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Fandom: Originale
One shot
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Prompt: Colpo di scena 


Bicicletta nuova fiammante


Leonardo aveva avuto la prima bicicletta a tre anni. Apparteneva a suo cugino ed era già rovinata quando l’aveva ricevuta, ma a lui non importava: amava la sensazione dell’aria tra i capelli e sul viso quando pedalava a tutta velocità, anche se fino agli otto anni in pratica non era mai uscito dal cortile di casa.

Quando suo padre gli aveva regalato la nuova bicicletta, la prima tutta sua, la prima nuova davvero, Leonardo aveva pianto di gioia e l’aveva immediatamente provata. Un pomeriggio era andato a mangiare il gelato con gli amici e si erano fermati a giocare a biliardino, il tempo era volato.

Una volta uscito, però, Leonardo aveva sentito un brivido freddo sulla schiena: la sua bicicletta non c’era più.

“Non l’hai legata?” Gli aveva chiesto subito il suo amico Marco.

La risposta era no: con tutte le volte che i suoi genitori gli avevano detto di mettere il lucchetto, lui era stato a giocare spensierato per almeno un’ora senza pensare alla sua amata bicicletta.

Mai i suoi gliene avrebbero regalata un’altra, perché era stata colpa sua e loro di certo l’avrebbero sospettato.

Aveva di fronte due possibilità: la prima era la più semplice, sarebbe tornato a casa e avrebbe raccontato ai suoi che, nonostante fosse stata legata, la sua era stata l’unica bici a sparire, forse proprio perché era così bella.

La seconda possibilità consisteva nel cercarla: quante ce n’erano come la sua? Quasi certamente nessuna nella sua città, perché era un modello nuovo in colori particolari. 

Da subito lui non aveva avuto dubbi: avrebbe chiesto aiuto ai suoi amici e se loro si fossero rifiutati di dargli una mano avrebbe pattugliato da solo il paese per cercare il maltolto. anche se ci fosse voluto tutto il pomeriggio. 

“Aiutatemi a trovarla,” aveva chiesto e insieme i ragazzi avevano pensato a un piano d’azione: avrebbero pattugliato le vie più centrali del paese e poi si sarebbero divisi in tre settori, visto che in totale avevano solo sette bici, per stare almeno in due per settore.

Leonardo avrebbe usato la bicicletta di Laura, che li avrebbe attesi in centro e avrebbe comunicato eventuali avvistamenti.

Dalla via principale avevano percorso tutte le laterali, avevano guardato nei giardini e nei parcheggi di ogni luogo d’interesse. Dopo poco più di un’ora Simone aveva ricevuto la chiamata di Laura: “Bici avvistata dietro al cinema, ci sto andando a piedi, ci troviamo nel parco comunale lì vicino.”

La giornata tutto sommato era stata divertente.

Leonardo aveva tirato un sospiro di sollievo nel vedere la sua amata bicicletta intatta. Aveva dovuto combattere con l’istinto di abbracciarla e di rassicurarla va tutto bene bici, non ti perdo più, giuro.

“La prossima volta vi pago il gelato, grazie.” aveva ringraziato i suoi amici, che avevano in realtà passato una giornata alternativa e divertente.

 

Leonardo aveva messo la bici al sicuro nel giardino recintato della loro casa, ma avrebbe chiesto a suo padre le chiavi del garage per dormire più tranquillo.

Una volta dentro aveva trovato suo padre ad aspettarlo a braccia incrociate sull'ingresso della cucina.

"Allora, Leo, quante volte ti ho detto di assicurare col lucchetto la tua bicicletta?"

Lui era impallidito, forse li aveva scoperti durante la loro ricerca, forse qualcuno aveva vuotato il sacco. "Lo so, scusami."

Suo padre gli si era avvicinato e gli aveva dato una pacca sulla spalla: "Tranquillo, l'ho presa io. È in garage, ma da adesso in poi devi starci attento!"

Leonardo, ancora più pallido, si era reso conto di avere reso i suoi amici complici nel furto della bicicletta di un perfetto sconosciuto innocente. "Devo... devo andare un attimo fuori."

 

 


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Prompt: Imperatrice (in Persona ogni personaggio è rappresentato da un arcano maggiore, per Mitsuru è, appunto, l'imperatrice)
Fandom: Persona 3
Genere: introspettivo
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One in perfection


 
Mitsuru non si era mai sentita molto a suo agio a scuola.
Fin da quando era piccola la sua vita era stata diversa da quella degli altri bambini. Lei non aveva mai assaggiato un hamburger e non sapeva che sapore avessero i Takoyaki. I suoi genitori le avevano insegnato da subito a comportarsi con educazione, impegnandosi per ottenere il meglio e per avvicinarsi il più possibile alla perfezione e lei aveva sempre seguito i loro insegnamenti senza protestare, da brava Kirijo sapeva che avrebbe un giorno avuto sulle spalle una grande responsabilità e il suo desiderio era di essere all'altezza del padre e del nonno, che vedeva come esempi per la vita che desiderava condurre.
 
I suoi risultati a scuola erano sempre stati eccellenti e i genitori spesso le facevano dei regali per premiarla: oggetti di valore che chiunque avrebbe sognato, ma che lei vedeva come l'unica prova del loro affetto nei suoi confronti. Lei li ammirava, il suo desiderio era diventare un giorno come loro: rispettata e capace.
 
A volte si sentiva abbandonata, soprattutto quando i suoi sparivano per affari e la lasciavano a casa da sola con la domestica. Abbiamo del lavoro da fare, ma è anche per il tuo bene: un giorno tutto questo sarà tuo, Mitsuru.
 
La notte le capitava di sognare una giornata felice e spensierata con tutta la sua famiglia, magari un giorno avrebbe proposto al nonno di andare a mangiare insieme uno di quegli hamburger che piacevano tanto ai suoi compagni di scuola.

Seiki

Feb. 26th, 2020 10:07 pm
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Prompt: La Forza (arcano maggiore)
Fandom: Persona 3
Spiegazione del prompt: Ogni personaggio in Persona è associato a un arcano maggiore. Yuko Nishiwaki è la forza. 
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Seiki


Non era mai stata una bella ragazza, questo lo sapeva bene.

Yuko era un maschiaccio, lo era sempre stata ed era certa che la cosa non sarebbe mai cambiata, per quanto lei si fosse impegnata a provare a essere un pochino più femminile.

Con Seiki però si sentiva diversa, lui pareva aver visto in lei qualcosa che per lei invece non era così chiaro: la trattava come una ragazza e quando la abbracciava Yuko sentiva che le insicurezze e tutte le sue domande svanivano, sciolte nei suoi abbracci forti e romantici.

