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Prompt: Per sempre
Parole:
Fandom: Originale
Partecipa al COWT 13
Link al primo capitolo: https://quistisf.dreamwidth.org/41998.html
Genere: Horror
Long fic

La posa, capitolo 3 - ​​Per sempre

Dopo avere toccato l’acqua, Stefania vide un mondo differente da quello che conosceva: l’acqua della posa, bassa e opaca, diventò cristallina, quasi brillante.
Più la ragazza si avvicinava alla donna, al mostro della posa, più ne vedeva le sembianze tornare umane. I suoi occhi divennero azzurri e i capelli intrecciati, di un castano ramato, erano folti e lucenti. Gli abiti della creatura tornarono integri, puliti.
Stefania si fermò e prese la mano della creatura. Nell’istante in cui la toccò, il mondo divenne pulito, luminoso e reale. La luce del sole splendeva nel cielo privo di nubi, Stefania lo osservava a bocca aperta, pensando come gli alberi fossero più rigogliosi, l’acqua pulita e l’erba più verde. La creatura le sorrideva. “Benvenuta, Stefania.” le disse, per poi guidarla fuori dalla posa, tenendole la mano. “Quella è la nostra casa, ho già preparato la tua stanza.”
La sensazione di paura era passata, al suo posto Stefania provava nostalgia: per la sua vita passata a cui sapeva non sarebbe mai tornata, per Michele che forse non l’avrebbe mai perdonata per non avere lasciato perdere la sua caccia ai fantasmi, per i suoi genitori e per tutto ciò che aveva lasciato. Sapeva che sarebbe stata confinata per sempre lì, in quel mondo cristallino, incantato. Prigioniera come il paesaggio in una delle palle di neve che collezionava.
La casa era strutturata come il rifugio ed era arredata in modo semplice, ma decoroso. Un tavolo enorme contornato da un’altrettanto grande quantità di sedie era al centro della sala da pranzo. Salirono le scale per trovarsi in un corridoio contornato da porte. Maria la accompagnò proprio nella sua stanza, la stanza che occupava nella vita reale.
Entrarono insieme e fu allora che Stefania sentì le risate. Risate di bambini, risate di gioia. “Ti aspettiamo giù.” Maria la lasciò sola nella stanza, dove Stefania si osservò allo specchio: non aveva traccia di stanchezza sul volto, al contrario, sembrava rilassata e appena uscita da una settimana in un centro benessere. Persino i suoi vestiti non erano più bagnati, né sporchi, né tantomeno stropicciati o consumati. Forse non erano mai stati così belli. Li toccò, incredula.
Nel sentirne la struttura tangibile sotto i polpastrelli delle sue mani, Stefania iniziò a ridere. Fino a quel momento aveva tentato di convincersi che quello fosse solo un brutto incubo troppo reale, ma ogni secondo quella realtà diventava più tangibile. Con una mano, si colpì il volto con forza con l’intento di sentire il dolore, le bastava sentire qualcosa di diverso dal senso di ammaliamento che provava. Si colpì di nuovo, mentre continuava a ridere, le lacrime agli occhi, ma il dolore non arrivava. In questo mondo non c’è dolore. Pensò, come se quella fosse una verità universalmente riconosciuta.
Si asciugò le lacrime e prese fiato prima di scendere.
Attorno al tavolo si era radunata tutta la famiglia: Maria era a capotavola, di fronte a lei un vassoio con una torta dall’aspetto invitante. Sebastiano sorrideva, non era invecchiato dal giorno della sua sparizione. Gli altri bambini scomparsi erano tutti lì, impazienti all’idea di mangiare la torta della mamma e di conoscere la nuova arrivata, sembravano felici.
“Finalmente ci siamo tutti. Bambini, salutate Stefania.”
I bambini risposero con entusiasmo alla richiesta di Maria, gridando il loro benvenuto in modo disordinato e felice. La ragazza pensò che l’amore che si respirava in quella casa era quasi tangibile. “Grazie a tutti, sono felice di essere qui con voi.” pronunciò quelle parole senza neanche rendersene conto. Avrebbe tanto desiderato tornare alla sua vita, ma lì non si stava male, per niente.
“Stefania resterà con noi per sempre, se deciderà di passare qui la notte.” Dichiarò la mamma con un sorriso amorevole. “Adesso è l’ora della torta,” continuò afferrando il coltello e iniziando a tagliare le fette, che presto furono distribuite a tutti.
Quando Sebastiano le porse la fetta, la ragazza pensò che non fosse una buona idea mangiarla, ma qualcosa dentro di lei le disse che doveva fidarsi, perché lì era al sicuro.
I bambini conversavano insieme in modo giocoso e spensierato e, finita la torta, la salutarono e uscirono a giocare.
Le due adulte rimasero sole, ai due capi del tavolo. Maria si alzò e si sedette al suo fianco, rimase in silenzio ad attendere che Stefania le facesse le solite domande.
“Cosa significa che devo decidere se passare la notte qui?”
Maria non si scompose. “Subito alla domanda più importante, del resto sei un’adulta. Sei la prima che viene da me. Io qui sto bene, ma a volte penso di sentirmi un po’ in difficoltà a fare tutto da sola. Loro aiutano, ma non è la stessa cosa…” Lo sguardo impaziente della nuova arrivata la spinse a continuare. “Nessuno è costretto a stare qui. I bambini che sono arrivati, prima soffrivano. Io li ho accolti e ho mostrato loro cosa significa essere amati. Nessuno deve provare ciò che hanno sofferto i miei bambini, non posso accettarlo. Se ti addormenterai qui, nel mio mondo, resterai con noi per sempre, altrimenti tornerai a casa.”
Le domande di Stefania erano tante, troppe per il tempo che aveva: cosa mangiavano? Come funzionava quel mondo? Avevano animali, frutti, farina? Maria le stava dicendo la verità?
“Se vuoi, puoi restare coi bambini e parlare un po’ con loro prima di decidere. A me farebbe davvero piacere se tu restassi… se potessi avere un po’ di compagnia con una donna… ma capirò se vorrai tornare a casa.” Quella creatura che l’aveva terrorizzata quando era piccola, si alzò leggiadra, quasi eterea, per andare in cucina a preparare la cena. Bastò un suo cenno perché due bambini la raggiungessero e iniziassero ad aiutarla.
Stefania voleva solo tornare a casa e qualcosa dentro di lei le diceva che non correva rischi, che aveva veramente la libertà di scegliere cosa fare e di tornare nel mondo reale, ma la sorpresa nel trovarsi in una sorta di paradiso l’aveva confusa e colpita al cuore. Uscì a cercare Sebastiano, per avere risposte. Il bambino corse verso di lei appena la vide avvicinarsi.
“Stefania! Io mi ricordo di te! Che bello sei tornata!” L’entusiasmo nella sua voce appariva sincero come quello che solo un bambino può provare.
“Non voglio restare.” Di fronte alla sua affermazione, il suo vecchio amichetto si rabbuiò.
“E perché? Qui si sta bene, ci puoi fare compagnia con la mamma!”
“Perché questa non è casa mia, io abito da un’altra parte e vorrei tornare lì.” Lui annuì con un’espressione un po’ triste. “Non ti manca la tua famiglia?”
Un’espressione di dolore lo colpì, mentre lui scuoteva la testa con vigore. “No, la mamma è buona, noi stiamo bene con lei.” Stefania gli accarezzò la fronte, ripensando ai discorsi risalenti a una vita fa sui presunti maltrattamenti, ricordando come Sebastiano zoppicasse e sembrasse aver timore del padre. Nel toccarlo visse i suoi ricordi e sentì la sua paura, così vivida e profonda, così in contrasto con la vita nel rifugio incantato nel quale si trovavano in quel momento. Sebastiano si sentiva grato alla mamma per averlo portato nel mondo della posa. Un mondo di eterna fanciullezza nel quale sarebbe stato protetto e difeso dalla crudele realtà per sempre.
Si distese ai piedi di un albero, osservando i bambini che giocavano spensierati e pensò che erano più fortunati di tanti altri. Capì che Maria, la creatura, non agiva per crudeltà, e si ricordò di averlo già saputo molto tempo prima. Il senso di pace che la inebriava la convinse a chiudere gli occhi. Rivide Michele, i suoi genitori e tutti gli amici che la aspettavano. Loro avrebbero sentito la sua mancanza, le sarebbero mancati per sempre, per tutta l’eternità che la aspettava nella sua nuova vita.
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One shot
Originale
Partecipa al COWT 13
Prompt: Pioggia
Parole:
 

Un lunedì come un altro


Come vuole il cliché, anche per Eva il lunedì mattina era il giorno in cui la sveglia faceva più male. Quella mattina però da subito aveva avuto il presentimento che sarebbe andata peggio del solito. 

Aveva fatto colazione con un caffè e un pezzo di panettone avanzato - ne aveva ancora, chissà se l’avrebbe finito entro la fine dell’inverno - e aveva accumulato un lieve ritardo, indugiando più del solito nel leggere le notizie del giorno e si era rimproverata per essere caduta nella classica trappola del clickbait almeno un paio di volte, poi aveva iniziato a prepararsi per uscire e, come sospettava, era arrivato l’imprevisto: si era macchiata la camicia con il dentifricio. In un attimo aveva vagliato tutte le opzioni possibili e aveva optato per un cambio rapido: corsa al suo armadio aveva preso un maglione pesante e poi aveva continuato a prepararsi come sempre. 

Era uscita un po’ di corsa, ma sicura che sarebbe arrivata puntuale. 

L’aria delle sette del mattino le pungeva il viso, ghiacciata come i finestrini e il parabrezza della sua auto. Eva aveva acceso il motore e si era stretta la sciarpa intorno al viso per scaldarsi un po’. Il parcheggio che utilizzava abitualmente era a circa un chilometro dall’ufficio, ma non le dispiaceva fare un po’ di strada a piedi e lì trovava quasi sempre un posto libero, infatti così era stato anche quella mattina. 

Appena aveva girato la chiave per spegnere il motore, però, aveva notato le prime gocce di pioggia sul parabrezza. Aveva sospirato con rassegnazione, pensando che avrebbe preso un po’ di pioggia, ma che non sarebbe stata la fine del mondo visto che aveva sempre un ombrello in macchina. 

Sempre… almeno così credeva, perché l’ombrello sembrava svanito nel nulla. 

Nel nulla… o più probabilmente era in ufficio, nel comodo portaombrelli posto di fianco alla porta di ’ingresso.


Si era innervosita, del resto la prospettiva di correre sotto la pioggia non la faceva sentire esattamente al settimo cielo e nei pochi secondi che erano passati le gocce erano diventate parecchie: si sarebbe fatta una bella doccia. 

Aveva al massimo un paio di minuti di tempo prima di essere davvero costretta a uscire da lì: cosa poteva fare per evitare di arrivare come un pulcino bagnato? La risposta era ovvia, perché l’auto era completamente vuota: niente sacchetti, o scatole o libri o giacche o sciarpe. Niente di niente visto che l’aveva pulita proprio per bene. Era stata bravissima.

Avrebbe anche potuto chiamare l’ufficio e annunciare il suo ritardo, ma sapeva che le avrebbero chiesto di recuperare ogni singolo minuto, facendole pesare per almeno due mesi e mezzo questa sua grande fortuna chiamata flessibilità, concetto che pareva non fossero in grado di comprendere fino in fondo.

“Al diavolo,” aveva esclamato, più a se stessa che alla pioggia. Aveva preso fiato, raccolto  la valigetta che conteneva il suo computer con l’idea di proteggerla meglio che poteva, ed era uscita dall’auto con decisione, pronta a una corsetta mattutina.


“Eva! Aspetta!” Si era sentita chiamare da qualcuno poco distante. Si era voltata con la sciarpa premuta sulla testa, senza fermarsi, e aveva notato un ragazzo che, munito di un grande ombrello, stava correndo verso di lei. All’inizio non l’aveva riconosciuto, ma nel guardarlo più da vicino aveva capito che era il barista della pasticceria dove a volte andava a fare colazione prima di iniziare a lavorare. 

Dopo averla raggiunta, il ragazzo l’aveva accolta sotto il suo ombrello ed Eva si era sentita fortunata per la prima volta dall’inizio della giornata.

“Grazie, sta piovendo davvero tanto.” 

Lui aveva scosso la testa. “Questo è il minimo, tanto facciamo la stessa strada.” Aveva sollevato il braccio e lei d’istinto si era agganciata a lui. Una parte di lei si era sentita imbarazzata, perché non avevano mai parlato molto prima di allora, ma lui le aveva sempre dato l’impressione di essere un tipo gentile e sincero. 

“Sei molto gentile, mi sarei presa un raffreddore con tutta quest’acqua. Ora sono in debito.” 

