunse la sua preferenza al blocco notes sul tavolino e si versò un bicchiere d’acqua. Forse poi avrebbe preso una birra, al momento però si sentiva un po’ troppo nervoso per i suoi gusti.
Massimo ed Elisa presero i loro posti sul tavolo di fronte ai carri armati rispettivamente rossi e rosa. Gabriele ne approfittò per mettersi di fronte al suo colore. Era un segno, probabilmente indipendente dal fatto che ai suoi due amici importava poco del colore, a loro bastava sedersi l’uno di fianco all’altra.
“Manca qualcuno?” Chiese quindi Elisa.
“Dovrebbe arrivare Luca, ma è sempre in ritardo e non ha risposto al telefono, quindi tra dieci minuti iniziamo. Intanto ripassiamo un po’ le regole?”
Mentre l’amico spiegava i passaggi e tutti stavano in silenzio, Gabriele pensò agli stili di gioco degli avversari: Elisa non era temibile, giocava per stare in compagnia, ma in genere non amava la competizione e, conoscendola, distruggere un esercito nemico non le si addiceva per indole, quindi immaginava che non si sarebbe impegnata troppo. Christian era molto metodico, ma non aveva una grande fortuna coi dadi e spesso scopriva troppo le sue tattiche. Sarebbe stato semplice metterlo contro gli altri.
Massimo non era un grande stratega, le sue mosse spesso erano più dettate dalla foga del momento che dalle necessità di gioco. A preoccuparlo di più tra i presenti era Laura. La sua migliore amica non parlava molto, ma prendeva le partite sul serio ed era brava a bilanciare le sue tattiche in modo da massimizzare il risultato. Anche Luca poteva essere un problema, nel caso in cui fosse arrivato. Se la cavava bene quando era in giornata, ma spesso si distraeva.
“Un obiettivo potrebbe essere qualcosa come conquista diciotto territori, ciascuno con due armate, oppure conquista due continenti, o ancora potrebbe chiedere di distruggere un’armata avversaria.” Ecco: l’ultimo era quello che preoccupava Gabriele più degli altri. Sperava di cuore di non pescare uno di distruzione, perché l’ultima volta… non era andata bene.
Il campanello suonò e Luca salì le scale correndo. “Sei in ritardo.” Gli disse Laura appena entrò dalla porta. “Scegli la pizza e siediti che altrimenti non finiamo la partita.”
Luca si scusò per il ritardo con la frase che ripeteva ogni volta: ho avuto un imprevisto, volevo chiamare, ma tanto ero già per strada. Poi salutò gli amici e prese posto. “Volevo io i verdi!” Si lamentò.
“Chi tardi arriva, male alloggia.” Rispose Gabriele pensando che in fondo una piccola dose di fortuna l’aveva già avuta.
Sentì Laura parlare con la pizzeria mentre Luca sciorinava i suoi successi lavorativi e al pensiero che la partita stava per iniziare si sentì di nuovo nervoso. Il suo cuore iniziò a battere più velocemente mentre l’adrenalina gli arrivava alla testa. “Iniziamo?” Chiese quando la vide avvicinarsi al tavolo.
“Direi di sì.” Confermò la padrona di casa, che prese il mazzo degli obiettivi e lo mescolò, prima di distribuirne uno per ogni giocatore.
Gabriele raccolse la sua carta e la sollevò tenendola coperta con la mano, per non svelare neppure a se stesso il suo obiettivo senza prima essere pronto a conoscerlo. Respirò profondamente, poi abbassò lento la mano per scoprire che avrebbe dovuto conquistare il Sud America e l’Asia. Non male, pensò mentre osservava la plancia.
Tutti i giocatori rinforzarono i territori dati loro dalla casualità del mazzo con le risorse a loro disposizione, poi restituirono le carte, che vennero mescolate di nuovo per iniziare la partita vera.
“Vediamo chi perde per primo! Vinca il più cattivo!” Scherzò Luca, che rise insieme agli amici. Anche Gabriele accennò una smorfia, già catturato dagli ingranaggi del gioco.
