quistisf: (Default)
 

Fandom: Persona 3
Personaggi: Fuuka Yamagishi,
Natsuki Moriyama
Genere: introspettivo, avventura
Prompt: labirinto
Partecipa al COWT14
Wordcount: 4820


Soltanto uno scherzo


Un altro vicolo cieco
. La ragazza sbuffò e iniziò a percorrere la strada a ritroso, sperando di capitare di fronte alla via d’uscita. Non era certa di quanta strada avesse percorso vagando avanti e indietro lungo i corridoi, sapeva solo che non aveva più intenzione di salire, visto che ogni volta che era arrivata in cima a una rampa di scale, essa era svanita nel nulla intrappolandola in un nuovo piano più pericoloso di quello precedente. Quello era un luogo impossibile, malvagio e insidioso.

Chiedersi di nuovo come fosse arrivata lì dentro non l'avrebbe aiutata a trovare prima l'uscita, poteva solo continuare a cercare, anche perché se non fosse uscita di lì in fretta, sarebbe di certo impazzita.

Fuuka osservò le pareti scure, spettrali a causa della luce viola. Esse si muovevano costantemente, come se il luogo respirasse e vivesse. Le pareti si arcuavano e si modificavano a intervalli di tempo regolari. Nascondevano ombre che si muovevano lungo le superfici, in uno strato appena sotto la parte visibile, la pelle, in alcuni punti scrostata proprio come se qualcosa si fosse liberato dall’interno, creando una ferita.

La ragazza avvicinò di nuovo una mano alla parete, era più calda dell’aria intorno a lei, il Tartarus è vivo. Si sentì ancora più terrorizzata, ma si sforzò nel non lasciarsi andare alla disperazione in modo rumoroso. Non aveva intenzione di attirare a sé le creature che, come vermi, si muovevano silenziose nei punti più bui attorno a lei.

Doveva trovare una via d'uscita o sarebbe impazzita in quel labirinto.

Un essere strisciante le passò di fronte, Fuuka si portò una mano alla bocca per tentare di non urlare, ma sentiva il rumore del cuore martellare nel suo petto più forte di un tamburo, più veloce che dopo una lunga corsa.

E pensare che solo il giorno prima era a casa a sorseggiare un tè caldo e a lamentarsi del mal di testa.

Non solo di quello. Era da un pezzo ormai che Fuuka Yamagishi non si sentiva più felice, da quando i suoi problemi di salute l'avevano resa invisibile agli occhi di quelli che lei considerava, un tempo, i suoi amici.


Era cominciato tutto con una banale influenza che l'aveva costretta a letto per una decina di giorni. I suoi genitori erano entrambi medici e non avevano preso sottogamba i suoi sintomi, costringendola a restare a casa per curarsi.

Fuuka si sentiva in colpa poiché continuava a perdere giorni di scuola, sentiva i suoi genitori parlare fuori dalla sua stanza di quanto fossero preoccupati che non sarebbe mai riuscita a diventare anche lei un medico se non si fosse impegnata di più.

Il senso di colpa l'aveva portata a fingere di sentirsi meglio. Non voleva deluderli, era necessario che si impegnasse negli studi più che poteva. Quindi era tornata a scuola, ma si sentiva debole e a breve fu costretta ad ammettere di non sentirsi ancora bene.

Sua madre aveva iniziato a sottoporla a una montagna di esami per escludere ogni tipo di patologia conosciuta, dalle più comuni a quelle rare. Tutto risultò negativo.

Stare a casa con i suoi genitori significava passare il tempo sotto i loro occhi giudicanti, ad ascoltare parole fredde. "Spero che tu riesca a migliorare almeno un po', così non basta."

"Davvero hai studiato? Quanto tempo ci hai messo a scrivere questa relazione?"

Fuuka si impegnava il più possibile, ma pareva che non fosse mai abbastanza. Anche quando si sentiva soddisfatta del suo lavoro, loro reagivano come se quello fosse il minimo indispensabile.

Non era facile, ma la vita a scuola era diventata persino più difficile. Le domande invadenti dei suoi compagni di classe la mettevano a disagio. "Perché stai sempre male?" oppure "Cos'hai? Sei malata?", fino all'osservazione che le dava più fastidio: "Stai saltando scuola perché i tuoi sono amici dei dottori? Certo che sei fortunata." Se all'inizio Fuuka aveva provato a rispondere con leggerezza e serenità, col passare dei giorni aveva cominciato a evitare i compagni e i loro commenti carichi di risentimento e di invidia. "Pensi davvero che sia felice di passare così tanto tempo a casa?"

"Credi che restare bloccata a letto ed essere costretta comunque a non restare indietro con lo studio sia divertente?"

Aveva iniziato a fingere dolori solo per evitare la scuola. Lo faceva di rado, solo quando sapeva di non avere lezioni importanti o impegnative. Appena i suoi lasciavano l'appartamento per andare al lavoro lei iniziava a studiare seduta in salotto, odorando il profumo dei fiori freschi che in casa sua non mancavano mai, nella pace silenziosa della solitudine.


Natsuki Moriyama era una bulletta da quattro soldi. Fuuka era giunta a questa conclusione la prima volta che avevano parlato insieme, all'inizio del primo anno alla Gekkoukan.

Da allora aveva sempre cercato di ignorare sia lei che le sue due amichette, le chiamava le ombre, perché dove andava la prima, arrivavano subito le altre due.

Si erano ignorate in modo reciproco fino a quando Fuuka non aveva iniziato ad avere problemi di salute, da allora avevano iniziato a prenderla di mira, all'inizio con le domande sulle sue assenze. "Cosa fai fuori casa? Prendi forse lezioni private?" Poi con battutine che nascondevano un velato disprezzo. "I tuoi guadagnano bene, vero? Pensavo di sì. Quella maglietta è dell'anno scorso, giusto?"

Ignorarle non era poi così difficile, in genere rispondeva con un sorriso, senza dare modo alle tre di continuare a pungolarla.

Forse per loro non era così stimolante renderla lo zimbello della classe perché nessuno prestava attenzione a lei. Fuuka si sentiva invisibile agli occhi dell'intera scuola. Tutti quelli che lei considerava amici l'avevano abbandonata: non la invitavano più a uscire insieme a loro, neppure quelli del club artistico. La salutavano a stento e non le chiedevano neppure più informazioni riguardanti lo studio. A volte lei provava a inserirsi nei loro discorsi, ma trovava muri fatti di silenzio e di imbarazzo. Era come se il periodo durante il quale lei era stata male avesse alzato una barriera invisibile tra lei e i suoi amici. Fuuka aveva deciso di non avere la forza di provare a ricostruire la sua vita sociale, scegliendo di apprezzare invece il valore della solitudine.

Per questo, forse, Natsuki l'aveva avvicinata di nuovo e non aveva accettato la sua indifferenza.


La prima volta che si erano finte sue amiche, erano arrivate tutte insieme. Natsuki si era seduta di fronte a lei e le sue amichette si erano posizionate intorno al suo banco, La bulletta al centro e le altre due ai lati, come ombre, in una maniera che a Fuuka era sembrata quasi intimidatoria.

"Cosa fai di bello oggi pomeriggio?"

Presa in contropiede di fronte alla domanda inaspettata, Fuuka aveva risposto: "Niente di importante, devo solo studiare..." Se n'era pentita subito, appena aveva visto lo sguardo di vittoria sul volto di Moriyama.

"Allora vieni con noi? Facciamo shopping." Non le era servita una risposta. Le aveva stretto il polso un po' troppo forte e l'aveva strattonata fuori dall'aula e giù dalle scale senza neppure darle la possibilità di opporsi.

Fuuka si era lasciata trasportare dalle tre ragazze, le aveva seguite ed era salita sul treno con loro. Aveva riso quando Natsuki aveva iniziato a cantare a tutto volume le canzoni famose delle Idol, mimando un balletto sul treno insieme alle sue due amiche. Una volta scese, Moriyama l'aveva di nuovo strattonata per correre giù dalle scale, sotto lo sguardo un po' innervosito del controllore dei biglietti alla stazione. Erano state al centro commerciale di Paulownia, dove Fuuka aveva offerto loro dei frullati di frutta fresca che avevano bevuto insieme "In cambio della loro compagnia" e le aveva accompagnate a provare abiti alla moda e rossetti di colori sgargianti che lei non avrebbe avuto il coraggio di indossare nemmeno nella solitudine della sua stanza.

Tutto sommato non era stato un pomeriggio terribile come se l’era immaginato. Era da tempo che non intratteneva una conversazione libera con qualcuno della sua età e la sensazione le aveva risvegliato il desiderio di avere una vita sociale.

Era vero, le ragazze avevano dei modi un po' sgarbati e spesso Fuuka aveva avuto l'impressione che la stessero prendendo in giro, ma erano anche state gentili con lei, soprattutto quando una di loro aveva insistito perché lei provasse un abito rosso fuoco elegante, ma troppo vistoso per i suoi gusti e lei si era rifiutata. Natsuki le aveva sorriso e con una voce dolce e protettiva l'aveva confortata. "Non ti devi preoccupare, puoi indossare quello che preferisci. Questo lo provo io allora."

Più le ore passavano, più Fuuka si sentiva convinta che le ragazze forse non erano davvero delle bulle, ma semplicemente delle giovani esuberanti che davano un po' troppa importanza all'apparenza. Forse le aveva giudicate male, perché in fin dei conti nell'ultimo periodo lei era stata quasi sempre sola e un po' di compagnia l'aveva fatta sentire molto meglio. Aveva riso, cantato, corso lungo le vie della città e fin dentro casa. Per la prima volta da molto tempo si era sentita mancare il fiato per sua scelta e non per un malessere fisico.

Le due ragazze il giorno seguente l'avevano chiamata di nuovo per chiederle di uscire insieme a loro e Fuuka aveva tentato di rifiutare l'invito. Aveva deciso di tornare a frequentare il club artistico e l'aveva spiegato a Natsuki, che aveva accolto l'informazione con poco interesse. "Allora usciamo domani."

Oltre allo studio, Fuuka aveva davvero poco. Non era esperta di moda, non conosceva i marchi famosi, né tantomeno si interessava al tipo di musica che ascoltavano le ragazze della sua età, eppure quelle tre avevano continuato a invitarla. 

“Cosa volete da me?” Aveva chiesto il giorno prima.

Natsuki si era voltata, sorpresa per la domanda. L’aveva guardata come se la vedesse per la prima volta, uno sguardo di consapevolezza sopra le guance abbronzate e coperte di blush.

“Niente.” Aveva risposto. "Solo diventare amiche."


Era uscita di nuovo con loro, convinta che sarebbe stata un'esperienza leggera e divertente, ma si sbagliava. Natsuki l'aveva messa in imbarazzo per la prima volta sul treno. "Smettila di guardare quel ragazzo, Yamagishi. Non vedi che è troppo grande per te?" Aveva usato un tono di voce alto per fare in modo che un ragazzo di circa venticinque anni in piedi al suo fianco, intento a leggere un libro, si sentisse chiamato in causa e tutto il vagone la guardasse. La ragazza era arrossita e aveva passato il resto del viaggio con lo sguardo basso, pensando che non avrebbe pianto, perché non ne valeva la pena, era solo una battuta.

"Oh, scusa, era solo uno scherzo!" Le aveva detto Natsuki con aria innocente appena erano arrivate in stazione. Fuuka si era resa conto di avere sbagliato, ma sentiva di non avere modo di sottrarsi alla compagnia delle tre per quel pomeriggio. Si chiese se da allora in poi non avrebbe fatto meglio a restare direttamente a casa anziché recarsi a scuola. Forse avrebbe chiesto ai suoi genitori di poter fare gli esami in modalità privata, impegnandosi a studiare tutto il tempo, uscendo di casa solo per necessità. Ma non poteva rinunciare a tutto solo per una sciocchezza come quella. Desiderò diventare invisibile e non essere più costretta a vivere in quella società, era così stanca...

"Non te la sarai mica presa davvero?" Le aveva chiesto una delle due amichette. "Natsuki è così, le piace scherzare!" aveva minimizzato.

Fuuka era rimasta con loro e Natsuki aveva usato ogni pretesto per far sì che sia le sue amiche che i passanti ridessero di lei. Prima per la gonna sgualcita, poi per la bocca sporca, in seguito per l'espressione troppo seria. Si chiese se avrebbe mai avuto una via di uscita da quella situazione. Poteva andarsene, ma il giorno seguente sarebbe riuscita a dire loro di no? Non ne era sicura. Si chiese quali opzioni avesse e valutò che l'unica speranza che aveva era convincere le bulle che lei non era così facile da manipolare e da sottomettere. Dovette fare appello a tutto il suo sangue freddo e al suo desiderio di rivalsa per riuscire nell'intento.

Natsuki si era messa in coda per i Takoyaki. "Fuuka, questi li paghi tu, per la nostra compagnia."

"Sei tu che dovresti pagare me per averti sopportata fino ad ora." Le disse, seria. "Ah ah, sto scherzando, che divertente, vero?" Il silenzio che seguì fu la prova che Natsuki non si aspettava una risposta di questo tipo da lei.

"Credo che tornerò a casa, ora. Buon pomeriggio." Fuuka si era allontanata camminando in modo controllato, morendo dalla voglia di voltarsi a assicurarsi che le tre non la stessero seguendo. Cercò di inquadrarle sui riflessi delle vetrine, ma non cedette a voltarsi.

Solo quando salì sul treno si lasciò infine andare a un sospiro: ne era uscita, per ora. Sperava davvero che sarebbe bastato.

Quella notte fece uno strano sogno: lungo le strade illuminate dalla luna, non c'erano più persone, tutti si erano tramutati in bare, solo lei vagava senza meta in forma umana, come una salvatrice in grado di spezzare l’incantesimo che aveva imprigionato gli altri esseri umani.


Il giorno dopo Fuuka si alzò di buonumore, felice al pensiero della chiusura della scuola dei giorni seguenti in vista delle feste che le avrebbero permesso di rimettersi in pari con gli studi in tutta calma. Arrivata alla Gekkoukan aveva trovato Natsuki da sola ad attenderla al suo ingresso. Era di fianco al cancello della scuola. "Buongiorno Yamagishi." le aveva rivolto il saluto accennando un inchino, sul volto un'aria colpevole. "Mi dispiace davvero per ieri, non era nostra intenzione comportarci in modo così maleducato, ma a volte ci lasciamo un po' trasportare. Ti vogliamo chiedere scusa."

Fuuka era rimasta spiazzata da quel comportamento che avrebbe definito maturo e responsabile. Era rimasta a bocca aperta, chiedendosi quanto fosse sincero. "Non importa." Le rispose cercando di fingersi indifferente.

Moriyama si era congedata e Fuuka aveva passato le ore seguenti a seguire le lezioni del giorno, senza pensare più di tanto all'accaduto.

Stava per uscire dall'aula, quando una delle due amiche di Moriyama si era quasi scontrata con lei. "Natsuki mi ha chiesto di invitarti in palestra. Dice che è per chiarire e ci tiene molto. Visto che stai uscendo, se vuoi puoi andare lì direttamente, noi ti raggiungiamo subito."

Fuuka non era certa di volerle ascoltare, aveva camminato lenta, quasi certa che le tre avrebbero di nuovo tentato di farla sentire in colpa, oppure l'avrebbero umiliata con un nuovo scherzo crudele. La speranza però ebbe la meglio e la ragazza decise di assecondare la loro richiesta, in fin dei conti cosa avrebbero potuto farle a scuola? Era pieno di persone che avrebbero potuto sentirla, se non in palestra di certo appena fuori, non erano mica delle criminali, solo delle bullette innocue che lei desiderava tanto considerare delle amiche.


Entrò nel grande stanzone e si mise seduta su uno dei gradoni di fronte alla rete. Erano rivestiti in linoleum e coperti di piccoli elementi in gommapiuma che li rendevano un ottimo posto per leggere e rilassarsi. Fuuka aprì il suo libro e iniziò a leggere. Concentrata nella lettura, non si rese conto di quanto tempo fosse passato, forse una ventina di minuti. Fuuka sbuffò e si alzò, chiuse il libro e lo ripose nel suo zaino per poi alzarsi in piedi e dirigersi verso l'uscita. "Chiedermi di venire qui per poi non presentarsi neppure, che bello scherzo del cavolo." Si lamentò, sapendo che nessuno poteva sentirla. Quando abbassò la maniglia della porta, però, essa non si mosse. Un brivido freddo le corse lungo la schiena: era rimasta chiusa dentro. Bussò forte sulla porta. “C’è qualcuno? Sono rimasta chiusa qui! Apritemi per favore!” Ma dall’esterno ricevette in risposta solo silenzio.