Lui di nuovo aveva minimizzato. “Ma non pensarci neanche, l’ombrello è grande abbastanza per tutti e due, non potevo lasciare che arrivassi fino all’ufficio sotto la pioggia, saresti arrivata zuppa. Se ti senti davvero in colpa però accetto volentieri un caffè, o un passaggio sotto il tuo ombrello la prossima volta che pioverà.”


Eva era stata al gioco, rispondendo a tono. “Potrei anche passare più tardi, per scroccare il viaggio di ritorno.” 

Lui aveva annuito: “Allora ti aspetto lì.” 

Per il resto del tragitto erano rimasti in silenzio a camminare sotto la pioggia battente. Eva nella sua testa lo aveva definito un silenzio rilassato, durante il quale aveva pensato che non le sarebbe dispiaciuto per niente passare un po’ di tempo in più con quel ragazzo di cui non ricordava neanche il nome per essere sincera del tutto. Per questo aveva provato un po’ di imbarazzo in effetti. 


Il suo accompagnatore la aveva lasciata di fronte alla porta. Nonostante il freddo e i piedi bagnati, Eva non aveva potuto fare a meno di pensare che la passeggiata in compagnia del suo accompagnatore era stata piacevole e che tutto sommato non le sarebbe dispiaciuto se fosse stata un po' più lunga.


La giornata era passata lenta, tra le richieste complicate dei clienti e quelle forse anche più impegnative dei colleghi. Fuori però continuava a piovere e più le ore passavano, più Eva sperava che non smettesse.

Osservava la finestra di fronte a lei ogni volta che i suoi pensieri si rabbuiavano e si ritrovava a sentire un senso di calore che forse avrebbe potuto associare al suo gentile amico con l'ombrello.
Chissà se si vede con qualcuno…

Non lo conosceva ed Eva pensava che era molto probabile che lui fosse stato gentile con lei solo perché sapeva che era una cliente abituale del locale per cui lavorava. Al contrario, lei si sentiva in imbarazzo al pensiero di non ricordare neppure il suo nome e il film che si era fatta in testa nel quale grazie a un giorno di pioggia aveva scoperto l’amore della sua vita sarebbe rimasto un sogno a occhi aperti, ma sarebbe stato così sciocco darsi una possibilità?
Se poi fosse andata male al massimo avrebbe evitato lui, e forse avrebbe anche cambiato lavoro per evitare di vederlo, ma non c’era niente di male nel provare almeno a parlargli. In fondo non era una ragazzina e in ambito lavorativo affrontava ogni giorno situazioni ben più complicate, perché si sentiva così in imbarazzo al pensiero di rivederlo?

All’uscita dall’ufficio Eva aveva osservato il suo ombrello con esitazione, ma alla fine, preso il suo poco coraggio, l'aveva lasciato lì dov’era per correre alla pasticceria, dove lui la stava aspettando seduto a un tavolo mentre leggeva un giornale.

“Ben arrivata, speravo di non essere rimasto ad aspettarti per niente.” 

Il suo collega dietro il bancone si era rivolto alla collega con un sorriso complice. “Adesso ho capito cosa stava aspettando Ale, ecco perché non se ne andava anche se ha finito il turno due ore fa!”
Giusto: si chiamava Alessio, le si era presentato più di una volta ormai.

“Gli dovevo un caffè, quindi prendiamo due caffè, per me macchiato e per te, Alessio?” aveva risposto Eva tentando di sembrare sicura di sé, porgendo una banconota da cinque Euro al cassiere.

“Lui lo prende sempre liscio, faccio io.”


I due erano rimasti seduti per qualche minuto insieme, ma il silenzio rilassato della mattina si era trasformato in un’attesa fatta di tensione, dovuta anche alla presenza dei colleghi di Alessio che sembravano avere fatto una scommessa su cosa si sarebbero detti.

Dopo aver bevuto il caffè, Alessio aveva indicato la porta con lo sguardo e i due erano usciti. Di nuovo sotto il suo ombrello, ma questa volta la complicità che aveva sentito solo poche ore prima pareva essersi tramutata in tensione.



A Eva era tornato in mente Paolo la fine della loro storia insieme. Si erano lasciati durante un giorno di pioggia invernale, proprio come quello.

Era passato un anno ormai e lei non aveva mai sentito la necessità di trovare qualcuno per rimpiazzare il suo ex, ma era sempre stata convinta che prima o poi qualcosa in lei sarebbe cambiato, che sarebbe stata pronta per fidarsi di nuovo di una persona al punto da lasciarsi andare come aveva fatto con Paolo.

Era stata lei a lasciarlo, dopo mesi durante i quali aveva cercato di recuperare un rapporto morto, perché sembrava che tra loro non ci fosse che la forza dell’abitudine che li spingeva a restare insieme nonostante nessuno dei due si decidesse ad ammettere che qualcosa non andava.

Alla fine entrambi avevano smesso di lottare e si erano lasciati proprio per una giornata di pioggia e per un ombrello. A volte il destino sa essere beffardo, pensava.


Senza pensarci troppo, Eva aveva preso il braccio di Alessio, che all’inizio aveva reagito con stupore, ma che poi si era rilassato. La sensazione di naturalezza che provava nel contatto con lui le faceva pensare che in una ipotetica vita precedente i due si conoscessero bene, e subito si era sentita a suo agio.

“Grazie per essere rimasto.” Gli aveva sussurrato, lasciando che la sua voce sovrastasse di poco il rumore continuo della pioggia.

“Grazie per essere tornata,” Alessio l’aveva guardata negli occhi. “E per non avere recuperato l’ombrello in ufficio.”

Eva era rimasta a bocca aperta. “E tu come…” aveva iniziato.

Alessio aveva riso. “Non sapevo, ma speravo. Prenderò come un buon segno il tuo ritorno, ancora più di prima. Magari la prossima volta potremmo fare la strada insieme anche senza l’ombrello.”

“Oppure potremmo andare a bere un caffè in un posto senza avvoltoi,” aveva proposto lei.


Arrivati alla sua automobile si erano salutati. Nonostante la pioggia, nonostante il lunedì, nonostante la camicia macchiata, quella giornata alla fine si era rivelata tutt’altro che pessima. L’avrebbe quasi definita una bella giornata.


Fiducia

Feb. 25th, 2023 05:04 pm
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Fandom: Originale

Genere: sentimentale

Prompt: E poi ti chiamo subito, ma dubito che tu voglia rispondermi (Will – Stupido)

Parole: 951

Partecipa al COWT13

Fiducia


Questa volta sono stato io a scappare. Ti ho lasciato solo un foglio sul tavolo e ho bloccato il tuo numero.

Due valigie, tanto a casa tua avevo pochissime cose, tu mi hai detto tante volte che è perché non ho voglia di impegnarmi, ma la verità è che non mi sono mai fidato davvero di te.

Col senno di poi, come si dice, ho fatto bene.

Non fosse stato per il caso, non avrei mai saputo della tua vera natura, dei tuoi tradimenti.

Quando ti ho vista seduta con quello in pasticceria ho pensato subito di entrare a salutarti. Mi sono chiesto se fosse un amico o un collega, ma eravate troppo vicini.

Ma oltre all’atmosfera c’era di più, e me n’ero accorto al primo sguardo.

Ti ho chiamato subito, ma dubitavo che mi avresti risposto, infatti il tuo telefono ha squillato e ti ho visto prenderlo dalla borsa e rifiutare la chiamata. La mia chiamata. 

Allora ti ho scritto, ti ho chiesto dove tu fossi per vederci, ma tu hai risposto che avevi da fare e che ci saremmo visti a casa tua in serata come d’accordo.

Non mi hai detto dov’eri, quindi sono rimasto ad aspettare. Vi ho seguiti fuori e tu non te ne sei accorta. Ti ho vista salire sulla sua automobile, ma non ho potuto seguirvi. Sciocco io a non avere pensato a un modo per farlo.

La sera mi hai raccontato della tua serena giornata al lavoro e sembravi felice, più di quanto io ti abbia mai vista felice. Mi hai detto di aver lavorato tutto il pomeriggio. Solo per un istante hai esitato e mi sei sembrata sul punto di rivelare qualcosa. 

Non sapevo cosa significasse provare gelosia, ma in quel momento mi sentivo disgustato dalla tua spensieratezza.

Ho tolto il disturbo perché sono del parere che la sincerità sia necessaria come l’acqua che beviamo e che non sia possibile nutrire una relazione quando manca. Come piante, anche noi appassiamo in mancanza di rapporti sinceri.

 

Ormai è passato un mese da quando ti ho lasciata. So che hai provato a chiamarmi, so che hai tentato di raggiungermi a casa. Hai detto a mia madre che non ho capito, che è solo un fraintendimento, ma io non ho intenzione di farmi tradire perché so ciò che dico: l’ho visto coi miei occhi e loro non mentono.

 

La lettera che mi rigiro tra le mani mi tenta, perché mi potrebbe dare risposte, ma ho il timore che siano solo altre bugie e ho paura che finirei col crederti.

Da quando l’ho ricevuta, ormai tre settimane fa, è rimasta a prendere polvere sullo scaffale sotto al citofono di casa insieme ai volantini delle agenzie immobiliari e al menù per asporto della pizzeria che ti piaceva tanto.

Oggi ho deciso di fare un po’ di pulizie e mi è tornata in mano. Mi è affiorata alla mente la tua immagine e ho pensato a quanto in fretta il mio orgoglio mi abbia portato via da te. Non ti ho dato la possibilità di spiegarmi chi fosse quell’uomo e perché tu non mi avessi detto dove avevi passato la tua giornata, ma nei miei panni tu cosa avresti fatto?

Il dubbio è arrivato, infine. E se mi fossi sbagliato?

In fin dei conti la nostra storia è stata veloce, intensa. Solo tre mesi di frequentazione durante i quali abbiamo parlato troppe volte del futuro e di quello che avremmo vissuto insieme. Forse al punto da convincerci che fosse passato più tempo.

Io non so molto di te e di chi eri prima di conoscermi. Mi hai sempre fatto tante domande sulla mia famiglia, sul mio passato e sui miei amici. Hai conosciuto i miei genitori e mio fratello, sei venuta in vacanza nel paese originario dei miei nonni.

Di te conosco il presente, ma non ho molto sul tuo passato.

Mi hai portato al cimitero a incontrare i tuoi nonni, dicendomi che loro erano la tua unica famiglia, ma era davvero così?

 

Senza pensare più, apro la lettera.

Dentro ci sono delle foto: due bambini di circa cinque anni, insieme su un’altalena, sullo sfondo colline e un recinto di legno; una donna seduta su una poltrona insieme a quei due bambini, appare sorridente anche se pallida e stanca.

L’ultima foto mostra di nuovo i due bambini, questa volta quasi adolescenti. I due sorridono, ma non sembrano felici.

Oltre alle foto, solo un biglietto. Tre righe pesanti come macigni tra le sue mani.

Mi dispiace che sia finita così.

Un giorno ti avrei parlato del mio passato, ma non era ancora il momento per me.

Forse un giorno ci rivedremo.

 

Solo adesso unisco i pezzi. Ripenso a quanto ti incupivi quando ti parlavo delle mie vacanze spensierate con mamma e papà. Ricordo l’album di fotografie che un giorno hai preso dalla libreria e che io non ho voluto vedere. Forse avevi deciso di parlarmi, ma io non sapevo ci fosse qualcosa da dire.

Non posso immaginare come tu ti sia sentita quando ti ho abbandonata, soprattutto ora che mi rendo conto che forse non era la prima volta che ti accadeva.

Ho trovato un modo per farti soffrire, e ora mi dispiace.

Sblocco il tuo numero di telefono e vedo i tuoi messaggi: tristezza, paura, rabbia, rassegnazione. Mi hai scritto molte volte, mi rendo conto adesso della sofferenza che ti ho causato e so che non avrei dovuto cedere alla paura, alla rabbia e al mio orgoglio.

“Addio,” l’ultimo messaggio. Ormai è troppo tardi, penso, e poi ti chiamo subito, ma dubito che tu voglia rispondermi.

Quando sento la tua voce so già che non basteranno le mie scuse, ma credimi: “Mi dispiace, ho sbagliato tutto.”


 
 
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Partecipa al COWT 13
Prompt: Un rifugio alla fine del mondo
One Shot
Originale
Parole: 560

Il viaggio di Parv

Ovunque guardasse, Parv non vedeva che sabbia. Camminava trascinando i piedi sotto il sole cocente, incapace ormai di pensare in modo lucido.

Erimi, guidata dalla bussola, sembrava resistere meglio di lui a quel calore infernale. “So che manca poco, ormai il rifugio dovrebbe essere vicino.”

Ogni volta che lei si voltava a guardarlo, Parv recuperava parte delle sue forze e sentiva che poteva resistere, che poteva camminare ancora.

Da quanto tempo erano partiti? Si chiedeva, ma non riusciva a ricordarlo anche se si trattava di pochi giorni. I sicari li cercavano e loro avevano scelto la strada meno facile per fuggire. Chi li avrebbe seguiti nel deserto? Chi li avrebbe cercati alla fine del mondo conosciuto?