Le carte non erano state molto fortunate, quindi i suoi obiettivi erano difficili e lontani, ma lui come sempre cercò di celare la sua strategia nel corso dei primi turni di gioco e si lasciò andare a un primo turno rilassato, quasi in difesa.
“Attacco Gabri in Africa del Nord dal Brasile!” Gridò Laura, i dadi già in mano.
I dadi, i suoi nemici. “Prova se ci riesci!” Le rispose prendendo i tre dadi di difesa. Dopo tre lanci difensivi particolarmente fortunati, Laura fu costretta ad abbandonare l’attacco. “Ti restituirò il favore!” Dichiarò, pensando che era un buon modo per cominciare a occuparsi del suo obiettivo. In generale dal punto di vista strategico sapeva che i continenti più piccoli erano presi spesso di mira per avere rinforzi più generosi, lui avrebbe fatto lo stesso.
Dopo pochi turni suonò il campanello e Laura corse a rispondere. “È arrivata Nicky, e tra poco arriva anche la pizza quindi finiamo il turno e facciamo una pausa.”
Gabriele approfittò della pausa per osservare i suoi territori: ne aveva solo uno in più rispetto all’inizio della partita, ma il posizionamento delle truppe era buono, così come le carte che aveva in mano.
Gli amici salutarono Nicky, che si sedette sul divano. “Che giornata ho avuto, meno male che adesso posso stare un po’ tranquilla. Come va la partita?”
“Meh, insomma… Potrebbe andare meglio.” Il più sfortunato fino a quel momento era stato Luca, sul quale la coppia Elimo (come chiamavano Elisa e Massimo) aveva sganciato quasi tutti i suoi attacchi.
Gabriele non era sicuro che sarebbe stato in grado di fermarsi per la pizza se fosse stato al suo posto, ma il ragazzo al contrario sembrava aver preso la potenziale sconfitta imminente con stoica grazia ed era probabile che il motivo fosse proprio Nicole, l’ultima arrivata nel gruppo di amici grazie a Elisa, che lui stava provando a conquistare con le sue affinate doti, spesso efficaci.
Avvicinò l’amico quando tutti insieme lasciarono il tavolo e lo prese da parte. “Ehi, Luca… Vuoi una mano a uscire di scena?”
Lui sollevò lo sguardo in un sorriso. “Di solito ti manderei a quel paese, ma non oggi. Diciamo che non ti porterò rancore in caso di attacchi, poi io ovviamente non controllo i dadi e ho delle mani d’oro.” Scherzò, soffiando con leggerezza sui polpastrelli e imitando dei lanci. Ho un talento naturale.
“Si chiama culo.” Rispose Gabriele, “È per questo che non giochiamo volentieri con te, mister talento naturale.”
Luca si mise a ridere e raggiunse velocemente Nicole. Nonostante la pausa, Gabriele non riusciva a evitare di pensare al gioco e a come avrebbe potuto vincere. Mentre gli altri sei chiacchieravano, lui osservava la plancia di gioco: pensava a eventuali ritorsioni da parte degli altri nel caso di attacchi, il problema principale sarebbe sorto se lui avesse attaccato gli Elimo, con Laura non c’era problema perché lei giocava in modo serio, ma non se la prendeva troppo. Christian aveva territori buoni da colpire, ma era messo bene con le truppe e da solo non lo avrebbe tolto dai territori che gli interessavano.
Quando il campanello suonò di nuovo, Gabriele sbuffò.
“La pizza! Gabriele, apri tu?” Gli gridò Laura. Un po’ controvoglia, lui si diresse verso la porta, prese i soldi che avevano raccolto di fianco alla porta e scese a recuperare il cibo.
Al suo ritorno gli amici avevano aperto il tavolo della cucina e si erano disposti intorno occupando tutto lo spazio che c’era nella stanza, recuperando le sedie dall’altro tavolo. “Si sta stretti, ma non abbiamo altro modo.” Laura si sentiva sempre in dovere di scusarsi per le dimensioni del suo appartamento.
“Ma cosa dici, si sta benissimo, e comunque è pizza, si taglia e si mangia anche qui.”