Prima che il panico si impossessasse di lei, Fuuka tentò di ragionare.

Punto primo: era in una scuola, c'era di sicuro un modo per uscire, per esempio una uscita di sicurezza.

Punto secondo: era possibile che ci fosse un dispositivo per chiamare l'esterno.

Punto terzo: quella non era l'unica porta presente nell'edificio.

Respirò profondamente e promise a se stessa che non avrebbe mai più ignorato il suo sesto senso. "Certo, diamo a tutti il beneficio del dubbio, vedi poi come va a finire!" Questa volta a voce più sostenuta.

Provò la seconda porta, ma anche quella era chiusa. L'uscita di emergenza che dava sul campo sportivo invece era stata bloccata dall'esterno con un cacciavite. "Le hanno davvero pensate tutte..." Martellò coi pugni sulle porte sperando che qualcuno la sentisse, ma non c’era anima viva lì intorno. La speranza aveva iniziato ad abbandonarla, ma non tutto era ancora perduto. Raggiunse il citofono e cercò il codice per chiamare l'ingresso della scuola, ma con orrore si rese conto che anche quello era stato staccato. Era persino peggio: non c'era corrente in palestra. Presto sarebbe calata la sera e lei non aveva modo di uscire.

Si sedette di fianco al citofono e si lasciò andare alla disperazione. Pianse di rabbia e di frustrazione. Pianse contro Natsuki, che l'aveva messa in quella condizione, ma anche contro se stessa, perché era stata una stupida ad averle creduto, si era messa in pericolo con le sue stesse azioni sconsiderate. Pianse perché sapeva che i suoi genitori non l'avrebbero cercata. Quel fine settimana sarebbero stati fuori città per una conferenza e in genere non la chiamavano, quindi era possibile che non si sarebbero accorti della sua assenza fino al lunedì successivo, quando si sarebbero resi conto che non era tornata a scuola.

Non aveva con sé un orologio, né aveva idea di che ora fosse quando finalmente riuscì a trovare la forza di guardarsi di nuovo attorno e di valutare le sue opzioni.

"Ridimensiona, Fuuka," si disse, sentendosi meglio nel riuscire a verbalizzare i suoi pensieri a voce alta: "Sei nella palestra della scuola. È vero che sei bloccata qui, ma hai tutto quello che ti serve per sopravvivere fino a lunedì: hai un bagno, puoi perfino farti una doccia, hai coperte, perfino medicinali, in più nei cassetti dell'infermeria ci sono le barrette energetiche che ha messo qui Nishiwaki per il team di atletica. Hai un buon libro da leggere, cibo da mangiare e acqua da bere. Puoi stare tranquilla: sei in completo controllo della situazione."

Non ci credeva, come era ovvio, ma era altrettanto ovvio che le sue considerazioni fossero sensate: non correva rischi immediati e non avrebbe avuto problemi a stare lì dentro in solitudine fino a quando qualcuno non fosse venuto a prenderla. Era anche possibile che una guardia passasse a controllare l'edificio scolastico nel corso della notte e la trovasse lì. In quel caso il problema più grande sarebbe stato spiegare al vigilante cosa ci facesse lì e sperare che le credesse. Era tutto così assurdo…

Doveva credere nella buona sorte e sperare, di sicuro chiusa lì dentro era più sicura che in giro per le strade della città.

Cenò con un paio di barrette e cercò un luogo dal quale poter avere una buona visuale sulla palestra in cui riposarsi per la notte. Trascinò uno dei materassi in gommapiuma, in genere utilizzati per il salto in alto, vicino alla porta di emergenza e si stese lì, dove la luce del sole stava lasciando il posto alla semioscurità della notte di luna quasi piena.

Fuuka pensava che non sarebbe riuscita a dormire, invece dopo qualche ora cedette al sonno.

Fu al suo risveglio che iniziò a vivere l'inferno.

All’improvviso udì un fischio forte e gracchiante. Si sentì risucchiare nelle pareti della palestra, il suo corpo si sollevò e Fuuka si aggrappò d'istinto al pesante materasso e alla coperta che aveva preso dall'infermeria. Cosa stava accadendo? Era forse un sogno?

Intorno a lei la palestra si stava trasformando: le pareti alte e bianche si stavano restringendo, il colore sempre più vicino a quello del sangue. Sentiva un lamento intorno a lei, come un pianto cantilenante che sembrava provenire dall'interno delle pareti, dalle quali stavano iniziando a uscire escrescenze che ben presto assunsero le sembianze di nasi, occhi, bocche e interi volti umani. Il vortice di energia prese forza e la ragazza lasciò andare il materasso.


L'anno prima Fuuka si era recata a un parco dei divertimenti insieme ai suoi amici, insieme avevano deciso di fare un giro sull'ottovolante. Ricordava la sensazione di paura mentre osservava dritto di fronte a lei e il senso di nausea e impotenza mentre il suo vagone si muoveva veloce lungo i binari, la sua testa che sbatteva contro la protezione imbottita, la sensazione di sentirsi spinta in ogni direzione, di non avere controllo sulle proprie sensazioni, mescolate nel vortice di adrenalina. Era scesa con addosso un senso di libertà che non riusciva a definire, aveva lo stomaco sottosopra, ma era felice per avere affrontato le sue paure e per avere vissuto quell'esperienza, nonostante tutto aveva promesso a se stessa che non l'avrebbe mai più ripetuta.


In quel momento si sentiva come allora, ma ogni sensazione negativa era amplificata all'impossibile. Aveva sbattuto contro il pavimento con forza, come se qualcosa l'avesse lanciata a terra. Le braccia e le ginocchia le dolevano, tentò di muoversi e a un primo esame pensò di non avere ossa rotte. Si mise seduta e osservò il luogo in cui si trovava, pensò che fosse una sorta di casa degli orrori. Una luce viola fioca illuminava le pareti, ricoperte da volti mostruosi, per il resto pareva di essere all'interno del corpo di una creatura gigante: escrescenze simili a tendini si snodavano attraverso le pareti, a tratti occupando anche il pavimento. Non c'era ordine, solo caos inumano. Dal pavimento salivano quelle che Fuuka avrebbe potuto definire candele accese di luce viola, formate da venature fini che parevano organiche.

Non era in grado di descrivere ciò che aveva intorno, perché non aveva mai visto niente del genere in vita sua.

"Deve essere un sogno..." Sussurrò.

Prese a camminare lenta, cercando di fare meno rumore possibile. Avvicinò una mano a una delle escrescenze luminose provando a comprenderne la consistenza. Tutto in quel luogo era inquietante e impossibile: la luce viola non era una fiamma, né una lampadina. Era sbagliata: era come se qualcuno avesse tentato di riprodurre una lampadina senza averne mai vista una e il risultato era qualcosa di singolare che le fece venire la pelle d'oca. Non si fidò a toccare quello strano oggetto luminoso, ma posò le dita sulla base sottostante, la cui consistenza era tiepida, quasi simile alla pelle umana.

Che fosse stata ingoiata da un mostro?

Tartarus.

La parola le risuonò nella mente.

Ora ti devi muovere, qui non è sicuro, loro stanno arrivando.

La voce era dentro di lei. Fuuka si guardò intorno per qualche istante.

Forza, scappa! Non farti vedere da loro.

Non era certa di chi fossero loro, ma sapeva che avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio. Si fece forza e riprese a camminare. Sapeva d'istinto dove andare. Fece qualche passo in direzione di una rientranza nella parete le lo vide: la creatura strisciante era una sorta di fantasma: un'ombra scura simile a un ammasso di petrolio viscido con lunghe braccia minacciose protese verso l'alto. I suoi grandi occhi bianchi avevano le pupille tonde dilatate, ma non parevano vederla, sembrava costretto a un movimento maledetto, a vagare all'infinito nell'inferno in cui era finita anche Fuuka stessa. Si chiese se prima o poi non sarebbe finita anche lei con l'assomigliargli.

Resta nascosta.

Di nuovo quella voce. Fuuka restò immobile, nascosta nel punto più oscuro di quel luogo terrorizzante.

Non è un sogno, devi stare nascosta.

Si chiese di chi fosse quella voce. Capì il gesto che spesso aveva visto nei film, quando i protagonisti si davano un pizzicotto sul braccio per capire se fossero svegli oppure no. Ci provò anche lei, domandandosi se il dolore che sentiva fosse in effetti reale oppure se anche quello facesse parte dell'incubo che, ne era ancora quasi certa, stava vivendo.

Una parte di lei portò alla sua mente l'idea di chiamare uno di quei mostri e sfidarlo.

No, non è saggio. Non potrei difenderti...

L'amarezza nella voce la convinse a continuare a stare nascosta.

"Devo trovare un'uscita..." sussurrò, sperando in una risposta.

Così non riuscirai a uscire, devi prima accettare la realtà, accettare che io faccio parte di te.

Fuuka non capiva il significato di quelle parole. "Ma tu chi sei?"

Io sono te. Non posso dirti il mio nome, lo devi trovare da sola.


Un rintocco risuonò tutto intorno a lei e il muro che aveva di fronte a sé si aprì in un lungo corridoio. Le pareti che fino a prima apparivano solide avevano preso vita, alla sua sinistra sentì un forte lamento e la ragazza fece un salto in avanti quando notò che la parete si era protesa verso di lei e un grumo di filamenti simili a un ammasso venoso stava salendo dal terreno in sua direzione. Non doveva farsi prendere. Prese a camminare lenta, tenendosi per quanto possibile distante dalle pareti.

Attenta! C'è un'ombra, è dietro l'angolo.

Fuuka la sentiva, tornò indietro e continuò a camminare in cerca di una via di uscita. I corridoi terminavano quasi tutti in vicoli ciechi e più di una volta Fuuka fu costretta a nascondersi in anfratti stretti, cosparsi di bolle simili a materiale purulento.

L'odore negli stretti corridoi a volte però non era così terribile, le ricordava quello della sua stessa scuola: lungo un corridoio aveva sentito il profumo del grande cachi situato fuori dalla palestra, uno dei vicoli ciechi invece le avevano portato alla mente le tempere e gli acquerelli che utilizzavano al club artistico.

I piedi le facevano male, il dolore alle ginocchia la costringeva a trascinarsi più che a camminare, ma Fuuka continuava a provare, doveva esserci una via di uscita. Quando arrivò ai piedi di una scala, si chiese se avesse senso provare a salire. A pensarci bene, quello le sembrava un luogo sotterraneo, quindi decise di tentare.

Percorse i gradini lentamente, cercando di percepire eventuali ombre celate intorno a lei, che si sentiva vulnerabile in quel luogo aperto, dal quale poteva vedere l'immensità del labirinto dall'alto.

Appena giunse in cima, fece qualche passo in avanti. Si guardò intorno: era tutto identico al piano inferiore. Percepì un rumore alle sue spalle e si rese conto che le scale non c'erano più. Erano state sostituite da un ammasso di venature e ingranaggi sgangherati.

"Cosa..."

Non fermarti qui, non è sicuro.

Cauta, esplorò il piano del labirinto in cui era capitata, che cambiò di nuovo sotto i suoi occhi allo scoccare del rintocco. Fuuka iniziò a pensare che le modifiche alla struttura del labirinto fossero legate al passare del tempo, anche se le pareva scorrere più lento in quel luogo maledetto.


All'ennesimo rintocco, Fuuka si chiese se non avrebbe fatto meglio a sedersi e attendere che una delle ombre la trovasse. Aveva sete, era stanca e, se i suoi calcoli erano esatti, era lì dentro da almeno sei ore. Se ancora non aveva trovato un'uscita, forse doveva arrendersi alla realtà che non ce ne fosse una, era possibile che sarebbe morta lì dentro. Che senso aveva continuare a sopravvivere?

D’improvviso seppe che non era più la sola umana in quel luogo desolato, percepì una variazione nella struttura alla base, come se qualcuno l’avesse attraversata con consapevolezza. Ebbe la certezza di dove fosse l’uscita - alla base della torre - e dell’aspetto del Tartarus, come l’aveva chiamato la voce.

Sono arrivati, sono qui vicino...

Li sentiva: altri esseri umani erano intorno a lei, poteva percepirne i movimenti sotto di lei. Non erano vicinissimi, ma si muovevano in fretta e stavano salendo. Erano almeno in quattro.

Ti troveranno, vedrai.

Fuuka continuò a restare nascosta, muovendosi tra le ombre ed evitandole grazie al suo sesto senso e a quella voce nella sua testa. Una luce guida che l'aveva protetta nel suo girovagare inconcludente nel labirinto.

"Mitsuru, non riesco a sentirti... Hai detto che è qui vicina?"

Una voce maschile, non le suonava nuova. La ragazza iniziò a camminare con prudenza verso di lui.

"Mitsuru, dove dobbiamo andare?"

Esistevano davvero. Di fronte a lei c'erano quattro ragazzi in divisa. "Yamagishi, sei tu? Stai bene?"

Erano lì perché cercavano lei? Significava che loro conoscevano la strada per uscire dal labirinto?

"Non so cosa... Voglio solo tornare a casa."

"Ora andiamo, resta con noi. Ci sono alcune cose che devi sapere."


Questo è il tuo destino.


Di nuovo quella voce, Fuuka sapeva che le stava dicendo la verità e presto avrebbe compreso meglio a cosa si riferiva. In quel momento però desiderava solo tornare a casa.


quistisf: (Default)
 
Originale
Partecipa al COWT 14
Prompt: orizzonte

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.
Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.

Il viaggio verso l'Isola di Hermann - capitolo 1

Il rumore delle onde che si infrangevano contro la sua imbarcazione di fortuna la svegliarono. Lucilla tentò di sollevarsi e si rese conto di essere del tutto priva di energie. Ogni muscolo le doleva, si sentiva pesante e stanca nonostante avesse dormito per ore. Il suo abito era ancora bagnato, sentiva il freddo penetrarle nelle ossa e brividi gelidi le percorrevano la schiena. Era ancora viva, almeno.

Alzò lo sguardo: era ancora buio, anche se dal colore del cielo si capiva che stava per albeggiare. Si guardò intorno sperando di scorgere una luce, magari un faro o una nave in lontananza, ma niente: acqua. Solo acqua.

Ovunque si voltasse non vedeva altro. Si trovava in balia delle correnti su un insieme di travi inchiodate che un tempo era stato parte della nave sulla quale viaggiava.

Si trascinò al centro del relitto, cercando un punto più stabile. Urlò, disperata, consapevole che nessuno l’avrebbe sentita, né vista.

Si lasciò andare alla disperazione e pianse fino a quando non si sentì svuotata di lacrime, incapace di resistere al terribile pensiero che non aveva una via di uscita.


Solo poche ore prima vestiva un abito elegante in broccato, lavorato con seta e filo di argento, decorato con merletti di burano. Durante la cena rideva spensierata in compagnia dei suoi genitori, servita al tavolo da camerieri in divisa, mangiando prelibatezze cotte da un cuoco professionista, degne del suo rango nobiliare. Le tempeste arrivano sempre all’improvviso, almeno così aveva riferito il capitano ai passeggeri, quando li aveva congedati per la notte, dopo avere visto le nuvole e i lampi all’orizzonte.


La nave era possente: in legno verniciato di bianco e azzurro, si chiamava “Dama Enrica”, in onore di sua nonna e la prima volta che l’aveva vista Lucilla ne era rimasta impressionata. Non era molto grande, ma sembrava solida ed era stata costruita trent’anni prima da una ditta specializzata di Venezia, che poi l’aveva portata fin da loro, percorrendo tutto il mediterraneo. Un gioiello. Un’imbarcazione di lusso che serviva i nobili della zona e dava anche la possibilità a chi lavorava tra l'isola e la terra ferma di avere un trasporto sicuro e veloce. La nave avrebbe dovuto portarli all’isola di Hermann, dove la famiglia di Lucilla aveva una tenuta estiva che avrebbero visitato per la prima volta per quell’annata. I passeggeri paganti oltre a loro erano poco più di una decina: la sua famiglia alloggiava nelle stanze dedicate ai nobili, mentre le cabine inferiori, più spartane, erano occupate da un altro gruppo di viaggiatori diretti all'isola per lavori temporanei ai campi e nei locali per turisti. 

Lucilla non aveva neppure parlato all'equipaggio, non si era impegnata a conoscerli, né aveva dimostrato loro il rispetto che avrebbero meritato per il loro impegno nel servire lei e i suoi genitori. 


Se ne pentiva, avrebbe desiderato interessarsi alle loro vite anziché ignorarli. Si sentiva una sciocca ragazzina viziata, ormai era tardi però, erano quasi di sicuro tutti ormai defunti e non c’era niente che lei potesse fare per loro. Non era mai stata brava a parlare con gli estranei, le era persino più difficile farlo con chi era obbligato a servirla, perché erano tutti estremamente gentili con lei e rendevano le chiacchierate artefatte e vuote. Lucilla non aveva interesse nell’essere perennemente compiaciuta.