Erimi non aveva abbandonato il suo bastone e lo usava per aiutarsi nei movimenti sulla sabbia, ma Parv la vide crollare a terra. Quando la raggiunse, si rese conto che non la vedeva bere da quando si erano fermati a mangiare. Sapevano che dalle scorte d’acqua dipendeva la loro vita, ma camminare così comportava per entrambi un grande impegno fisico, soprattutto con quella temperatura.

“Tieni,” le porse la borraccia e la donna la accettò con tristezza.

“Manca poco.” Gli ripeté.

Parv si chiese se davvero avrebbero trovato qualcuno nel rifugio, se non fosse solo un luogo raccontato nelle leggende degli anziani per far sognare i bambini e far loro credere che ci fosse davvero qualcosa oltre al deserto fuori dal regno di Molran.

In pochi si avventuravano nel deserto e tra questi quasi nessuno tornava. I pochi che lo facevano raccontavano solo del deserto.

Ma Parv aveva conosciuto il Capitano, l’uomo straniero che tutti dicevano fosse arrivato dal mare, che gli aveva indicato la strada. Gli aveva raccontato di un mondo diverso, nel quale a cadere dal cielo non era solo la pioggia durante la primavera, ma anche fiocchi di gelo. Parv aveva ascoltato il Capitano al palazzo reale, mentre lo istruiva per il suo ruolo di futuro governante di Molran. Gli aveva raccontato di conoscere la strada e gli aveva regalato la bussola che li stava guidando verso la libertà.

Al pensiero dei sicari che avevano ucciso suo padre e i suoi fratello, Parv strinse i pugni. Si sarebbe vendicato un giorno, ma per poterlo fare doveva vivere.

Aiutò Erimi a rialzarsi e insieme proseguirono per ore in silenzio.

Arrivarono al rifugio che aveva descritto il Capitano a notte fonda. Nella capanna c'erano viveri e acqua, oltre a letti di paglia e coperte in grado di proteggerli dal freddo che calava nella notte del deserto. Quella notte Parv pianse di gioia al pensiero che erano sopravvissuti, ma si chiedette come avrebbero potuto salvarsi davvero, perché la strada attraverso la fine del mondo era lunga e difficile. L’importante però era essere arrivati al rifugio.

La storia di Parv ed Erimi fu raccontata dai due nel diario che ritrovai lì dentro. I due rimasero nel rifugio a consumare le provviste, osservando fino all'orizzonte lontano nell’attesa che qualcuno arrivasse a rifornirlo, troppo incerti su quale fosse la strada da fare per concludere il loro viaggio. Al mio arrivo sentivo ancora il calore della loro presenza, ma purtroppo non li trovai mai.

Così morì il principe Parv, nel deserto della fine del mondo, senza rendersi conto che la strada che l’avrebbe portato alla salvezza era scavata proprio sotto i suoi piedi.


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Genere: demenziale, commedia

Fandom: Originale

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Prompt: la storia inizia dalla fine

Jackson 


Una riunione come tante.

Jack salutò i colleghi come sempre, ma notò da subito che qualcosa non andava: al posto del solito viso che tutti avevano sempre visto, ecco un gatto dalla pelliccia grigia lucente, che pareva muoversi con fare umano e parlare. Agitava le zampe come se stesse scrivendo sulla tastiera,. 

L’incubo di Jackson era diventato infine realtà: aveva sbagliato qualcosa col computer e per quanto provasse a sistemare la situazione, a giocare inserendo e togliendo i filtri, non c’era niente che facesse tornare le cose com’erano.

“Jack, che succede? Sei diventato un gatto?”

Jack, terrorizzato e in imbarazzo, tentò di buttarla sul ridere. “Sì, oggi sono un gatto. Scusate, ma non so cos’abbia il computer, deve essere un virus…”

“Non ti preoccupare, ci faremo anche quattro risate così, ma che tu sia gatto o umano, la tua paga te la guadagni e va bene così. Da oggi ti chiamerò micio micio però.”

Che scenetta divertente, pensava Jack, sarcastico. Tutto sommato però sarebbe potuta andare peggio: avrebbero potuto vederlo sotto forma di cane… “Disattivo la webcam.” Aveva proposto e i suoi colleghi avevano accettato.
Quel problema poteva significare che la sua carriera era finita. Era stato bello. Aveva mangiato bene durante quei mesi.




Jackson era molto orgoglioso del ramo paterno della sua famiglia. Si definiva un siamese, anche se lo era solo in parte: erano gatti di famiglia nobile e pura, e suo padre, Louis, aveva scelto di seguire il suo cuore e di andare a vivere all’insegna dell’avventura con una ragazza umana che l’aveva amato finché era vissuto. Durante uno dei loro viaggi, avevano incontrato la madre di Jackson, Priss. 

Lady Priss era una Certosina piuttosto scontrosa, una gatta intelligente che da subito gli aveva insegnato come prendersi cura di se stesso, cacciando e facendosi benvolere dagli umani. Jackson in realtà non aveva mai conosciuto il padre, sapeva solo che i due padroni dei suoi genitori avevano avuto una storia e per un po’ umani e gatti avevano vissuto sotto lo stesso tetto. Poi la ragazza e suo padre se n’erano andati per non tornare mai più indietro.


Da piccolo, quando viveva ancora con sua madre, lei  aveva raccontato a lui e ai suoi fratelli tante storie sulle avventure di Louis il gatto che viveva nello zaino e Jackson ne era rimasto affascinato.

Era stato mentre immaginava di viaggiare, da solo e senza paura, che aveva iniziato a sentirsi speciale.

Purtroppo si era dovuto separare da Priss quando era ancora un gatto adolescente. “Non ci terranno tutti qui, dovete prepararvi a essere separati dai vostri fratelli, ma non disperate: ci rivedremo un giorno, al di là del ponte sull’arcobaleno. Siate furbi e non buttatevi dal quinto piano come quello sciocco di Pinto, il gatto di fronte, che si è spiaccicato come uno stupido.” 


Jackson era stato portato via durante un pomeriggio di pioggia. Il trasportino nel quale era stato messo era di stoffa e si era bagnato tutto. Era terrorizzato e quando l’umano l’aveva aperto si era spinto bene in fondo, troppo impaurito per uscire.

Solo allora aveva sentito la voce di Marilyn. “Vieni fuori e mangia, piccoletto,” gli aveva intimato con un tono che lui non era riuscito a identificare. “Non ti mangio, tranquillo.”

Marilyn era una gatta bianca a pelo lungo e subito Jackson si era reso conto che era molto miope, le pupille nere dei suoi occhi azzurri infatti si erano strette appena lui si era affacciato a guardarla.

“Benvenuto, piccoletto.” 

Marilyn era stata una figura materna da subito, l’aveva aiutato a prendere familiarità con l’ambiente e a capire l’umano che si prendeva cura di loro: Franco.


“Con gli umani devi imparare a farti adulare. Devi andare da loro, guardarli, lasciare che ti accarezzino e poi chiedere. Più ti fai vedere e più ottieni, ma devi imparare a non essere troppo disponibile, altrimenti si stancano.”

E Jackson, seguendo i consigli di Marilyn, aveva imparato come convivere con Franco.

“Certo che potrebbe comprarci del cibo migliore di questo…” aveva osservato il gatto, mentre mangiava una pappa che tutto sommato era anche saporita, ma nulla a che vedere con quella che si era abituato a mangiare nella casa in cui era cresciuto. Per un po’ Jackson aveva cercato di far capire a Franco che le scatolette che comprava non erano di qualità, ma aveva dovuto rinunciare perché pareva che l’umano fosse duro a capire un concetto così semplice. “Devo rimettere il pranzo ancora tante volte secondo te perché capisca che mangiamo male?”

“Lascia perdere, non cambierà. Ci ho provato per anni anche io, ma lui è parsimonioso,” sosteneva l’anziana gatta di fronte alle lamentele continue del nuovo arrivato. 

“Ma lui mangia il pesce fresco, perché non lo dà a noi?”

“Perché siamo gatti.” Rispondeva Marilyn senza scomporsi.

Jackson però era determinato: avrebbe trovato una soluzione anche a costo di comprarsi il cibo da solo.


Franco usciva ogni mattina dal loro appartamento al primo piano di un condominio per andare al lavoro, dopo aver versato la scatoletta di cibo in una ciotola di plastica a Jackson e a Marilyn. Li salutava con delle affettuose carezze e poi chiudeva la porta per sparire per ore e ore.

Jackson si sentiva sprecato per quella vita di riposo, perché passava la giornata a prendere il sole sul terrazzino e a chiacchierare coi suoi vicini: due gatti certosini che vivevano nell’appartamento di fronte al suo. Aveva quindi dato voce alla sua strana passione, quindi: la programmazione. Si era creato un blog che aveva chiamato la vita e le aspirazioni di un gatto d’appartamento, nel quale raccontava le sue avventure e faceva qualche resoconto su ciò che imparava.

Non male, per essere un gatto. Non gli ci era voluto molto per iniziare a raccontare le sue gesta e le sue riflessioni, diventando così il gatto più famoso della città. Tutti quelli che commentavano erano certi che dietro al blog ci fosse un umano, persino Marilyn era rimasta piacevolmente impressionata dall’abilità di Jackson con il computer.
“E che ci vuole?” Aveva detto il gatto. “Il linguaggio degli umani non è così complicato, basta solo aver voglia di imparare. Io lo parlo perfettamente, ma il nostro è molto più musicale.”

La sua anziana compagna di avventure era d’accordo. “La lingua umana è così rude.” aveva confermato.

All'inizio del 2020, Jackson si era reso conto che qualcosa era cambiato nel suo umano, infatti non si alzava più la mattina presto a dargli da mangiare e non lo lasciava più da solo in casa. Se ne stava sul divano a dormicchiare e spesso usava il portatile per giocare e per guardare qualche film, si alzava solo per mangiare e per camminare in giro per casa. Non usciva neppure a comprare da mangiare, in compenso però erano arrivati dei corrieri a portare la spesa a casa. 


Jackson era preoccupato perché vista la presenza di Franco a casa aveva qualche difficoltà a usare il computer. Non poteva certo farsi vedere mentre scriveva o sistemava il suo sito. Immaginava che avrebbe presto dovuto chiudere il blog e si chiedeva se i suoi follower non sentissero la sua mancanza. Dopo qualche tempo però aveva studiato un buon metodo per usare il computer anche in presenza dell'umano. Gli era sufficiente aspettare di sentirlo russare, per poi aprire delicatamente il portatile e mettersi a scrivere.

Ogni volta si impegnava a navigare in incognito e usava Marilyn come sentinella, le aveva dato l’impegno di avvisarlo nel caso in cui Franco si fosse svegliato.


L'umano continuava a ripetere che il lavoro non andava bene. Si lamentava tutto il giorno, ma non sembrava che la cosa gli importasse poi molto, visto che si lamentava dal divano, mentre se ne stava lì a grattarsi la pancia e a guardarsi serie TV su Netflix.


Un giorno, Jackson era veramente stanco e decise di vuotare il sacco. “Senti, Franco, io vorrei iniziare a mangiare meglio. Mi pare che tu sia in difficoltà, quindi ho pensato di cercarmi un lavoro.”

L’umano aveva gli occhi sbarrati. Per un po’ non aveva parlato, né era stato in grado di muoversi. Poi gli si era avvicinato e l’aveva toccato come fosse qualcosa di spaventoso.

“Che c’è?” Aveva quindi domandato all’umano. “Guarda che se volessero i gatti parlerebbero tutti. Non pensare neanche a darmi via o a farmi studiare da qualche scienziato a caso, perché penserebbero solo che sei pazzo. Come ogni gatto, so benissimo cosa posso e cosa non posso fare. Lo so che quando parliamo vi spaventate.

 

L’idea di intraprendere una sua carriera era iniziata per caso: un giorno si era reso conto di aver imparato a parlare piuttosto bene il linguaggio umano. Per migliorare Jackson aveva studiato moltissimo i comportamenti umani e, grazie al suo seguitissimo blog su wordpress, aveva iniziato a proporsi in giro. Un po' per gioco aveva deciso di candidarsi per un annuncio di lavoro quando avevano chiesto un web designer. Jackson aveva dato il nome del suo umano e aveva scritto un'ottima lettera di presentazione. Non credeva sarebbe stato possibile, e invece l'avevano preso. Ora aveva dei capi, dei colleghi. Tutti scherzavano con lui come se fosse un essere umano e la cosa gli piaceva molto.

Solo una collega non gli era per niente simpatica, una che gli aveva raccontato di odiare i gatti, che l'aveva preso in giro quando aveva sentito miagolare. La donna non aveva idea che il miagolio venisse nientemeno che dal suo collega: il gatto Jackson.