La prima volta che erano usciti assieme lui l'aveva portata a mangiare fuori. L'aveva portata ad assaggiare il ramen di un ristorante che lui adorava e del quale lei col tempo aveva scordato il nome. Ricordava soltanto che l'aveva trovato sensazionale e che finita la prima ciotola insieme ne avevano ordinata una terza da dividersi.

Lui non l'aveva giudicata, non le aveva mai detto che mangiava troppo come facevano le sue compagne a scuola che le ridevano alle spalle, indicando le sue ciotole troppo piene o i suoi spuntini, che quasi ogni giorno consumava dopo lo sport.

Nell'ultimo periodo si era convinta di mangiare troppo, ma sentiva di non potere fare molto per evitarlo, anche se nell'ultimo periodo prima di conoscere Seiki a volte si era trovata a sentirsi in colpa, poco femminile, poco aggraziata e incapace di cambiare.Le altre ragazze la prendevano in giro per le gambe muscolose, i polpacci grossi, e per il suo portamento poco leggiadro, ma Seiki sembrava apprezzare anche il suo aspetto, oltre alla sua personalità. Aveva riso alle sue battute, le aveva accarezzato i capelli e non sembrava essersi annoiato. Da quando erano usciti insieme Yuko era al settimo cielo.

Non si era mai considerata intelligente, né si era mai impegnata troppo nello studio, che non le riusciva facile, per riempire la sua vita si era concentrata sullo sport, da sempre il suo vero punto di forza, che fin da piccola le aveva dato grandi soddisfazioni.

Nello sport eccelleva, le veniva naturale capire da subito gli schemi di gioco, riconosceva gli errori dei giocatori e sapeva come correggerli attraverso esercizi mirati. 

 

Una volta un ragazzo della squadra di basket le aveva fatto i complimenti. Dovresti fare l'allenatore.

 

Uno dei suoi sogni, probabilmente il lavoro più probabile che vedeva nel suo futuro.

 

 


Finalmente nella sua vita però c'era altro: Seiki la trattava come una ragazza e non come un'esperta di sport e all'improvviso le voci delle sue compagne le scivolavano addosso, si sentiva libera.

Yuko lo amava. Non era certa che sarebbe stato l'amore della sua vita, ma con lui si sentiva una ragazza diversa, si sentiva quasi una donna, si sentiva degna di amare come tutte le altre.

Quante volte aveva pianto lacrime amare prima di riuscire ad addormentarsi? Quante volte si era chiusa nel bagno della scuola a cercare di trattenere le lacrime e la rabbia di quelle che parevano fare l'impossibile per renderle la vita un inferno facendo commenti continui sia sul suo aspetto che sul suo discutibile rendimento scolastico.

 

Lui le ricordava ogni giorno il suo valore, anche se non a scuola. Mai a scuola.

 


 

 

Chi non lo conosceva pensava di certo che lui fosse single, sebbene mai una volta le avesse tenuto la mano quando erano in pubblico, né era andato a cercarla o a baciarla.

Una volta lontani da lì, però, era suo. E lei era sua.


Fino a quel giorno terribile che avrebbe distrutto tutta la sua vita fino a quel momento: fino a quando non l'aveva visto con lei.


Hisae. La considerava un'amica. Era una delle poche che sapeva che lei vedesse qualcuno anche se non le aveva mai detto chi fosse. 

Una delle uniche persone delle quali le importasse ancora qualcosa.

E proprio lei lo stava baciando. Dal treno li aveva visti benissimo: Lei stava andando da sua zia e in stazione l'aveva notato. Si era alzata in piedi per salutarlo sperando che salisse sul treno vicino a lei, sempre che dovesse salire. Ma una ragazza gli era saltata al collo. Lui sembrava felice di vederla, Yuko l'aveva capito dal suo sorriso, che fino a quel giorno aveva pensato essere riservato soltanto a lei.

Poi lei si era voltata a prendere qualcosa dalla borsa e l'aveva riconosciuta. Si era sentita cadere e si era seduta, sperando di aver interpretato male quel comportamento troppo intimo a suo parere.

Poi si erano avvicinati in un abbraccio e si erano baciati. Proprio mentre il treno partiva aveva visto le loro mani stringersi, la testa di Hisae sulla sua spalla. Non c'erano dubbi.

Yuko aveva appoggiato le mani sul finestrino e aveva trattenuto il fiato fino a quando non erano scomparsi entrambi dal suo campo visivo.

Era rimasta completamente muta al punto che aveva dimenticato di scendere dal treno, incapace com'era di capire il motivo di quel tradimento da parte di entrambi. Che lei sapesse? Che l'avesse mai saputo? 

Che fosse soltanto colpa di Seiki?

Aveva deciso di tornare a casa a piedi per schiarirsi un po' le idee. Camminare la faceva sentire viva e correre le piaceva ancora di più, ma non poteva correre con quelle scarpe anche se sapeva che avrebbe scacciato prima quella sensazione di sconfitta e di paura, quella tristezza che la faceva sentire inutile e sbagliata, come se la colpa fosse anche solo in minima parte sua.

No, doveva darsi il tempo per ragionare, per capire cosa di preciso fosse successo. 

Si era chiesta se scrivergli un messaggio sarebbe stata la soluzione corretta, se invece sarebbe stato meglio vederlo di persona e metterlo alle strette, forse usare la forza per fargli confessare il suo tradimento.

Forse invece avrebbe fatto bene a scrivere a Hisae o a parlarne direttamente con lei, magari avrebbe potuto svelarle il nome del ragazzo con cui usciva per capire se lei sapesse o no di quel triangolo.


Arrivata a casa si era resa conto che la rabbia lentamente stava crescendo e che doveva sapere la verità da Hisae prima che fosse tardi per recuperare almeno la loro timida amicizia, voleva sperare che lei fosse all'oscuro della situazione. 

Le aveva mandato un messaggio è urgente, per favore, vediamoci stasera. La ragazza le aveva risposto dopo poco dando la sua disponibilità a un incontro. Va bene, alle otto al Paulownia Mall?

 

Yuko era arrivata prima, incapace di stare a casa ad attendere. Quella sera non aveva mangiato niente e non sentiva gli stimoli della fame nonostante avesse camminato parecchio.


Hisae era davvero bella: i suoi capelli lunghi e lisci erano lucenti e spessi, la sua pelle sembrava porcellana. Aveva un portamento completamente diverso da quello pesante di Yuko, sembrava un giunco esile e delicato. L'abito che indossava contribuiva ad accentuare la sua femminilità, facendo sentire Yuko ancora meno degna in quel confronto.


"Yuko, che c'è? Sembravi preoccupata, tutto bene?"

La ragazza non sapeva neanche come cominciare il discorso, ma sapeva che doveva sforzarsi almeno di provarci. "Io... Sai che esco con un ragazzo..."