Gabriele posò il suo cartone sul piano della cucina, imitato da Laura, e i due iniziarono a mangiare uno accanto all’altra. “Una cosa non cambia mai: quando arriva la pizza cala il silenzio.” Rise Christian.
“Ci vogliono certezze nella vita, soprattutto col lavoro che ho.” Echeggiò Massimo, l’eterno precario del gruppo.
Luca alzò la mano e si schiarì la voce: “Ecco, potrei presentarti qualcuno.”
La risata di Laura. “No, per carità, non andare anche tu a fare il grande uomo del marketing, ce ne basta uno nel gruppo o ci tocca metterla ai voti per decidere chi è di troppo.”
Lei lavorava da quando ne aveva memoria. L’aveva sempre considerata una persona umile alla quale la vita aveva dato tante sfide da combattere, e lei aveva risposto senza lasciarsi abbattere, almeno all’apparenza. Non era il tipo di donna che si apre con gli amici, ma ricordava di averla vista abbattuta, mentre piangeva dopo l’ennesima brutta notizia riguardante la salute di sua madre, che era morta ormai da tre anni, dopo la sua lunga malattia. L’appartamento era l’eredità dei genitori e lei teneva molto a invitare tutti lì per fare la sua parte e mantenere viva la loro amicizia. Lavorava come segretaria nello stesso posto da ormai sei anni e non aveva grosse ambizioni lavorative, e lei avrebbe potuto, eccome.
“Che ti prende, stai pensando a come uccidermi?” Gli chiese lei. Era evidente che si fosse incantato a fissarla mentre mangiava.
“Sto pensando a come vincere.” Sorrisero entrambi.
“Ecco, tu pensa, bravo, che a fare ci penso io.”
Finita la pizza, Christian e Nicole uscirono a fumare, seguiti da Luca che sembrava aver deciso di placcare la ragazza a vista.
“Porto il caffè se vi va, accomodatevi sul divano.” Gli Elimo uscirono insieme e Gabriele iniziò a impilare i cartoni della pizza. “Li porto giù quando scendo.”
“Grazie, sei sempre gentile.” Solo a guardarla in quel momento si rese conto di quanto fosse facile essere gentile con lei.
“Va tutto bene, Laura?” Le chiese, notando un’ombra di tristezza nel suo sguardo.
“Insomma… Oggi è una bella serata, sono solo un po’ stanca perché devo lavorare parecchio e non mi trovo tanto bene in ufficio da quando è cambiato il direttore. Mi piacerebbe cambiare, ma sono da sola.”
Gabriele ripensò alla storia dell’amica con il fidanzato di sempre: sei anni passati con Samuele, durante i quali la vita li aveva allontanati. Si erano lasciati da più di sei mesi ormai e i rapporti del gruppo erano tornati uniti proprio grazie a Laura, che si era detta dispiaciuta di averli lasciati allontanarsi un po’ troppo e aveva preso nelle sue mani il compito di riportare il gruppo ai bei tempi, cosa che lui aveva apprezzato molto. “Hai bisogno di qualcosa? Posso aiutarti.”
Lei aveva scosso la testa. “Non chiedo soldi agli amici, lo sai. Non preoccuparti, qualche mese di fatica e, se tutto va come deve, riuscirò a cambiare vita. Ora mi basta avere voi vicini.”
Sentì il desiderio di abbracciarla, invece si limitò a prenderle la mano. Aveva sempre pensato a lei come a un’amica, ma nell’ultimo periodo l’aveva vista diversa: era cresciuta in modo più duro rispetto agli altri del gruppo e forse per questo gli era sempre sembrata più adulta, anche quando erano ragazzi.
Era lei a riprenderli tutti quando si comportavano in modo immaturo, era sempre lei a costringerli a rispettare tutte le regole, in genere supportata da Luca. Erano sempre stati un bel gruppo di persone diverse, con passioni e valori in comune.
