Mar. 9th, 2019

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Prima di partire per un viaggio... Fai una lista

Finalmente il grande giorno era arrivato. 

Stefano aveva comprato i biglietti per il suo viaggio dei sogni due mesi prima, appena aveva avuto conferma delle ferie. Aveva programmato ogni giornata della sua vacanza nei dettagli, selezionando anche quali delle piccole mete che aveva scelto erano sacrificabili e quindi sarebbero saltate nel caso di imprevisti di qualunque genere, ma non ce ne dovevano essere: li aveva considerati solo per precauzione, anche un po' per scaramanzia.

 

La valigia era pronta da almeno tre giorni, Stefano non era certo il tipo di persona che si prendeva all'ultimo. Anche il viaggio verso l'aeroporto era stato organizzato nei dettagli: si sarebbe fatto venire a prendere dalla sua amica Elena, che come lui amava i viaggi e alla quale avrebbe prima o poi restituito il favore. 

 

La sera prima della partenza, aveva tirato fuori tutte le sue cose dalla valigia per controllare che ci fosse tutto: il costume per il mare c'era, vestiti di ogni genere, macchina fotografica, occhiali da sole (quelli li avrebbe tenuti addosso), documenti, biglietto, denaro già pronto col cambio, caricabatterie di ogni genere e adattatori per le prese di corrente.

Del resto, pensava che se anche avesse dimenticato qualcosa probabilmente avrebbe potuto comprarlo una volta giunto a destinazione, o se lo sarebbe fatto dare dall'hotel, quindi non ci voleva pensare troppo.

 

Quella mattina, il telefono squillò all'improvviso. Stefano si era alzato di scatto dal letto conscio del fatto che era tardi. "Pronto?" 

"Ciao, Stef, sto partendo da casa adesso, ti prendo qualcosa per colazione?"

La casa di Elena distava appena cinque minuti dalla sua: non avrebbe tardato, per un pelo. "Sì, grazie, se non ti dispiace..."

"Ok, allora ci vediamo tra dieci minuti circa."

 

Stefano aveva lanciato sul letto il telefono ed era corso a lavarsi. Non poteva affrontare un viaggio senza cominciare con una doccia rinfrescante. Elena aveva suonato il campanello proprio mentre lui usciva dal bagno con indosso l'asciugamano, si stava ancora lavando i denti. Aveva aperto il portone d'ingresso e si era infilato i vestiti che aveva già pronti sulla cassettiera. 

Quando Elena era entrata, lui era quasi pronto, anche se non era riuscito ad asciugarsi i capelli.

Avevano bevuto il caffè e consumato i croissant in fretta, poi Stefano aveva preso valigia e bagaglio a mano e insieme erano partiti per l'aeroporto.


A quell'ora, ci avrebbero messo più o mento quaranta minuti ad arrivare, i due amici avevano parlato senza sosta, prima delle mete imminenti di lui e poi del prossimo viaggio di Elena, che sarebbe stato il mese seguente.

Arrivati all'aeroporto, si erano salutati ed Elena era ripartita immediatamente, dopo avergli augurato buon viaggio.

Solo quando era arrivato al check-in, Stefano si era reso conto che gli mancava qualcosa: il cellulare.

Cercava una vacanza rilassante e probabilmente non c'era modo migliore per staccare da tutto: dallo stress del lavoro, dalla pressante presenza delle notifiche sui social, dalle mail. 

Avrebbe avvisato i genitori e sarebbe andato all'avventura, come si faceva una volta, quando non era così strano partire staccando veramente la spina. Sì, sarebbe stata un'esperienza interessante.

 


Déjà-vu

Mar. 9th, 2019 07:18 pm
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Fandom: Harry Potter
Parole: 528
Personaggi: Signori Granger

Déjà-vu

 

Il signor Granger era partito per l'Australia con la moglie da qualche mese, ormai. Sempre più spesso, però, sentiva di aver dimenticato di portare qualcosa dalla loro casa in Inghilterra. Avevano intenzione di stare via almeno un anno, probabilmente però si sarebbero fermati di più perché cominciavano a trovare interessante quella natura selvaggia e un po' crudele. Ormai pensavano di aver visto di tutto: feroci tempeste di sabbia, spettacolari e pericolose tempeste di fulmini e ondate di calore insopportabile. 