Quella sera, dopo cena era salita sul ponte e aveva visto delle nuvole all'orizzonte. Si era fermata a guardarsi intorno e a prendere un po' di aria, poiché non si sentiva stanca. Il cameriere che li aveva serviti a cena l'aveva seguita per soddisfare le sue richieste nonostante lei l'avesse congedato. Il ragazzo doveva seguire gli ordini, quindi Lucilla lasciò perdere e si limitò a ignorarlo. Camminava a pochi passi da lei, seguendola come un’ombra, senza mai alzare lo sguardo per non metterla a disagio. A guardarlo bene poteva avere la sua stessa età, ma non gli aveva fatto domande.


Era rimasta a osservare la nave che si allontanava dalle nubi, accese dai lampi di tanto in tanto. Un temporale, meno male che si stava muovendo in direzione opposta a loro, ricordava di avere pensato.

Osservare l'orizzonte la faceva sentire piccola. Si era sporta in avanti, protetta dal parapetto, e aveva immaginato i pesci che nuotavano seguendo le correnti del mare e le piccole imbarcazioni dei pescatori, che le erano parse così fragili quando le avevano incrociate quella mattina, fuori dal porto.

“Stia attenta, il mare è agitato questa sera.” Lucilla aveva annuito sbuffando, senza rispondere al suo guardiano, gli avrebbe detto che non era una bambina ed era in grado di occuparsi di sé stessa, ma era certa che la sua sarebbe apparsa come una rimostranza da ragazzina ricca, quindi era rimasta in silenzio.

Dopo aver fatto il giro del ponte, era scesa nella sua cabina personale, dal cui oblò poteva vedere il mare sul lato della nave e anche da lì aveva osservato l'orizzonte nella notte illuminata dalla luna piena.

In principio si era proposta di scrivere una lettera o di leggere il libro che si era portata per il viaggio, ma poi aveva pensato di evitare lettura per quella notte, poiché non si fidava molto ad accendere la lampada a olio con il mare mosso, nonostante i suoi genitori le avessero ripetuto che non ci sarebbero stati problemi, un senso di inquietudine continuava ad affacciarsi tra i suoi pensieri.


Si era addormentata a fatica, poi all'improvviso aveva sentito il boato e le urla dell’equipaggio. Si era chiesta cosa stesse accadendo e aveva cercato di svegliare sua madre, che però l’aveva scacciata con la mano, minimizzando. “Vedrai che è tutto sotto controllo. Abbiamo viaggiato spesso su questa tratta, se ci fossero problemi, l’equipaggio ci chiamerebbe."

Lucilla però non si sentiva tranquilla. Si era infilata una vestaglia, aveva legato i capelli, aveva percorso lo stretto corridoio ed era salita lungo la scala ripida. Arrivata al ponte si era resa conto che la situazione non era per niente sotto controllo.

"Torni giù, signorina!" La voce del capitano era ferma, nonostante la nave apparisse danneggiata. Lucilla si chiese cosa avesse causato quello squarcio all'altezza del ponte: le assi di legno erano rotte come se qualcosa di molto pesante le avesse colpite, solo che non c’era niente in vista.

Fece qualche passo indietro per osservare la situazione mentre il capitano comandava le operazioni di recupero. Pensò di tornare giù, ma non riusciva a muoversi. Era aggrappata alla porta principale e osservava l'equipaggio correre da una parte all'altra cercando di limitare i danni.

Un senso di panico si impossessò di lei, perché non riusciva a trovare un senso alla situazione. Alzò gli occhi per rendersi conto che vedeva ancora sia la luna che le stelle. Non stava piovendo, quindi non c’era la tempesta. Non vedeva altre navi, né sentiva rumori all’esterno. Cosa poteva essere accaduto?

Un altro tonfo, la nave sobbalzò, lei si aggrappò alla porta con entrambe le mani e rimase in piedi.

"Ci ha colpito di nuovo!" La voce di un marinaio sul ponte della nave.

Lucilla osservò la scena terrorizzata, poi lo vide: un tentacolo gigante, e scuro, alto almeno quanto la nave. Lucilla urlò, immobilizzata dalla paura. Sentì voci alle sue spalle, gli ospiti stavano salendo sul ponte. "La nave imbarca acqua!" Uno dei passeggeri si mise a correre lungo il ponte, per poi fermarsi a bocca aperta a osservare il tentacolo del mostro alto sulla nave. In pochi istanti la creatura colpì di nuovo e il ponte si spezzò.

Non c'era salvezza. la nave era perduta e, se anche fossero stati vicino alla terraferma, il mostro non avrebbe lasciato loro possibilità di fuga.

Lucilla rimase lì, attaccata alla porta per qualche istante, chiedendosi quale sarebbe stata la morte meno dolorosa, poi qualcuno la prese per il braccio e la strattonò fino alla prua della nave. Mentre si precipitavano lungo il ponte, la loro corsa sulla nave, pianeggiante sul mare, si era trasformata in una salita, la parte centrale della nave stava affondando sotto il peso dell'acqua.

La bestia marina attaccò di nuovo, per loro fortuna dal lato opposto rispetto a quello in cui si trovavano. Il ragazzo si muoveva frenetico intorno a lei, che si appese al ramo della nave cercando di non cadere.

"Resisti, possiamo sopravvivere. Devi lottare, non mollare." Le aveva preso il viso tra le mani guardandola negli occhi con convinzione, tanto che per un attimo Lucilla si era sentita al sicuro.

La ragazza chiuse gli occhi, del tutto inerme in quella situazione. Pensò che era molto probabile che i suoi genitori ormai fossero morti annegati, se non erano stati mangiati dal mostro marino.

Poi un altro colpo e la ragazza cadde in acqua. L'impatto la risvegliò dallo stato di panico in cui si sentiva. La ragazza aprì gli occhi e cercò la luce. Iniziò a nuotare verso quella che credeva fosse la superficie, ma le sembrava di restare immobile. Era certa che sarebbe morta lì sotto. Che tutti i suoi sogni di una vita diversa da quella di sua madre, di libertà, di conoscenza, sarebbero svaniti insieme al ricordo della sua esistenza. I suoi cugini avrebbero ereditato la tenuta e i possedimenti della famiglia. Loro sarebbero stati dimenticati.


Non ricordava come avesse fatto a salvarsi, era convinta che qualcuno l'avesse aiutata a salire sul relitto, che l'avesse guidata nuotando al suo fianco e che l'avesse messa al sicuro, cantandole una canzone che l'aveva aiutata a calmarsi e a dormire.

La sensazione che provava era di calore al pensiero, ma i suoi ricordi erano ancora annebbiati.


In ogni caso non aveva tempo per concentrarsi sul passato, poiché il presente era abbastanza problematico: non aveva con sé alcun tipo di provvista ed era consapevole che presto sarebbe morta, se qualcuno non l’avesse trovata in fretta.

Si alzò in piedi, cercando di restare in equilibrio nonostante il movimento oscillatorio del mezzo precario su cui stava viaggiando.

L'acqua era il problema principale, perché una volta che il sole avesse iniziato a battere sulla sua testa, avrebbe avuto necessità di bere.

Non c’era traccia di altri pezzi della nave intorno a lei, il mare era calmo e la luce del giorno aveva iniziato a illuminare il cielo e l’acqua. A est, Lucilla vide la prima porzione del sole rosso apparire e cercò di capire verso che direzione si stesse muovendo.

Era difficile senza riferimenti, in più lei non era esperta in materia, sapeva solo da che punto sorgesse il sole. Chiuse gli occhi e si concentrò sulle sue sensazioni, ma non era certa di aver capito. Osservò le onde e sospirò, speranzosa. Se davvero stava andando verso nord, il relitto l'avrebbe portata prima o poi in vista dell'isola.

Osservò il mare in cerca di altri pezzi di legno o persone, sperando di vedere le provviste di cui la nave era carica, ma anche se avesse identificato un barile o una cassa, lei non sarebbe mai stata in grado di scendere dal relitto e raggiungerle. Si spogliò, mise ad asciugare gli abiti ancora bagnati e si rimise addosso la vestaglia che un tempo era la sua preferita, ora era a brandelli. 

Un pensiero frivolo, lo riconosceva, del resto doveva pensare a essere decorosa, quando l'avessero ritrovata morta sul relitto intendeva essere il più presentabile possibile.

Constatato che non ci fosse niente intorno a lei, la ragazza decise di concentrarsi sull'orizzonte. Non intendeva passare le sue ultime ore dormendo, forse anche avesse voluto, non ce l’avrebbe fatta.

Il sole non era troppo caldo, anzi, era mite e l'aveva aiutata a scaldarsi. Pensò che probabilmente aveva la febbre visti i brividi, ma a causarli poteva essere anche la sete. Non importava in fin dei conti.

Il mare le era sempre piaciuto, ma promise a se stessa che se fosse sopravvissuta non avrebbe mai più preso una nave in vita sua.

Doveva solo attendere, osservando l'orizzonte, di conoscere il futuro che le aveva riservato il destino.


quistisf: (Default)
 

Fandom: Persona 5
Partecipa al COWT14
Articolo di giornale


La cattura di Joker

Tokyo, 17 Marzo 2020

Phantom Thieves: svolta nelle indagini.

La popolazione è divisa di fronte alle dichiarazioni appena rilasciate dalle forze dell'ordine giapponesi: pare infatti che il leader dei Phantom Thieves sia stato finalmente catturato.

Per mesi si è dibattuto sull'esistenza effettiva e sui metodi utilizzati dai Ladri di Cuori per fare confessare le vittime e portarle al pentimento.

Chi si aspettava che a inviare le calling card e a smuovere la coscienza cittadina fosse un'organizzazione formata da esperti ladri e hacker, sarà sorpreso nel sapere che in realtà il leader dei Phantom Thieves, di cui per ora non si conosce il nome, è un ragazzo ancora minorenne.

Fonti attendibili vicine alla squadra che ha partecipato all'arresto riportano: "I Phantom Thieves hanno perpetrato numerosi crimini, tra i quali vi è anche il sospetto di omicidio, viste le numerosi morti misteriose e gli incidenti avvenuti a seguito di collassi mentali nel corso degli ultimi mesi. Anche se le loro modalità operative restano tuttora sconosciute, siamo fiduciosi nell'affermare che la loro attività sia conclusa per sempre."

La cattura è stata possibile grazie alla presenza di un infiltrato, che ha lavorato a stretto contatto con Joker, questo il nome in codice del ragazzo, e che ha permesso di cogliere il gruppo di hacker dei cuori con le mani nel sacco, sebbene le forze dell’ordine abbiano rifiutato di rilasciare dettagli sul luogo dell’arresto.

Nonostante tutto, in molti sostengono che non sarà possibile accusare formalmente Joker di alcun reato, poiché i Phantom Thieves non hanno mai davvero compiuto furti. Non ci sono prove, ad oggi, della loro partecipazione agli omicidi e ai collassi mentali. Si può accusare forse qualcuno di aver mosso le coscienze di alcuni criminali e di averli convinti a confessare crimini reali? Così facendo non si metterebbe in discussione anche la carriera professionale di psicologi e terapeuti?

Alla domanda: "Credi che i Phantom Thieves siano giusti?" Il 67% della popolazione ha risposto di sì, a dimostrazione che la gente comune li vede come eroi moderni, mossi dal desiderio di migliorare la società e di far sì che le persone corrotte e i criminali si prendano la responsabilità delle proprie azioni e facciano parte del cambiamento al fine di rendere il Giappone un luogo più sicuro per tutti i suoi abitanti.

Agli occhi del cittadino medio, Joker appare come un idealista, più che un assassino. La popolazione non ha accolto la cattura del ladro in modo del tutto positivo.

Dal canto mio, io credo che a volte il fine giustifichi le azioni, anche quando sono in una linea di confine tra legalità e crimine.

Credo nella sua innocenza e confido, un giorno, in un'intervista per raccontare cosa abbia spinto i Phantom Thieves a farsi portatori di questo messaggio di giustizia e di etica.


quistisf: (Default)
 

Fandom: Persona 5
Personaggi: Goro Akechi, Ren Amamiya
Prompt: risonanza
Partecipa al COWT 14


Il numero uno


Goro stava osservando l’espressione concentrata di Ren, che con attenzione si era chinato sul tavolo da biliardo per studiare la giusta traiettoria da imprimere alla biglia battente per mettere in buca la palla. Che sciocco: non si era accorto che non era quello il colpo più facile? Sospirò con impazienza, sperando che questo avrebbe innervosito il suo avversario.

“Quello è il prossimo tiro,” aveva detto Joker, indicando la biglia che il ragazzo stava fissando. “Prima metto in buca questa.” E aveva tirato, sicuro come sempre, con quell’insopportabile sorrisetto stampato sul viso. “Ecco, visto?” gli aveva ammiccato.


Aveva fatto un gran tiro, era l’unico avversario al suo livello. Goro in questi momenti provava pena per lui, in un certo senso lo riteneva una vittima collaterale. Il suo piano però aveva bisogno che lui lo diventasse, era necessario per il suo fine ultimo. 

Ren aveva messo in buca anche la seconda palla, infondendo in Goro un senso di fastidio che cresceva, lasciando poco spazio al rimorso e alla pena.Si somigliavano, più di quanto entrambi volessero ammettere. 

Per cominciare potevano controllare più di una Persona. Akechi ne aveva soltanto due, ma a dirla tutta non aveva davvero mai provato ad aumentarne il numero, Loki e Robin Hood erano più che sufficienti. 

Con l’ultima palla il suo rivale aveva concluso la partita. Un po’ di gioia prima di morire, pensò Goro. “Complimenti, sei destinato a essere il numero uno.”


Il numero uno. Parole che risuonavano nella sua mente di continuo. 

La prima persona che gli aveva promesso il successo era stata sua madre: una donna che aveva avuto l’esistenza che meritava, incapace di prendersi cura di lui e di dargli un padre. L’aveva invece costretto a vivere nella menzogna. Per lei, Goro era il numero uno perché capiva quando se ne doveva andare da casa e non diceva una parola. Obbediente, remissivo come lei desiderava. Parole a cui la donna aveva tolto il significato per sostituirlo con una bugia, come faceva con ogni aspetto della sua vita.


Il numero uno, il migliore. L’Ace Detective di cui Sae e il dipartimento di polizia avevano bisogno per l’operazione sotto copertura per catturare i Phantom Thieves. Colui che aveva risolto casi impossibili, raccolto l’ammirazione del pubblico e delle forze dell’ordine, che si era fatto notare da fan che lo cercavano e lo fotografavano di nascosto. Il numero uno.

Il compiacimento, la dimostrazione di ciò che Goro poteva fare grazie alle sue doti naturali.


Il numero uno, il primo in grado di offrire a suo padre qualcosa che nessun altro avrebbe mai potuto donargli: la volontà del popolo, la mente di chi gli si opponeva. Se solo glielo avesse chiesto, il ragazzo avrebbe messo ai piedi di Shido l’intero Giappone. Il numero uno nel risolvere le situazioni spiacevoli, così l’aveva chiamato, e Goro si era sentito finalmente apprezzato dall’uomo che l’aveva abbandonato molti anni prima, che si stava infine appoggiando al figlio reietto, seppure inconsapevolmente.


Solo di fronte a Ren non si sentiva il numero uno. Con lui era destinato a un ruolo marginale. Chiunque avesse osservato le loro azioni e conosciuto la loro storia avrebbe visto in Goro un antagonista, un personaggio mosso dall’invidia e dal desiderio di dimostrare il proprio valore in una lotta impari, nella quale sarebbe sempre risultato sconfitto se avesse lottato ad armi pari. L’uso dell’astuzia e dell’inganno gli poteva permettere di sfruttare un vantaggio e di vincere.

Lui però non aveva intenzione di dimostrargli lealtà. Stare con Ren era stimolante, era vero, ma ogni momento in sua presenza gli era sempre più difficile mantenere addosso la sua maschera.

“Fai qualcosa, salvati! Non vedi che ti sto prendendo in giro?” Avrebbe desiderato dirgli. “Ti credi tanto furbo, sostieni di essere il leader, invece sei solo una marionetta.”

Ren era sempre così difficile da comprendere, al punto che Akechi si era chiesto se non stesse indossando anche lui una maschera.


Non era possibile, lui era sempre un passo avanti.