Gabriele si era impegnato a studiare e per un periodo si era allontanato con l’università, ma ricordava di essersi sorpreso la prima volta che l’aveva vista insieme a Samuele. Un ventiseienne in mezzo al gruppo di ragazzi di diciannove o venti anni sembrava fuori posto, soprattutto lui che non aveva interessi in comune con loro. Samuele era un uomo serio, che lavorava, giocava a calcio e guardava le partite in televisione o allo stadio. Di bell’aspetto, lo vedeva anche lui, ma con ben poco da offrire alla sua amica. Quella sera si era lasciato scappare il commento: “Cosa ci vedrà in lui?” E Luca gli aveva chiesto se fosse geloso.
“Ma quale gelosia, sono solo preoccupato per la mia amica, perché mi ha parlato di fuorigioco e io non so cosa sia. Che sia una malattia?” Aveva scherzato. Gabriele non aveva mai pensato a lei in quel modo, ma all’improvviso aveva iniziato a credere che lui sarebbe stato una scelta migliore, lui avrebbe saputo come renderla felice. Nel corso degli anni aveva pensato spesso a cosa avrebbe potuto fare se i due avessero preso strade diverse. Si era visto mentre la salvava dalla tristezza di una vita noiosa, ma quando lei aveva avuto bisogno di aiuto con la malattia della madre, Samuele le era stato vicino. Almeno all’apparenza. In seguito Laura aveva confessato a Elisa di aver chiesto anche a lui di lasciarla da sola, e proprio in quel periodo i due avevano iniziato ad allontanarsi in modo sistematico e irrecuperabile. Quando si erano lasciati, non era stata una sorpresa per nessuno.
“Tu puoi sempre contare su di me.” Le disse, ma la reazione dell’amica fu di shock. Gabriele si subito pentì della sua frase da film scadente doppiato male e cercò di sdrammatizzare, lasciando subito andare la sua mano. “Scusa, ho visto troppa TV in questo periodo, non farci caso.” Lei continuò a fissarlo mentre indietreggiava, ma sembrava felice.
“Ok, magari puoi aiutarmi a fare i caffè, Mr Forrester.”
“Mr cosa?” chiese, confuso.
“Sai, quello di Beautiful, mi pare si chiamasse così. Lo guardava sempre mia mamma, nell’ultimo periodo recuperavamo le puntate insieme. Roba da boomer.” Rise.
Gabriele portò fuori i caffè e si mise a osservare la plancia, Laura dall’altro lato faceva lo stesso, mentre teneva la tazzina con entrambe le mani il suo sguardo passava da un lato all’altro, veloce, un ghigno di soddisfazione si formava lento sul suo viso. Come immaginava era la sua avversaria più pericolosa.
“Ok, andiamo avanti che la notte è breve e noi stiamo invecchiando.” Dichiarò, battendo le mani.
Dopo pochi assalti Luca era ormai fuori gioco, partecipava in modo distratto ed era chiaro che avesse perso i suoi obiettivi. Gabriele da un lato sperava che qualcuno avesse l’obiettivo di distruggerlo per concludere la partita, ma non fu così e quando dichiarò la sua sconfitta, salutò e corse sul divano a sedersi di fianco a Nicole. “Ho perso per non farti sentire sola, stasera.”
La partita proseguì in modo piuttosto equilibrato: Gabriele capì che la sua Asia non era un obiettivo ricercato. In fin dei conti era il continente più impegnativo, al contrario del sud America, che pareva molto più gettonato. In breve Laura si appropriò dell’Africa e Christian dell’Oceania. Gabriele cercava di colpire sempre il giocatore più forte tra quelli presenti in Asia e, lentamente, stava conquistando una buona parte dei territori. “Si sa che chi prende la Kamchatka vince la partita,” dichiarò mentre avanzava sul territorio che fino a quel momento era stato di Elisa.
Passò un’altra mezz’ora di stallo. Quando Christian lo sconfisse di nuovo in Brasile, Gabriele si sentì all’improvviso colpito sul vivo, come temeva la competizione stava iniziando a renderlo impulsivo. Contò fino a dieci mentalmente, come si era promesso di fare, poi durante il suo turno cercò di recuperare, senza successo. Rosso in viso, abbandonò anche il Venezuela e con esso la sua presenza in Sud America.