Per non parlare poi di tutti quegli animali pericolosi che si trovavano lì intorno! Ricordava come in Inghilterra spesso stavano tutti insieme a leggere sotto gli alberi, mentre lì si sarebbero trovati quantomeno a fare i conti con qualche formica velenosa o con qualcosa di peggio, come un serpente o un ragno. Quel continente era piuttosto interessante, molto più imprevedibile della loro vecchia Londra. Erano rimasti affascinati anche dai paesaggi romantici, dal sole, quando al tramonto che calava sulla terra rossa.

Però avevano sempre quella sensazione strana che non riuscivano a spiegarsi. Non ne avevano mai parlato, ma era chiaro che capitasse a entrambi.

 

Il signor Granger a volte aveva l'impulso di raccontare certe cose a qualcuno, ma non riusciva bene a capire a chi pensasse. Era come se il ricordo di un fantasma aleggiasse intorno a loro. Aveva sentito sua moglie cantare una ninna nanna, ed era una cosa che succedeva spesso, ma era strano, perché loro non avevano mai avuto un figlio e lui era sicuro che quella non fosse una melodia che veniva dalla sua infanzia, ma sapeva di non aver mai sentito quella canzone prima di allora.

Lui, del resto, a volte in città andava in libreria e si chiedeva se avesse letto alcuni libri che ricordava in uno strano modo ovattato, come se il ricordo fosse stato di un'altra vita.

Una sera sua moglie aveva preparato dei biscotti. L'aveva trovata a casa che piangeva di fianco alla teglia ancora tiepida.

"Non capisco cosa mi stia succedendo. Mentre impastavo mi sembrava di aver preparato questi biscotti centinaia di volte. Non ho neanche avuto bisogno di seguire la ricetta. Ma... tu ti ricordi di avermeli mai visti fare?" 

Il signor Granger aveva scosso la testa, confuso. Aveva preso un biscotto e l'aveva assaggiato. 

Sua moglie lo osservava masticare, sperando che lui non confermasse quella strana sensazione.

"Ho già mangiato questi biscotti, ma non so dove, o quando." Era impossibile da spiegare, sembrava che fossero rimaste solo poche tracce di una parte della loro vita che era andata perduta, ma nessuno dei due riusciva a capirci qualcosa.

"Anche per me è lo stesso. Ma non è solo questo... ci sono altre cose."

"I Libri?" Le aveva chiesto lui. 

"E un gatto. Abbiamo mai avuto un gatto?" la signora Granger sembrava sull'orlo di una crisi di nervi. 

"No. Non abbiamo mai avuto un gatto." Anche lui era sconcertato. Ricordava i pelucchi rossi che volavano ovunque. Ne trovavano anche mesi dopo che... 

Dopo che cosa? 

Cos'era che succedeva?

Cosa avevano dimenticato?


Quella sera avevano deciso che quei déjà-vu dovevano avere un senso e loro ne avrebbero parlato, fino a scoprirne la causa. Anche a costo di tornare in Inghilterra.

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Fandom: Persona 5
Personaggi: Ann Takamaki, Kamoshida, Shiho
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Solo per lei

 

Ann Takamaki non era certo una ragazza che passava inosservata, lo aveva sempre saputo, del resto faceva la modella da un po' ormai e capiva come il suo aspetto esotico la rendesse particolarmente interessante agli occhi dei Giapponesi.


Aveva imparato in fretta a rispondere a chi la importunava, ma non si aspettava che a rendersi inopportuno nei suoi confronti sarebbe stato un insegnante. 

Il professor Kamoshida era l'allenatore della squadra di pallavolo, oltre a essere il professore di educazione fisica. Pareva averla presa di mira già dal primo giorno di scuola, però era da poco che si era fatto insistente: da quando Shiho era stata presa nella squadra. Kamoshida aveva iniziato a sfogare la sua frustrazione su tutti i suoi studenti, ma Ann si era accorta che quando lei lo rifiutava se la prendeva sempre con la sua amica Shiho. Quella mattina pioveva e Ann aveva fatto il grosso errore di scordare a casa l'ombrello, quindi era rintanata sotto il portico della stazione quando aveva visto passare Kamoshida. Lui aveva abbassato il finestrino e l'aveva invitata a entrare.  Ti accompagno, così eviti di bagnarti, non avrai mica paura di me? Ann non aveva alcuna intenzione di lasciarsi convincere, ma poi lui l'aveva fatto di nuovo. Aveva detto il suo nome.