Avrebbe ucciso il leader dei Phantom Thieves con le sue mani, proprio come aveva deciso quando aveva iniziato a pianificare il suo piano, mesi prima. Non uno speciale, solo una delle tante vittime del killer vestito di nero. Alzò lo sguardo su Haru, intenta a giocare a freccette con gli altri patetici ragazzini del gruppo e pensò a Okumura, a come ne aveva eliminato la versione cognitiva e a quanto le sue azioni non gli avessero impedito di passare del tempo con la figlia, senza alcun rimorso. Ricordava di quando le aveva anche confessato quanto la capisse, come anche lui in passato avesse perso il padre, come la sua vita fosse stata difficile, ma anche come tutto il suo dolore l’avesse reso forte.


Era il numero uno anche nel nascondersi, nel proteggere il suo grande piano di conquista del mondo senza fatica.

“Domani sarà una giornata importante, cercate di riposare.” Aveva suggerito ai Phantom Thieves nel congedarli.


Il giorno della verità: la cattura del tesoro nel Palazzo contorto di Sae Niijima. 

Sarebbe stato il giorno della sua consacrazione a numero uno, quando il suo rivale avrebbe finalmente riconosciuto la grandezza dell’intelligenza del celebre Ace Detective che lui continuava a trattare come suo pari.


Mentre tornava a casa, Goro si fermò a un telefono pubblico e compose il numero.

Al quarto squillo una voce conosciuta rispose. “Pronto?”

“Sono io.”

“Bene, parla.”

“Domani ci troveremo al Casinò. Entro due giorni la prima parte del piano sarà conclusa.”

Dall’altra parte, Shido stava in silenzio. Akechi poteva immaginarlo sorridere compiaciuto. “Mi farò vivo presto.”

“Fa’ in modo che le cose vadano come concordato.” L’uomo attaccò il telefono senza dargli la possibilità di salutare, come sempre.

Quanto avrebbe desiderato dirgli la verità. Spiegargli che ogni sua azione era un dono dal figlio rinnegato al padre. Una notte aveva sognato il momento della sua rivelazione. Nel sogno, Shido lo abbracciava, ringraziandolo per avere messo in pericolo la sua vita per lui, pregandolo di perdonare la sua assenza negli anni in cui avrebbe potuto fare la differenza.

Akechi posò la cornetta. Sapeva che quello era solo un sogno, che suo padre non si sarebbe scusato, né l’avrebbe abbracciato.

A lui bastava avere la sua riconoscenza, l’ammissione che Akechi era il numero uno.


quistisf: (Default)
Fandom: Persona 3
Personaggi: Makoto Yuki
Prompt
 - singolarità: Il fatto di essere singolare, qualità di chi o di ciò che è singolare (nei varî sign. estens. e fig.); particolarità, eccezionalità, originalità, stranezza.

il carattere di irripetibilità, inconfondibilità, unicità, proprio del singolo, del soggetto personale

Partecipa al COWT 14 per M2


L'occhio del ciclone.

“Sei unico, il tuo è un potere speciale”.

Le parole di Mitsuru risuonavano nella sua mente senza tregua, ogni volta che viaggiava solo sulla funicolare.

Il primo giorno di scuola dopo le vacanze estive era ormai dietro l’angolo e lui aveva deciso di prendersi la giornata per girare senza meta, senza prendersi impegni particolari.

Il giorno precedente aveva incontrato Takaya al tempio. L’uomo gli aveva consegnato quel biglietto dal contenuto poco chiaro e Makoto si era chiesto di nuovo se Mitsuru e il capo gli stessero nascondendo più di quanto volesse ammettere.

Solo pochi giorni prima aveva combattuto al fianco di Takaya e ne aveva potuto osservare la potenza. Si era chiesto perché tutti i Persona User in grado di combattere fossero giovani come lui, per quale motivo non ci fossero altri adulti come Takaya a difendere la popolazione e a cercare di proteggere la popolazione. 

C’era qualcosa che non andava, ma per quanto si sforzasse, Makoto non riusciva a comprendere chi stesse guadagnando da quella situazione.

A volte si sentiva troppo stanco persino per alzarsi per andare a scuola, i rapporti con gli altri erano diventati più simili a impegni che a momenti piacevoli passati in compagnia di amici a cui si sentiva legato.

Makoto però sentiva di doversi sbrigare a formare legami con chi aveva intorno, doveva farlo prima che fosse troppo tardi.

Tardi per cosa? Si chiedeva quando il pensiero lo sfiorava, ma cercava di smettere di pensarci e si concentrava su pensieri concreti, tangibili, urgenti.

Mancavano ancora cinque ombre alla fine della loro avventura. Cinque mesi e il Tartarus sarebbe svanito per sempre, almeno così speravano tutti. La fine di una breve parentesi della sua vita.

Pharos gli era apparso in sogno la notte precedente e l’aveva avvertito di nuovo. 

Ogni volta che gli appariva, Makoto provava un enorme senso di inquietudine, perché ormai era certo che quel ragazzino fosse un messaggero oscuro che stava annunciando la fine della vita come sempre l’avevano vissuta, se non la fine del mondo intero e la distruzione totale dell’umanità.

Makoto sentiva di doversi sforzare sempre di più per trovare l’energia che tutti si aspettavano da lui: sempre a combattere, sempre in prima linea, ma la verità era che la motivazione lo stava abbandonando, il suo unico desiderio era riposare, smettere di pensare, ritirarsi e pensare alle frivolezze che i ragazzi della sua età consideravano importanti. 


La sua unicità l’aveva messo al centro della missione dei S.E.E.S., costringendolo a non avere la possibilità di mollare e di vivere in modo sereno la sua vita, come un normale studente. 

L’ultima volta che erano andati a combattere, Sanada era rimasto a casa a riposarsi dopo la sua ennesima vittoria in uno dei suoi  match di boxe. Si era concentrato sulla sua vita fuori dai S.E.E.S. e nessuno si aspettava che facesse diversamente.

Ma lui… Makoto non poteva sottrarsi al ruolo di leader che gli era stato assegnato all’inizio sulla base della sua abilità promettente nel combattimento. Decisione che in seguito era diventata un’imposizione quasi naturale per lui, che a detta di tutti. Lui, la singolarità, il prescelto tra i prescelti, che invocava ogni Persona con facilità,  grazie alle caratteristiche che tutti gli altri continuavano a definire uniche.

Pensò ad Aigis. Quando l’avevano incontrata gli aveva detto che lo stava cercando, che si era risvegliata proprio a causa della sua presenza, della sua vicinanza a lei, ma a Makoto questa dichiarazione aveva suscitato solo un profondo senso di inquietudine.

“Devo starti vicino e proteggerti sempre.” Gli aveva riferito. Aigis era diventata la sua ombra nel Tartarus, si risentiva sempre quando veniva lasciata indietro e i suoi occhi robotici lo cercavano in ogni istante, anche quando dormiva.

“Ti sento, so se stai bene. Il mio posto è sempre con te.”


Anche lei era unica: un essere senziente dalle sembianze simili a quelle di una ragazza, dalla mente robotica e razionale, dal corpo metallico e dotato di armi letali. Il cui scopo unico e dichiarato sarebbe dovuto essere quello di combattere le ombre, che invece era mossa dal desiderio incondizionabile di proteggere Makoto.


Perché proprio lui? Continuava a chiedersi senza che la risposta arrivasse.

Di nuovo, si era domandato cosa sarebbe successo se lui fosse sparito. Se avesse preso un treno per andare via da lì e non avesse dato spiegazioni. 

L’avrebbero cercato?
Sarebbero stati preoccupati per lui, o la loro priorità sarebbe stata la missione? 

Aigis l’avrebbe davvero trovato senza bisogno di sapere dove fosse?


Il treno aveva appena superato la fermata di Dekijima, presto sarebbe arrivato a Osaka.

Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa.

Si sentiva in colpa per essere partito, come se fosse fuggito dalle sue responsabilità coi S.E.E.S., anche se in fin dei conti non stava facendo altro che una breve gita.


Ricevette un messaggio da Junpei che gli chiedeva se stesse ancora dormendo. 

“No, sono in giro, sto andando a Osaka.”

Scrisse il messaggio, ma si fermò appena prima di inviarlo. Si morse un labbro mentre metteva in ordine i pensieri: Makoto aveva in programma di fare un giro lì intorno, senza una meta precisa. 

Con un sospiro di liberazione premette il pulsante di invio.

“Wo! Osaka! La prossima volta ci andiamo insieme!”

Come immaginava, nessuno lo considerava un traditore.


Scese dal treno a Ebisucho, visto il caldo della giornata pensava che visitare il Santuario Sumiyoshi Taisha fosse la scelta migliore. La frescura dell’ombra del bosco gli avrebbe dato sollievo dal caldo torrido di Port Island.


Sperava anche che la calma del tempio lo aiutasse a sentirsi meno inquieto.

Meno necessario. Si sentiva come un eroe fragile, il punto fermo attorno a cui tutto stava accadendo.  L'occhio del ciclone attorno a cui tutto si distruggeva.

“Ti abbiamo aspettato per dieci anni,” così aveva dichiarato il capo. “Se non fossi arrivato tu, non ce l’avremmo mai fatta.”


Camminò fino al tempio, ne ammirò i quattro edifici antichi in legno, verniciati di rosso acceso come da tradizione, rialzati e protetti dalle caratteristiche ringhiere rosse. 

Si immaginò come sarebbe stato lui se avesse fatto parte della struttura del tempio: un edificio troppo grande, sghembo, costruito alla rovescia. Un elemento che avrebbe tolto armonia al luogo, catturando l’attenzione di tutti. 

L’armonia era nel gruppo di edifici uguali, nella ripetizione. La forza era nel gruppo.

Alzò lo sguardo: il bosco, fitto, permetteva ai fedeli di pregare, così come consentiva a lui di non soffrire troppo il caldo. Forse era quello il suo ruolo: essere il ristoro, contribuire nella sua singolarità a fare parte del gruppo, a proteggerli, a guidarli nella raggiunta della fine, qualunque essa fosse, così come loro proteggevano lui. 


Al suo ritorno al dormitorio si sentiva rinfrancato, pensando che ciascuno ha la parte che il destino gli riserva. A lui era stata destinata l’unicità che lo rendeva un buon leader e avrebbe fatto la sua parte.


quistisf: (Default)


Partecipa al COWT 14
Prompt: Rinascita
Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Will, Principe, Gallica, Russell
One shot



Il potere della speranza

Quella mattina il principe si era svegliato tardi. Gruidae, che comandava il villaggio degli Elda, l’aveva accolto con la solita riverenza, accompagnandolo al tavolo dove lo aspettava una ricca colazione con tutto ciò che avrebbe mai potuto desiderare. Non aveva fame, ma come sempre si era sforzato di mangiare in modo da non deludere la governatrice Gruidae, poiché si rendeva conto che il solo fatto che lui continuasse a vivere dava speranza a tutti nel villaggio.

A volte pensava che quella vita al villaggio degli Elda fosse una prigionia dorata. Non gli era concesso di uscire, anche se sognava di viaggiare e avrebbe desiderato vedere il mondo. Purtroppo era ormai rassegnato al fatto che debole com’era passava le sue giornate seduto all’aperto, all’ombra degli alberi intorno alle fate a guardare i fiori ondeggiare sul manto erboso. Leggere il suo libro, eredità donata dai suoi genitori, e sognare erano le sue uniche occupazioni, e la sua salute stava peggiorando.

Lo notava negli occhi preoccupati dei suoi custodi, in particolare nella sempre più assidua presenza di Russel. Ne aveva conferma nei momenti in cui il dolore lo rendeva stanco e incapace di muoversi. “Posso andare a trovare mio padre?” Aveva chiesto subito dopo colazione, ma Gruidae aveva distolto lo sguardo con aria quasi colpevole. “Attendete, manca poco ormai, presto sarete libero.”

Si era chiesto in che senso la saggia Gruidae avesse usato la parola libertà: sarebbe morto? Si sarebbe liberato della maledizione? Oppure forse chi aveva già tentato di distruggere il villaggio sarebbe tornato a completare il lavoro?

Più cercava di scacciare la domanda, più la risposta gli appariva chiara: non aveva più tempo.

I suoi sogni sarebbero rimasti solo nella sua mente, avrebbe concluso la sua vita nel villaggio degli Elda e non avrebbe più rivisto suo padre.

Lesse qualche pagina del suo libro, la sua più importante possessione, ma fu costretto a smettere per il dolore agli occhi. Si addormentò a fatica, sforzandosi di scacciare le spine che si continuavano a fare strada sulle sue braccia, fino al collo e alle mani. Provò a concentrarsi su altro e si immaginò di fuggire da lì, pensò a Grand Trad e alle sue strade brulicanti di negozi, cittadini, attività e palazzi da vedere. Non per lui, non li avrebbe mai potuti vivere.

Chi avrebbe potuto prendere in giro? Forse anche solo pochi mesi prima avrebbe potuto tentare di fuggire, ma con le sue forze non aveva speranze neppure di uscire dal villaggio.

Quella notte sognò la libertà.

Fu un sonno sereno. Si vide diverso, più alto, la carnagione più rosea, i capelli corti più scuri. Magari fosse stato così: il portamento elegante e sicuro, gli occhi di colori differenti, gentili e ricchi di vitalità, il completo da viaggio comodo. Si sentì più forte, i rovi e le spine finalmente avevano lasciato il suo corpo e lui poteva correre per minuti interi, prendere fiato senza sentire dolore, persino maneggiare una spada.

Quando si svegliò pensò a quanto il sogno gli avesse mostrato una prospettiva più attraente rispetto alla realtà che stava vivendo.

Mangiò senza appetito, concentrandosi sulla lettura del suo inseparabile libro, l'utopia che lo spingeva a resistere nonostante il dolore sempre più pungente. Provava fatica anche solo a tenere gli occhi aperti e a respirare. Russel era al suo fianco, un'ombra che lo avrebbe protetto da chiunque avesse tentato di attaccarlo dall'esterno.

Il principe provava un'immensa gratitudine per lui e per tutti gli abitanti del villaggio, che gli erano sempre stati vicini con devozione.

"Grazie di tutto, Russel." Gli disse.

Il vecchio Eugief alzò la testa e sorrise con un'iniziale debolezza. "E di cosa, signore? È un onore per me essere al suo servizio."

"Sono grato di questo. Mi dispiace solo non riuscire a essere utile." Se solo avesse avuto la capacità di salvarsi con le sue forze, le cose sarebbero potute andare diversamente. "Ci tengo a ringraziare tutti. Lo faccia lei da parte mia, se non dovessi riuscirci."

Russel aprì la bocca, ma non parlò. Annuì, gli occhi fieri e consapevoli.

Il principe si alzò dal tavolo, prese il suolibro e fece pochi passi verso l’uscita, si sentì cadere. Crollare.

Mentre il corpo lo abbandonava, pensò che la sua mente invece era forte, che avrebbe ancora potuto salvarsi, come nel sogno. Concentrò tutte le sue energie nel pensiero che sarebbe stato egli stesso l'artefice del sue destino. Gli venne in mente sua madre, di cui non ricordava neppure il volto. Che l'avesse mai vista veramente prima di allora? In quel momento gli appariva nitida di fronte, come una guida nella nebbia del dolore, pronta a indicargli la via di uscita.





Gallica sentì il grido di dolore di Russel dal santuario nel quale stava parlando con Gruidae. Agitò le sue ali il più veloce possibile per correre a vedere cosa fosse accaduto e vide il principe a terra, esanime. Al suo fianco, dalla luce brillante dell'essenza del principe, un essere vivente stava prendendo forma. Il suo aspetto era così simile a quello del principe, che la Fairy si chiese se non stesse impazzendo. Poteva sentire il Magla convergere verso quella creatura, lo vedeva crescere e apparire sempre più tangibile. I capelli erano scuri, un occhio dorato, uno azzurro. La stessa età del principe. Due gocce d'acqua. Gallica lo osservò mentre prendeva forma, incapace di concentrarsi sul resto.

"Gallica, aiuto! Il principe non si sveglia!" Le parole di Russel echeggiavano nella sua testa senza apparente significato. Una missione, pensava: abbiamo una missione.

 

Sbatté le palpebre di nuovo e vide una moltitudine di persone che si affannavano intorno al corpo addormentato del principe. Il suo corpo fu posato nel santuario dai membri della guardia che ancora erano leali al gruppo di Russel, Gruidae appariva stremata dall'impossibilità di poterlo salvare.

Lo strano ragazzo osservava il principe in un pianto silenzioso, teneva in mano il suo libro e appariva ancora lucente di Magla. Gallica si diresse verso di lui, ma più si avvicinava, meno pensava che lui fosse un pericolo. Un amico, il suo amico. Abbiamo una missione.


La sera stessa Will e la Fairy partirono per la missione: l'infiltrazione nell'esercito per raggiungere Grius, l'assassinio di Louis Guiabern per salvare il principe.