"Sì, me l'avevi detto." Hisae non riusciva a capire che problemi avesse la sua compagna di scuola, non aveva molte amiche e per questo a volte avevano parlato insieme, ma non si erano mai fatte grandi confidenze. Forse non sapeva a chi parlare e Hisae non si sarebbe certo tirata indietro, non era da lei. "Yuko, dimmi cosa non va, non preoccuparti..."

"Esco con Seiki da quasi due mesi." aveva sputato fuori il suo segreto sperando che quella ragazza che lei considerava davvero un'amica avrebbe capito.

Hisae era rimasta immobile a fissarla per qualche secondo prima di riuscire a ricominciare a respirare.

"Quale Seiki? Io... Io non..."

"Oggi vi ho visti insieme." Aveva confessato Yuko con le lacrime agli occhi. 

"Io non lo sapevo." Hisae era arrabbiata con tutti: con Yuko per averle rubato la gioia che provava in quel periodo, con Seiki che era un vile bugiardo e con se stessa per avere ceduto alle sue lusinghe. 

"È un bugiardo. Ci ha prese in giro."

Le due ragazze erano rimaste sulla panchina per un pezzo ad affrontare la delusione e la rabbia con mezze frasi e soprattutto con insulti a Seiki e al genere maschile, ma sembravano aver accettato la cosa senza aver compromesso quella loro amicizia che era ancora all'inizio.

Prima di salutarsi, le due si erano abbracciate. "Io non voglio perdere la tua amicizia," aveva detto Yuko a Hisae. "Non è stata colpa nostra."

"Non ti perderò, mi spiace solo non averti chiesto chi fosse il tuo ragazzo misterioso quando me ne hai parlato, forse ora non saremmo in due a soffrire."

Si erano salutate con la promessa di essere una squadra, di non cedere di fronte a Seiki e al suo sguardo ammaliante, di non credere più alle sue bugie.

Yuko il giorno seguente era arrivata a scuola con un vigore nuovo nell'animo, sentiva che avrebbe potuto prenderlo a pugni e metterlo a tappeto senza rimorsi. Sentiva che l'amore che un tempo aveva creduto di provare per lui se n'era andato per sempre e che niente avrebbe potuto farla cedere a tornare con lui: lei valeva di più e forse un pochino il merito di questa nuova fiducia in se stessa era anche di quel maiale che comunque le aveva permesso di riconoscere il suo valore.

Arrivata a scuola però si era accorta subito che qualcosa non andava: aveva incrociato Hisae nel corridoio e la ragazza aveva finto di non vederla, voltandosi subito dall'altra parte quando le due si erano trovate in contatto.

Yuko ci era rimasta un po' male, ma non ci aveva dato troppo peso. Poi però aveva sentito due ragazze che parlavano proprio di lei e di Seiki, dando a lei il ruolo della femme fatale, della traditrice.

Le voci avevano evidentemente iniziato a circolare troppo presto, forse le ragazze avevano solo sentito di sfuggita una parte della storia e non avevano capito bene.


Seiki aveva tentato di parlarle e Yuko gli aveva consentito un brevissimo incontro in pausa pranzo. "Mi dispiace, non volevo... È stato più forte di me... Hisae è stata molto convincente e io ci sono cascato, scusa."

Ma Yuko l'aveva invitato ad andarsene, per niente impressionata dal suo tentativo di salvare la loro storia che in realtà pareva essere sempre stata una farsa. Lei preferiva credere alla sua amica che il giorno precedente le era parsa veramente affranta piuttosto che a quel ragazzo bugiardo che non sembrava affranto, ma più indispettito per aver perso insieme entrambi i suoi giocattoli. Ammesso che fossero state le uniche due, perché non ne era così sicura.

"È stata lei a convincermi, lei sapeva di te." Aveva tentato di persuaderla, ma la ragazza era forte delle sue opinioni e non avrebbe ceduto di fronte alle menzogne e agli sguardi languidi di quel ragazzo che lei era convinta di aver amato, ma che in quel momento le pareva quasi un manichino privo d'anima. Lei meritava di più e anche la sua amica.


Fino alla fine della settimana, Yuko e Hisae non avevano più avuto occasione di parlare. Yuko le aveva mandato alcuni messaggi, ma l'amica li aveva ignorati.


Hisae, per favore, rispondimi.

 

Le aveva scritto alla fine.

Non parlo con le bugiarde. Non cercarmi più.

 

Yuko avrebbe voluto risponderle, spiegarsi, ma non sapeva cosa dire. Una parte di lei sperava che quella reazione fosse soltanto rabbia temporanea, ma pensandoci aveva cominciato a collegare tutte le voci che giravano per la scuola su di lei in quel periodo e aveva capito che era stata opera proprio di Hisae e non di Seiki.

Non credere a quel bugiardo. Io non lo sapevo.

 

Aveva scritto il messaggio, ma non l'aveva inviato. Non era certa che le sue parole sarebbero servite a far cambiare idea alla sua amica e Yuko pensava che avrebbe trovato un modo per confrontarsi con lei faccia a faccia, magari, per darle prova della sua sincerità e della sua amicizia. 


Erano passati giorni, settimane, e nulla era cambiato. Le voci sul suo conto avevano continuato a girare. Yuko si era chiesta come fosse possibile che nessuno incolpasse Seiki e che nessuno ragionasse sul fatto che lei lo aveva frequentato per almeno un mese in più di Hisae. Era lei quella tradita.

La ragazza voleva un confronto faccia a faccia con quella che credeva essere stata per lei l'amica più importante che avesse mai avuto, ma alla fine aveva rinunciato.

Aveva deciso di lasciar perdere dopo circa una settimana, quando, chiusa in bagno, aveva sentito entrare qualcuno ed era rimasta ad ascoltarne il pianto. Era certa che fosse Hisae. La ragazza che stava piangendo era disperata. Perché, perché non sono in grado di lasciare perdere tutto, di mandarlo a quel paese. Perché... Yuko…”

Aveva pianto per almeno dieci minuti prima di uscire dal bagno. 

Yuko chiusa lì dentro non era uscita solo per non farla sentire ancora peggio.

questo tipo di debolezza non era da lei e la ragazza non riusciva davvero a capire come facesse una come Hisae a non rendersi conto del proprio valore. Pensava di essere lei quella diversa, quella che non sarebbe mai stata accettata per quello che era.
Forse era vero, forse le sue compagne non l’avrebbero accettata, ma lei non sarebbe caduta in quella trappola di bugie, non avrebbe mai rinnegato qualcuno per sentirsi meglio.

Yuko si era resa conto che non aveva bisogno neppure di Hisae e della sua amicizia che in fondo non valeva poi così tanto visto che la ragazza l’aveva tradita, aveva parlato alle sue spalle dopo averle promesso che non l’avrebbe abbandonata.