"Sto pensando di mettere Shiho in squadra, ma non sono sicuro. Secondo te se lo merita? Vuoi parlarne con me mentre ti accompagno a scuola?"

Ann sapeva che la sua migliore amica ce la stava mettendo tutta per entrare da titolare nella squadra. Si allenava giorno e notte, ogni volta che poteva farlo. Per questo aveva accettato il passaggio. Per Shiho era disposta a questo compromesso, anche a non mandare a quel paese quel maiale di Kamoshida. Certo, non avrebbe accettato altro, ma il passaggio poteva anche sopportarlo.

Una volta in macchina, si era allacciata la cintura tenendo la testa bassa. Aveva sentito il pollice e l'indice di Kamoshida sul suo mento. Stava voltandole il viso. "Buongiorno, bellezza."

Ann era scioccata al pensiero che lui fosse convinto che una battuta del genere avrebbe potuto colpirla, semmai era così ridicola come frase che lei avrebbe potuto colpire lui, magari con uno dei suoi libri. Kamoshida le aveva carezzato la guancia scendendo fino al collo, poi si era messo a ridere. "Sei tutta rossa, si vede che hai bisogno di un po' di tempo con me. Sai, ci sono molte cose che ti posso insegnare oltre alla pallavolo, cosa ne dici?" 

Ann non pensava che il suo professore avrebbe avuto l'indecenza di comportarsi così. 

L'automobile era ripartita e Ann aveva continuato a guardare dritto davanti a sé. Erano quasi arrivati, quando aveva sentito la mano di Kamoshida sulla coscia. Aveva avuto un sussulto, che subito era stato sostituito dall'indignazione e dalla rabbia. Come si permetteva di fare una cosa del genere?

Ann non vedeva l'ora di arrivare a scuola.

"Non mi hai risposto, principessa." La sua mano si muoveva lentamente e Ann non riusciva a concentrarsi. Avesse dato ascolto al suo istinto gli avrebbe urlato quanto lo odiava e quanto il suo comportamento fosse sbagliato. Ma continuava a tornarle in mente Shiho e i suoi sforzi. In fin dei conti non si sarebbe potuto spingere oltre. No. Ann non gli avrebbe permesso di spingersi oltre.

"Lei è il mio professore," gli aveva risposto. "Credo che sarebbe meglio che per ora, finché sono nella sua classe, ci si limiti alla scuola." 

Era scesa dall'auto sentendosi sporca e nervosa. Come era possibile che nessuno dicesse niente a quel maiale? Ann non poteva più resistere, anche se per la sua migliore amica aveva sopportato fino a quel momento, era davvero troppo. 

Mentre Shiho le correva incontro, Ann aveva deciso che era davvero ora di smetterla.

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Fandom: Kakegurui
Personaggi: Meari Saotome
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Parole: 587


La vita è come un castello di carte


Era senza fiato, aveva corso fino a chiudersi dove sapeva che non avrebbe trovato nessuno. Lontano, perché nessuno doveva vederla in quel momento. Tutti sapevano, certo. E i pochi che ancora non sapevano avrebbero presto avuto la certezza che era vero: Meari era un animaletto. 

No. Non era semplicemente un animaletto, aveva un debito così alto che non sarebbe stata in grado di ripagarlo entro breve.

Nel buio della sua stanza non si era nemmeno resa conto di stare piangendo. Si era accasciata a terra e aveva strisciato verso i cuscini. Ne aveva preso uno e aveva attutito il suo pianto, aveva gridato, sperando che nessuno riuscisse a sentirla. Come era potuto succedere? 

Lo sapeva: era tutta colpa di quella. Di Yumeko Yabami.

 

Le aveva fatto saltare i nervi. 

Meari stava bene prima che quella arrivasse. Aveva tutto sotto controllo: la sua classe era sotto la sua guida e lei avrebbe potuto conquistare la scuola intera se l'avesse desiderato. E adesso? Adesso stava piangendo da sola al buio della sua stanza, urlando disperatamente e vergognandosi di se stessa. Aveva ceduto alla smania di recuperare in fretta e si era ficcata in una situazione dalla quale forse non sarebbe mai uscita, era una debole, una sciocca.