Sei l'unica rimasta, gli aveva detto Russell. Invece erano in due. Per un attimo il dubbio la fece dubitare, ma poi guardò Will e le sue paure si dissiparono. Dovevano fare attenzione, l'unico obiettivo della missione era salvare il principe.




Il principe dormiva, in preda alla maledizione che l'aveva ridotto in fin di vita, eppure stava anche vivendo la sua avventura come Will: il corpo creato dalla sua speranza e dal suo desiderio di far parte di una società diversa.

Nel suo sonno incantato, il principe aveva incontrato persone di ogni tipo, aveva combattuto con Strohl, Hulkemberg, Heismay, Junah, Eupha e Basilio. Aveva parlato di uguaglianza e di rispetto e si era impegnato a vendicare la morte del Re, di suo padre, di loro padre.

La morte di Rella Cygnus l'aveva infine riportato alla veglia.

Il risveglio non fu semplice quanto aveva sperato. Il contatto con l'altro se stesso si interruppe di colpo quando la maledizione si spezzò, al punto che il principe si chiese se Will non fosse svanito nel nulla. Rimase fermo, disteso, incapace di muoversi.

"Le spine, sono svanite!" Un urlo di gioia echeggiò nel santuario e lui aprì gli occhi. Desiderò di toccare con le sue mani il muro della grande Cattedrale di Grand Trad, di solcare l'oceano sul Gauntlet Runner, di chiedere a Eupha cosa vedesse nel suo Magla. Seppure disteso, inerme, il principe sorrideva. Non sentiva dolore.

La rinascita era avvenuta.

Presto si sarebbe riunito con Will e, di nuovo uno, avrebbero guidato il regno di Euchronia. 

 

quistisf: (Default)
 
Originale
Prompt: una storia senza discorsi diretti o indiretti.
Partecipa al COWT 14

 

Yuki e la caccia alla pallina


Le orecchie bianche del gatto erano appiattite all’indietro, la lunga coda esile ondeggiava con aria curiosa, le zampe agili, tese in posizione di scatto e i due occhi: uno azzurro e uno verde osservavano con attenzione, fissi sulla piccola pallina di stoffa a righe blu e argento.

L’umano teneva l’oggetto stretto in una mano: lo faceva ondeggiare avanti e indietro, ripeteva il movimento con lentezza. Yuki non perdeva di vista l’oggetto. Il ragazzo tese il braccio all’indietro con rapidità, sempre seguito dallo sguardo dell’animale, per poi lanciare la palla nella direzione opposta. Yuki scattò per inseguirla con tutta la velocità che aveva. Il pavimento di legno verniciato dell’appartamento, liscio, non gli consentì uno scatto fulmineo: le sue zampe posteriori all’inizio scivolarono sulla superficie levigata, prima che lui riuscisse a muoversi in direzione del gioco, che aveva rimbalzato lungo il corridoio e oltre la porta.

Yuki non lo perse di vista: entrò nel salotto, dove inseguì la pallina sotto il divano e la agguantò con le zampe anteriori. La morse con forza, poi la lanciò con una zampa e la fissò mentre scivolava lenta verso il corridoio. Il piede dell’umano la rispedì contro di lui velocemente e Yuki la fermò con la zampa, per poi sedercisi sopra. 

Un rumore di plastica strappata si liberò nella stanza. Il gatto tese le orecchie e si alzò con lentezza, per quanto sotto il mobile non ci fosse spazio per camminare comodamente. La sua testa sbucò fuori da un lato del divano azzurro. L’umano teneva in mano una confezione di snack al salmone disidratati.

Yuki lasciò andare la pallina e uscì strisciando da sotto il divano. 

Il fornitore di cibo lanciò il premio nella sua direzione e Yuki corse ad agguantarlo. 

Inseguì lo snack correndo e lo fermò con una zampa per poi consumarlo immediatamente.

Si voltò sbadigliando e si avvicinò con lentezza al tiragraffi. La sua coda ondeggiava con grazia. Sollevò la testa, poi alzò una alla volta le zampe anteriori che appoggiò sul cilindro rivestito di corda. Sbadigliò di nuovo mentre si faceva le unghie. Poi saltò al primo piano del tiragraffi, sistemò il cuscino puntellandolo con le unghie delle zampe anteriori e si acciambellò. Il ragazzo lanciò il sacchetto di plastica con gli snack nel cassetto del salotto e uscì dalla stanza. Rimasto da solo nel silenzio Yuki, da sempre un maestro nell’arte del riposo, chiuse gli occhi e si mise a dormire.


quistisf: (Default)
 

Fandom: Metaphor: ReFantazio
Personaggi: Rella Cygnus, Junah Cygnus, OC (Maya Mei)
One Shot
Partecipa al COWT 14
Incipit: Stava ridendo ininterrottamente da più di dieci minuti, la cosa cominciava a farsi fastidiosa. “Potresti piantarla per favore?”

Maledette risate

Stava ridendo ininterrottamente da più di dieci minuti, la cosa cominciava a farsi fastidiosa. “Potresti piantarla per favore?”

Iniziò a ridere ancora più sguaiatamente. “Sto piangendo!” riuscì a pigolare, indicando le lacrime che ormai erano arrivate a bagnarle il colletto della camicia.

“Se continui così ti strozzi.”

Non c’era niente che lei potesse dire per farla smettere: sua sorella pareva sotto un incantesimo. Per un attimo il pensiero prese forma. “Un incantesimo? Non è che stai male davvero?” 

Junah provò a prendere un respiro profondo, ma sembrava davvero incapace di fermarsi. 

Rella cominciava davvero a preoccuparsi, nel dubbio iniziò a recitare una formula magica per provare a ipnotizzare sua sorella, che di punto in bianco si zittì, si alzò in piedi e le si avvicinò barcollando. 


Erano rari i momenti in cui le due sorelle potevano stare insieme con spensieratezza. Il segreto che Rella si portava dentro la stava consumando ogni giorno di più e Junah era la sola in grado di farle dimenticare quali nefandezze avesse compiuto nella sua breve vita. Quando era alla chiesa e operava come guaritrice, la Ishkia pregava di trovare un modo per eliminare la maledizione che aveva lanciato sul principe. Ci aveva provato ogni giorno, ogni volta che aveva un minuto libero. 

L’espiazione del suo enorme peccato non sarebbe mai avvenuta. Peggio, avrebbe finito col farsi odiare da sua sorella, dall’unica persona che Rella voleva davvero proteggere. Senza saperlo, sua sorella si era messa proprio contro di lei nel momento in cui aveva deciso di combattere per uccidere l’autore della maledizione che stava portando il Principe alla morte.


Ora il suo pensiero principale, però, era capire cosa fosse successo a Junah e perché non potesse smettere di ridere. Il suo controincantesimo avrebbe potuto rallentare gli effetti della maledizione, ma Rella non aveva molto tempo per capire che cosa fosse successo.


Si sedette di fronte a lei. "Sempre elegante, sempre perfetta." Sotto ipnosi, la voce di Junah era meccanica, ma comunque sincera.

"Grazie," rispose Rella, certa che quello non fosse un complimento. "Ma ora abbiamo pensieri più urgenti di cui occuparci: raccontami tutto ciò che hai fatto oggi, a partire da stamattina."

"Mi sono alzata e per prima cosa mi sono recata in bagno, poi ho cominciato a spazzolare i capelli, poi ho fat-"

"Va bene, va bene. Ferma un attimo. Non mi servono tutti i dettagli, mi basta sapere cosa hai mangiato, cosa hai bevuto, quando sei uscita e chi hai incontrato oggi."

Junah annuì. "Ho bevuto dell'acqua a casa, poi ho mangiato una mela e ho cucinato un piatto a base di uova per colazione, ho aggiunto sale e il timo di mare che era in cucina. Sono uscita di casa e ho fatto acquisti al mercato.

Ho incontrato Lucius, che mi ha regalato un pendente nuovo per il bracciale. Eccolo.” Junah mostrò un piccolo ciondolo a forma di mezzaluna, attaccato al suo bracciale da un anellino di metallo. “Poi sono andata da Hurlet per dirgli che canterò al festival della Luna. Ho bevuto un tè caldo insieme a lui e alla Santista che era lì. Tornando indietro ho… Ahah! Ho preso la cena, quella che ho preparato. Eh- E che è in cucina.”

Le risate stavano cominciando a tornare. Rella ripeté la formula magica nella sua mente. Mentre la pronunciava sentiva le spine muoversi lungo la sua schiena, fino alle braccia. Le ricacciò indietro stringendo i pugni. Non aveva tempo per pensare a se stessa.

Andò in cucina a esaminare il timo di mare e le altre erbe poste di fianco alla cucina economica. Sembrava tutto in ordine: Rella aprì ogni singolo vasetto e lo annusò, ma non trovò niente fuori posto. Si grattò il mento mentre si concentrava nei suoi pensieri. Camminò a passo veloce verso la sorella ed esaminò il suo bracciale. Niente maledizioni. Non sospettava di Lucius, ma non aveva idee, perché nessuno in città aveva brutti rapporti con Junah.

“Junah, pensi che qualcuno ti voglia fare del male? Hai litigato con qualcuno.”

La ragazza stava fissando il pavimento, intontita dall’incantesimo di protezione. “Sempre la solita gelosia.” Alzò lo sguardo. “Devo cantare sempre io? Ti sembra giusto?”

“E chi dovrebbe cantare?” Tentò la guaritrice.

“Sempre Junah, sempre lei. Le altre non valgono le sue scarpe.” Junah rise di nuovo, gli occhi incupiti.

Rella ripeté la formula una volta ancora. “Non è vero, io vorrei sentire qualcun altro cantare.”

Junah batté le mani. “Devi ascoltare Maya Mei, lei sì che è brava. Doveva cantare al festival della Luna, e lo farà.”

Era come se l’incantesimo stesse confessando le sue intenzioni, Rella sapeva che questo significava che era stato attivato da un novellino, incapace di renderlo efficace. 

"Vieni con me, Junah, andiamo a cercare Maya Mei."

Junah si alzò di scatto e alzò le braccia come per festeggiare. "Evviva! Andiamo ad ascoltare la mia Maya." Si fermò in mezzo alla stanza. "Mi farà un autografo? Canterà con me?"

Rella aprì la porta e la invitò a seguirla. "Certo, farà tutto quello che vorrai."

Camminavano veloci: Rella guidava il passo, elegante e sicura, ripetendo la formula di protezione. Junah la seguiva un po' barcollante, fermandosi di tanto in tanto per poi ripartire di corsa per raggiungere la sorella. Salirono sul carro che le avrebbe portate da Hurlet. Junah continuava a ridacchiare, ma non era in pericolo di vita, aveva ancora tempo sufficiente per trovare il colpevole e capire come dissolvere la maledizione. Nel caso in cui non ci fosse riuscita, anche se la cosa non le piaceva, sapeva che la soluzione era nelle fiamme. Avrebbe bruciato il regno intero per salvare Junah. Non avrebbe lasciato che morisse. Non avrebbe aggiunto alle sue colpe anche la morte dell'unica persona che aveva sempre giurato di proteggere a ogni costo.

Arrivò alle porte della piccola chiesa del borghetto di Luntim, dove Hurlet governava sotto la buona stella della chiesa Santista. Le porte si aprirono di fronte a lei nonappena si sporse dalla finestra del carro coperto.

Hurlet arrivò ad accoglierla con gioia, ma il suo sorriso si smorzò quando vide scendere anche Junah. "Oh, per il cielo! Cosa è successo?"

La sua preoccupazione parve sincera a Rella, che lo rassicurò: "Reggente Hurlet, la ringrazio per l'accoglienza. Sono venuta qui proprio per comprendere meglio la situazione. Junah mi ha riferito del vostro incontro poche ore fa. Purtroppo come può vedere, una maledizione ha colpito la canzoniera, ed è mio compito comprenderne le origini."

Il reggente scosse la testa con veemenza. "Io non ne so niente!" Affermò perentorio. "Ho insistito tanto perché accettasse di venire al festival della Luna."

"Ne sono a conoscenza." Confermò Rella con tranquillità. "Le sue buone intenzioni non sono in discussione. Volevo solo sapere se  qualcuno fosse contrario all'esibizione di Junah. Forse qualcuno devoto a Maya Mei."

"Maya Mei! Dov'è?" Junah si guardava intorno con occhi sognanti. 

Hurlet rimase pensieroso per qualche istante, d'un tratto sgranò gli occhi. "Io... Io credo di sapere chi è stato."


La cuoca Tina apparve sorpresa quando Rella la Guaritrice apparì in tutta la sua eleganza di fronte a lei, nel corridoio cupo che portava alla sua umile stanza.

"Buonasera, le dovrei parlare un attimo." La Santa accompagnò la richiesta con un sorriso, ma  la signora Tina ne colse l'urgenza e si mise in fretta lo scialle per poi avviarsi verso la cucina.

Le due donne si sedettero una di fronte all'altra.

"Oggi dalla cucina sono stati serviti dei biscotti al miele e del tè, li ha preparati lei?"

La donna apparve sorpresa. "S-sì, li ho preparati io personalmente. Ho preparato le infusioni e i biscotti con le mie mani. Sono perfetti, ne ho ancora qui." La donna indicò una scatola di latta.

Rella annuì: "Posso vederli? Anche le erbe per le infusioni per favore."

La cuoca porse la scatola coi biscotti e aprì il coperchio, rivelando un intenso profumo di cannella e miele. Rella ne prese uno e lo esaminò con attenzione, poi lo addentò. "Davvero buono." Ammise guardando la cuoca che stava finendo di posare sul tavolo i barattoli che contenevano le erbe per gli infusi. Rella aprì ogni scatola e ne esaminò con attenzione il contenuto. "Niente. Non è stata lei." Disse rivolta alla guardia che l'aveva accompagnata in cucina.

"Cosa è successo?" domandò la donna con un filo di voce.

"Qualcuno ha lanciato una maledizione su Lady Junah." Ammise Rella, osservando nella donna una reazione di sorpresa.

"Maya..." Sussurrò la donna.

Una ragazza nella penombra della stanza stava piangendo in silenzio. Rella camminò elegante e leggera verso di lei. "Sei tu Maya Mei?"

La ragazza annuì. "Io non so come sia successo, non volevo..."

Rella le posò un braccio sulla spalla, rassicurante. “Tu volevi solo cantare, vero?”

Maya alzò lo sguardo, colpevole. “Non ho fatto niente.”

La guaritrice mandò a chiamare Junah. Le due stavano una di fronte all’altra mentre Rella pronunciava le sue parole di guarigione. 

“Fatto, ora non ci dovrebbero essere altri problemi, non preoccuparti, non l’hai fatto di proposito.” 

“Sono mortificata, Lady Junah e Santa Rella.”  Si scusò ripetutamente Maya.

Sulla via del ritorno, Rella sedeva pensierosa. Quella ragazza aveva una dote pericolosa da gestire e si sarebbe dovuta occupare di lei. Doveva aiutarla a conoscere il suo potere.
Come Junah le aveva insegnato: o
gni vita è preziosa. Sorrise. La sua cara sorella era salva.

quistisf: (Default)
Fandom: Persona 3
Personaggi: Shinjiro, Kotone Shiomi, S.E.E.S.
Incipit: Entrò nella stanza chiedendosi perché lo stesse facendo.
Partecipa al COWT 14
One shot, what if?


La guarigione di un fiore appassito

Entrò nella stanza chiedendosi perché lo stesse facendo. Shinjiro la richiuse dietro di sé tenendo gli occhi chiusi. Prese fiato prima di guardarsi intorno e nel farlo sentì il suo profumo.
Che profumo? Si chiese, ma non sapeva distinguere i fiori e le essenze che lo componevano. Conoscendo Kotone, era probabile fosse un bagnoschiuma che aveva preso al supermercato. A lui ricordava la primavera, gli alberi fioriti e il calore tiepido del sole sulla pelle.
Quante volte si era domandato perché lei avesse insistito nell’approfondire il loro rapporto, quando lui aveva usato tutte le sue forze per tenerla a distanza, lei e tutti gli altri.