 

Non valeva la pena di piangere per lei. Yuko non avrebbe pianto, avrebbe reagito. Si sarebbe buttata a capofitto su ciò che la faceva stare meglio: lo sport. 

Sarebbe bastata a se stessa e sarebbe uscita a testa alta da quella scuola, senza permettere che i pettegolezzi la facessero soffrire ancora perché in fin dei conti erano solo bugie. Lei lo sapeva, qualcuno le avrebbe creduto e l’avrebbe capita, avrebbe avuto altri amici, forse fuori dalla scuola, magari anche prima. Gli altri potevano anche evitarla, per quanto la riguardava.

Alla fine si era resa conto di essere più che a posto così.


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Fandom: Harry Potter
Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lily Luna Potter, Albus Severus Potter, James Sirius Potter
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Prompt: neonato


Eredità genetica

Ginny Weasley sapeva di avere ereditato i geni di famiglia e che quindi era molto probabile che i suoi figli sarebbero stati quasi tutti maschi, ma non avrebbe fatto come i suoi genitori: si sarebbe accontentata del secondo figlio e avrebbe accettato il destino. Quella era una promessa che aveva fatto a se stessa e a Harry quando avevano deciso di avere il secondo bambino e l’avrebbe mantenuta.

Ma, c’era un grosso ma: lei voleva proprio tanto una bambina. Alla fine aveva capito sua madre e pensando a quanto fosse stata amata e protetta in una famiglia di fratelli maggiori si era convinta che non sarebbe stato poi così male avere altri figli. Lei e Harry potevano permetterselo, tanto per cominciare, e poi Albus e James andavano così d’accordo che era un piacere, quasi, fare i genitori, quasi troppo facile.

 

Quando l’aveva detto a Harry lui aveva alzato gli occhi dalla Gazzetta del Profeta per guardarla di sottecchi. “Ma i tuoi fratelli non ti hanno fatto passare l’inferno? Fred e George non ti avevano bruciato tutti i capelli giocando con il camino? E Ron mi ha quasi ucciso quando ha saputo che volevamo uscire insieme. E…” Ma Harry si era fermato di fronte allo sguardo nostalgico della moglie.

“Un po’, forse,” aveva biascicato. “Ma è perché mi hanno sempre voluto bene.”

“Non devi convincere me,” le aveva risposto Harry, “Sei tu che devi fare il grosso della fatica e tu sai che io, da figlio unico, adoro la tua famiglia. Se desideri una bambina possiamo riprovarci, per me. Sai che non mi dispiace mai.” Le aveva rivolto un occhiolino che l’aveva fatta sorridere. 

Lily Luna era perfetta. Ginny avrebbe passato le ore a osservarla dormire, a guardare i suoi occhi verdi quando li scrutava con attenzione come solo i neonati fanno. Si era innamorata di lei proprio come era successo con i suoi due fratelli, ma sentiva che con Lily avrebbe mantenuto un legame speciale. 

James e Albus invece parevano avere messo il turbo da quando Ginny e Lily erano tornate dal San Mungo. Le donne di casa avevano estremo bisogno di riposare, mentre Harry e i suoi figli maschi sembravano intenzionati a distruggere casa. Quando Lily aveva ricominciato a piangere Ginny si era alzata di scatto, tenendo la figlia al sicuro tra le braccia, e si era affacciata sulle scale.

“Harry Potter,” aveva esclamato con un tono che ricordava moltissimo quello di Molly. “Vedi di fare meno rumore, altrimenti potrai sognarti di andare a vedere con James la partita di Quidditch della nazionale.” Poi aveva respirato profondamente. “Sono stata chiara?”

I tre si erano fermati in una posizione che appariva ridicola: Harry aveva Albus appeso al braccio e James stava per saltare sulla schiena del padre che in quel momento impersonava un temibile troll. Dopo la sgridata di Ginny si erano ricomposti scattando in piedi come soldatini.

“Vi andrebbe di usare i giochi Babbani oggi? Disegnare e colorare?”

James e Albus avevano annuito e insieme al padre si erano avviati tranquilli al tavolo della cucina.

Forse Ginny era più simile alla madre di quanto volesse ammettere, e in fondo non le dispiaceva per niente.


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Fandom: Harry Potter
Personaggi: Andromeda Black, Ninfadora Tonks,  Remus Lupin,  Teddy Lupin
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prompt: neonato

Non sei sola

 

Andromeda ricordava ancora la gioia negli occhi e nell'aspetto di sua figlia quando le aveva raccontato che si era innamorata. La donna stava iniziando a pensare che forse Ninfadora stesse aspettando un momento di pace per costruirsi una famiglia. Lo capiva, anche se lei non aveva agito allo stesso modo.

Quando poi le aveva presentato Remus era rimasta estasiata: un uomo intelligente, rispettoso e chiaramente innamorato di sua figlia. Potevano essere molto felici insieme, nonostante lui avesse quel grosso problema del quale Ninfadora non le aveva parlato: era un licantropo.

Andromeda lo aveva saputo ed era un po' prevenuta prima di averlo conosciuto, ma con il passato che aveva avuto aveva imparato che molte volte a fidarsi delle chiacchiere si sbaglia e quella volta era stata felice di aver messo a tacere i suoi cattivi pensieri e di averlo conosciuto senza troppi pregiudizi.

 

La notizia della morte di Ted l'aveva distrutta. Si sentiva in colpa per essere rimasta lì nella loro casa, quasi certa di essere al sicuro perché Bellatrix le aveva giurato che lei avrebbe vissuto senza lo sporco Mudblood che aveva sposato. Glielo aveva fatto scrivere. 

Il piccolo Teddy era nato il mese successivo alla sua morte, riportando un po' di luce nelle loro vite che ormai non erano che un susseguirsi di lutti e di pessime notizie.

 

Quando Ninfadora aveva portato alla madre il piccolo Teddy, quella sera, la donna l'aveva preso dalle sue braccia con le lacrime agli occhi. "Resta," aveva implorato. "Non è necessario che andiate... non andate, vi prego."

 "Siamo parte dell'Ordine e possiamo fare la differenza." Ninfadora aveva salutato Teddy trasformando il suo volto a ricordare un cane, il capelli del piccolo erano diventati azzurri mentre sorrideva. Poi madre e figlia si erano abbracciate per un tempo lungo e brevissimo allo stesso tempo. Nessuna delle due voleva lasciare l'altra andare, ma il momento era giunto.

"Tornate a casa."

"Faremo il possibile."

Teddy dormiva tra le sue braccia quando Andromeda aveva ricevuto la notizia da parte di Molly Weasley: Harry Potter aveva trionfato come tutti speravano, ma c'erano state delle perdite nella battaglia, perdite che per lei erano insostituibili.

Si sentiva come se le avessero strappato il cuore dal petto: incapace di provare emozioni, apatica. 

