Il viaggio di Daniel - originale
Apr. 19th, 2025 10:21 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
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Prompt: il castello abbandonato
Avventura
Il viaggio di Daniel si stava rivelando più lungo del previsto. Era partito parecchie ore prima dal suo paese natale per portare il carico al porto, ma sulla strada non aveva incontrato anima viva.
Era la prima volta che usciva dal villaggio e tutti si erano impegnati a dispensargli buoni consigli prima della sua partenza. Questo però non l’aveva aiutato a prendere la strada giusta, a quanto pareva, perché sembrava proprio che lì intorno non ci fosse alcun porto, tantomeno il mare. Aveva avuto qualche dubbio, in effetti, soprattutto quando si era trovato a passare sul ponte di legno mezzo scassato, rischiando anche di perdere carro e carico lungo la strada. E poi non aveva incontrato villaggi, né viandanti, né altri carri.
Si grattò il mento, lo faceva sempre quando pensava, e decise che la cosa migliore da fare fosse portare il carro nel punto più alto raggiungibile, solo che senza strade era un po’ difficile far salire il carro, perciò quando arrivò ai piedi di una ripida collina, legò il cavallo a un albero e iniziò a salire. Da lassù fu certo che era finito in mezzo al nulla.
Gira a destra, poi segui le indicazioni per il porto, andrai in discesa, così gli avevano detto. A pensarci bene lui era andato in salita, e non poco dall’inizio del viaggio. Forse si era sbagliato di nuovo a distinguere destra e sinistra. Schioccò le dita, lo faceva sempre quando era dispiaciuto. Iniziò a scrutare la boscaglia e le campagne intorno a lui in cerca di una capanna, di fumo o un qualunque segno di vita, ma non c’era anima viva, solo corvi in cielo e rumori di qualche animale tra gli alberi dietro di lui.
Si grattò la fronte e pensò che tornare indietro ormai fosse fuori discussione, presto sarebbe stato buio e il cavallo era già stanco. Sua madre gli diceva sempre che lui non era il coltello più affilato del cassetto, ma quello lo capiva bene. aggirò il boschetto per vedere dall’altro lato dell’altura poiché era certo che quella fosse la direzione giusta: da qualche parte doveva pur esserci un villaggio.
Batté le mani, lo faceva sempre quando esultava, quando notò il castello, le mura coperte di edera lo mimetizzavano tra gli alberi del bosco che lo circondava, ma da lassù Daniel aveva notato il fossato e le torri. Scese veloce e liberò il cavallo, chiedendosi cosa avrebbe trovato ad attenderlo. Sua madre gli aveva detto di raccontare sempre che veniva dal villaggio di Velda, perché tutti amano i Veldani, sono sempre amichevoli e vendono le stoffe a tutti. Il ragazzo sperò che, magari in cambio di alcune delle stoffe che portava nel carro, sarebbe stato accolto e rifocillato per la notte. Il giorno seguente se ne sarebbe andato, non avrebbe arrecato troppo disturbo. Sarebbe stato ancora meglio se avesse trovato un piccolo villaggio nel quale vendere le sue stoffe, pensò grattandosi la spalla, così non sarebbe dovuto andare di nuovo fino al porto, sarebbe solo tornato a casa.
Il cavallo aveva approfittato della breve sosta per mangiare e per riposare un po’, quindi ripartì senza troppe preghiere, Daniel invece cominciava a sentirsi davvero stanco, era quasi il tramonto e lui non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti.
Daniel fischiettava sul carro, lui e Zampebianche si avvicinavano al castello a ritmo veloce, però, più andava avanti, più si rendeva conto che qualcosa non quadrava: sembrava che quella strada non venisse percorsa molto spesso, gli alberi erano grandi, l’erba alta e i campi non sembravano coltivati. Le stesse mura del castello, a cui si stava avvicinando, erano coperte di edera completamente.
Il ponte sopra il fossato era abbassato e l’accesso all’interno appariva libero. La realtà era che non c’era proprio una porta.
Daniel si grattò il mento e si chiese quale scelta avesse. Non era mai stato un grande pensatore, nessuno gli rivolgeva mai domande importanti, semplicemente gli dicevano cosa fare e lui eseguiva. “Se non c’è nessuno, posso dormire tranquillo. Se c’è qualcuno magari trovo compagnia.” Disse, più rivolto a se stesso che al suo cavallo, che comunque non lo avrebbe capito, in effetti.
Il ragazzo staccò l’animale dal carro e portò il suo fido destriero a quella che un tempo era la stalla. Fu felice nel notare il rubinetto a leva di un pozzo, che azionò più e più volte, fino a quando l’acqua non prese a scorrere. Riempì un secchio al suo cavallo, bevve un po’ d’acqua anche lui, si riempì la borraccia e chiuse il recinto.
“Ora penso a me. A dopo, Zampebianche.”
Si guardò intorno. Era ormai l’imbrunire e se qualcuno fosse stato nel castello, di certo Daniel avrebbe visto una candela o magari sentito delle voci che gli avrebbero rivelato la presenza di un uomo o una donna.
“C’è qualcuno?” Urlò, le mani a conca ai lati della bocca per amplificare il suono.
Rimase in attesa per qualche istante. “Se c’è qualcuno, non è che mi risponde?” Provò di nuovo, nessuna risposta. “Per favore!” Ma a quanto pareva, non sempre la gentilezza serviva, al contrario di come gli aveva insegnato sua madre.
Daniel si guardò intorno e si grattò la testa, pensò che per trovare un letto e qualcosa da mettere sotto i denti sarebbe stato opportuno esplorare gli edifici lì intorno, quindi decise di iniziare da quello più vicino.