Il coma nel quale era caduto per lui non era stato che un sogno, neppure tanto lungo a dirla tutta. Si era svegliato e lei era seduta di fronte al letto, leggeva a voce alta un libro che lui non conosceva, era seduta rivolta alla finestra, la testa appoggiata a uno dei braccioli della poltrona, una gamba ciondolava sull’altro. “Cosa leggi?” Le aveva chiesto.
Quando i loro occhi si erano incontrati, Shinjiro l’aveva vista stanca come mai prima di allora.
Era rimasta a bocca aperta per qualche istante, prima di cominciare a parlare. “Pensavo che non ci saremmo mai più visti in questa vita.” Il suo sorriso così sincero l’aveva spinto a tentare di andarle incontro, ma il suo corpo non aveva risposto come avrebbe dovuto: il braccio aveva scostato il lenzuolo a fatica, il resto del suo corpo era rimasto immobile. Si era lasciato sfuggire un sibilo di dolore e frustrazione.
“No, stai fermo, arrivo!” Aveva urlato Kotone, alzandosi di scatto e rischiando di cadere dalla poltroncina scomoda dell’ospedale.
Gli si era avvicinata a braccia aperte, Shinjiro ricordava ancora il suo abbraccio caldo, la delicatezza delle sue mani mentre sistemavano il lenzuolo, gli accarezzavano il viso.
Si chiese perché fosse ancora lì, di fronte a lei. Proprio quando si era convinto di avere accettato la morte, si era ritrovato a sperare di potere vivere.
Con fatica, Shinjiro alzò le mani e le posò sul viso di Kotone, che non si oppose, neanche quando il suo viso si avvicinò di più, neanche quando portò le sue labbra alle sue fino a baciarla.


Shinjiro strinse i pugni. Un tempo si sarebbe abbandonato alla rabbia, ma era cambiato da quando l’aveva vista morire: Kotone si era addormentata tra le sue braccia e non si era più svegliata. Le aveva promesso che avrebbe continuato a vivere, che le avrebbe raccontato ciò che avrebbe visto una volta dall’altra parte, perché ormai lui era certo che ci fosse un’altra parte, oltre alla vita. Non poteva credere che tutto smettesse semplicemente di esistere.

Aprì gli occhi e si lasciò inondare di ricordi: il computer sulla scrivania, le sue cuffie, i libri e la matita gialla con cui una volta gli aveva scritto un biglietto. “Stasera usciamo, non andare in giro, aspettami! Kotone.” Lui l’aveva gettato nella spazzatura, che sciocco.
Il suo zaino posato sulla sedia, la giacca invernale appesa al gancio.
Shinjiro aprì l’armadio e prese la sciarpa rossa che spesso indossava. La strinse tra le mani e si distese sul letto, pianse fino a dormire.

Quando si svegliò, fuori era buio. Shinjiro si alzò e si mise in ascolto: poteva sentire in lontananza le voci di Junpei e di Akihiko. Non avrebbe potuto evitare di vederli. Prese la matita gialla e la ripose nella tasca della giacca, mise al collo la sciarpa e uscì dalla stanza.

Scese le scale cercando di fare rumore per annunciare la sua presenza. Non voleva che qualcuno si spaventasse nel trovarselo di fronte come era già successo in passato.
“Shinji-” Mitsuru fu la prima ad avvicinarsi. “Come stai? Sono passati… giorni.”
Lui annuì. “Sono passato a prendere… un ricordo.” Indicò la sciarpa.
“Hai fatto bene a tornare.” Akihiko si avvicinò lentamente, come si fa con le creature selvagge quando non si vuole che scappino. “Resti con noi per cena? Stiamo preparando un… non so cosa in effetti, ma ce n’è anche per te.”
Desiderava andare via, continuare ad aggrapparsi al suo lutto e al dolore che provava in ogni istante, ma annuì e si lasciò guidare al tavolo dai suoi amici. “Grazie dell’invito.”
“Dove stai dormendo?” Mitsuru era sempre stata diretta.
“Ho dormito così tanto che ultimamente non ho molto sonno.” Tentò di scherzare, ridacchiando in modo forzato.
“Dormi qui, allora.”
Di nuovo, Shinjiro si ritrovò ad annuire.
Era certo che Akihiko desiderasse fargli un centinaio di domande, lo osservava mentre preparava la tavola. Sembrava nervoso, preoccupato, ma felice di vederlo.
Shinjiro si schiarì la voce: “Chi avrebbe mai immaginato che sarei arrivato vivo oltre il vostro diploma? Eppure eccomi qui!”
“Stai prendendo qualcosa?” Akihiko aveva un tono serio.
“No, da quando mi sono svegliato non ho preso i soppressori, né altro. Devo ammettere che mi sento un po’ meglio da quando è tutto finito.”
“Bene,” Mitsuru sorrise e alzò lo sguardo con prudenza prima di continuare. “Domani chiamo qualcuno, vorrei fare dei controlli con un medico per capire se è possibile aiutarti, se vuoi.”
“Mmh- ti ringrazio. Non ti prometto che mi farò di nuovo trattare come un esperimento da laboratorio, ma apprezzo per la proposta.” Shinjiro avrebbe voluto rispondere che non gli interessava della sua vita, che non se ne sarebbe fatto niente di sapere se sarebbe vissuto oppure no, ma doveva la sua vita a Kotone e l’avrebbe rispettata, avrebbe fatto del suo meglio per togliersi di dosso quel senso di colpa che si stava portando dietro da ormai troppo tempo. “Farò del mio meglio.”

Le cose non stavano andando così male. Shinjiro aveva iniziato la sua riabilitazione nell'ospedale dove era stato ricoverato durante il coma, inoltre aveva accettato l'aiuto di Mitsuru. Gli avevano fatto una quantità enorme di esami, aveva dovuto seguire diverse terapie per sopportare il dolore e per tentare di far regredire i suoi sintomi.
Dopo sei mesi, finalmente Shinjiro poteva dire di stare abbastanza bene. L'Ora Buia non esisteva più ormai, e la vecchia vita dei S.E.E.S. era rimasta nel passato.
I medici gli avevano spiegato che la sua condizione era migliorata proprio in virtù di questo mutamento nella realtà, che si era ripercosso anche nella sua condizione fisica.

Il telefono iniziò a vibrare e Shinjiro lesse il nome di Mitsuru, si sentivano spesso, ma in genere lei non lo chiamava. "Pronto, come va?"
"Ciao, direi che va bene! Ho sentito le buone notizie, pare che resterai con noi ancora un po' di tempo."
"Pare di sì, la terapia sembra funzionare, anche il dolore è diminuito parecchio."
"Io ti ho chiamato perché, lo sai: dobbiamo liberare la stanza. Io non vorrei, ma... Volevo chiederti se vuoi farlo tu, se desideri tenere qualcosa." Se lo aspettava. Immaginò quando la sua amica avesse aspettato prima di chiamarlo.
"Ci vediamo stasera."

Entrò per l’ultima volta nella stanza di Kotone sperando di ritrovare ancora il suo profumo nell'aria, che la sua presenza fosse ancora tangibile negli oggetti della stanza. Era passato troppo tempo, però, infatti il profumo era svanito. La stanza odorava di polvere, infatti il ragazzo aprì la finestra. Iniziò a riempire lo scatolone coi suoi libri, scorrendone le pagine in cerca di un appunto, di una frase. Aprì il cassetto della scrivania e cominciò a riporre gli oggetti. Si sentiva quasi in colpa per la sua intrusione, frugare tra le sue cose era sbagliato, ma lei non c'era più e non sarebbe tornata a sgridarlo.
Dentro il cassetto più piccolo c’era un contenitore con il simbolo dei S.E.E.S. disegnato a mano. Shinjiro lo aprì, rivelando delle lettere indirizzate a ciascuno di loro.
Prese la sua e si lasciò cadere a sedere sul letto. Le sue mani tremavano mentre strappava la busta.

Caro Shinjiro,
in questo momento stai dormendo. So che dormirai ancora a lungo, ma sono certa che un giorno ti sveglierai e forse chiederai di me. Io però in questi giorni mi sento molto stanca. Non sono certa che ci rivedremo. Sembra che gli altri si stiano dimenticando di ciò che è successo, temo che anche la mia memoria presto svanirà dalla loro mente e io, l'ora buia e il motivo per cui tu sei in coma diventeranno una domanda alla quale non saranno in grado di rispondere. Forse è meglio così. Nel cuore, spero che anche tu mi dimenticherai e vivrai nella serenità fino alla vecchiaia. La lettera è per me. Sono io che voglio dirti addio, vorrei che tu sapessi che senza il tuo pensiero, forse io sarei già svanita dai ricordi e dal mondo.
Strano il destino, vero? Né io, né tu abbiamo chiesto di avere un ruolo nella storia del mondo, invece eccomi qui a chiedermi perché proprio io.
Però sono contenta, sai? Perché anche se voi non saprete chi sono, io potrò portarvi tutti nel mio cuore. Saprò che ho contribuito a permettere agli altri e spero anche a te di vivere.
Mi mancherai, Shinjiro.
Tua, Kotone.


Shinjiro finì di riporre i suoi oggetti nelle scatole e uscì dalla stanza. “Ciao, Kotone.”
Chiuse la porta con un sorriso, e scese le scale. Non l’avrebbe mai dimenticata, ma proprio come lei stessa gli aveva chiesto di fare, non si sarebbe più fermato a rimpiangerla.
quistisf: (Default)
Prompt: Leggi
Fandom: Persona 5
Personaggi: Goro Akechi
Genere: Introspettivo
Partecipa al COWT 13

La mia giustizia

Che senso ha rispettare la legge a ogni costo, quando puoi piegarla a tuo uso senza conseguenze? Si chiede Goro Akechi mentre sorride di fronte all’obiettivo della telecamera che lo sta riprendendo.
“A soli quindici anni questo studente ha iniziato la sua carriera di nuovo Detective Prince risolvendo un caso impossibile, che aveva fatto brancolare nel buio detective con anni di esperienza alle spalle.” Gli viene da ridere nel sentire le frasi stantie del giornalista. Lo disprezza, ma non lo ammetterebbe mai. Del resto non può dire come è venuto a conoscenza della verità e in fin dei conti se lo facesse non ci crederebbe nessuno.
Si immagina mentre parla del mondo cognitivo e delle sue capacità fuori dal comune che gli permettono di farsi dire la verità dai criminali e di conoscere dettagli privati che a volte gli stessi colpevoli non ricordano. Nel Metaverso le ombre vivono soprattutto grazie a quella colpa e non dimenticano.
Quando ha scoperto il suo potere, Goro ha pensato di andare a cercare suo padre e di renderlo pazzo, proprio come ha già fatto con il gestore della casa-famiglia nella quale era stato maltrattato da piccolo. Era andato nei Memento - ancora non li chiamava così, per lui erano la coscienza collettiva - e le sue aspettative erano state premiate. Un piccolo crimine per fare rispettare le sue leggi personali, quelle di fronte alle quali il Detective Akechi non transige. Si è procurato un modo per conoscere l’uomo senza morale che gli ha tolto l’infanzia.
Finalmente ha la possibilità di incontrarlo faccia a faccia. Masayoshi Shido, la causa della morte di sua madre, è di fronte a lui e lo guarda con un sorriso che Goro vorrebbe spezzare con un colpo di pistola. Non può ucciderlo, però. Non ancora. Suo padre non sa ancora chi lui sia veramente, ma ascolta la sua proposta con vivo interesse. “Sarebbe un peccato non sfruttare questo potere così speciale per ottenere qualche vantaggio, no?” Gli chiede.
Il politico continua a sorridere, ma nei suoi occhi Goro vede la bramosia di un uomo che ha sempre avuto ciò che desidera. Al contrario di lui, suo padre ha calpestato ogni persona che gli si è parata davanti e che ha limitato il suo crescente potere.
Le uniche leggi che suo padre considera sono quelle che può sfruttare per ottenere più influenza, più voti. Mente ogni volta che apre la bocca e la sua voce è pulita, profonda e affidabile.
Akechi sa che sono tutte bugie. Sa anche che è un rischio giocare con lui, ma non ha mai avuto paura di rischiare. Gli propone un patto che non rifiuterà perché lo conosce, in fin dei conti si assomigliano più di quanto lui sarà mai disposto ad ammettere.
Da piccolo il ragazzo credeva nella legge. Era convinto che sua madre fosse morta per un eccesso di debolezza che lui ripugnava, ma confidava nello stato e nelle leggi che lo avrebbero protetto e messo sotto la tutela di suo padre, dell’uomo che fino a quel momento non si era dimostrato interessato a lui, ma che avrebbe accudito un povero orfano.
Non accadde.
Goro era passato da una casa famiglia all’altra. Aveva incontrato persone più o meno accettabili, ma tutti si erano approfittati di lui per ottenere benefici, per piegare le leggi e le regole in modo che fossero loro favorevoli. Lo accudivano per denaro, per puro interesse.
Adesso ha imparato. Porta ancora il cognome della madre e ogni volta che lo sente ricorda da dove proviene. Sa che lei aveva provato a seguire le regole, a chiedere aiuto con un avvocato che si era appellato alla legge per farle avere un aiuto concreto, che non è mai arrivato.
Lui si è distinto per la sua intelligenza, per il suo alto senso morale e per la fiducia che nutre nei confronti di tutto ciò che è legge. Anche lui mente, però.
Gli viene naturale.
Lo fa con Sae Nijima, che gli confida a che punto sono le indagini sui Phantom Thieves; lo fa con il mondo quando condanna il suo stesso operato nel Metaverso e incolpa proprio loro, parlando di giustizia e di rispetto delle leggi subito dopo avere ucciso persone delle quali lui è giudice e carnefice.
Mente quando guarda suo padre negli occhi e gli dice che il suo è solo un lavoro. Fa molta più fatica con Amamiya. Sente che loro due sono simili in un modo diverso, sa che lo capirebbe e che tenterebbe di salvarlo. Invece Akechi sta per ucciderlo, solo che lui non lo sa ancora.
In nome della legge, l’ha giudicato colpevole di essere troppo sciocco e di essere caduto nella sua trappola. I Phantom Thieves hanno combattuto per un mondo che non esiste, un ideale che gli dimostra la loro immaturità. Sono solo dei ragazzini e un po’ gli dispiace ucciderli tutti. Li lascerebbe vivi, se potesse, ma lui ha un ideale più grande e per il suo fine ultimo loro non possono sopravvivere.
Saluta il giornalista senza riuscire a togliersi dal volto quel ghigno, lo nasconde come se fosse imbarazzo e agita una mano, umile. Deve andare, il suo rivale lo aspetta per una serata tra amici. Sarà l’ultima volta che lo incontrerà fuori dal Metaverso, è quasi giunto il giorno che attende da tempo.
È già tutto pronto, non deve far altro che continuare a recitare la sua parte fino ad arrivare al palazzo di Nijima, poi finalmente potrà fare rispettare le sue leggi e ottenere la giustizia.
quistisf: (Default)
Fandom: Persona 3
Personaggi: Mitsuru Kirijo, Akihiko
Genere: Introspettivo
Prompt: Orologio
Partecipa al COWT 13
La Dark Hour non c'è più, ma non è facile dormire sereni quando si sa che il tempo a volte può sparire.


L’ora che svanisce

Il sole stava tramontando sul mare. Mitsuru osservò l’orologio: erano le otto e un quarto, aveva ancora tempo.
Puntò lo sguardo sul sole rosso della sera pensando che non avrebbe dovuto farlo, perché si sarebbe solo rovinata gli occhi. Non le importava, però, perché il dolore che sentiva, contrastato dal suo corpo grazie alle lacrime che stavano cercando di lenire la cornea, non era che un sintomo naturale dovuto al suo sforzo di guardare la luce, e lei in quel momento aveva un bisogno disperato di essere a contatto con la realtà.
Dopo poco chiuse gli occhi, sconfitta: non aveva senso resistere, ormai lo aveva capito.

Per quanto fosse strano e sciocco ammetterlo, le mancava la Dark Hour. Almeno quando erano nel Tartarus lei valeva qualcosa, era utile a qualcuno. Ricordava come avesse passato le prime notti dopo la fine di tutto a fissare l’orologio, a osservare l’arrivo della mezzanotte fremendo all’idea di ciò che era stato, sempre immaginando che tutti intorno a lei si fermassero e lei tornasse a diventare l'artefice del destino dell'umanità e fosse costretta a combattere ancora per proteggere i cittadini comuni, che ignari di tutto continuavano le proprie vite.
Quando la mezzanotte scoccava, la ragazza andava alla finestra del condominio studentesco nel quale viveva e guardava fuori: niente bare, solo qualche persona che sghignazzava o chiacchierava. Di giorno controllava i giornali: niente strane sindromi, niente gente perduta.
Mitsuru non riusciva più a dormire. Per lei la notte era un susseguirsi di secondi, minuti, ore durante il quale lei osservava le lancette dell’orologio da parete rincorrersi, superarsi, nella prova tangibile che la Dark Hour non c’era più.