L'unica ragione per cui continuava ad alzarsi ogni mattina era il piccolo Teddy, l'unica famiglia che le era rimasta. Avevano bisogno l'uno dell'altra per sopravvivere e la donna faceva il possibile per essere per lui tutto ciò di cui aveva bisogno.

A volte guardando nei suoi occhi vivaci rivedeva Ninfadora e quella sua dote così unica che rendeva Teddy troppo simile a lei. Andromeda a volte non riusciva a fermare le lacrime quando Teddy cambiava il colore dei capelli, lui subito si ingrigiva sentendo la tristezza della nonna. 

Era chiaro che il neonato sentisse la mancanza della madre, lei doveva essere forte.

Harry Potter diventò il padrino di suo nipote e le stette vicino. Anche Narcissa le mandò delle lettere, ma ci volle parecchio tempo e l'intercessione di Harry perché le due sorelle alla fine si incontrassero. Aveva detto troppi addii nella sua vita, non avrebbe perso anche Narcissa senza tentare, in fin dei conti lei credeva ai pregiudizi.

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Fandom: Harry Potter
Personaggi: Molly Weasley, Arthur Weasley, Ron Weasley, Ginny Wasley
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prompt: neonato 

Che sia la volta buona?

 

Molly Weasley era ormai arrivata agli ultimi giorni di gravidanza, già esausta causa del caldo insopportabile di agosto e della continua confusione a casa. Aveva deciso che in ogni caso quella era l’ultima volta che tentava di avere una bambina. Già una volta le avevano assicurato che sarebbe stata una femmina e invece era arrivato Percy, da allora Molly e Arthur avevano concordato di non volere più conoscere il sesso dei figli in arrivo, ma lei se lo sentiva: questa era la volta buona.

La situazione si ripeteva quasi ogni sera ormai: Ron continuava a piangere, Bill e Charlie litigavano tra loro contendendosi l’alleanza del piccolo Percy, ma a preoccuparla di più erano i gemelli, stranamente tranquilli quella sera.

Quando Arthur arrivò a casa trovò la moglie seduta con Ron in braccio, mentre con lo sguardo controllava il pentolone nel quale girava magicamente un cucchiaio di legno.

“Non osare lamentarti della cena, del caos o di qualsiasi altra cosa."

Arthur non vedeva l'ora che sua moglie partorisse e sperava tanto di poter passare un po' di tempo in famiglia dopo la nascita del figlio o, come tutti speravano, della figlia.

"Ho chiesto una settimana di ferie per quando il... nascerà." Aveva indicato il pancione della moglie, incerto su cosa dire, visto che negli ultimi giorni era bastata una parola sbagliata per portare la donna sull'orlo di una crisi di nervi bella e buona. Ci era abituato perché era stata così anche con tutte le altre gravidanze e Arthur sapeva che era uno dei segnali: il parto secondo i suoi calcoli sarebbe avvenuto entro il giorno seguente. Solo un altro po' di pazienza e avrebbe avuto la sua bambina tra le braccia, se tutto fosse andato come previsto.

"Ho sentito tua madre, ha detto che domani viene a tenere i bambini, così tu puoi rilassarti." Arthur non era certo di come la moglie avrebbe preso quella notizia.

"Non mi serve aiuto." Rispose, secca. Il piccolo Ron tentava di giocare con i suoi capelli, ma Molly gli mise tra le mani un sonaglio e lo lasciò camminare verso i gemelli, osservandoli truce per un attimo per assicurarsi che non facessero niente di male al fratellino. 

"Lo so che non ti serve, ma pensaci: potresti uscire, potresti andare a mangiare fuori da sola in silenzio e in tranquillità, tua madre sarà qui solo un paio di giorni e poi tornerà a casa e tu continuerai ad arrangiarti. Con questo caldo un po' di riposo non ti farà male in ogni caso." 

Molly sorrise, in effetti era stanca, soffriva il caldo e sentiva di non riuscire più a gestire bene i suoi amati figli con quella pancia ingombrante e pesante. "Grazie," rispose al marito. 

"Allora comincio subito a riposarmi, io mi mangio la zuppa a letto, sai cosa fare."

Arthur rimase a bocca aperta, incapace di ribattere, preoccupato del caos che presto si sarebbe scatenato sotto la sua guida che sicuramente non era decisa come quella della moglie.

La mattina dopo Molly si svegliò da un sonno profondo e tranquillo con una sensazione che conosceva bene: il parto era vicino.

Scese in soggiorno per trovare Arthur che dormiva sul divano insieme a Ron, Fred e George. La donna cercò di non svegliarli, più per stare tranquilla che per lasciarli riposare, la contrazione a sorpresa però le fece emettere un lamento che fece scattare Arthur, e di conseguenza il piccolo Ron, in piedi.

"È ora," gli disse per rispondere alla tacita domanda che il marito le stava rivolgendo. Proprio in quel momento una fiammata nel camino annunciò l'arrivo della signora  Prewell.

"Me lo sentivo! Vai, Molly cara, qui ci penso io.”

 

Quella sera per la prima volta i signori Weasley abbracciarono la loro piccola Ginny, fin dal primo sguardo avevano capito che sarebbe stata speciale.

 

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Fandom: Harry Potter
Personaggi: Harry Potter, Peter Pettigrew, Sirius Black
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Prompt: neonato


Il padrino di Harry

 

Peter Pettigrew aveva stretto tra le braccia Harry per la prima volta il dieci agosto. Aveva soltanto pochi giorni di vita e già il peso enorme della profezia gli gravava addosso.

Gli aveva pulito la bocca con un bavaglio mentre cercava di farlo sorridere con le espressioni più sciocche che riusciva a mostrargli.

 

James e Lily stavano parlando con Silente nella stanza accanto e Sirius continuava a camminare avanti e indietro, incapace di calmarsi. Era evidente che il suo nervosismo unito alla mancanza della madre non stessero facendo bene al piccolo Harry, che lentamente stava passando dalla tranquillità al terrore.

“Sirius, fermati un attimo, vieni qui con noi.”

“Non posso, non riesco a stare tranquillo… Tu come ci riesci?”

Ma in quel momento Harry aveva incrociato lo sguardo con quello di Sirius, che fu come catturato dal figlio dei suoi migliori amici. Il neonato non poteva certo avergli davvero sorriso, era troppo piccolo, ma Sirius in lui aveva rivisto l’espressione di James e gli si era avvicinato, ipnotizzato dai suoi vivaci occhi verdi.

“Dallo a me, Peter.” 

“No, Harry è con me e resta qui.”

Sirius aveva iniziato a rivolgere a Harry delle smorfie infantili che in genere negli adulti considerava sciocche, non riusciva a farne a meno, impegnato com’era a farsi osservare e a tentare di catturare l’attenzione del neonato che rispondeva alle sue smorfie con uno sguardo curioso.