Fare le fusa lo aiutava a non urlare e a mantenere la calma quando i suoi colleghi si sarebbero meritati solo delle belle strigliate, era incredibile come gli umani fossero svogliati e approssimativi sul lavoro. E sostenevano di essere evoluti. Certo, come no: meglio che ne fossero convinti.


Quando era arrivata la prima busta paga a nome di Franco, Jackson era stato chiaro: da adesso lui e Marilyn avrebbero mangiato meglio, ciò che spettava loro di diritto in quanto gatti. Cioè pesce e carne freschi, e crocchette di ottima qualità come quelle che consumava da piccolo.



Un giorno gli avevano chiesto di fare una riunione su zoom e Jackson si era chiesto come avrebbe potuto fare. Aveva pensato di chiedere aiuto al suo umano, ma quello passava tutto il tempo a dormire e non gli avrebbe fatto fare una bella figura. Aveva tentato di fingere un guasto alla connessione internet proprio durante la riunione, ma i suoi colleghi tenevano molto a vederlo al punto che l'avevano rinviata.

Il punto di svolta era avvenuto quando Jackson aveva scoperto i filtri: aveva trovato il filtro umano, che gli aveva dato un aspetto più accettabile.





Aveva iniziato a usarlo subito e da allora aveva iniziato a partecipare alle riunioni coi colleghi senza troppe remore, felice di essere finalmente un umano ai loro occhi, oltre che alle loro orecchie. 

Jackson era arrivato in soggiorno e aveva trovato l'umano che dormiva. 

"Hey!", L'aveva svegliato di soprassalto. 

Franco non era ancora abituato a sentirlo parlare e aveva trattenuto a stento un grido di terrore.

"Jackson... T-ti serve qualcosa?" Franco gli aveva grattato il mento e per un attimo Jackson aveva rischiato di dimenticarsi perché fosse andato fin lì.

"Ho fatto la spesa, dovrebbe arrivare tra poco. Mettila via per favore, ma portami il pesce." Jackson aveva pensato sia all’umano che a Marilyn: oltre a una valanga di carne e pesce, aveva preso anche della verdura e della frutta per Franco. Una bella confezione di lettiera profumata e del tonno in scatola per ogni evenienza. Non una spesa eccezionale, ma Franco apprezzava molto il tentativo del suo gatto. Gli aveva promesso che un giorno sarebbe stato di nuovo in grado di provvedere al loro sostentamento e avrebbe anche voluto cercarsi un lavoro, ma c'era il Lockdown e il computer era proprietà esclusiva del gatto, a seguito dei loro accordi.


Franco aveva iniziato a fare molta attenzione alla pulizia della lettiera e delle ciotole. Marilyn ogni tanto chiacchierava con l’umano, visto che tanto non c’era più niente da nascondere. Erano in armonia, tutti insieme.


Jackson si faceva chiamare Jack, un nome un po’ meno strano ed era molto apprezzato in azienda per il suo sarcasmo. 

Ormai si era abituato a utilizzare il filtro umano durante le riunioni. Era andato tutto bene, almeno fino a quel giorno...


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Fandom: Originale

Genere: Introspettivo

Partecipa al COWT11 prompt: Dio benedica chi se ne frega.(Achille Lauro)



Solo Camilla



Dio benedice chi se ne frega.

Finalmente Camilla l’aveva capito. Ma quanto tempo ci aveva messo? Anni? Forse sarebbe stato più corretto dire decenni, e aveva ancora tanta strada da fare per riuscire ad accettare il fatto che la perfezione non era raggiungibile da nessuno, tanto meno da lei, che era umana esattamente come tutti quelli che l’avevano giudicata in passato e che continuavano a giudicarla.


La colpa era anche di sua madre, che le aveva sempre fatto pesare il suo non essere come lei l’avrebbe voluta: sua madre, aggraziata ed esile, aveva una figlia così differente da lei che faticava a comprenderla.

Da piccola l’aveva iscritta a un corso di danza classica. Camilla credeva che niente nella vita fosse più noioso di quelle lezioni. Aveva provato a chiedere alla madre di stare a casa, perché avrebbe preferito fare i compiti piuttosto di andare a sgambettare a ritmo e in punta di piedi, per uscirne dolorante e annoiata. Avrebbe desiderato cambiare corso e farne uno di nuoto, di pallavolo o di un qualsiasi altro tipo di danza, purché non fosse quella. Ma la mamma non aveva sentito ragioni, costringendola a partecipare nonostante Camilla avrebbe preferito fare ore e ore di compiti invece di stare lì a farsi ripetere continuamente: schiena dritta, pancia in dentro, alta la testa, basse le spalle e alza di più quella gamba...

L’insegnante del corso poi non le stava per niente simpatica. Parlava con un tono di voce più acuto del normale e sospirava sempre quando la guardava. Come se il resto non fosse stato già sufficiente, l’aveva invitata a dimagrire un po’ dimostrando il tatto di un elefante. Solo da adulta ci aveva ragionato su trovando la situazione al limite del denunciabile.

Quella era stata la prima volta in cui si era sentita inadeguata.



Era riuscita a liberarsi del corso alle medie, dove però i bulletti della sua classe l’avevano presa di mira, le loro parole vuote e sciocche la facevano sentire piccola e sbagliata. Si sentiva brutta e sapeva che i suoi compagni la vedevano così.

Non era grassa, non troppo, non allora. Era una ragazza del tutto normale e a riguardare le sue foto, nell’ultimo periodo, si era stupita di quanto invece fosse sempre stata troppo severa con se stessa.

Poi col tempo alle medie si era convinta che comunque nulla contasse, perché anche se fosse dimagrita nessuno l’avrebbe guardata perché era brutta.

In seconda media, quando aveva avuto per la prima volta le sue cose si era sentita ancora più sbagliata. Un trauma: sangue visibile a tutti sui suoi jeans azzurri, chiari e attillati. Ricordava la vergogna e la paura che aveva provato nel vedere tutto quel sangue, perché la mamma le aveva parlato di ciò che un giorno le sarebbe successo. Anche a scuola l’avevano fatto. Ma il trovarsi in quella situazione l’aveva terrorizzata perché l’aveva esposta al giudizio di tutti i suoi compagni di classe.

Il problema non era stato il sangue, né il dolore costante che aveva iniziato a provare da prima di capire cosa le stesse succedendo. Il problema era che non era mai stata così nuda di fronte ai suoi compagni di classe, e la certezza che loro non avrebbero mai permesso che quella macchia fosse cancellata, perché avrebbero dovuto? Considerato che già la prendevano in giro prima, questo era solo un pretesto in più.


La sua parte razionale le ripeteva che era un evento normale, qualcosa che accade a ogni ragazza e che prima o poi tutte si sarebbero trovate nella sua situazione. Sua madre le aveva confessato che più di una volta si era macchiata e che ci si convive. Tra qualche anno ci riderai sopra. 

E forse aveva ragione, ma non era ancora il momento. Le risatine dei suoi compagni di classe, i discorsi interrotti quando si avvicinava a loro erano pugni nello stomaco, fatti per colpire la sua autostima.


Poi vennero i brufoli. Camilla ne era piena e se ne vergognava. Con sua madre avevano provato ogni tipo di crema e di sapone, trattamenti della pelle, maschere all’argilla, ma niente: i brufoli se ne stavano lì. Camilla invidiava alcune delle sue compagne di classe, che avevano la pelle liscia come seta, o che avevano i brufoli, ma riuscivano a coprirli senza troppi pensieri. Chiamavano una sua compagna di classe grattugia. Forse lo facevano anche con lei. Non aveva idea di quale nomignolo le avessero riservato, ma non intendeva scoprirlo. 

Pensava che avesse qualcosa a che fare con il suo naso, che odiava. Si ripeteva spesso che non appena avesse avuto i soldi per farlo, si sarebbe fatta una rinoplastica per avere un naso che la rappresentasse.

Era il naso a renderla brutta. Invidiava quelle che riuscivano a parlare coi ragazzi, quando lei a malapena rivolgeva la parola ai suoi compagni di classe. 


Alle superiori, Camilla aveva trovato la sua dimensione naturale. Aveva delle amiche alle quali teneva e che le volevano bene, passavano insieme pomeriggi di studio e di pettegolezzi e serate tra loro. Camilla però sentiva sempre di avere qualcosa da dimostrare a loro, per lei era come se la loro amicizia fosse un regalo che le stavano facendo. Spesso si chiedeva come mai passassero tutto quel tempo insieme, perché lei non era speciale per niente.

Non aveva il coraggio di cantare insieme a loro perché non era abbastanza intonata. Non ballava, neanche quando uscivano per andare a ballare, perché nonostante gli anni di corso di danza era incapace di andare a tempo e quando a casa, da sola, si metteva in camera a muoversi a ritmo di musica si sentiva ridicola. Era impensabile per lei anche solo pensare di sentirsi libera di ballare. Stava meglio seduta al tavolo a guardare le borse alle amiche, anche perché loro magari avrebbero potuto conoscere qualche ragazzo, mentre per lei non c’erano molte speranze in quel senso. In realtà sentiva che avrebbe dovuto dire alle sue amiche che quei locali non le erano mai piaciuti.

Ci andava per abitudine, per stare con le amiche e guardarsi in giro, per i preparativi prima della partenza e per le chiacchiere mentre tornavano a casa, una volta uscite. Il tempo passato seduta, da sola e assordata dalla musica non era certo memorabile.


Aveva passato i suoi vent’anni a mascherarsi con le altre ragazze, cercando abiti poco appariscenti che la rendessero simile a tutte le altre, ignorando i suoi gusti personali che non erano del tutto adeguati agli standard generali. Si era concessa solo un cappotto rosso in lana cotta che metteva di rado perché attirava troppo l’attenzione.


A trentacinque anni, finalmente Camilla sentiva di avere imparato a conoscersi e ad accettarsi per ciò che era. Era timida e faceva fatica a parlare? Andava bene così, non era necessario per forza parlare con chiunque le rivolgesse la parola.


Dal suo lettino in spiaggia, rideva, finalmente, al pensiero che per anni non era andata al mare per un motivo che finalmente reputava stupido: la cellulite. E chi se ne frega di un po’ di cellulite, ce l’hanno tutte le donne!

Le dicevano le sue amiche quando la invitavano. Tante donne? Probabile, ma loro no. Loro erano perfette. La pelle candida che si scottava facilmente rendeva le sue imperfezioni ancora più evidenti. Ma ormai non era più un problema per lei.

Non le importava più che la gente la fissasse e lei stessa aveva smesso di cercare i difetti negli altri. Si era resa conto che la sua severità nei confronti di se stessa si rivolgeva allo stesso modo anche a chi le stava intorno. Spesso si era chiesta come facesse Biagio a non vergognarsi ad andare in giro con gli stivali da cowboy o con che coraggio Sonia si mettesse spesso a canticchiare nonostante fosse stonata come una campana. 

Dopo anni si era resa conto di essere sempre stata lei a sbagliare e per questo si era sentita in colpa. Non era compito suo giudicare i suoi amici o gli estranei, proprio come nessuno doveva sentirsi in diritto di giudicare lei.

Non l’avrebbe più fatto, si era promessa.


Ormai non si sentiva più in imbarazzo a cantare, a muoversi a ritmo di musica a modo suo quando era a una festa di compleanno o a vestirsi come piaceva a lei.


Dio benedice chi se ne frega, ed era ora che Camilla lo capisse e cominciasse a sentirsi più libera. Era ora che la smettesse di avere paura di mostrare la sua vera bellezza.


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Prompt: I feel very attacked right now! (Laganja Estranja)

Il prompt è tradotto in italiano, segnalato dagli asterischi (*)

Fandom: originale

Genere: soprannaturale, introspettivo

Partecipa al COWT11



Insonnia 


La maledetta sveglia ticchettava regolare. Gabriele la prese con una mano e la lanciò contro il muro, sbuffando.

Lui voleva solo dormire sereno nel suo letto caldo e comodo, e invece si stava rigirando come un serpente da ore nonostante la stanchezza, nonostante le gocce di valeriana che secondo il suo farmacista avrebbero fatto miracoli.

Non era abituato all’insonnia e non ne aveva mai sofferto, ma da quando sua nonna era morta lui aveva praticamente smesso di dormire.

Si sentiva osservato, era come se il fantasma della sua parente defunta fosse lì a giudicarlo, come da viva la nonna aveva sempre fatto.

 

Non avevano mai avuto un bel rapporto, perché sua nonna aveva la tendenza ad attaccarlo per insegnargli a vivere, così diceva lei. 

 

Secondo lei, Gabriele avrebbe dovuto smettere di uscire con gli amici a divertirsi, farsi assumere in banca e trovare una brava ragazza con la quale avere tanti marmocchi da portare alla bisnonna. 

Ma quello non era il suo sogno.

Un giorno, cinque anni prima che morisse, avevano litigato in modo pesante, irrevocabile.