Fu felice poi quando Laura diede una bella lezione al suo amico, indebolendo le sue truppe, senza però riuscire a prendere il territorio.
Tre turni dopo, Massimo sbuffò. “Stavo quasi vincendo e non ho più niente.” Osservò. Ci volle poco per metterlo fuori gioco e il colpo di grazia gli fu dato proprio da Elisa, che senza pietà ignorò il loro tacito accordo di non belligeranza. “Mi dispiace, ma ormai sei andato.” Anche lui si accomodò sul divano a sbollire e a sorseggiare il liquore alle erbe che Luca aveva tirato fuori su consiglio di Laura.
Erano rimasti in quattro e purtroppo Gabriele doveva ammettere di essere quello messo peggio. Elisa appariva a suo agio, pronta a dargli il colpo di grazia, ma appariva più propensa a battersi con Laura, che nel corso degli ultimi turni aveva, citandola: “Perso qualche truppa di troppo.”
“Ok, pausa.” Propose Christian, ed Elisa aggiunse: “Devo andare in bagno.”
“Io prendo da bere.” Propose Laura, che andò in cucina, seguita da Gabriele che quella sera si sentiva quasi ipnotizzato.
“Che ti prende?” Gli chiese l’amica nel vederlo dietro di lei.
“Cosa?”
“Sei strano stasera. Sicuro di stare bene?” Una pausa. “Devi dirmi qualcosa?”
Lui si sentiva in crisi. Sapeva di doverle dire qualcosa, ma non era sicuro che fosse la cosa giusta. “Porto giù i cartoni della pizza, così faccio due passi.” Lei annuì, passandogli la spazzatura.
“Speravo in qualcosa di diverso, ma mi accontento.”
Mentre scendeva le scale, Gabriele si chiese quanto gli importasse davvero della spazzatura o della partita. Avrebbe voluto parlarle, dirle che forse tra loro le cose potevano essere diverse, ma non voleva rovinare la loro amicizia. Quando tornò di sopra la trovò ancora in cucina, a osservare il microonde dove scoppiettavano i pop-corn. Depositò il contenitore vuoto e tentò con l’unica frase che sentiva di poterle dire senza conseguenze disastrose. “Non mi dispiacerà se sarai tu a vincere.”
Lei non si voltò, ma sorrise. “Neanche a me dispiacerà se sarò io a vincere.”
La fine della partita arrivò in pochi turni. Elisa puntò tutto sul distruggere Christian, che non fu aiutato molto nei suoi tentativi di difesa. Gabriele era a due territori dalla vittoria quando l’armata di Laura gli conquistò nuovamente il Brasile per poi dichiarare la vittoria.
Stranamente, non sentiva rabbia. Alzò le spalle ed evitò di parlare.
“Questo gioco non mi piace proprio,” si sentì di commentare Christian, che l’aveva scelto.
Gli amici si sedettero sul grande divano e sui cuscini posti sul tappeto a parlare insieme per un po’, prima di iniziare a salutarsi.
“Forse è meglio che vada anche io,” disse Gabriele quando Christian e Nicole presero i cappotti.
“Certo, ma posso chiederti un favore prima?” Gli chiese Laura. “È una cosa veloce, un piccolo aiuto.”
“Sì, cosa ti serve?” Lei fece cenno di aspettare e insieme salutarono i due amici, poi chiuse la porta.
Era in silenzio. “Mettiamo via il gioco intanto?” le propose.
Lei annuì. Sembrava che stesse cercando le parole giuste. Gabriele quindi decise di usare il suo coraggio. In fin dei conti pensava che i due volessero la stessa cosa da come stava andando quella sera. Richiuse il coperchio e le si avvicinò.
“Ti vedi con qualcuno?”
Laura alzò lo sguardo. “No… e tu?”
“Neanche io. Dici che rischieremmo troppo se provassimo a…” Si fermò nel vedere il sorriso aprirsi. Gabriele fece un passo verso di lei e, che gli accarezzò i capelli con una mano. “No, mi piace rischiare, lo sai.”
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Prompt: Forza 4
Orignale
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Slice of life
Parole: 1120