Continuava a cavarsela bene nello studio, ma poco a poco si era rassegnata a cambiare le sue routine, perché non riusciva più a vivere il giorno e la notte come tutti gli altri: andava a scuola come tutti, ma al suo ritorno andava a dormire. Si svegliava la sera, quando gli altri cominciavano a prepararsi per riposare, faceva colazione e studiava. Passava la notte in silenzio, per non farsi sentire e per non far capire ai vicini quanto fosse strana. I suoi compagni di corso la invitavano a studiare insieme, in fin dei conti era una Kirijo, una delle studentesse coi voti migliori all’università, perché non avrebbero dovuto desiderare di passare del tempo con lei?
Se solo avessero saputo la verità, Mitsuru era sicura che avrebbero pensato che fosse pazza e forse lo era: era ossessionata dal tenere traccia del passare del tempo e non c’era un solo istante nella sua vita in cui lei non avesse il suo orologio a portata di mano.
Ormai erano passati mesi da quando Makoto si era addormentato per sempre, abbandonando tutti gli altri SEES con i quali aveva combattuto senza risparmiarsi.
Era ancora in coma, proprio come Shinjiro. Forse un giorno almeno uno di loro si sarebbe risvegliato, pensava, ma sapeva che le speranze erano flebili. In ogni caso continuava a pagare l’ospedale perché i suoi amici continuassero a stare lì, nel loro sonno innaturale, nella serenità apparente che era stata causata proprio dalla sua famiglia.

Gli incubi popolavano le sue giornate: sognava di non accorgersi che il tempo era fermo, di trasformarsi in una bara come capitava a tutte le persone normali durante la Dark Hour. Spesso avrebbe giurato di vedere un movimento strano della lancetta, come se qualcosa fosse cambiato da un secondo all’altro, ma dopo un po’ si era convinta che fosse tutto nella sua mente. Aveva messo telecamere in giro per il suo appartamento, contatori meccanici indipendenti per non perdere neppure un secondo. Quando controllava tutti i suoi aggeggi tecnologici però non riusciva a rassicurarsi, anche se non dimostravano anomalie.

Si era chiesta spesso cosa provassero le persone comuni quando si addormentavano per un’ora ogni singola notte, ma non aveva trovato ancora risposte soddisfacenti.

Avrebbe desiderato tanto tornare a vivere come gli altri, come una persona comune. Non ci riusciva, perché anche se il Tartarus non c’era più, continuava a pensare che fosse sempre lì e che lei semplicemente non riuscisse più a percepirne l’esistenza, come non sentiva più la sua Persona che le era stata vicino per così tanto tempo da considerarla una parte di lei. Lo era in effetti. Lo era stata.

Riprese a osservare l’orologio, i secondi passavano regolari: uno dopo l’altro, dopo l’altro.
Aveva smesso di vivere, non incontrava nessuno, non parlava con i suoi coetanei e le sue tapparelle erano sempre chiuse, l’unico compagno era il suo orologio, testimone del passare del tempo, il suo nemico era il senso di colpa, lo combatteva ogni giorno, ogni notte. Ecco perché aveva chiamato Akihiko, invitandolo da lei.
Le costava tanto ammettere di avere bisogno del suo amico, quasi di più di quanto le costasse pensare che lui per Mitsuru era molto di più. La faceva sentire bene, grazie al suo pensiero e alla sua voce al telefono a volte le era capitato di dormire bene, senza incubi, senza brutti pensieri.
Gli aveva chiesto di incontrarla lì, vicino al mare. Era un posto romantico, tranquillo e in inverno col freddo che c’era non era affollato. Le otto e trentacinque, di lui ancora nessuna traccia.
Forse stava diventando pazza, si disse prendendo il cellulare e controllando i messaggi. Per quanto il suo stile di vita fosse indice di uno stato mentale instabile, era sicura che lui non l’avrebbe lasciata ad aspettarlo senza giustificazioni. Non c’erano messaggi.

La ragazza si sentì vuota, distrutta. Si lasciò cadere a terra. Lo fece in modo dignitoso, mantenendo il controllo anche il quel momento di assoluta sconfitta. Gli occhi erano sempre puntati sull’orologio: otto e trentasette. Desiderava piangere, ma si limitò a osservare i secondi che passavano, cercando di regolare insieme a loro il ritmo del suo respiro e del suo cuore. Otto e trentotto.
“Mitsuru? Sei già qui?” Lei non sollevò lo sguardo, pensando che la sua alterazione fosse ancora troppo scoperta, troppo visibile. “Va tutto bene?”
Fu lui ad abbassarsi. Chinato sulle ginocchia, coprì il quadrante dell’orologio con la sua mano e le sollevò il mento con l’indice. “Va tutto bene?” Ripeté.
Lei scosse la testa lentamente e Akihiko la abbracciò. “Anch’io ho paura di non vederla più,” le confessò. “Ma ce la faremo.”
Non era stata una domanda, neanche una proposta. Sembrava più un fatto certo. “Forse.” Aggiunse lei.
Lui le prese la mano e la sollevò. “Cerchiamo di passare una bella serata adesso, abbiamo tanto da raccontarci.”
quistisf: (Default)
Partecipa al COWT 13
Prompt: Naufrago
Cloud Strife
One Shot

Il Naufrago sulle rive di Mideel

Il ragazzo era disteso sul divano, i vestiti ancora sporchi dell’acqua di mare. Mika e sua sorella Hila l’avevano trovato sulla riva, di fianco alla loro casa, pochi minuti prima.

La ragazza aveva chiesto alla sorella di chiamare aiuto, in particolare il dottore per capire se ci fosse qualcosa da fare per lui, se si sarebbe risvegliato.

Quando le due sorelle avevano trovato il naufrago erano corse verso di lui e l’avevano voltato. I suoi occhi erano aperti e vuoi, ma non sembravano morti. Mika accostò l’orecchio al suo petto e sentì il suo cuore battere, il suo respiro lieve, ma regolare.

Lo chiamarono, cercarono di svegliarlo anche con qualche piccolo schiaffo sul volto, ma sembrava svenuto. Solo che non era svenuto, bastava guardare quegli occhi per capirlo.

Hila era spaventata da lui.

“Aiutami a prenderlo per portarlo dentro,” le chiese.

La sorella fece un passo indietro, quasi a volergli negare il suo aiuto. “Lo vuoi portare in casa nostra?” Domandò, incredula.

“Solo fino a quando non lo viene a prendere il dottore. A occhio questo potrebbe essere uno di quegli avvelenamenti da Mako di cui parlava qualche giorno fa il capo. Aveva detto che ce ne sono stati parecchi ultimamente. Non ne avevo mai visto uno, ma guarda.” Mika Schioccò le dita di fronte al viso dello sconosciuto, che non sbatté neanche le palpebre. “Gli occhi blu sembrano finti. È vivo, ma è come se fosse morto. Mi fa pena, non paura.”

Hila si avvicinò per aiutare la sorella. Insieme sollevarono il ragazzo, un braccio ciascuna. Era pesante, più di quanto immaginassero. A fatica, lo trascinarono come un sacco pieno di patate fino dentro la loro casa, sul divano. “Ora vai a chiedere aiuto.” Le ordinò.

Poi Mika prese una bacinella di acqua pulita e un asciugamano e gli sciacquò il viso e i capelli, facendo attenzione a tamponare con delicatezza. I suoi capelli biondi erano sporchi di sabbia e di alghe, la ragazza li pettinò e li pulì con cura. Non aveva il coraggio di avvicinarsi con la pezza ai suoi occhi profondi che fissavano il soffitto come se non potessero fare altro. Si sollevò e provò a incrociare il suo sguardo, per capire se lui fosse in grado di vederla. Gli passò la mano a pochi centimetri dal viso. “Puoi sentirmi? Mi vedi?” Gli chiese.

Lui emesse un lamento flebile, ma non le parve una risposta.

Gli mancava uno stivale, Mika completò l’opera togliendo anche l’altra e continuando con il resto dei vestiti bagnati e sporchi di salsedine. Dovevano pizzicare, si chiese se lui sentiva qualcosa. Nonostante l’imbarazzo continuò a spogliarlo, un capo alla volta. Un lenzuolo a coprirlo perché sapeva che se fosse capitato a lei, avrebbe desiderato lo stesso trattamento.

“Il dottore sta arrivando.” Hila rimase di fianco alla porta, senza mostrare alcun desiderio di avvicinarsi al naufrago. “Ha detto qualcosa?”

Mika scosse la testa. “No, solo un lamento, ma non credo che ci veda.”

Proprio in quel momento, il ragazzo tentò di alzarsi e diresse il suo sguardo vuoto verso di lei. Mika fece un balzo all’indietro, rovesciando in parte l’acqua con la quale lo aveva lavato. “Ri- uh…”

Restò sollevato, di nuovo del tutto privo di segni vitali. Mika decise di aspettare il dottore, che non tardò ad arrivare.

“Questo ragazzo dovrebbe essere morto.” Dichiarò, la luce puntata sulle sue pupille. “È il caso di avvelenamento da Mako più grave che io abbia mai visto. Su un essere umano in vita, si intende.” Sbuffò. “Chissà da dove arriva. Dai suoi occhi direi che è stato esposto all’energia in modo volontario, almeno all’inizio.”

“Un soldato?” Chiese Hila, confusa.

“Non sarebbe il primo a subire questa sorte. Non credo che si renda conto di essere qui con noi. Ora lo porto in clinica, vedremo se qualcuno lo verrà a cercare o se morirà così.”

Nel corso dei giorni seguenti, Mika andò dal soldato misterioso ogni volta che ne aveva l’occasione. La risposta del medico era sempre la stessa: non ci sono novità, sembra stabile. La ragazza gli parlava di Mideel e del mare e gli raccontava come stava passando le giornate. Si era convinta che se lui si fosse risvegliato si sarebbe ricordato di lei. Si vedeva a vivere con lui in un futuro prossimo, ad attenderlo a casa dopo il lavoro, a raccogliere insieme le verdure nell’orto di casa. A vivere insieme, dopo che lei l’aveva salvato.

Questo fino a quando non era arrivata la ragazza. Si chiamava Tifa e appena l’aveva visto si era messa a piangere in un modo così sincero che a Mika si era stretto il cuore. Vederli insieme la fece sentire una sciocca per le sue fantasie romantiche. Non andò più a trovarlo, ma scoprì che in effetti alla fine era guarito.

Avrebbe sempre portato nel suo cuore uno spazio per Cloud, il naufrago che lei aveva salvato.
quistisf: (Default)
Originale
Prompt: Fossili
Partecipa al COWT 13
One shot


La gita al fiume

La prima volta che aveva visto un fossile, Giulio aveva sette anni.
Era molto probabile che gliene fossero passati altri sotto gli occhi, ma all’epoca un sasso valeva l’altro. A scuola poi però avevano parlato dell’origine dell’universo e l’idea che qualcosa potesse arrivare alle sue mani da un passato così lontano lo affascinava e attirava come una formica viene attirata dallo zucchero.
Doveva vederne uno anche lui, magari un po’ di più. Sognava di andare a caccia di fossili, perché la sua amica Alice gli aveva assicurato di averne visti almeno dieci mentre camminava lungo il fiume, tra i migliaia di ciottoli arrotondati dallo scorrere dell’acqua.

“Forse la tua amica ha esagerato un pochino,” aveva provato a convincerlo sua madre, ma Giulio non aveva voluto sentire ragioni e aveva usato tutte le armi a sua disposizione per cercare di farsi portare al fiume: li aveva pregati con occhi dolci e tristi, aveva promesso che si sarebbe impegnato a scuola come mai prima di allora e si era offerto di giocare con il suo fratello più piccolo senza lamentarsi come faceva di solito. La mamma non era apparsa impressionata da tutti i suoi tentativi, ma non aveva detto di no. “Giulio: non pensarci adesso che è lunedì, vediamo cosa succede fino a domenica, chissà quanto durerà quest’idea di cercare fossili.”

“No, mamma, ma è per la scuola, la maestra ha detto che non se ne trovano, ma Alice invece ne ha tanti.”

“Davvero? E come mai secondo te non ne ha portati?” Gli aveva chiesto, e la motivazione del bambino era improvvisamente calata.

Giulio aveva osservato il pavimento con intensità, aggrappandosi all’idea che la sua amica non gli avesse mentito, che ci fossero davvero. “Ma…”

La mamma allora aveva sospirato. “Non preoccuparti, magari non ne ha visti cento, ma due o tre e ha esagerato un pochino. Non aspettarti che se andiamo al fiume ci saranno fossili dappertutto, perché è una ricerca da fare con attenzione e non è detto che ne troveremo. E se dovesse piovere dovremo rimandare, lo sai?”

Il bambino aveva annuito, il volto illuminato da un sorriso. “Allora possiamo andare?”

“Per una volta che dici che ti vuoi impegnare per la scuola, come faccio a dirti di no?” Gli aveva risposto, chinandosi ad accarezzagli il capelli con una mano.

Giulio aveva urlato e le era saltato al collo. “Grazie, mamma!”

Il giorno seguente, a scuola, aveva rivelato le sue intenzioni alla maestra di storia, che aveva continuato a scrivere alla lavagna, ma gli era sembrata felice del suo interessamento al passato. “Ci racconterai come è andata, allora”

Per tutta la settimana, Giulio si era immaginato impegnato a controllare i sassi uno per uno. Nei suoi sogni era vestito di tutto punto, con una cintura col pennellino come gli archeologi e i paleontologi disegnati nel suo sussidiario. Una torcia per illuminare meglio i suoi reperti. Sognava di trovare trilobiti, felci e interi invertebrati visibili in modo perfetto e preciso, proprio come quelli che popolavano le pagine del suo sussidiario e dei libri che gli avevano regalato i genitori per aiutarli a rispondere alle continue domande di Giulio sul mondo preistorico, ormai quasi del tutto svanito.
Poi domenica era arrivata e, con suo grande disappunto il cielo era buio, carico di nuvole. Una fitta pioggia cadeva dal cielo. Niente fiume, niente fossili.

La mamma l’aveva chiamato per la colazione e lui si era diretto al tavolo mesto. Si era seduto e, giocherellando col cucchiaino, aveva guardato la tazza piena di latte e cacao senza il desiderio di mangiare.

“Hai visto, alla fine piove.”

Giulio aveva sospirato. “Non possiamo andare al fiume.”

“Chissà,” gli aveva risposto la mamma, dando al figlio un barlume di speranza. “Il fiume non è l’unico posto dove trovare dei fossili, lo sai?”

“E dove li posso prendere?”

“Prima di tutto, devo confessarti che trovare i fossili non è per niente facile. Quando ne trovi uno, lo devi consegnare, non te lo puoi tenere a casa. Resta il fatto che osservare le pietre è molto interessante, spesso dentro ci puoi trovare tracce degli insetti che le hanno percorse, il colore e la forma spesso ci raccontano dove le rocce e i sassi sono stati e la storia che hanno avuto. A te questo interessa, vero?”

“Sì! Per quello voglio vederle.”

“Perfetto! Allora non andiamo al fiume, ma al museo di storia naturale. Lì vedrai: si possono vedere tutti i fossili che vuoi, e poi ci sono anche le ossa di alcuni animali preistorici. In più ci sono anche tutte le spiegazioni, così a scuola poi magari non porti niente, ma puoi spiegare cosa hai visto ai tuoi compagni. Ti piacerebbe andarci?”

Il bambino piegò la testa, pensoso. Sapeva cos’è un museo, ma non era sicuro di volerci andare. Quando era stato al museo coi genitori, l’estate prima, avevano passato ore a guardare quadri tutti uguali e si era annoiato a morte. Da quella gita gli era rimasto solo un grande male ai piedi.

La madre parve leggergli nella mente. “Non preoccuparti, non è un posto grande come quello che abbiamo visto a Firenze. Questa volta andiamo insieme, solo io e te. Lasciamo a casa il papà e Filippo e noi cerchiamo di passare una bella giornata insieme, ti va?” Giulio corse ad abbracciarla. Aveva fiducia in lei ed era sicuro che non l’avrebbe preso in giro.

Arrivarono al museo dopo un lungo viaggio in automobile, durante il quale Giulio aveva studiato il suo libro sugli animali preistorici. Un po’ gli dispiaceva che il padre e il fratellino fossero rimasti a casa, ma la motivazione della mamma gli era sembrata più che valida: “Così possiamo andare con calma, perché sia il papà che Filippo non hanno molta pazienza, sei d’accordo?” Lo era.

Nei sogni del bambino, la ricerca dei fossili era poetica, come una caccia al tesoro divertente, come un gioco. La visita al museo invece fu molto diversa: fu un viaggio attraverso il tempo che lo portò a conoscere dettagli che alcuni dei suoi compagni di classe potevano sognarsi di conoscere. Era abbastanza sicuro che anche la maestra non fosse a conoscenza di tutto quello che Giulio aveva avuto la possibilità di imparare.

Vide scheletri quasi completi di animali che non esistevano più; ricostruzioni e video che li mostravano in movimento nell’ambiente nel quale vivevano.