La nonna gli aveva ripetuto per l’ennesima volta di non sprecare la sua vita con il cellulare, fai qualcosa di utile per una volta, esci e trovati una brava moglie, poi cercati un lavoro serio e smettila di giocare.

Gabriele aveva deciso allora di dirle la verità: quello non era il suo sogno e non lo sarebbe mai stato. Non avrebbe mai avuto una moglie e dei figli, semmai un marito, se la gente come lei glielo avrebbe mai permesso. Lavorava felice e realizzato come grafico e non ci pensava proprio ad andare in banca, non sarebbe mai successo. Le disse che lei aveva sprecato la sua vita, rinchiusa in un matrimonio privo di amore e di rispetto che era peggio di una prigione, una donna senza passioni che viveva solo per abitudine.

Gabriele si era pentito subito del fiume di parole che le aveva vomitato addosso. Ricordava ancora l’espressione severa e delusa della nonna che non avrebbe mai ammesso, orgogliosa com’era, di aver subito l’attacco verbale del nipote, di esserne stata toccata nel profondo.

Dopo quel giorno nulla era più stato lo stesso. 

La nonna sospirava, guardandolo. Non giudicava più apertamente, ma sbuffava spesso e il ragazzo sapeva che non sarebbe mai tornato indietro. La vedeva a Natale e al suo compleanno e lei gli riservava sempre sguardi di pena. Il suo giudizio strisciava fino a lui, facendolo sentire inadeguato e tutto ciò che desiderava era andarsene. 

Aveva provato a parlarne a sua madre, ma la donna aveva minimizzato: È fatta così, è sempre stata così, cosa possiamo farci? Mi ha detto di essere preoccupata per te, lei non ti capisce. Ormai è vecchia, non cambierà più.

Si era allontanato da lei senza guardarsi indietro e da allora aveva ignorato le richieste, anche quelle di aiuto, che arrivavano dalla nonna.

Il senso di colpa arrivava proprio da quell’ultima richiesta, il giorno della sua morte. Forse se fosse andato lui a farle la spesa come la nonna gli aveva chiesto, lei non sarebbe morta.

 

 

Constatando la vittoria dell’insonnia, decise di alzarsi, sconfitto. Uscì dalla sua stanza ignorando la sveglia, che comunque non gli serviva più: erano le quattro del mattino e lui aveva dormito per poco più di dieci minuti? Forse era arrivato a un’ora di sonno totale, poco male.

La sua iguana riposava nel terrario al sole artificiale della lampada, Gabriele si avvicinò al rettile per capire se era sveglio e il suo animale domestico rivolse la testa verso l’uomo, che aveva aperto la gabbia per portarlo con lui sul divano. “Ciao, bella!”

Niente lo rilassava come accarezzare la pelle liscia della sua Lilly. Sperava che la presenza dell’iguana lo aiutasse a rilassarsi per permettergli di dormire almeno un paio di ore prima dell’inizio della giornata.

 

“Non ho mai capito come tu faccia a toccare quella bestia orribile.” Stanco com’era, la voce della nonna gli sembrò reale. Rise al pensiero che gli avrebbe detto proprio quella stessa frase. Scimmiottò, ripetendola, il giudizio indesiderato sulla sua amata Lilly e rispose, ancora mezzo addormentato. “Avresti dovuto provare a toccarla, nonna, è piacevole. E a lei piaccio io perché la scaldo.” 

“Ne faccio a meno volentieri, caro.” Per quanto fosse impossibile, quella era la sua voce ed era nella stanza. Gabriele, pietrificato e più sveglio di quanto non fosse mai stato nell’ultimo mese, alzò la testa per trovarsi di fronte una figura semitrasparente con le fattezze della cara nonna defunta.

 

“Non mi saluti neanche?” Gabriele boccheggiava mentre Lilly si arrampicava sulle sue spalle, pronta a farsi proteggere dal suo umano preferito.

Il fantasma si sedette sulla poltroncina di fronte al divano, le gambe accavallate e un’espressione di disappunto. “Cosa ci fai sveglio a quest’ora? Non credi sia ora di smetterla con queste sciocchezze?”

“Ch-cosa?” 

“Lo sai cosa: ti senti in colpa perché sono morta e ti avevo chiesto di farmi la spesa, sarei morta lo stesso, sai?” il fantasma si fermò un attimo, per poi riprendere vista l’incapacità di parlare del nipote. “Allora, come te lo spiego? Fai bene a sentirti in colpa perché sei stato un nipote assente.”

“Ma nonna… F- Fantasma? Sto sognando?”

“No, non stai sognando. Lasciami finire una volta tanto! Dicevo: non sei stato un nipote modello, tante volte ho chiesto il tuo aiuto e tu l’hai ignorato, perché non sei mai stato capace di fare una gentilezza a tua nonna. Ma non sono morta per causa tua. Avevi le tue cose e io non le ho mai capite. Adesso però quando passo da te sei sempre sveglio a ripensare a quello che mi dicevi, a quanto stavamo insieme da bambino. Ma basta! Quello è il passato e credimi: io sto benissimo adesso. Magari comincia a comportarti bene con chi è vivo, tipo tuo nonno, invece di scaldare la sedia e il serpente! Credo sia ora che tu cambi registro, se vuoi che la tua vita sia migliore.”

Gabriele non riusciva a parlare, osservava lo sguardo severo del fantasma e si sentiva del tutto inerme. “Mi attacchi sempre! La vuoi smettere di farmi sentire in colpa? Da sempre, non sei mai capace di stare zitta.”

“Cosa? Stai dando la colpa a me della tua incapacità di vivere e di dormire? Ma io sono morta, che cosa posso farci adesso, eh? Semmai io mi sento molto attaccata adesso*. Come mi ci sono sentita quella volta, quando abbiamo litigato.”

“Puoi anche smettere di essere così. Possibile che anche da morta tu riesca a comportarti da stronza? A rinfacciare ogni cosa? Dovresti smetterla di ferire tutti di proposito. A me la mia vita piace, escluso l’ultimo mese.”

“Pfff… se non ho imparato da viva a farmi gli affari miei, puoi immaginare quanto ti ascolterò adesso, da defunta. E sai una cosa? Non mi interessa per niente di ascoltarti. Anzi. Si sente attaccato?* Oh, poverino.”

“Ma io…”

“No: niente ma. Metti nella gabbia la tua lucertola e torna a dormire. E da domani sveglia presto e basta scemenze. In realtà sono venuta qui a ringraziarti… ”

“Cosa? Ringraziarmi per cosa?” Gabriele si alzò e rimise Lilly nel terrario. L’iguana protestò timidamente, ma subito tornò sul ramo a scaldarsi. Osservava il fantasma, confuso.

“Un po’ avevi ragione. Ci ho messo anni per dirtelo e alla fine non ci sono neanche riuscita da viva… Ho ripensato spesso alla nostra litigata e devo ammettere che non è stato facile per me ragionare su quello che mi avevi detto. Sul mio giudicare sempre tutti e voler decidere per ogni membro della mia famiglia. Lo sai che ho iniziato a dipingere? Era un hobby che avevo quando ero giovane, prima che mollassi tutto per occuparmi dei miei doveri familiari. Ho ricominciato pochi giorni dopo la nostra litigata. Avrei voluto dirti che eri stato tu a spingermi, ma non ce l’ho mai fatta. Avrei molti più rimpianti se tu non mi avessi mandata a quel paese cinque anni fa. Ho cercato di non giudicare più, di provare a capirvi meglio tutti. Non credo di esserci riuscita, anche perché non ho mai trovato il coraggio di dirti che avevi ragione, e questo è il mio più grande rimpianto.”

Gabriele stava fermo a bocca aperta a fissare il fantasma.

La nonna si mise a ridere. “Voglio solo dirti che dovresti smetterla di sentirti in colpa, perché non è tua. Ma voglio sperare anche che tu abbia imparato dai tuoi errori, perché se provi senso di colpa è perché in fondo mi volevi bene e ti è costato starmi distante. L’hai fatto per te stesso e lo capisco, ma la prossima volta che tuo nonno ti chiederà di accompagnarlo da qualche parte, magari dirai la verità e non inventerai stupide scuse all’ultimo secondo.”

 

“P- Posso toccarti?”

“Non proprio.” La nonna si avvicinò a lui e fece scivolare una mano verso la sua, la mano era eterea, aria.

“Mi dispiace, nonna.”

“Lo so, tesoro. Mi spiace di averti osservato così tanto in questo periodo, ero preoccupata per te, ti vedevo così triste… Ora però capisco. Ti ho osservato tanto e ho visto quanto tu sia felice con quel Marco. Dovresti presentarlo a casa perché tua madre sarebbe felice di sapere che non sei solo. Anche il tuo lavoro, per me era strano, come la tua biscia lì, che non capisco come faccia a piacerti. Però non siamo tutti uguali, e finalmente credo di averlo capito. Adesso vieni, andiamo a dormire.”

Gabriele si diresse verso la camera assieme alla nonna. “Guarda che ti controllerò, sai. Non voglio più sentire scuse. Da domani dormi e non ci pensi più.”

Gabriele annuì, grato alla nonna per essersi rivelata a lui quella notte. Si mise sotto le coperte mentre gli cantava la ninna nanna di quando era bambino.

 

Il mattino seguente, Gabriele si svegliò quando il sole era già alto. Sarebbe arrivato in ritardo al lavoro, ma non gli importava: aveva dormito. Dopo due mesi finalmente aveva dormito.

Non sapeva se la visita della nonna fosse stata solo un sogno, ma si sentiva più leggero, più libero di vivere. “Grazie, nonna.” sussurrò.


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Fandom: Originale

Prompt: transizione (in questo caso i passaggi di stato dell’acqua)

Genere: fantasy 

Partecipa al COWT11



 

La storia di Mui

 

 

Una goccia d’acqua vive in eterno. Muta, cambia, passa di stato, ma rimane sempre lei. Mui era parte di un ghiacciaio da tempo immemore, infatti aveva ormai smesso di contare i giorni e le notti dall’alto del ghiacciaio. Anzi, magari fosse stata in alto perché avrebbe visto il cielo. Dal centro dell’agglomerato di goccioline poteva soltanto chiacchierare e dormire. Non che le dispiacesse il suo stato. Per quanto lo stato liquido fosse molto più divertente perché poteva visitare parecchi posti nuovi, lo preferiva di gran lunga al buio del fondo dell’oceano, dove le gocce d’acqua meno intraprendenti rischiavano di passare l’eternità, incapaci com’erano di passare sopra alle nuove arrivate molto più sicure di se stesse e di evaporare, per ricominciare un nuovo ciclo.

Le era piaciuto essere pioggia, però, ma la sensazione un po’ le mancava visto che il ghiacciaio non accennava a sciogliersi. Sotto di loro c’era una falda. L’aveva scoperto proprio perché le gocce più sotto spesso parlavano con le goccioline del sottosuolo che salutavano con gioia prima di partire per seguire il corso del fiume che partiva con loro. A volte qualcuno tra i cristalli di ghiaccio alla base, i più anziani in quella posizione, riusciva a farsi trascinare via dal fiume di goccioline e se ne andava urlando di gioia e salutando tutte le altre. Mui aveva calcolato che procedendo a quel ritmo non sarebbe evaporata praticamente mai, e forse sarebbe arrivata al corso d’acqua entro duecento anni all’incirca. Bella prospettiva, pensava.

Il brutto dell’essere ghiaccio era la compagnia. Perché intorno a lei c’erano sempre gli stessi cristalli e lei tutto sommato doveva ammettere di essere stata fortunata, perché i suoi vicini erano tutti simpatici. C’era solo un cristallo che passava il tempo a sospirare, chiedendosi quanto tempo ci sarebbe voluto perché lui fosse finalmente libero di andarsene da quella prigione. “E qui siamo sempre noi, non è possibile però… Ci vorranno millenni prima che veda un cristallo nuovo. Io amo viaggiare e invece sto bloccato qui con voi a vedere il sole che filtra a malapena e a sentire la gioia di quelle goccioline che dopo il giro in falda sono pronti a farsi anche un bel giro a fiume. Beati loro, me tapino…”

 

Mui non sapeva quanto tempo fosse passato, ma era certa che fosse estate quando aveva finalmente visto il sole coi suoi occhi per la prima volta dopo tantissimi decenni. Era stata così felice che non si era per niente preoccupata del significato di questo cambiamento. Il primo giorno non si era sciolta, era rimasta lì sul ghiacciaio a osservare il sole del tramonto e poi la notte. Qualche goccia sciolta ancora attaccata ai cristalli quella notte era ritornata ghiaccio. Il giorno dopo, quando il sole era salito nel punto più alto, aveva ricominciato a sentirsi sinuosa e morbida. Era tornata una goccia d’acqua.