Competizione e collaborazione


Sin da quando erano piccoli, fino a quando avevano compiuto cinque anni, i giochi di competizione tra Miriam e Leonardo erano sempre finiti male. Chiunque dei due vincesse, era sempre certo che l’altro si sarebbe arrabbiato e qualcuno avrebbe avuto un occhio nero, un graffio o un bernoccolo da qualche parte.
“È normale che vogliate vincere tutti e due, ma l’importante è che vi divertiate nel corso della partita, poi quando litigate finisce che nessuno dei due si diverte, non è forse così?” Chiedeva loro la mamma, per trovarsi di fronte gli occhioni smarriti e pentiti dei due bambini, che in seguito riprendevano il loro conflitto da dove si era interrotto. Proprio per questo i genitori avevano cercato di evitare di acquistare giochi uno contro uno, in modo da permettere ai due di avere momenti più sereni insieme. “Con il tempo questa conflittualità passerà, è solo questione di un paio di anni.” dicevano tutti. “Per i fratelli è così, ci sono sempre litigi per cose futili come questa, ma impareranno a volersi bene.”
La scuola aveva insegnato loro che molto spesso l’alleanza ha un valore molto importante e i due, con riluttanza, avevano scelto di essere alleati anziché avversari, per aiutarsi coi compiti, con le coperture coi compagni e anche per farsi compagnia nei momenti più difficili. Anche di fronte alla famiglia avevano dovuto ammettere che era bello avere un amico al loro fianco.
Per questo, quando il giorno del loro compleanno i due avevano trovato un pacco a forma di parallelepipedo con scritti sopra entrambi i loro nomi, erano stati felici di trovare un gioco in scatola di nome forza 4.
“Ci dovete promettere che non litigherete, però. Altrimenti lo chiudiamo nell’armadio e non lo rivedete per altri cinque anni.” Il papà aveva un tono severo, anche se nei suoi occhi i bambini vedevano che in fondo anche lui desiderava che andassero d’accordo e che giocassero insieme. Non avrebbe preso il gioco altrimenti, in effetti.
“Possiamo usarlo adesso?” Avevano chiesto. “Promettiamo che non litighiamo…” Avevano aggiunto all’unisono in tono mellifluo, come attori provenienti da uno show televisivo.
“Certo, andiamo insieme che vi spiego le regole. Fate tutti e due la prima partita con me.”
I due bambini avevano ascoltato le regole con attenzione, elettrizzati all’idea di giocare col padre. “È facile.” Aveva liquidato Miriam alzando le spalle. Ma poi, dopo soli tre turni, aveva capito di avere perso la partita. Forse il loro amore per la vittoria e quel senso irrefrenabile di rabbia che arrivava con la sconfitta veniva proprio dal loro papà, che sorrideva con fare maligno ogni volta che li batteva al nuovo gioco.
Alla seconda sconfitta della giornata, Leonardo aveva sentito l’impulso di lanciare il nuovo gioco a terra, ma il desiderio di riprovare a vincere aveva avuto la meglio su di lui.
“Fate le vostre mosse in modo troppo frettoloso: dovete pensare, ragionare, altrimenti non riuscirete mai a batterlo.” Aveva affermato la mamma, dopo avere visto una velocissima partita. “Potreste provare a parlarne tra voi e a cercare una soluzione per sconfiggerlo, almeno una volta.”
Il piano dei genitori era proprio di costringerli a fare squadra, così come succedeva a scuola, per consentire loro di capire che la competizione poteva essere vissuta in modo più sano anche a casa, quando a partecipare erano solo loro.
Miriam aveva osservato il fratello, poco convinta. “Va bene, ci sto.”
“Prendiamo le pedine rosse.” Aveva aggiunto Leonardo, allungando le gialle a suo padre.
“Prego, iniziate pure.”
I due bambini non riuscivano ad accordarsi sulla prima mossa. “Il papà di solito la mette in centro o nei due spazi vicino al centro.”
“Ma secondo me potremmo metterla anche di lato, in fondo lì.” Non sembravano giungere a un accordo, ma alla fine stupirono i genitori: “Facciamo che io decido la prima mossa, tu la seconda e poi andiamo avanti così?” Aveva proposto Miriam, trovando in quel modo l’accordo col fratello.
La pedina era quindi scesa lungo la terza corsia. L’adulto aveva risposto bloccando la corsia centrale.
“Adesso mettiamo la pedina sopra la sua.” Aveva proposto Miriam.
Ma il fratello non era molto d’accordo: “Io continuerei sul lato.”
“Ma poi sul lato ci blocca, se andiamo in alto possiamo vincere meglio.” Leonardo aveva ascoltato la sorella e alla fine aveva posto la sua pedina sopra quella del padre, che immediatamente aveva lasciato cadere la sua seconda pedina sopra la prima che avevano giocato i bambini.
“E adesso?” Miriam non era sicura della mossa che doveva fare.
“La mettiamo lì,” Il fratello aveva indicato la corsia vuota, la quinta. Non pareva una brutta mossa e, anche se non era convinta, Miriam aveva accettato la proposta.
La partita era stata più lunga delle precedenti, procedendo in modo più o meno lineare. I due gemelli avevano sventato almeno tre tentativi di vittoria del padre. Ragionare insieme aveva insegnato loro a osservare con pazienza, prendendo il tempo necessario per tentare di prevenire il gioco dell’avversario e, anche se non conoscevano ancora trucchi e tecniche per vincere in modo sistematico, sentivano di avere almeno qualche possibilità.
Dopo avere riempito più di mezza scacchiera in una partita molto più lunga delle precedenti, i due avevano sogghignato insieme. “Ce l’abbiamo fatta.” Aveva detto Leonardo infilando la pedina nella quinta corsia. “Ora se metti la pedina per fermarci qui, noi facciamo quattro sopra!” Aveva spiegato al padre, che aveva un’espressione stranamente divertita.
“Allora finiamo la partita.” Si era rassegnato il papà. “Bravi, avete unito le forze e avete vinto.” Aveva lasciato cadere la sua pedina per bloccare il primo quattro dei figli, per vedere subito la figlia infilare il gettone rosso e realizzare la mossa della vittoria.
“Sì! Evviva! Abbiamo fatto quatris!” I due bambini si erano abbracciati dopo essersi dati il cinque.
“Ma che bravi.” Aveva aggiunto la mamma.
I due bambini non si erano accorti degli sguardi di approvazione e di complicità tra i genitori. Anche se c’era la possibilità che il padre li avesse lasciati vincere ai due non importava. Stavano gustando il profumo della vittoria, insieme.
“Adesso una bella fetta di torta e poi giocate tra voi, se promettete di fare i bravi.”
“Torta!” Leonardo era partito di corsa verso il soggiorno.
“E poi partita, senza litigare.” Aveva aggiunto Miriam correndo dietro al fratello, che subito aveva echeggiato la sua frase.
I genitori, rimasti indietro, si erano guardati con complicità. “Avevi la partita in pugno.” Aveva detto la mamma. “Per un attimo ho pensato che non li avresti fatti vincere.”
“Ci ho pensato anche io, ma l’ho fatto per noi, per tutti. Un sacrificio per la famiglia.”
Sua moglie aveva riso. “Chissà da dove arriva questa smania per la competizione, eh? Meglio mangiare la torta.”
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Fandom: Originale
Prompt: Dama
Parole: 883
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La scacchiera