Quando era successo? Meari aveva iniziato a respirare in modo più lento e regolare, finalmente. 

Non sapeva quanto tempo fosse passato, sapeva soltanto che le lacrime continuavano a scendere, si sentiva la gola arsa, gli occhi le bruciavano e le mani erano ancora strette al cuscino che teneva sul viso. Le sue grida erano diventate lamenti, non sentiva più la forza di urlare.


Cosa aveva fatto? Pensando a cosa ne sarebbe stato di lei ora che era una gattina aveva ripensato alle sue azioni. Era stata crudele, molto spesso in modo ingiusto. Aveva abusato del suo stato privilegiato e ora ne avrebbe pagato le conseguenze, perché era certa che in molti non vedessero l'ora di vendicarsi, soprattutto tra quelli che aveva sfidato solo per sfida, per umiliarli.


Anche Yabami avrebbe fatto quella fine, lo sapeva. Nessuno vinceva contro Yuriko Nishinotouin. Era stata una vera sciocca a credere che lei sarebbe stata diversa. Non era furba come credeva, non era intelligente come credeva, né così fortunata. 

Sarebbe bastato un colpo di fortuna, come quelli che aveva avuto all'inizio, appena la scuola era iniziata. 

Invece la vita di Meari era crollata come un castello di quelle carte che erano state in passato la sua fortuna, e lei avrebbe passato i mesi seguenti a fare la carina con qualche bavoso schifoso, come quel bulletto da quattro soldi di Kiwatari. Al pensiero il suo respiro si era fatto affannoso e aveva iniziato a singhiozzare. Non c'era una vita d'uscita. Non avrebbe mai recuperato. 


La sua vita era finita. 

E allora Meari aveva pianto. Per ore, forse, non aveva chiaro quanto tempo fosse passato. Quando si era svegliata aveva la gola secca. Si era guardata allo specchio e si era vista orribile: gli occhi gonfi, il naso arrossato. Le facevano male le mani e la gola, persino respirare le sembrava faticoso.


Aveva fame e sete, sentiva di avere bisogno di concentrarsi sui suoi bisogni primordiali per uscire da quella crisi che aveva preso possesso di lei. Così l'aveva fatto e la mattina dopo si era rialzata con un desiderio prepotente di non andare a scuola, di restare a piangere tutta la giornata, di nuovo. Ma si era vestita, era uscita e aveva tenuto alta la testa. Non avrebbe mollato, non si sarebbe fatta sorprendere da un'altra crisi.

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Fandom: Persona 5
Personaggi: Makoto Niijima, Sae Niijima 
Parole: 530
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Take your heart!


 
 

Makoto si sentiva estremamente colpevole per come si stava comportando con sua sorella. Da quando era diventata una dei Phantom Thieves le aveva tenuto nascoste molte cose: aveva mentito, l'aveva usata. Raccogliere i dati dal suo computer e darli a Futaba era stata la scelta giusta, ma a che prezzo per Makoto? Faceva fatica a guardare la sorella negli occhi, la sentiva distante, sempre più frustrata per come quel caso, che le riguardava entrambe, stava procedendo. 

Le giornate di Sae al lavoro erano sempre più lunghe. Quando tornava la sera, Makoto la vedeva sempre più stanca, sempre meno motivata dalla passione, semmai sembrava essere la rabbia a muoverla, pareva che ciò che la faceva alzare dal letto la mattina non fosse più l'amore per la giustizia, ma il desiderio di far vedere ai suoi capi quanto valesse. Makoto l'aveva capito anche dai discorsi che le faceva ogni volta che si vedevano: era diventata una specie di automa.

 

Quando Makoto aveva aperto l'app di navigazione nel suo cellulare, non era sicura di ciò che stava facendo. L'idea le era venuta quando in un lampo aveva pensato che a Sae avrebbe fatto bene un cambio di cuore. L'aveva cercata nei Memento, ma non l'aveva vista ed era sempre più convinta che potesse avere un Palazzo. Desiderava sbagliarsi, voleva che l’app non le desse ragione. Invece

aveva detto il suo nome e aveva avuto la conferma.