“Ciao a tutti, io parto! Ci rivedremo, forse, mi mancherete tutti!” Aveva salutato per poi gettarsi nel fiume. Lì si era messa subito a chiacchierare con una goccia della falda, che le aveva confessato quanto per lei fosse stato orribile passare il tempo sottoterra. “Ho paura del buio, infatti ho cercato con tutte le mie forze di stare sempre dove la corrente era più forte per arrivare fuori il prima possibile. Tutte le altre mi prendevano un po’ in giro, ma ora per fortuna sono fuori e spero andrò a finire in un cristallo, o magari chissà, in  una bottiglia!”

A Mui l’idea di essere bevuta non piaceva molto. Altre goccioline le avevano raccontato con grande entusiasmo della volta che erano state bevute, di come la loro struttura era stata modificata e poi era tornata quella di sempre, me lei preferiva vedere il mondo, soprattutto dopo tutto quel tempo nel ghiacciaio. “No, grazie, io preferisco andare al mare, da lì evaporerò da qualche parte appena possibile.”

 

Lungo il fiume aveva incontrato pesci di ogni tipo, si era posizionata sulla parte superiore per osservare la primavera rigogliosa: i fiori, l’erba verde e gli alberi, numerosi e floridi ai lati del fiume; poi era scesa il più possibile per sentire il profumo della terra, per osservare i pesci che scorrevano guidati dalla corrente e la spazzatura abbandonata lì dagli uomini, doveva ammettere che era più di quanto fosse abituata a vedere, ma dopo tutti quegli anni ferma, finalmente si sentiva viva e felice.

 

Il fiume aveva iniziato ad allargarsi e in poco tempo le goccioline sarebbero arrivate al mare. Mui amava quel profumo: la sabbia odorava di gioia, gli umani si tuffavano felici e il sale si aggrappava all’acqua e viaggiava anche lui seguendo le correnti pronto a cristallizzarsi sulla pelle degli umani, da cui le gocce d’acqua sarebbero invece evaporate.

 

L’idea di tuffarsi in mare tutto sommato non le dispiaceva, anche se non era il suo luogo preferito sapeva che lì avrebbe potuto incontrare gocce molto sagge: anziane che vivevano nelle profondità da anni e che avevano deciso di restare laggiù per sempre, tutte insieme. Ricordava bene che moltissimi anni prima, mentre era lì con loro, alcune gocce delle profondità erano state pescate insieme ai pesci e le aveva sentite lamentarsi mentre tentavano di staccarsi dalla grossa rete da pesca che le avrebbe allontanate dalla loro casa e dalle loro amiche.

Mui si lasciò trasportare dalla corrente fino in mare aperto, per poi trovare una corrente tiepida attraverso la quali ritornare verso la spiaggia. 

“Mi piacerebbe correre veloce insieme a un’onda!” Disse al sale che le si era aggrappato addosso. 

“Con le onde ci si diverte, andiamo!” 

La corrente li aveva spinti con velocità fino alla spiaggia, dove Mui era scivolata sulla cima dell’onda per poi atterrare sulla sabbia, dalla quale era stata riportata in acqua dalla risacca.

 

In quel momento aveva visto un’ombra avvicinarsi: era stata presa dal secchiello che una piccola umana stava trasportando sulla terraferma. “Ora evaporeremo tutte,” sussurrò emozionata una delle gocce.

 

La bambina invece le utilizzò poche alla volta per bagnare la sabbia e modellarla. Quando fu la volta di Mui, la goccia fu posizionata su una delle torri del castello che la bambina stava costruendo. Mui ne ammirò l’architettura pensando che somigliasse a uno dei tanti castelli che aveva conosciuto nella sua esperienza millenaria di viaggiatrice. Osservò la bambina mentre modellava la sabbia, riempiva le formine e spruzzava acqua sulla sabbia perché la sua costruzione non si rovinasse troppo visto che le gocce  in superficie stavano evaporando tutte.


Dopo poco anche Mui sentì la sua transizione allo stato gassoso. Mentre evaporava si sentiva felice, perché era sempre un bel viaggio quello verso il cielo. Osservare il mondo da lassù era una gioia per lei, soprattutto perché dopo tutti gli anni che aveva passato al ghiacciaio non aveva neppure idea di dove fosse. Non era abituata a quelle alte strutture luccicanti che vedeva svettare alte nella città vicino al mare, né alla quantità di smog che sentiva nell’aria da quando era arrivata, ma non vedeva l’ora di vedere di nuovo da vicino una città. Le piaceva l’idea di diventare pioggia, infatti quando incontrò altro vapore e insieme iniziarono a formare la nube, pensò che fosse ora di tornare sulla terra. Non che quella fosse una sua decisione, in quella situazione infatti faticava a decidere quando cadere giù, semplicemente tornava acqua e crollava sulla terra, veloce, fino a quando non si spiaccicava da qualche parte.
A volte, quando era stata più fortunata, le era capitato di diventare neve, e ricordava ancora l’ultima volta che era successo, decenni prima, quando dopo una dolce e lenta discesa verso la terra, si era posata sul ghiacciaio che per molto tempo poi era diventato la sua casa.

Un po’ le mancava, a dire la verità, ma non le sarebbe piaciuto tornare subito ghiaccio.
Entro breve, sarebbe piovuta sulla città che già vedeva sotto di lei. Non sapeva se sarebbe servita ad abbeverare una pianta, se si sarebbe scontrata con il vetro di un’automobile o contro un ombrello. Il suo viaggio sarebbe stato ancora lungo e lei non vedeva l’ora di scoprire dove l’avrebbe portata.

 

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Partecipa al COWT11, il prompt è la citazione (prima frase del testo)
Fandom: Originale
Slice of life, fluff
A Natale siamo tutti più buoni



 A short stranger will soon enter your life with blessings to share.

 

Elisa aveva letto il biscotto della fortuna sorridendo.

Magari, aveva pensato: avrebbe avuto proprio bisogno di una bella benedizione, qualcosa che le migliorasse un po’ l’umore, perché la giornata era stata pessima a dire poco.

Sotto Natale la gente impazziva e lei, che incartava pacchetti al centro commerciale, stava cominciando a pensare che l’egoismo fosse un tratto innato di tutti gli esseri umani.

 

Negli ultimi giorni, presi dalla frenesia degli acquisti degli ultimi giorni, erano tutti di corsa, nervosi e carichi di pacchetti pieni di oggetti di ogni tipo: dalle console tanto richieste dai ragazzi ai profumi di marchi conosciuti,  dai libri più conosciuti alle cornici in legno e in ceramica per custodire i ricordi più belli.

 

Nessuno le lasciava più del minimo necessario per il suo lavoro di volontaria, ma tutto sommato le piaceva osservare gli sguardi amorevoli dei nonni che facevano incartare giocattoli e vestiti per i loro nipoti, e quelli orgogliosi dei bambini che avevano preso i regali per i fratellini più piccoli che ancora credevano a Babbo Natale.

Era proprio a un bambino ad averle passato una grossa scatola contenente una  bambola di pezza. “Ciao! Di che colore mettiamo la carta?”

“È per mia sorella, le piace il verde!” 

“Allora verde con le farfalle? Ti piace?”

Il bambino aveva annuito. “Io sono grande, lo so che Babbo Natale non esiste, ma mia sorella no perché è piccola.”

“È fortunata ad avere un Babbo Natale come te, però, le hai preso proprio un bel regalo!”

Il bambino aveva gonfiato il petto, orgoglioso di se stesso. “Sono stato bravo. La mamma le ha preso una macchinetta col radiocomando come la mia, così possiamo giocare insieme!”

“Brava anche la tua mamma! Nastro color oro, ti piace?”

“Sì!”

“Ottima scelta! Sono sicura che sei un bravissimo fratello.”

“E a te cosa regala la tua famiglia a Natale?”

“A me… Non lo so, la mia mamma e il mio papà sono lontani, li vedrò dopo Natale.”

Il bambino sembrava essersi intristito. Elisa aveva salutato lui e la madre e aveva continuato a lavorare.

Dopo una decina di minuti i due si erano ripresentati al suo banco con una scatola anonima di cartoncino riciclato.

“Ciao! Questa volta che colore facciamo?”

“Ti piace il rosso?” Aveva chiesto il bambino, un po’ emozionato.

“Il rosso è bellissimo a Natale!”

Il bambino aveva battuto le mani, soddisfatto. “Col nastro d’oro!” Aveva esclamato felice.

La sua mamma stava a pochi metri di distanza, sorrideva orgogliosa di quel ragazzino così dolce ed educato.

“Ecco fatto!” Elisa gli aveva passato il regalo. “Buon Natale.”

Il bambino aveva preso dalla tasca una busta. “Che Dio ti benedica!” le aveva detto.

“Il regalo è per te, per aprirlo a Natale. E e questo è il bigliettino.” Il bambino era un po’ emozionato, ma Elisa di certo lo era di più. Aveva sentito un calore improvviso sulla pelle e sapeva di essere arrossita. 

“Ma… N- non dovevi!”

La madre del bambino si era avvicinata e gli aveva posato le mani sulle spalle. “È solo un pensierino, ma Lorenzo ci teneva tanto, ha detto che sei stata gentile. Buon Natale.”

“G- grazie.” Elisa era rimasta a fissare mamma e figlio che si allontanavano, Lorenzo saltellava felice e la madre rideva.

“Buon Natale!” Aveva esclamato, sperando che la sentissero.

Poi si era messa a ridere osservando il pacchettino, ancora emozionata. I biscotti funzionano, e chi l’avrebbe detto.

 

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Slice of life
Prompt: accidia
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As I am


Il cellulare di Claudio aveva vibrato di nuovo e il ragazzo l’aveva osservato per qualche istante prima di decidersi a leggere il messaggio.

 

Hai da fare stasera? Ci troviamo da Fil alle 8. Ci facciamo una pizza?

 

Claudio aveva sospirato lasciando cadere il cellulare sul divano. Sì: una pizza gli andava, ma non aveva proprio voglia di uscire.

Si era buttato sul divano e aveva chiuso gli occhi pensando a quanto quella giornata fosse già stata abbastanza lunga: la sveglia presto, il compito di matematica, il lento ritorno a casa con l'autobus, il pranzo. Non aveva molto da fare, come ogni sabato pomeriggio, e la cosa non gli dispiaceva per niente.

Non pensava di dormire, solo di riposare un attimo e di riflettere. Aveva bisogno di un po’ di tempo per decidere, poi avrebbe risposto al messaggio.

 

Alla fine aveva dormito. Si era alzato dopo quaranta minuti più stanco di prima e aveva osservato di nuovo il cellulare. Ne sentiva la presenza minacciosa che lo chiamava, invitandolo a prendere una decisione. L'aveva ignorato per il momento, voleva mangiare qualcosa.

 

A scuola stavano studiando l’inferno di Dante e lui si era rivisto nel girone degli accidiosi, al punto che aveva sognato di correre a perdifiato, scontando il contrappasso che lo scrittore aveva riservato a chi, come lui, lasciava che la vita gli accadesse intorno senza cercare di ottenere il massimo della gioia dai piccoli momenti di ogni giorno.

C’erano peccati peggiori, di questo era certo. La superbia era peggio, anche l'avarizia. E lui si riteneva un bravo ragazzo nonostante le sue scelte fossero a volte poco comprensibili da chi gli stava intorno.

La sua era una attesa, una vita di piccole rare gioie intervallate dalla noia totale, come per quella serata: Claudio sapeva che se fosse uscito si sarebbe divertito almeno un po', ma non ne aveva voglia. 

 

Poteva prevedere con certezza come sarebbe andata la serata: si sarebbero trovarti da Fil alle otto e mezza passate, perché tra loro nessuno era puntuale. Sarebbero arrivate le pizze, anche quelle in ritardo, e lui si sarebbe seduto a mangiare, a ridere delle battute stupide di Alberto e delle sue imprese amorose. Tutti sapevano che si inventava la metà di quello che diceva, ma le storie, per quanto false o liberamente ispirate a qualche film, erano divertenti e lui le sapeva raccontare.

Anche a Claudio sarebbe piaciuto raccontare qualche storia, riuscire a tenere i suoi amici incollati alle sedie ad aspettare in silenzio, sulle spine, pronti a ridere all’arrivo della cosiddetta punch line.

Ma sapeva anche cosa avrebbe fatto lui: si sarebbe seduto in disparte sul grande tavolo e sarebbe stato lì a fingere che gli importasse qualcosa di tutti i loro discorsi, poi avrebbe cercato una scusa per tornare a casa appena possibile e si sarebbe messo a letto a giocare col cellulare senza impegno, magari pensando a quanto fossero stupide quelle serate senza senso. La pizza gli sarebbe rimasta sullo stomaco e avrebbe passato la notte a rigirarsi nel letto, non gli piaceva neanche quella della pizzeria vicino casa di Fil. Quella vicino a casa sua era molto meglio.

 

Sua madre continuava a ripetergli che si stava lasciando andare, che doveva vivere, uscire, divertirsi. L'adolescenza arriva una volta sola e devi approfittarne. 