A casa dei nonni, nella piccola taverna dove Claudia andava spesso a giocare, c’era una scacchiera. Da piccola non sapeva cosa fosse, né a cosa servissero tutte quelle pedine bianche e nere e quindi le tirava fuori tutte e le metteva sulla scacchiera per giocare a modo suo: gli scacchi erano i suoi personaggi: la mamma, i bambini, il papà e i nonni, mentre le pedine piatte erano i mobili della casa, le macchine o le alte torri che costruiva per poi farle buttare giù durante i giochi dei bambini o combattimenti tra regine e alfieri.

Un giorno la nonna era entrata in taverna e si era schiarita la voce per attirare la sua attenzione. Claudia aveva posizionato come sempre tutte le pedine sulla scacchiera e stava facendo un gioco di equilibrio, cercando di incastrare e impilare tra loro scacchi e dame, insieme alle carte da scopa del nonno.

“Che gioco stai facendo?” le aveva chiesto la nonna mentre si avvicinava alla scacchiera.

“Gioco a scacchi, carte e dama insieme.” Aveva risposto la nipote.

“Non ti piacerebbe imparare davvero a usare queste pedine?” Aveva domandato la nonna, prendendo una dama bianca.

Claudia si era rivolta a lei con occhi luccicanti di gioia. “Posso davvero?”