Sirius si era avvicinato a braccia tese e Peter aveva stretto il bambino più forte. Sentendo la tensione tra i due, Harry iniziò a lamentarsi e Sirius approfittò del momento di smarrimento di Peter per prenderlo in braccio. Si sentiva impacciato, tanto che non era ben sicuro di come farlo stare comodo: lo tenne a penzoloni per qualche secondo per poi chiedere aiuto a Peter, che alzò gli occhi al cielo mentre gli spiegava come cullare il neonato. Harry sembrava apprezzare la presenza di Sirius, infatti si calmò subito e in pochi istanti si addormentò profondamente. 

A Sirius non piacevano i bambini, o almeno così aveva sempre detto e pensato, ma con quel marmocchietto sentiva di avere un legame profondo.

Si ricordava di quando James e Lily gli avevano detto di aspettare un bambino. La sua reazione era stata di rabbia e non di gioia come loro aveva immaginato. Sirius si era chiesto come avessero potuto pensare a un figlio in quel periodo? Con tutti i membri dell’Ordine presi di mira dai Mangiamorte, uccisi e Cruciati. 

Solo in quel momento stava cominciando a comprendere che invece era importante avere qualcuno per cui lottare. Che l’amore e la speranza sarebbero stati in grado di donare a tutti loro la forza di combattere i Mangiamorte e di vincere quella guerra che andava avanti da troppo e non poteva, non doveva fermare le loro vite. 

Avrebbe detto ai suoi amici che era felice per loro e che anche lui avrebbe combattuto anche per proteggere quel bambino indifeso con il quale sentiva già un’intesa profonda.

“Vorrei tanto farti da padrino, Harry. Spero che la tua mamma me lo permetta.”

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prompt: Mitologia irlandese/celtica
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Informazioni prese da https://www.irlandando.it/cultura/cultura-e-tradizioni/mitologia-celtica/piccolo-popolo/



Miggo e Rusk

Miggo il Voghee Lyno era stato svegliato dal suono del violino e nella melodia aveva riconosciuto la preferita di Rusk, il Dukko, che coi suoi simili rappresentava i suoi acerrimi nemici.

Erano anni che i due si scontravano in giro per i boschi e Miggo non aveva alcuna intenzione di farsi trovare e di rovinare quella giornata di relax, quindi aveva ficcato nel borsone il suo libro e il fondo di birra che gli era rimasto e aveva iniziato a camminare lento, senza fare rumore, per fuggire al suo nemico.

Mentre camminava staia cercando di ricordare cosa avesse rubato nell’ultimo periodo, ma a esclusione di una padella di rame che aveva chiesto e che gli era stata donata da una fata gli pareva ci fosse altro. C’era il libro, certo, ma quello l’aveva trovato posato sulla roccia in mezzo alla radura deserta, era suo di diritto, infatti l’aveva letto direttamente all’ombra di quella stessa roccia senza di certo preoccuparsi che qualcuno sarebbe accorso a reclamarlo. Avrebbe fatto meglio a farsi scrivere una liberatoria dalla fata per quella padella, invece,  perché Rusk era davvero un rompiscatole con il suo desiderio di fare del bene che lo rendeva cieco al buonsenso: i folletti come lui erano fatti così, un po’ cleptomani, ma non potevano farci niente, non era una colpa, ma un difetto di creazione. 

Avrebbero potuto essere amici, Miggo l’aveva sempre pensato. Lui avrebbe procurato la birra e avrebbe letto i libri umani mentre Rusk avrebbe potuto suonare il suo violino e mangiarsi le sue bacche. Insieme sarebbero stati una bella squadra: con Miggo a prendere in prestito come sapeva fare lui e Rusk a restituire il maltolto sotto compenso, visto che lui era quello buono e si faceva pagare per fare il giustiziere, e quella non era un’estorsione, proprio no.

 

 

 

Rusk aveva visto Miggo dormire dietro la roccia, coperto dal libro che ondeggiava sulla sua pancia tonda e che aveva appena preso in prestito, probabilmente. Gli si era avvicinato senza fare rumore e per un attimo aveva pensato di recuperare la padella che spuntava dal suo borsone senza farsi sentire, ma alla fine aveva deciso di lasciar perdere. Quasi tutti tra i Voghee Lyno erano folletti di dubbia moralità, ma Miggo gli era sempre parso diverso: quando l’aveva sfidato a restituire ciò che aveva rubato era sempre stato abbastanza sincero e non erano mai dovuti arrivare alle mani, cosa non troppo scontata quando si aveva a che fare con quei truffatori dispettosi. 

Rusk si era sentito magnanimo di fronte al pensiero di lasciarlo andare, in fin dei conti aveva il borsone carico di frutta fresca e il sole di quella giornata di primavera era così bello e tiepido che forse avrebbe preferito mettersi a suonare il suo violino su un ramo e mangiare le sue bacche, piuttosto che combattere con l’unico tra i suoi nemici che, a volte, era felice di vedere. 

Quando l’aveva visto svegliarsi di soprassalto e fuggire in silenzio, Rusk aveva sorriso pensando che forse in un mondo diverso avrebbero potuto diventare amici.



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Originale
Prompt: Ossessione, Teatro, 

“Non è vero che l’oblio non esiste. La testa seleziona, fa archivio continuamente e molto scarta. Fa spazio, compatta. Magari non elimina del tutto ma comprime in un formato illeggibile. Anche se ti sforzi non trovi la chiave, non lo puoi decifrare più.” (Concita De Gregorio)

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Il teatro delle marionette

 
“Non è vero che l’oblio non esiste. La testa seleziona, fa archivio continuamente e molto scarta. Fa spazio, compatta. Magari non elimina del tutto ma comprime in un formato illeggibile. Anche se ti sforzi non trovi la chiave, non lo puoi decifrare più.” (Concita De Gregorio)









Ne aveva centosei, ma ancora non erano abbastanza. La signora Teresa era conosciuta in paese per la quantità di marionette che possedeva e per la sua grande passione nel dipingerle e vestirle.

Chi entrava per la prima volta nel suo appartamento gremito restava sempre colpito dalla cura con la quale le marionette erano disposte nelle vetrate chiuse, sempre pulite, sempre in ordine.

Ogni giorno passava un gran parte del suo tempo a prendersi cura di loro. Da quando i figli se n’erano andati di casa le erano rimasti soltanto le sue marionette e colui che per lei continuava a scolpirle: suo marito.