Lui sapeva che aveva ragione, ma non gli importava neppure di questo. Saperlo non gli serviva, ma gli bastava a capire che solo lui poteva scegliere come vivere la sua vita.

La sua indolenza non era neppure un problema così grave, c'era di peggio:  non era malato, si comportava bene e  noia e indolenza erano molto meglio di tristezza, paura e solitudine.

In fin dei conti gli sembrava di fare tutto ciò che gli era richiesto: a scuola non andava male, anche se non era il primo della classe e aiutava a casa, sbuffando un po’ come tutti gli adolescenti. Spesso copiava i compiti la mattina, prima di entrare in classe, ma cercava di non farsi trovare impreparato e tutto sommato se la cavava. 

Il minimo che tu possa fare è studiare e andare almeno decentemente a scuola, ma esci un po’… vai a divertirti!

La voce di sua madre gli risuonava nella testa, nel ripensare alle sue parole Claudio aveva fatto roteare gli occhi. Lasciami fare quel che voglio e non preoccuparti.

Ma non ti annoi tutto il giorno a casa?

Sì, certo che mi annoio, ma saranno affari miei? Potrò decidere io cosa fare?

Aveva recuperato il cellulare e tra i messaggi ce n'era uno di sua madre:

 

Ciao Claudio, esci stasera? Altrimenti pizza?


Questa volta aveva esitato solo pochi secondi prima di rispondere:

 

No, sono a casa stasera
Ok per la pizza

Era stato facile scegliere, finalmente aveva risposto all'amico:

 

Scusa, ho da fare stasera, ci vediamo la prossima volta!

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Prompt: Qualcosa che all'inizio è diviso e alla fine è unito. In questo caso, letteralmente, il vaso.


Il vaso


Luca e Tommaso si trovavano dalla nonna in occasione delle vacanze estive. Amavano la sua casa, perché la nonna aveva il giardino e lì sentivano di poter giocare liberamente, anche se la mamma li aveva avvertiti tante volte: se rompete qualcosa a casa della nonna, poi lei si arrabbia sul serio. State attenti con quella palla! Tutto, ma non il pallone vicino alle finestre, per giocare a calcio potete andare al parco! 

Ripeteva sempre la mamma, pregandoli di fare attenzione. Ma sa che i spesso, soprattutto mentre si gioca, non si pensa alle conseguenze. Per questo, quando la pianta era caduta per terra e i due avevano sentito il rumore di cocci rotti, si erano subito congelati per capire quanto la situazione fosse, in effetti, grave.

Fermi, trattennero entrambi il fiato mentre i loro occhi vagavano per il giardino, chiedendosi quando sarebbe arrivato l’urlo di guerra della nonna e se in giardino ci fosse qualcosa in grado di aiutarli a sopravvivere o almeno una via di fuga.

“Oh, no! Si è rotto tutto!” Tommaso aveva parlato a bassa voce, tradendo il terrore per il loro errore di valutazione

Sul pavimento in cemento del retro della casa della loro nonna giaceva il ciclamino viola, contornato da terra e cocci di un vaso in terracotta dipinto con cerchi colorati. Non sembrava essere di grande valore, ma non potevano rischiare: dovevano trovare il modo di nascondere il misfatto.

“Pensi che sia una cosa importante?”

“È solo un vaso, ma sai che le piacciono queste robe… penso che ce la farà pagare… Non so, sembra dipinto, ma non è molto bello…”

Tommaso si era avvicinato lentamente al disastro e aveva tirato un sospiro di sollievo: “Non sono tanti pezzi, forse riusciamo a rimetterlo insieme con un po’ di colla.”

Luca era il più grande coi suoi nove anni di esperienza alle spalle e si sentiva in dovere di formulare un piano d’azione, anzi, era un po’ deluso da se stesso per non aver pensato lui per primo alla soluzione.

“Va bene: io vado dentro a vedere cosa sta facendo la nonna; tu raccogli la terra e la metti nella scatola che c’è lì, attento a non rovinare i fiori. Usa la scopa per il resto della terra. Io torno subito.”

La nonna era impegnata in cucina, canticchiava e si muoveva al ritmo della canzone che Luca non conosceva, era di buon umore, forse anche perché la radiolina analogica gracchiante che aveva in cucina aveva coperto il rumore del disastro.

Luca si rivolse a lei con un sorriso rilassato. “Ciao, nonna, cosa fai?”

“Sto preparando le lasagne fatte in casa per pranzo, tra un’ora e mezza al massimo sarà tutto pronto e mangeremo tutti insieme, anche coi tuoi genitori che sono già per strada.”

Luca cercò di mantenere la calma, ma sapeva di essere sbiancato. “Vengono i nostri genitori? Che bello!” Sperava tanto che la sua esclamazione non fosse risuonata come terrore puro alle orecchie della nonna. Avevano passato quelle giornate di vacanza senza pensare che prima o poi sarebbero dovuti tornare a casa, al punto che avevano perso il conto dei giorni, ma era evidente che fosse già domenica, visto che i genitori sarebbero arrivati per pranzo. Mentalmente, Luca pensò a quanto tempo avessero e, vista l’ora e la distanza, arrivò alla conclusione che potevano farcela.

Camminando con disinvoltura, era scivolato a recuperare la colla mega attack, che la nonna teneva in un piccolo portaoggetti appeso al pensile della cucina che si trovava di fianco alla finestra. Era stato attento ad aspettare che lei si voltasse per nasconderla nella tasca dei pantaloncini con rapidità. Aveva quindi preso due bicchieri dal mobiletto e li aveva riempiti d’acqua. “Ti serve una mano? Che ti mando Tommaso se vuoi.”

“Ma no, tranquilli, voi giocate che se mi serve qualcosa vi chiamo.”

 

Tornato fuori, Luca aveva visto che Tommaso aveva portato la scatola contenente terra e fiori all’ombra dell’unico albero presente nel giardinetto della nonna, in quel momento stava mettendo in ordine i pezzi del vaso.

“Sarà difficile, ho paura che si vedranno le crepe,” osservò, ma era l’unica speranza che avevano. “Almeno speriamo che se ne accorga quando saremo già lontani.” I due si lasciarono andare a una risatina per sciogliere un po’ i nervi, poi tornarono subito seri: era un momento importante.

Era sempre un po’ difficile aprire il tubetto della colla, ma con qualche piccolo sforzo ce l’avevano fatta. Tommaso aveva già iniziato a fare qualche prova con i pezzi, unendoli due a due fino a capire quali fossero i giusti incastri, e soprattutto per capire se ne mancava qualcuno.

Avevano deciso di iniziare con i due pezzi più grossi e di incastrare in seguito i cocci più piccoli. In totale erano una decina di pezzi grossi e qualcuno di più piccolo, non fu per niente facile. “Forse avremmo dovuto attaccare prima quelli vicini, fare metà vaso a testa.” Osservò Tommaso nel constatare che alcuni pezzi non si infilavano negli spazi vuoti tra le crepe, ma ormai era troppo tardi: dovevano fare il loro meglio e sperare che bastasse.

“Non è che potremmo dipingerlo di nuovo?” Aveva proposto di nuovo il fratello minore a lavoro quasi ultimato.

Ma non c’era tempo, anzi, non avrebbero neppure finito di incollare, perché l’automobile dei loro genitori stava imboccando il cancello. 

“Nascondi tutto, svelto!” Insieme avevano riempito la scatola con i pezzi rimanenti e l’avevano nascosta in garage, dietro le biciclette, sul lato più nascosto. Luca sperava che il ciclamino avrebbe retto un po’ di buio e aveva buone speranze visto che sua madre gli aveva detto che era il fiore più forte. Resiste anche all’inverno, ecco perché sono contenta che me l’abbiate regalato per il mio compleanno.

“Dobbiamo incollare il resto prima della fine del pranzo.”

Una volta salutati i genitori, i due iniziarono a darsi il cambio nella missione impossibile di ricostruzione.

Non era strano che i fratelli girassero per la casa, era raro che stessero tutti insieme a chiacchierare nella stessa stanza. Quello che insospettì i genitori era la presenza costante di almeno uno dei due, lì a chiacchierare amabilmente senza lamentarsi. 

“Non so cosa stiate nascondendo, ma fareste bene a vuotare il sacco.” Aveva minacciato la mamma, sussurrando direttamente all’orecchio di Tommaso. La donna sapeva che tra i due c’erano più possibilità che fosse lui a cedere, infatti il bambino assunse un’espressione colpevole.

“Abbiamo… rotto un vaso.”

La donna prese il figlio per il braccio con delicatezza e lo accompagnò in soggiorno. “Che vaso?”

“Quello con le palline colorate, col ciclamino. Lo stiamo incollando.”

La mamma sorrise. “Quel vaso l’avevo dipinto io da bambina. Ma non ti devi preoccupare, non l’avete fatto di proposito. Vi aiuto.”

Insieme si erano diretti al garage, dove Luca cercava di incollare più pezzi possibili. Nel vedere la madre, il maggiore dei due fratelli era sbiancato e aveva quasi fatto cadere di nuovo il vaso. 

“Non preoccuparti, sono qui per aiutarvi.” Luca porse il vaso alla mamma, che lo osservò con attenzione. 

“Bravi, avete fatto un lavoro non proprio perfetto, ma non è male. Continuate a incollare che vado a prendere una cosa.”

I due, un po’ più rilassati, unirono quasi tutti i restanti pezzi alla loro composizione. Purtroppo alcuni non si infilavano perfettamente.

“Dovreste limare quei pezzi, vi aiuto io.” anche il papà era arrivato a dare una mano, con un foglio di carta vetrata aveva iniziato a farvi scorrere sopra i pezzi uno per volta. Nel giro di pochi minuti i restanti pezzi erano stati uniti. Il vaso era tornato un pezzo unico.

“Venite qui, col vaso, che lo finiamo.”

Sul tavolo della cantina, la mamma aveva posizionato un foglio di giornale con sopra alcuni pennelli e una piccola tavolozza nella quale aveva versato dei colori. “Dovete sapere che quel vaso l’avevo dipinto io da piccola. Ormai era tutto scolorito e le dicevo sempre di buttarlo. Mi aveva detto di aver sentito il vaso cadere e di avervi spiati stamattina. Abbiamo apprezzato il vostro tentativo, perché sappiamo che avete imparato una lezione. Adesso con i colori e poi anche con la vernice possiamo renderlo anche vostro.”

I due fratelli si divertirono a colorare il vaso imitando le decorazioni che la loro mamma aveva dipinto più di venti anni prima.
Quando la nonna li andò a chiamare per il pranzo, li trovò tutti a ridere intorno al tavolo della cantina. “Dove sarebbe il mio ciclamino? Sta bene?”

“Sì, l’ho messo fuori in un vaso di plastica, domani lo potrete ripiantare.” La mamma aveva pensato a tutto.

La nonna stava fissando il vaso. “Insomma, pensavo peggio… Meno male che non avete rotto il vetro, potevate farvi male a provare a nascondere anche quello.” rideva, divertita. 

I due si erano resi conto di non essere stati particolarmente furbi nonostante il loro piano a prova di nonna.

Insieme erano andati a pranzo, ancora ridendo.

 

Quel pomeriggio, prima di andare via la mamma aveva mostrato loro come usare la vernice trasparente. “È venuto proprio bene, ora è un’opera di tutti noi, si vedono le crepe, ma vedrete che starà benissimo sul balcone. Potete chiedere alla nonna se vi dà anche un vaso intero, magari. Cosa ne dite?”

“Mi piacerebbe,” rispose Luca saltellando di gioia, mentre il fratello annuiva sorridente.

Avevano rimesso insieme il vaso e conosciuto un po’ di più i loro genitori. Era stata una bella giornata.


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Fandom: Originale
Generi: Sovrannaturale
Avvertimenti: Suicidio/morte
Prompt: esplorazione, casa stregata
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 Via Manzoni 17

 






Pietro Mareschi era intenzionato ad acquistare una nuova casa per la sua famiglia. Ne aveva puntata una in via  Manzoni diciassette che gli piaceva sia per la posizione, era infatti in centro città, che per tutto il resto.

La casa apparteneva a un medico, che l’aveva acquistata direttamente dal proprietario originale ed era praticamente una villa di fine ottocento, con doppia scalinata in legno all’ingresso e mobili di pregio in ogni stanza.

Da piccolo, ricordava che suo padre l’aveva portato lì più di una volta, perché il proprietario, che era anche il suo medico di famglia, era un suo vecchio amico, e con vecchio, intendeva davvero vecchio. Chissà se è ancora vivo, si era ritrovato a chiedersi.

Mareschi ricordava i discorsi del padre, come gli ripetesse di continuo che una casa del genere è uno status symbol.

Con una casa come quella non hai neppure bisogno di vestirti bene e di usare auto di lusso: tutti sanno che chi vive in un luogo così è gente di un certo livello.