La nonna aveva annuito e si era seduta di fronte alla scacchiera dal lato opposto rispetto alla nipote, che nel mentre aveva iniziato a dividere le pedine e a mettere in ordine le carte. “Cominciamo con la dama, che è un pochino più semplice degli scacchi.”

Insieme avevano riposto gli scacchi nei contenitori della scacchiera, poi la nonna aveva iniziato a mettere le dame nere sui quadrati neri della scacchiera. “Vanno posizionate tutte in questi quadrati dello stesso colore, vedi? Ce ne stanno quattro per fila.” Nell’imitarla la nipote aveva iniziato a imitare la nonna, ponendo le dame bianche negli spazi bianchi.

La nonna aveva sorriso “No, giochiamo tutte e due con questi spazi della scacchiera.” con pazienza, aveva spostato le pedine della nipote. Poi l’aveva guardata con un sorriso e aveva iniziato a spiegarle le regole del gioco. Claudia aveva fatto una moltitudine di domande, spesso non inerenti al gioco. Ma la donna aveva risposto, ammirata di fronte all’interesse sincero della bambina, che aveva solo sei anni, ma che desiderava imparare a giocare e vincere.

“Quindi io devo portare le pedine dal tuo lato per avere quella doppia e muovermi dove voglio.”

“In pratica sì, ma iniziamo a giocare, così capiamo meglio. Inizi tu che hai il bianco.”

La bambina aveva pensato che per imparare ogni mossa sarebbe stata buona, quindi senza pensarci troppo aveva mosso una delle pedine al centro della scacchiera. La nonna invece subito aveva spostato una della sue sullo scacco laterale. “Se la metto così, non me la puoi mangiare.” le aveva spiegato.

Con la seconda mossa, Claudia aveva perso la prima delle sue pedine, ma nel mangiarla, la pedina della nonna era finita in una posizione scomoda. “Ma se fai così perdi quella lì! Posso rubartela, vero?”

La nonna aveva annuito. “ Questo è proprio il gioco: vedi, ora tu puoi recuperare, anzi: devi mangiare la mia pedina, come io ero obbligata a fare lo stesso con la tua anche se sapevo che poi l’avrei persa. Molto spesso nel gioco si porta l’avversario a scoprire parti della scacchiera per provare a vincere.”

La nipote aveva ogni consiglio della nonna e, anche se la partita si era conclusa con la sua sconfitta, esattamente come si aspettava, si era divertita molto a imparare le regole.

Quel giorno avevano fatto ben cinque partite e la nonna ne aveva vinte quattro. Nel corso della seconda, Claudia era riuscita a fare la sua prima dama e aveva iniziato a utilizzarla per muoversi in giro per la scacchiera. Il senso di potere che aveva provato era stato quasi inebriante. Il gioco le piaceva.

Quando aveva vinto la partita, l’ultima, le era venuto il dubbio che sua nonna avesse fatto qualche errore di troppo e l’avesse lasciata vincere. “No, non lo farei mai, è più bello giocare insieme mettendoci tutto l’impegno possibile, non sei d’accordo?” Le aveva detto. “Ti stai divertendo, vero?”

Era così: Claudia si era divertita, si era sentita più grande a vedere finalmente quel gioco per quello che era, a giocarlo da adulta seguendone le regole corrette.

Ci erano volute molte partite perché lei imparasse a giocare davvero. Tante visite dai nonni durante le quali lei aspettava con fervore l’arrivo in taverna di sua nonna, la scacchiera pronta a quel momento intimo tra loro due che ormai era diventato una consuetudine.

Erano passati ormai trent’anni da quel giorno. Ormai Claudia aveva due figli suoi ai quali aveva già insegnato a giocare a dama. L’aveva fatto ricordando quelle sue prime partite e soprattutto la nonna, che ormai da qualche anno aveva dovuto smettere di giocare. La scacchiera era ancora lì, nella taverna che presto sarebbe rimasta vuota. Claudia aveva chiesto ai parenti di lasciarla a lei perché la voleva a casa. Aveva già scelto il posto che avrebbe occupato: a vista ogni giorno sul tavolino tra le due poltrone del salotto, in modo da permetterle di ricordare ogni giorno quelle giornate, che rappresentavano il suo legame profondo con la signora Lina, la sua maestra di dama e di scacchi.

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