La porta era aperta, ma l’edificio era del tutto vuoto.
Il ragazzo uscì, non aveva senso restare lì se non c’era niente, e continuò a cercare il luogo adatto per riposare.
Gli sembrava un po’ strano che lì non ci fosse proprio nessuno, ma sua madre gli aveva detto di non farsi troppe domande, gli aveva spiegato tante volte che lui era più bravo a fare che a pensare, quindi proseguì. Entrò in altri tre edifici, tutti piccoli, nella zona di ingresso del castello. Nel primo c’erano dei sacchi pieni di semi, uno di essi conteneva della frutta secca. Era stato abbastanza fortunato, perché non era la cena migliore del mondo, ma avrebbe mangiato qualcosa almeno. Raccattò delle noci e alcune nocciole, poi proseguì fino al secondo. Lì c’erano alcuni mobili che, se avesse avuto il carro vuoto, forse si sarebbe anche portato a casa: un bel tavolo con quattro massicce sedie di legno e una grossa stufa da cucina. L’ultimo stabile invece conteneva solo alcune armi, che però non gli servivano, quindi le lasciò lì, anche se aveva sempre desiderato avere una spada. Sua madre però gli diceva sempre che non voleva che lui si facesse male, era sicuro che lei avrebbe preferito che non le toccasse neanche, quindi si allontanò.
Si avviò in salita verso il complesso principale del castello. “C’è qualcuno?” Chiese di nuovo. Ma ancora nessuno gli rispose. Poco male, pensò: ho un castello tutto per me.
Riuscì a entrare dal portone senza difficoltà, perché di nuovo la porta era aperta. Che strano, pensò grattandosi il mento: perché avevano lasciato tutto lì dentro senza neppure chiudere a chiave? La stanza del trono era lunga almeno come un campo, alta più di una quercia, tutta in pietra, con enormi stendardi consumati e lerci che scendevano giù dalle pareti. Daniel osservò i due troni rivestiti di bellissimo velluto, un tempo era rosso, constatò. A terra c’era un tappeto lungo tutta la sala e ai due lati di esso alcuni candelabri alti almeno quanto lui. A Daniel sarebbe sempre piaciuto sedersi su un trono, quindi con il suo sacchettino pieno di frutta secca si avviò verso la sedia regale ridacchiando e battendo le mani.
Si fermò un istante prima di prendere posto e gonfiò il petto con aria solenne. “Re Daniel è arrivato!”
Una volta seduto, finse di ascoltare sognante gli applausi di tutto il suo popolo, che lo amava. Sua madre gli diceva sempre che era una persona buona e che era facile volergli bene.
Rimase lì a sognare conversazioni di ogni tipo con i suoi consiglieri, pensò che i cuochi gli avrebbero cucinato dello stufato di carote, che era il suo preferito, e magari anche del pane fresco.
Dopo un po’, Daniel decise che era ora di alzarsi e procedette verso il grande tavolo dietro i due troni. Si sedette e iniziò a mangiare la sua frutta secca. Per romperla utilizzò uno strano oggetto grosso e pesante di forma sferica che stava su un piedistallo di fianco al tavolo. Continuò a mangiare fino a quando non fu sazio, solo che nel rompere le ultime nocciole la sfera si ruppe in mille pezzi, rilasciando una strana polverina viola.
Daniel tossì e schioccò le dita. “Proprio con l’ultima nocciola, che sfortuna!"
Si alzò e si diresse verso le stanze reali. Lì c’erano i letti ancora belli fatti, solo che erano un po’ sporchi, pensò mentre si grattava la pancia. Sua madre gli diceva sempre che non sarebbe stato qualche germe a ucciderlo, quindi il ragazzo alzò la coperta e controllò che sotto non ci fossero ragni, quelli non gli piacevano molto e in effetti era pieno di ragnatele, osservò.
Sbatté qualche volta il cuscino per togliere la polvere e si mise a letto. Si addormentò subito.
Il mattino dopo si risvegliò fresco e riposato, intorno a lui non c’era più la stanza abbandonata nella quale si era addormentato, ma una camera regale verniciata di fresco, con mobili nuovi e lenzuola linde. Si grattò la fronte: era sicuro di non aver preso sonno in quella stanza e lui non era un sonnambulo, sua madre gli diceva sempre che di notte lui non muoveva un muscolo, al punto che sembrava quasi morto.
Sentì delle voci e pensò che era ora che arrivasse qualcuno, così si diresse al piano inferiore, dove trovò almeno una trentina di persone che si zittirono appena lui varcò la soglia.
“Eccolo, ecco l’eroe!”
Daniel era un po’ preoccupato, si indicò con il dito per capire se era proprio di lui che stavano parlando. “Io sono Daniel.” Riferì.
Un uomo elegante con dei baffetti corti e un aspetto trafelato gli corse incontro: “Hai spezzato la maledizione, hai rotto la sfera! Come posso ringraziarti?”
Il ragazzo non sapeva cosa dire. Fu portato in festa per tutto il castello e a lui e al suo cavallo furono offerti oro e ricchezze, lui in cambio lasciò le sue stoffe e il nome del suo villaggio. Lo invitarono a tornare, dicendogli che gli sarebbero stati per sempre grati.
Così Daniel tornò a casa con il titolo di cavaliere dato dal re in persona, più ricco di quanto avrebbe sperato. Sua madre forse non immaginava che proprio lui sarebbe stato chiamato eroe da qualcuno. Era fiero di se stesso.