Ammirò minerali, fossili e meteoriti dell’epoca dei dinosauri, che fino a quel momento aveva potuto osservare solo nei libri. Non aveva idea che così vicino a lui ci fossero tutte quelle cose meravigliose.

Nel corso della sua visita si immaginò da grande a studiare i reperti: geologia, paleontologia, zoologia, archeologia. Conosceva i nomi di tutte quelle scienze e sognava, un giorno, di potere dedicare la sua vita a studiare il passato.

Quando salirono in auto, Giulio si sentiva stremato dalla giornata intensa e dal carico di conoscenze che avrebbe portato con sé e che avrebbe condiviso con tutti i suoi compagni di classe. La sera raccontò al padre e al fratello tutto ciò che aveva visto, insieme promisero che sarebbero andati a visitare insieme il museo. “Quello o anche un altro,” propose Giulio, tentato dalla curiosità e dal desiderio di vedere di più.

Dopo cena andò a dormire e sognò il suo futuro da paleontologo: si vide a toccare, pulire, ricostruire i fossili. A raccontarne la storia e a scrivere libri che altri bambini un giorno avrebbero letto.

Forse non sarebbe stato il suo sogno per sempre, ma quella notte dormì sereno, come se avesse compiuto la prima parte del suo destino.
quistisf: (Default)
Fandom: The legend of Zelda - BOTW
Personaggi: Link, Zelda
One shot
Prompt: stella cadente
Partecipa al COWT 13



Ricordo di una stella

Link spesso si soffermava a osservare il cielo.
Gli capitava soprattutto di notte, quando le stelle brillavano nel cielo e la luna si muoveva lenta, impercettibile ai suoi occhi rigenerati.
I suoi ricordi del mondo prima del suo sonno centenario erano ancora pochi e confusi, e non gli consentivano di orientarsi come era certo di sapere fare prima.
Conosceva il suo nome: si chiamava Link, quello era certo. Sapeva di essere l'unico in grado di sconfiggere la calamità Ganon, perché glielo aveva detto il vecchio.
E poi c’era Zelda, si ricordava anche di lei. Non avrebbe saputo descriverla, perché non sapeva di che colore fossero i suoi occhi, né se fosse giovane, anziana o bionda. La memoria di lei era senza forma, c’era solo un forte sentimento di protezione.
Sapeva che il suo ruolo era quello di proteggerla e che aveva fallito in modo catastrofico. Alla fine era stata lei a salvarlo e a consentirgli di riposare, di rigenerarsi fino a quando sarebbe stato pronto per tentare un’altra volta.
Determinazione, paura, coraggio, forza, amore.
Quando cercava di ricordarsi di lei, sentiva queste sensazioni.
Si vergognava del suo fallimento, che aveva causato ripercussioni che il popolo di Hyrule stava ancora pagando dopo cento anni, che avrebbe continuato a pagare per i prossimi mille, se lui non fosse riuscito a portare a termine la sua impresa.
Vergogna, morte.
Morte. Nella nebbia della sua memoria c’erano i guardiani e i Colossi Sacri, ma niente aveva una forma definita, era tutto confuso.
Si sedette su una roccia, gli occhi fissi sul castello in lontananza, i pensieri alla principessa. Che fosse davvero ancora in vita? Che avesse realmente resistito tutto quel tempo con la speranza che lui arrivasse un giorno e finalmente mettesse fine all’esistenza della Calamità?
Prese una mela e la addentò, abbandonando per il momento la sua esplorazione dell’Altopiano delle Origini. Sentiva di dovere fare ordine nelle sue idee, solo che non aveva idea di come riuscirci. Non poteva scendere da lassù senza la paravela e gli mancavano ancora due Sacrari da visitare.
Link era ancora intrappolato, ma si sarebbe rimesso in forze e presto sarebbe arrivato al castello, era sveglio solo da pochi giorni e quel corpo era ancora troppo debole, sapeva che sarebbe stato un suicidio correre verso il castello fino a quando non fosse stato pronto. Doveva proseguire con calma: un passo alla volta.
La mela non era stata un pasto molto nutriente, infatti lo spadaccino aveva ancora fame, ma decise che prima di occuparsi di riempire il suo stomaco avrebbe dovuto pensare a raccogliere ciò che gli serviva per raggiungere il prossimo Sacrario, quindi si rimise in marcia per recuperare qualche caldoperone da cucinare, che gli avrebbe permesso di riuscire a sopportare meglio la salita sulla montagna. Lo aspettava una lunga marcia, durante la quale avrebbe recuperato armi e oggetti utili a combattere e a superare i due Sacrari.
Quando finalmente trovò i caldoperoni era ormai quasi buio. I cespugli erano ai piedi di una muraglia di pietra, molto vicino alla grande porta ad arco dove un tempo c’era stato di sicuro un cancello di protezione che divideva la zona di montagna, abitata dalle creature selvagge, dalla collina, molto più ospitale. La porta non c’era più, ma era di certo stata maestosa. Raccolse tutti i caldoperoni che riuscì a prendere e oltrepassò il cancello per farsi un’idea della strada che avrebbe dovuto percorrere l’indomani.
Davanti a lui vide il picco innevato della montagna. Stando a quanto ricordava procedendo oltre avrebbe incontrato un largo fiume ghiacciato. Sentì un rumore di fronte a lui e si fermò a nascondersi dietro un albero. Una creatura simile a un cavallo, con grandi corna bianche e una folta criniera rossa stava camminando poco distante da lui. Link si mosse lento e furtivo, nella memoria quella era l’immagine del pericolo di cui non ricordava il nome. Forse gli avrebbe chiesto come si chiamasse prima di dargli il colpo di grazia, se per disgrazia fosse stato costretto a battersi con lui per raggiungere il Sacrario. Sempre ammesso che il suo viaggio non terminasse prima del tempo a causa di uno stupido Ly… Lynel?
Sospirò, incerto. Non poteva ancora fidarsi delle sue memorie, che arrivavano senza preavviso e che spesso ancora lo tradivano.
La creatura era fiera ed era sicuro che fosse forte, ma lui non avrebbe ucciso, se non fosse stato necessario farlo. Quella fu la sua promessa mentre in silenzio si ritirava dalla montagna.
Lo aspettava una serata di preparazione: doveva cucinare le provviste e riposare per essere in grado di svolgere la sua missione in modo veloce e pulito, come un vero guerriero, per Zelda e per il popolo di Hyrule.
Si distese a riposare ai piedi del fuoco che aveva acceso, ma nonostante fosse stanco non riusciva a cedere al sonno. Link osservava il cielo. Osservare il cielo lo calmava e Link aveva l’idea che fosse sempre stato così, anche prima.
Le stelle erano le stesse che vedeva cento anni prima, loro non erano cambiate e una parte di lui gli continuava a dire che forse osservandole avrebbe trovato qualche risposta o almeno un po’ di fiducia nelle sue apparentemente scarse capacità di combattimento.
Anche se si ripeteva che gli sarebbe bastato un po’ di tempo, la sua convinzione stava scemando ogni giorno di più. Che avessero salvato la persona sbagliata? Che avessero preso un contadino o un mercante convinti che fosse il grande Link e vanificando lo sforzo della principessa, che ancora lottava per tutti loro.
Che le sue memorie fossero tutte bugie impiantate in lui dagli Sheikah per convincerlo a lanciarsi in una missione suicida?
Una stella cadente tracciò la sua scia nel cielo, lenta e silenziosa.
Nel vederla Link si sollevò, ipnotizzato da un’immagine che gli riempì la mente all’improvviso.
Risate. Una giovane ragazza dai capelli biondi lo prese per mano. Una treccia le coronava il viso, mettendo in risalto le orecchie a punta, proprio come le sue. La ragazza gli sorrideva, gli occhi azzurri, come la sua veste ornata ed elegante, apparivano tristi.
I due ragazzi erano in una capanna, non erano soli perché la principessa aveva sempre degli accompagnatori oltre a lui. Poteva sentire due voci femminili in lontananza.
Zelda lo guidò fuori dalla capanna e insieme continuarono a camminare fino a quando le luci della capanna non furono abbastanza distanti da non accecare più i loro occhi. Nel buio della notte i due si sedettero ai piedi di un albero.
“Sai, Link, non ero mai stata qui senza mia madre prima di oggi. Mio padre mi ha detto tantissime volte che se voglio imparare a combattere e fare la mia parte contro la Calamità non devo perdere tempo a fare le scampagnate. Però questo posto mi ha sempre attirata: qui c’è un grosso potere che gli Sheikah hanno trovato e utilizzato. Nei libri che ho letto lo chiamano ‘Sacrario della Rinascita’. Penso che forse potrebbe aiutarmi a risvegliare i miei poteri, sempre che io li abbia.”
“Sono sicuro che ci riuscirai.” Sentì dire alla sua stessa voce.
Il luogo era lo stesso che Link aveva scelto per bivaccare più di cento anni dopo. Sentì il desiderio di abbracciarla e di rassicurarla, ma non era quello il suo ruolo e non si sarebbe mai permesso di farlo.
Non le disse che anche lui aveva dei dubbi sulle sue possibilità di vincere uno scontro con Ganon, anche se avrebbe desiderato gridarle che non era l’unica ad avere dubbi e che la sua sensazione la rendeva ancora più bella ai suoi occhi.
Una stella cadente.
“Ecco, hai visto?” Gli chiese.
Link annuì, poi le chiese: “Possiamo esprimere un desiderio?”
“Questa è una buona idea!” Zelda chiuse gli occhi, un sorriso di speranza.
Link non le chiese quale fosse il suo desiderio. Sapeva benissimo che non sarebbe servito a niente, ma anche lui ne espresse uno: chiese di essere in grado di proteggere la principessa qualunque cosa fosse successa. Pregò la stella di avverare il suo desiderio, promettendole che avrebbe fatto il suo meglio per riuscirci, da parte sua.
Rimasero lì a osservare il cielo in silenzio fino a quando il ragazzo si accorse che Zelda stava piangendo.
“Tutto bene?” Le chiese. Una domanda sciocca che avrebbe fatto bene a tenere per sé. Non era bravo con le parole, non lo era mai stato.
“Non voglio deluderti, come non voglio deludere mio padre, ma non credo che una stupida stella possa fare qualcosa per aiutarmi.”
“Di certo non se la insulti…” Aggiunse, sperando che la battuta la aiutasse a ritrovare la serenità di prima, ma senza successo. La prossima volta anziché parlare avrebbe fatto meglio a mordersi quella sua lingua impertinente.
La giovane principessa era triste. Il suo sguardo scese a terra mentre una prima lacrima solcò il suo viso. “Vedi, non sono capace di prendere decisioni. So già che quando tornerò a casa, senza poteri come quando sono partita per questo ennesimo viaggio inutile, mio padre mi guarderà pensando che gli faccio pena, perché non valgo neanche le scarpe della mamma. Non merito la fiducia di nessuno, mi dispiace.”
Zelda singhiozzava, un pianto incontrollabile nel quale la principessa stava sfogando tutta la sua frustrazione. Tutta la tristezza che doveva tenere nascosta nella vita di corte e nei suoi viaggi di ricerca, tutta la sua paura, il senso di inadeguatezza che la accompagnava da sempre quando si trattava di confrontare lei - impulsiva, troppo giovane e senza guida - con la madre - potente, controllata, in una parola: perfetta -.
Link si sentì utile, in quel momento. Capì che lui poteva aiutarla perché era l’unico che conosceva quella parte di Zelda, l’unico con cui lei si sentiva davvero libera. La abbracciò. Non sapeva cosa altro fare, soprattutto perché aveva già dimostrato di non essere in grado di pronunciare le parole giuste per lei, ma doveva farle capire che lui ci sarebbe sempre stato, che avrebbe sempre creduto nella sua capacità di prendere il posto della regina.
L’abbraccio sembrò funzionare, infatti il pianto di Zelda iniziò a farsi più calmo, il suo respiro più regolare. La principessa stava ricambiando l’abbraccio, all’inizio stringendo con i pugni serrati la tunica dell’eroe all’inizio, infine rilassandosi, finalmente in pace.
Rimasero fermi, ancora abbracciati. Il silenzio era espressione pura della fiducia che i due provavano l’uno per l’altra, del volere di entrambi di affidarsi alla loro amicizia per cedere, ogni tanto, a rivelare la verità, evitando di ostentare una forza che in realtà non avevano.
Forse anche lui avrebbe dovuto dirle la verità, rivelandole che non era l’unica a sentirsi inadeguata al compito che la aspettava. Anche lui provava la stessa paura, anche lui non si sentiva degno della fiducia del Re e del supporto dei quattro Campioni che presto li avrebbero raggiunti nella lotta contro la Calamità Ganon.
Non disse niente, come sempre inferiore a lei, e il senso di colpa lo investì mentre l’immagine si dissolveva dalla sua mente.
Link sapeva che quella notte erano rimasti lì fuori per parecchio tempo, fino a quando Zelda si era addormentata tra le sue braccia. Lui l’aveva cullata, tenendola solo per lui fino a quando le tracce delle sue lacrime si dissolsero, pensando che era la persona più cara che aveva al mondo.
In quel momento capì che il loro legame era più forte di quanto immaginasse. Era davvero lui l’eroe, lo spadaccino che avrebbe utilizzato la Spada che Esorcizza il Male per eliminare la Calamità Ganon una volta per tutte, doveva farlo. Ricordava ancora il profumo dei capelli di Zelda, il battito del suo cuore e il ritmo del suo respiro. Era quasi come se lei fosse lì insieme a lui.
Si distese di nuovo. Da laggiù il castello non era più a portata di vista, ma se lo fosse stato Link era certo che avrebbe potuto osservare una luce brillare, avrebbe potuto vedere la principessa che continuava a credere in lui, che lottava per tutta Hyrule.
Il giorno seguente sarebbe stato importante, doveva impegnarsi per ottenere la paravela il più in fretta possibile, per lei. Finalmente si addormentò.
quistisf: (Default)
400 parole:
Fandom: Harry Potter
Slice of life
Partecipa al COWT 13


Forse la magia esiste davvero


Harry posò lo straccio e osservò la cucina splendente dei Dursley orgoglioso. Sognante, pensò a quanto la sua vita sarebbe stata diversa se solo fosse stato possibile usare la magia, magari anche solo per pulire le case.
Scosse la testa, ritornando alla cruda realtà, poi prese il suo libro dallo scaffale dove zia Petunia l’aveva lasciato con la minaccia di farlo sparire se non avesse finito di pulire prima di ricacciare il naso su quelle pagine ingiallite.
Storie di maghi che lo allontanavano dalla realtà e che gli zii per qualche motivano odiavano in modo esagerato. Harry sapeva che invece non erano niente di importante. Leggere La spada nella roccia o Il mago di Oz non gli avrebbe permesso di cambiare la sua vita, ma lo faceva sentire meglio. Sognava che la casa dei Dursley fosse rapita da un tornado e portata in un mondo magico nel quale lui sarebbe stato in grado di cambiare le sorti del mondo. Erano solo sogni e non avevano niente a che fare con la realtà.
Mentre si dirigeva verso la sua camera, se così poteva chiamare il suo letto nel sottoscala, Harry ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse guardando. Si avvicinò alla finestra del soggiorno nel buio della sera. Sapeva che non erano i Dursley, erano usciti per un gelato e non c’era ancora traccia dell’automobile. Scostò la tenda e vide solo un gatto grigio tigrato che sembrava osservare proprio lui. D’istinto, Harry aprì la finestra e chiamò il gatto allungando la mano, porgendogli uno dei due biscotti che gli erano stati dati dalla zia. L’animale zampettò sicuro verso di lui.
“Ciao,” gli disse allungando la mano per accarezzarlo. “Sai, potremmo diventare amici se solo io potessi tenere un gatto. Purtroppo però non me lo permetterebbero mai.” Il felino miagolò e si strusciò sulla sua guancia destra. Poi gli mise una zampa sulla mano in un gesto che a Harry sembrò quasi consolatorio. Per un attimo incrociò lo sguardo col gatto, occhi severi e amorevoli. I fari dell’automobile apparvero in lontananza e l’animale corse via. Il bambino chiuse la finestra proprio quando l’auto dei Dursley imboccò il vialetto di casa.
Sospirò, pensando che preferiva non incontrarli. Mentre chiudeva la porta del sottoscala dietro di sé, pronto a sognare un futuro diverso da quello che gli si prospettava davanti, pensò “Forse la magia esiste davvero”.

Profile

quistisf: (Default)
quistis

April 2025

S M T W T F S
  1234 5
678 9101112
13 141516 17 18 19
20212223242526
27282930   

Syndicate

RSS Atom

Most Popular Tags

Style Credit

Expand Cut Tags

No cut tags
Page generated Jul. 10th, 2025 07:29 am
Powered by Dreamwidth Studios