 

Nell’ultimo periodo Teresa aveva avuto qualche problema nel ricordare i nomi di chi le stava intorno e ciò che doveva fare in casa. Più di una volta aveva lasciato acceso il fuoco sotto la pentola del minestrone e si era bruciato tutto. All’inizio Gino si era un po’ arrabbiato, ma in seguito, dopo aver visto il dottore, aveva iniziato a capire che non era colpa di Teresa. Così aveva iniziato a cospargere le superfici dell’appartamento di post-it, la teneva viva con ciò che lei più amava: le sue marionette. La demenza senile a volte inizia a colpire presto, quando si è ancora padroni del proprio corpo e delle proprie azioni. I momenti più difficili da accettare sono quelli di consapevolezza, quando ci si rende conto che qualcosa non quadra, ma non si riesce a capire cosa. 

Quel pomeriggio Teresa stava pettinando le sue marionette, quando gliene capitò tra le mani una che credeva di non avere mai visto. La donna andò subito dal marito a chiedergli da dove venisse, ma lui si incupì all’improvviso. “Quella è nuova, l’hai dipinta la settimana scorsa…”

Teresa aveva aggrottato le sopracciglia nel tentativo di ricordare qualcosa, ma non era riuscita a capire dove fosse finito quel ricordo. Aveva riso, preoccupata di ciò che avrebbe potuto dimenticare e per togliere la tristezza dagli occhi di Gino. “Sono proprio una smemorata.”

 

 

Il teatro delle marionette era stato dipinto a mano da Teresa molto tempo prima, era difficile per lei ricordare quanto tempo fosse passato, se provava a sforzarsi di pensarci era come se gli ultimi anni fossero svaniti nel nulla. ricordava però che Gino l’aveva realizzato a partire da una vecchia vetrina che aveva modificato grazie alle sue sapienti doti di falegname e che lei l’aveva carteggiato e dipinto con cura, perfezionandone le decorazioni per giorni.

Mentre sedeva a guardare lo spettacolo le sue marionette sfilavano, danzavano e chiacchieravano tra loro, compievano il loro destino mentre una voce fuori campo raccontava la storia di un giullare innamorato di una principessa e che con lei fuggiva fuori dal regno per non morire.

I nipoti avevano preparato per loro quello spettacolo e quando uscirono dal teatro Teresa fece un applauso di cuore a quei due bambini che non conosceva che avevano preparato quel magnifico spettacolo solo per loro. “Le ho dipinte io, lo sapete?”

“Lo sappiamo, nonna,” avevano detto. Mentre li abbracciava la donna si era chiesta come poteva averli dimenticati, perché le sue braccia le dicevano che quelli erano davvero i suoi nipoti, ma la sua testa si rifiutava di ricordarli.


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Originale
Prompt: Mitologia Celtica/Irlandese
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Il Leprechaun

 

Il signor O'Brien era ossessionato dall'idea che prima o poi si sarebbe impossessato del tesoro di un Leprecauno. 

C'era chi scommetteva alle lotterie e sperava di arricchirsi e poi c'era lui che invece si metteva appostato nei cespugli o sugli alberi in cerca della fine dell'arcobaleno sperando che prima o poi la fortuna avrebbe guardato dalla sua parte e ce finalmente lui avrebbe avuto la sua chiacchierata con il folletto che di fronte alle domande specifiche di O'Brien non avrebbe potuto evitare di rivelargli dove fossero nascoste le sue ricchezze.

 

Ormai erano ventidue anni che l'uomo dava la caccia al Leprecauno. Aveva imparato a capire quando il tempo avrebbe consentito all'arcobaleno di apparire e in quei giorni si metteva in appostamento, anche se in generale negli ultimi tempi cercava di passare nei boschi ogni suo minuto libero, visto che tutti in paese ormai lo davano per pazzo aveva deciso che avrebbe dimostrato a tutti quei malfidati che il folletto esisteva davvero.

Quel pomeriggio di ottobre non era troppo freddo e il cielo era sereno, era venerdì e O'Brien aveva finito presto di lavorare, aveva preso la sua borraccia piena di tè caldo corretto col Whiskey e un panino e si era avviato verso una parte del bosco nella quale non si appostava da parecchi mesi. Ne avrebbe approfittato per sistemare bene il suo nascondiglio e per renderlo confortevole per l'inverno.

Negli anni aveva ideato un sistema di teli impermeabili che riuscivano a mantenerlo asciutto e più caldo di quanto sarebbe stato senza di essi sotto la pioggia autunnale.

Le nuvole avevano iniziato ad apparire nel cielo e si moltiblicavano man mano che le ore passavano, O'Brien osservava i dintorni senza sosta, le orecchie tese a cogliere qualsiasi rumore, anche impercettibile.

Fu allora che lo vide: non era più alto di un bambino dell'asilo, dal cappello a cilindro verde sbucavano dei capelli rosso carota. Aveva un grembiule da lavoro e teneva a tracolla un borsone e le fibbie argentate delle scarpe brillavano riflesse dalla luce del sole.

Si muoveva circospetto al limitare del sentiero, nascosto dall'ombra degli alberi, silenzioso come solo un abitante del piccolo popolo può essere.

O'Brien sapeva che non poteva perderlo di vista, se fosse successo la creatura sarebbe svanita e lui l'avrebbe più ritrovato, aveva studiato ogni leggenda possibile e si era documentato su internet leggendo ogni singolo resoconto che aveva trovato. Alcuni erano palesemente frutto della fantasia degli autori, ma altri erano tanto realistici da averlo convinto.

Attento a non perderlo di vista neanche per un istante, O'Brien si era sollevato, rivelandosi al Leprecauno che si era voltato di scatto, incapace di muoversi a causa dello sguardo fisso dell'uomo, che non riusciva a proferire parola, incantato com'era dalla vista della creatura che tanto aveva sognato.

 

L'esserino, però, non pareva intenzionato a restare sotto il suo potere, infatti aveva preso un sasso e glielo aveva lanciato addosso, costringendo l'uomo a distogliere lo sguardo.

O'Brien aveva sprecato la sua occasione: non gli aveva fatto domande, non era neppure riuscito a sentire la sua voce. 

Quella sera però era tornato a casa felice, perché per quanto i suoi compaesani avrebbero potuto considerarlo un pazzo, per quanto l'avessero preso in giro, lui sapeva che il Leprecauno esisteva davvero e che prima o poi avrebbe ottenuto le sue ricchezze. Alla fine sarebbe stato lui a ridere.

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Originale
Prompt: Mitologia irlandese/celtica
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Mr O'Sullivan 


I pronipoti del signor O’Sullivan avevano bussato alla sua porta nel giorno dell'ottantunesimo compleanno del loro nonno. Il vecchio era diventato ufficialmente colui che nella famiglia intera aveva raggiunto l'età più avanzata, ma non se la sentiva proprio di festeggiare.

Sapeva benissimo che i suoi pronipoti non vedevano l'ora che lui tirasse le cuoia e infatti gli erano stati intorno come mosche nell'ultimo periodo, soprattutto quando aveva preso il raffreddore.