Quando era successo? Quando Sae aveva perso la strada?  Quando il suo desiderio si era distorto?

 

Makoto era sempre stata razionale, sapeva che piangere non avrebbe aiutato a risolvere il problema, ma sapeva anche che non c'era altro che potesse fare in quel momento. Non riusciva a fermare le lacrime, sembravano trovare la loro strada senza fatica, senza permettere alla parte razionale della ragazza di comandarle. Per una volta, Makoto non aveva una risposta. 

Piangeva senza sosta, senza sapere cosa dire agli altri, perché non c'era niente che loro potessero fare. Avrebbe voluto chiedere ai ragazzi di andare a rubare il suo tesoro, ma si sentiva egoista, non poteva chiedere una cosa del genere, soprattutto non dopo quello che era successo al signor Okumura. Haru non parlava molto, ma Makoto immaginava quanto stesse male dopo aver perso suo padre, soprattutto sapendo che forse avrebbe potuto evitare che succedesse.


E se a Sae fosse capitata la stessa cosa? No, Makoto non poteva neanche immaginarlo. Sua sorella era l'unica famiglia che aveva e lei non era disposta a perderla per nessuna ragione al mondo. L'avrebbe salvata con il suo affetto, le avrebbe parlato e l'avrebbe aiutata. Non era troppo tardi per Sae.

Makoto piangeva e cercava risposte, soluzioni. Il suo era un pianto controllato, ma continuo. Non riusciva a smettere, non trovava pace. 

Aveva bisogno di pensare, ma la sua testa era annebbiata dalla tristezza e tutto ciò che riusciva a fare era dare sfogo ai suoi sentimenti. Dare una forma alle sue paure con quelle lacrime che le bruciavano sulle guance e che le arrossavano gli occhi.

Tra le lacrime l’unico pensiero che riusciva a formulare era la risposta: Per Sae lei avrebbe fatto di tutto. L’avrebbe salvata, anche a costo di prendere il suo cuore da sola.

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Perdere tempo


 

A volte bisogna perdersi per trovare quello che cerchiamo. 

A me era successo un giorno, per caso. Giravo per quella città ancora nuova per me quasi di corsa, chiedendomi se ci fossero strade migliori per arrivare più velocemente alla mia meta. Anche se avevo una minima conoscenza dei posti che in genere dovevo raggiungere, in genere usavo il navigatore per muovermi, per cercare sempre la via più rapida. Quella volta non potevo farlo, avevo scordato a casa il caricabatterie esterno e avevo poca batteria nel cellulare, quindi sarei andata a memoria, a naso.

Siccome non avevo molta fretta, avevo deciso di usufruire del passaggio di un amico fino a casa sua, che era sulla mia strada, e poi di percorrere il resto della strada a piedi, evitando per una volta l'autobus. Avevo pensato che questo mi avrebbe aiutata a prendere un po' di confidenza in più con quella città che a volte mi sembrava fredda e cupa, ma che sapevo essere anche meravigliosa, a guardarla bene.

Così avevo deciso di perdermi, metaforicamente, tra le vie della mia nuova città, affidandomi alla mia memoria e ai miei occhi per arrivare a casa.

Sarebbe stata una specie di visita turistica della mia città, sono i turisti infatti a camminare lentamente e a soffermarsi sui dettagli che danno bellezza ai palazzi, a notare i parchi e le aiuole. Chi vive in una città in genere tende a notarne il traffico, la sporcizia per terra e i difetti in generale. Io stavo facendo lo stesso.

Per questo mi ero presa il mio tempo. Quando avevo detto al mio amico che avrei proseguito a piedi fino a casa lui mi aveva detto che ero pazza. "Ma saranno almeno quaranta minuti a piedi."

Avevo annuito. Lo sapevo. Spesso andavo a passeggiare negli immediati dintorni di casa mia, ma c'erano parti della città che non conoscevo e che non avrei mai conosciuto se non mi fossi lasciata andare all'esplorazione.

Così avevo scovato un parco enorme, proprio a due passi da una delle vie più trafficate della città. Avevo percorso quella strada in automobile e in autobus parecchie volte, ma non l'avevo mai notato prima di allora. Non ero entrata, ma avevo visto quanta gente ci fosse seduta sulle panchine, quanti bambini giocassero nella zona più lontana dalla strada. Proseguendo, avevo attraversato qualche edificio dell'università, incontrato ragazzi che ballavano in mezzo alla strada, altri che chiacchieravano ridendo tra loro. Un ambiente che mi causava una certa nostalgia e che mi riempiva il cuore di speranza.

Mi ero resa conto che nonostante avessi percorso quei tre chilometri una quantità indefinita di volte, non mi ero mai fermata davvero ad apprezzare ciò che la città mi poteva donare. 

Quel giorno mi ero ripromessa di lasciare di nuovo a casa la fretta (o il caricabatterie esterno, come era successo a me) e di perdermi ancora, magari in un'altra zona di quella città che desideravo vivere. 

Sapevo che non era perfetta, che c'erano zone più pericolose, altre per niente poetiche, ma avevo deciso che avrei fatto il possibile per viverla al meglio. 

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Fandom: The Legend of Zelda, Breath of the Wild
Personaggi: Link, Zelda
Parole: 522
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 Whisper in time

 
 

La prima volta che si era ricordato la sua immagine, Link si era chiesto come avesse potuto dimenticarla. Si era domandato se forse il ricordo superasse la realtà. Se Zelda fosse un parto della sua immaginazione e se la sua mente l'avesse creata più bella, avesse reso più melodiosa la sua voce, più leggiadro il suo passo. Ma non poteva essere così, perché se lei fosse stata ideata da Link, Zelda sarebbe stata felice. Non come l’aveva vista nel ricordo. 


Aveva già sentito la sua voce, sin da quando si era risvegliato. Da subito si era chiesto di chi fosse e seguendo il suo istinto si era detto che poteva affidare la sua vita a quella voce. Poteva dare la sua vita per la persona che pronunciava quelle parole. Un'idea strana, che però gli sembrava radicata in lui, forse da quando si era addormentato, cento anni prima. Qualcosa gli diceva che lui e quella persona avessero vissuto qualcosa di terribile, che il destino li avesse prima uniti, per poi distruggere per sempre le loro vite. Altrimenti perché lui era lì e lei no? Perché Link era solo, sempre. 


Quella notte, dopo che aveva recuperato il ricordo, l'aveva sognata. Nel sogno lei gli sorrideva e gli diceva che aveva aspettato tanto che lui la ritrovasse. La sua immagine era ancora un po' confusa nell'insieme, ma Link aveva impresso nella memoria i dettagli di quella ragazza: le mani affusolate, leggere, morbide. gli sembrava che anche in quel momento lei gli tendesse la mano. Il sorriso tirato, gli occhi stanchi, sempre tristi, ma con quel barlume di speranza che ritrovavano ogni volta che guardavano lui. Zelda contava su di lui e Link l'aveva delusa. Questo era certo.

Nel sogno, Link era rimasto zitto a fissarla, fermo come uno scemo. Eppure il calore che gli dava il ricordo di Zelda era qualcosa che non avrebbe saputo spiegare a parole, del resto era sempre stato più bravo con la spada che con la penna e con la voce. Ma era chiaro che non fosse stato abbastanza bravo. Perché lei era... Morta?

Un brivido gelido l'aveva svegliato: no, non morta, no. Link sperava che lei fosse stata addormentata come lui,  che lo stesse aspettando con quella stessa speranza che lui ricordava nei suoi occhi radicata ancora nel cuore, ma sapeva bene che le speranze erano poche. 


Una volta sveglio, aveva cercato di ricordare qualcosa in più, perché doveva sapere se c'era qualcosa che potesse fare per riaverla con sé, anche solo per trovare la sua tomba e per piangerla. Purtroppo però già sapeva che la sua strada sarebbe stata ancora molto lunga, visto che l'unico luogo nel quale lei poteva essere era il castello e lui era ancora troppo debole per pensare di metterci piede.


Subito dopo aver mangiato qualcosa, Link si era rimesso subito in marcia, doveva andare a risvegliare tutti e quattro i Colossi, doveva andare da Ganon e distruggerlo. E se lei fosse stata viva, se fosse stato in qualche modo possibile salvarla, lui l'avrebbe fatto. 

Link non avrebbe deluso ancora Zelda. Lui era la speranza per tutti loro e non avrebbe fallito di nuovo.


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