I tre ragazzi, figli ormai adulti della sua nipote preferita Adeline, gli avevano portato una bottiglia di whiskey fatta in casa. O'Sullivan, aprici che la beviamo insieme.

 

Ma a lui quei tre non aveva alcuna intenzione di aprire, sperava che se ne andassero se lui non si fosse fatto sentire anche se aveva il timore che la paura che gli fosse successo qualcosa li avrebbe invece spinti a forzare la porta per trovarlo seduto sulla sua sedia, con la pipa spenta in bocca intento a non fare rumore.

Andatevene, sto dormendo. Lasciate la bottiglia.

 

Dopo aver insistito per qualche minuto i mocciosi se n'erano finalmente andati e O'Sullivan era uscito a prendere il Whiskey che avrebbero potuto bere in santa pace.

Fu in quel momento che lo sentì: un pianto disperato di donna, un lamento straziante e forte che aveva già sentito parecchie volte e che ogni volta era stato seguito nell'immediatezza da una tragedia. Era la Banshee, lo spirito che proteggeva la sua famiglia e che ancora una volta aveva avvertito una morte imminente.

La leggenda voleva che fosse visibile solo da chi sarebbe morto entro pochi minuti e O'Sullivan era abbastanza convinto di essere il primo della lista.

Il ricordo di dodici anni prima gli era tornato vivo alla mente: avevano sentito quello stesso pianto di dolore e subito dopo sua moglie aveva iniziato a piangere osservando un punto della stanza nel quale lui non vedeva proprio niente di niente.

L'aveva presa per pazzia, ma lì c'era qualcuno, c'era quello spirito tanto legato alla sua famiglia che si disperava ogni volta che uno tra loro spirava. Non ho paura, ormai è la mia ora, aveva detto al vuoto, poi si era voltata verso di lui e l'aveva salutato. Non piangere per me, sarò in buona compagnia, salutami tutti e riferisci che ho voluto bene a ciascuno di loro. gli aveva detto. 

Erano passati solo pochi attimi durante i quali O'Sullivan non aveva saputo cosa fare di preciso, e poi lei era crollata a terra.


La stava aspettando. Nel dubbio aveva deciso di sorseggiare quel prezioso Whiskey. Gli parve ironico pensare che la sua morte sarebbe avvenuta proprio nel giorno in cui tutti tenevano tanto a festeggiarlo.

Attese per minuti che divennero ore, ma la Banshee non si fece vedere.

Quando la vedrai anche tu capirai, è così bella, e il suo abito ha il colore di un prato in primavera.

 


Il giorno seguente O'Sullivan venne a sapere che il suo stupido nipote nullafacente, Lou, si era tuffato da una collina per una scommessa e che, quindi, la Banshee aveva pianto per lui. Che spreco, pensò il vecchio, di vita e di lacrime. Poco male, presto era certo che l'avrebbe vista anche lui, pensò sorseggiando l'ultimo sorso di whiskey.

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Prompt: oscurità, pioggia, neve
Fandom: Heavy Rain
Personaggi: Shaun, Ethan
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Aggrappato alla speranza

Buio. 

Aggrappato alla grata, Shaun non vedeva niente. Era notte, quindi. Da quanto tempo era chiuso lì sotto?

All'inizio aveva provato a urlare, aveva gridato fino a perdere la voce, aveva pianto fino a non avere più lacrime, ma nessuno era arrivato ad aiutarlo. 

Il primo giorno dopo aver tentato in ogni modo di fuggire aveva dormito, stremato e distrutto, le nocche insanguinate, le ginocchia rotte, in mezzo all'acqua. La pioggia continuava a battere sul tetto del capannone e l'acqua continuava a salire, lenta e costante. Shaun pregava che la pioggia smettesse, ma in fondo sapeva di non avere speranze: era caduto nelle mani del killer degli origami. 

L'uomo glielo aveva detto chiaro e tondo: puoi fare tutto il chiasso che vuoi, qui nessuno ti sentirà.

Era stato stupido a seguirlo e sarebbe morto, lo sapeva. "Resisti, tuo padre verrà da te," gli aveva detto l'assassino prima di andarsene.

 

E così Shaun aveva resistito. Si era tenuto stretto alla speranza che non tutto fosse perduto, ma le ore erano diventate giorni e di notte non poteva più dormire, non poteva lasciare andare la grata, doveva restare vivo e credere che lui sarebbe arrivato.

Si era aggrappato ai ricordi, iniziando dai più felici che erano anche i più lontani.

Da quando suo fratello era morto non c'erano stati molti bei momenti: i suoi avevano litigato quasi ogni giorno e alla fine suo padre era andato a vivere in quella casa piccola e vecchia che non aveva neanche risistemato. Suo padre era diventato triste, Shaun aveva capito che si sentiva in colpa per la morte di Jason.

Non poteva morire anche lui, non voleva lasciare soli i suoi genitori.

 

Aggrapparsi ai ricordi era sempre più difficile. Ricordava la spiaggia, il calore del sole sulla pelle e il castello di sabbia, quasi perfetto, che avevano costruito insieme, poteva quasi sentire il profumo del mare.

A prendere il sopravvento però arrivava la realtà: il gelo nelle ossa e la paura, subdola e forte nel buio e nella solitudine.

 

Anche nel freddo c'erano bei ricordi: la prima grande nevicata dell'anno precedente, la battaglia a palle di neve con Jason contro il padre. Avevano vinto loro, o forse li aveva lasciati vincere... 

Dopo erano stati in giardino per almeno due ore e avevano costruito il pupazzo gigante, avevano riso per tutto il tempo. La mamma continuava a chiedere se avessero freddo, ma anche lei aveva aiutato a costruire il pupazzo di neve, aveva portato i bottoni, la giacca e la carota e si divertiva con loro a giocare sotto la nevicata ancora fitta.

Gli pareva di sentire ancora quel calore nel cuore, nonostante il freddo.

 

La giostra dei cavalli. Lui aveva insistito per salirci anche se suo padre voleva tornare a casa. Erano stati tanto tempo nel parco, gli aveva anche insegnato a lanciare il boomerang e Shaun voleva aggiungere un bel ricordo a quella giornata. Forse erano finalmente entrambi un po' più felici, forse finalmente andava meglio.


Prendere fiato gli era difficile, Shaun annaspava e sentiva freddo. Sarebbe bastato poco per lasciarsi scivolare giù. Era così stanco che si sarebbe addormentato subito e poi non avrebbe più aperto gli occhi. 

Lui però poteva salvarlo, Shaun sapeva che lo stava cercando. Gridò di nuovo per darsi forza, stringendo la grata con tutta la sua forza, doveva continuare a sperare: suo padre l'avrebbe salvato.

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