Proprio per questo gli dava immensamente fastidio che quel gioiellino fosse al momento disabitato. Sapeva che in giro c’era qualche voce che girava, che qualcuno sosteneva che fosse un luogo abitato dai fantasmi, ma erano sciocchezze e se proprio i proprietari non ci volevano vivere non c’era nessun problema: ci sarebbe andato lui.

 

L’uomo aveva subito dato ordine ai suoi assistenti di contattare il proprietario e di chiedere se per caso il lotto fosse in vendita.

Dopo un paio di giorni era stato chiamato da un’agenzia immobiliare della città che gli aveva spiegato che in effetti la casa era disabitata, ma che il proprietario si era sempre rifiutato di venderla o di affittarla.

“Sappiamo che è davvero un peccato che la casa stia lì: vuota, a lasciare che il tempo la rovini, ma quello non ne vuole sapere di vendere, dice che solo quando sarà morto potremo averla.”

Mareschi aveva reagito male. “Questo non ha senso, fate il vostro lavoro e trovate un modo di convincerlo! O vi fanno così schifo i soldi?” Aveva tuonato. La donna dall’altro capo del telefono aveva balbettato qualcosa di indefinito, imbarazzata dal commento del tutto fuori luogo, ma immaginando di avere a che fare con un possibile cliente, l’aveva salutato, invitandolo a presentarsi per avere le loro interessanti proposte.

Ma Mareschi, il ricco imprenditore, aveva già una casa, non aveva bisogno di una casa. A lui serviva un sogno, un luogo adatto a cambiare classe sociale e a dimostrare a tutti che anche lui ce l’aveva fatta. Lui: il figlio del piccolo imprenditore che aveva iniziato tutto a partire dalla piccola fabbrica di bulloni nella quale Pietro aveva passato la sua infanzia. 

Quella villa era il posto giusto per lui e per la sua famiglia e l’avrebbe ottenuta, prima o poi.

 

Erano passati circa due mesi quando l’agenzia aveva richiamato.

Un uomo dalla voce squillante e dal tono entusiasta gli aveva dichiarato che la villa era sulla piazza. “Purtroppo devo comunicarle che il vecchio proprietario della casa a cui era interessato è deceduto, quindi se le interessa posso farle vedere l’immobile, perché i figli del signor Baldi hanno deciso di vendere il prima possibile. Sa com’è, per dividere l’eredità. Hanno tutti già una casa e di questa non sanno cosa farne… e non tutti hanno buon gusto come lei.”

Era incredibile il tono allegro col quale aveva comunicato questa notizia: nonostante le parole fossero tristi ed educate, si capiva che al pensiero della provvigione l’agente era euforico. Pietro immaginava che gli importassero solo i quattrini, ma per lui non era un problema, apprezzava l’onestà, gli aveva dato quasi più fastidio l’accondiscendenza con la quale aveva sminuito gli eredi del dottor Baldi. “Va bene, voglio vederla.” Poche parole, non ne sarebbero servite di più per diventare il nuovo migliore amico dell’agente immobiliare.

 

Mareschi aveva accettato con gioia malcelata di andare a visitare la villa, si era anche un po’ pentito di non essere stato più bravo a fingersi disinteressato, ma non voleva lasciarsela scappare ed era certo che ci sarebbero state parecchie offerte, oltre alla sua, per acquistarla.

 

L’uomo dell’agenzia gli aveva dato appuntamento per le quindici e quindici. Un orario che a Pietro non era piaciuto molto, lui preferiva gli orari pieni: le quindici, le sedici. Era come quando vedeva i prodotti in offerta nei negozi a novantanove euro e novantanove centesimi. Scrivi cento, tieniti il centesimo di resto e non fingere che sia meno, tutte robe da accattoni che avrebbero fatto il possibile per pagare meno. Lui non era così. Capiva che quello fosse marketing, ma non voleva essere equiparato ai poveracci che dovevano stare attenti al centesimo. No, i prezzi dei ricchi erano diversi e lui, che tanto aveva faticato e lavorato per arrivare a quel livello, voleva che anche i tempi e gli orari si riflettessero allo stesso modo nella sua vita.

 

Una degli eredi del signor Baldi era di fronte al cancello. Si trattava di sua figlia Serafina: una donna spigolosa, pallida e magra, dal fare scattante. Fumava una sigaretta con nervosismo, aspirando forte il fumo e lasciandolo andare con soffi impazienti.

La donna stava confabulando con l’agente immobiliare quando Pietro era giunto vicino a loro, e l’aveva sentita confessare di non voler avere niente a che vedere con la casa. Che se la prenda chi volete, a me basta non dover tornare in questo postaccio. Lo odio. 

Questo dettaglio poteva andare a suo favore nel caso in cui lui fosse stato l’unico offerente, ma in caso contrario significava che alla donna non interessava per niente che la casa andasse a qualcuno di rispettabile, quindi non avrebbe guardato in faccia nessuno: soltanto il denaro sarebbe contato nella loro transazione. Aveva pensato di mettere sul piatto il rapporto dei loro genitori, ma alla fine aveva rinunciato, pensando che tanto non era la tattica giusta per farle cambiare idea.

“Buon pomeriggio,” gli aveva detto con gentilezza Serafina, porgendogli la mano. “Sono la figlia di Roberto Baldi, oggi vi accompagnerò nella visita.”

Pietro sorrideva compiaciuto. “È la prima volta che entro in questo maestoso giardino, non vedo l’ora di fare il primo giro.” 

Serafina aveva emesso una risata stizzita. “Bene: prima volta per te, ultima per me. Non vedevo l’ora di vendere questa amabile, ridente proprietà.” Aveva girato la chiave nella toppa e il cancello si era aperto con un cigolio sinistro.

“Mi spiace per l’erba alta. Avevo chiesto al giardiniere di entrare a tagliarla, ma non ha finito il lavoro per cui l’ho già pagato a quanto pare.”

Il giardino si presentava in uno stato di semi abbandono. Pietro era rimasto a osservarne i dettagli a bocca aperta, ma non gli importava delle erbacce e della sporcizia; Era incantato dagli alberi maestosi, dalle fronde verdi e sane, dal pergolato in legno che si poteva ancora intravedere nonostante la natura  selvaggia avesse cercato di nasconderlo, ricoprendolo di erbacce e la grande scalinata in pietra che si protendeva fino a un terrazzo che presumibilmente si trovava al primo piano della casa.

“Qui c’era un piccolo giardino inglese, le siepi sono soltanto da potare. I fiori ovviamente dovrete ripiantarli, ma la fontana di pietra è ancora funzionante, l’ha provata mio fratello l’altro ieri quando è stato qui a dare le chiavi al giardiniere. La pavimentazione è in ghiaia. A mio padre piaceva così, ma potete rimettere il porfido, lo schema in comune prevede questa possibilità che richiede meno manutenzione. Laggiù in fondo, quel piccolo stabile che confina con la casa è una rimessa che contiene gli attrezzi da giardino e c’è anche una stanza col riscaldamento, vedete voi come usarla. Qui c’è il garage, dietro la scalinata in pietra, vedrete che ci stanno anche tre macchine.”

Serafina si era diretta subito al portone, ma Pietro indugiava in giardino, intento a esplorarne ogni dettaglio: aveva notato una panchina in legno, con la classica vernice verde scrostata, il legno rovinato dalle intemperie; un piccolo anfratto scavato nella roccia, simile a un capitello, ma privo di iscrizioni. Camminando verso la parte più remota del giardino aveva scovato anche due lapidi, appena visibili. Poco gli importava: avrebbe spianato tutto e nel caso ci fossero davvero stati dei corpi lì sotto, avrebbe cementato sopra le due tombe, o magari avrebbe potuto sfruttare la cosa per far parlare un po’ i suoi ospiti dei presunti fantasmi che abitavano lì dentro. Pietro era un uomo razionale, non si sarebbe fatto condizionare dalle credenze popolari, ma sperava che gli altri acquirenti lo facessero per risparmiare un po’ di denaro.

 

Di fronte al portone, Serafina sembrava spazientita, ma aveva finito di fumare la sua sigaretta, almeno. La porta in legno era pesante e spessa, si vedeva che non era stata aperta spesso negli ultimi anni, infatti le giunture presentavano un po’ di ruggine.

La sala all’interno era ampia, ma molto meno importante di come la ricordava: la scalinata di legno in passato era valorizzata dai tappeti, dalle tende pesanti in velluto e dai mobili di gusto antico che decoravano la stanza. Era deluso dal primo impatto, ma restava convinto che fosse la casa ideale per loro. Solo, avrebbero realizzato qualche modifica: sarebbe stata una casa contemporanea, niente anticaglie, niente broccati.

L’ingresso sarebbe rimasto così com’era, degno di una famiglia di buon gusto. Avrebbe sostituito il legno vecchio e scrostato con del marmo, o forse con dell’altro legno verniciato di chiaro come diceva la moda. Avrebbe fatto decidere a sua moglie, del cui gusto non dubitava. La casa sarebbe stata soprattutto un regalo per lei, che non era molto felice di vivere di fianco ai suoceri.

 

“Ho fatto dare una pulita, ma giusto il minimo indispensabile, tanto qui è tutto da ristrutturare.”

Sulla sinistra si accedeva a una piccola stanza, una sorta di sala d’aspetto che conduceva allo studio. Pietro ricordava che il dottore riceveva lì i suoi pazienti e pensava che l’ex studio medico fosse il luogo perfetto per accogliere i suoi ospiti e colleghi.

C’era poi un piccolo bagno di servizio che Pietro aveva guardato con superficialità pensando da subito che comunque nessuno dei bagni sarebbe stato recuperabile. Li avrebbe rifatti tutti. Opposta allo studio, c’era la cucina, completamente vuota che confinava con la sala da pranzo, la più grande della casa, alla quale si poteva accedere sia dall’ingresso che dalla cucina. Un’ottima sala da feste, che al momento poteva contare su un enorme lampadario in vetro di Murano e su un vecchio tavolo di legno pregiato, con intarsi, che Pietro avrebbe potuto vendere a un antiquario.

 

Al piano superiore c’erano due bagni tutti da rifare e quattro spaziose stanze da letto, due delle quali contenevano già degli enormi armadi a muro che, sebbene fossero sporchi, sembravano di valore, forse avrebbero potuto trovare il modo di tenerli anche col nuovo arredamento. Sua moglie avrebbe di certo farneticato che la casa era troppo grande per loro due e per il figlio, ma Pietro sapeva che la donna avrebbe trovato un modo per impiegare le due stanze vuote, magari progettando una camera per gli ospiti e una sala creativa, nella quale la donna avrebbe potuto esercitare la sua passione, dipingendo soggetti troppo complicati perché Pietro capisse il senso della sua arte. Magari avrebbe dedicato una parte della stanza anche al piccolo Guido, il loro unico figlio.

“Da quanto tempo la casa è disabitata?” Aveva chiesto Pietro, curioso.

“Dal 1990, quindi sono passati trentuno anni.” Serafina aveva un tono piatto, sembrava a disagio. “Da quando c’è stato l’incidente con mia sorella.” La donna si era ripresa, come se la sua improvvisa tristezza se ne fosse andata altrettanto di colpo. “Ma continuiamo: da questa scala si accede alla soffitta, a volte ci hanno fatto il nido le vespe, quindi state attenti e controllate. Invece dalla cucina c’è la porta che dà alla cantina.”

L’agente immobiliare era stato zitto per tutto il tempo, ma era evidente che avesse deciso che toccasse a lui parlare. “La cantina? Andiamo a vedere la cantina?” 

Ma Serafina aveva sbarrato gli occhi e scosso la testa con vigore. “No, io ho da fare, ma vi lascio le chiavi, così vi arrangiate voi e se vi va ci andate. Ora devo proprio andare, arrivederci.”

Senza lasciare il tempo di rispondere ai due uomini, Serafina aveva imboccato la porta ed era uscita quasi correndo dalla proprietà, per poi gridare loro dal cancello. “In bocca al lupo, spero che si aggiudichi la casa!” A Pietro.

“Va bene… allora andiamo in cantina?” 

Pietro aveva annuito, un po’ scosso dalla fretta con la quale Serafina li aveva lasciati lì come due stoccafissi. “Ma ci sono i fantasmi in cantina? Che sia vero?” Aveva riso, tutto soddisfatto per la sua battuta.

La scala in legno era ripida e un po’ consumata, ma tutto sommato lì sotto era più pulito di quanto avrebbero potuto immaginare, era come se qualcuno l’avesse visitata più spesso del resto della casa. Forse però erano state le donne delle pulizie a partire dalla cantina per poi rendersi conto di avere il tempo solo per tirare via la polvere grossolanamente.

Non c’era luce, ma i due illuminavano la stanza grazie alle torce dei loro cellulari. La cantina aveva pareti di pietra su tre lati, la quarta però era di cemento grezzo, come stava constatando Pietro mentre faceva scorrere la mano lungo la parete.

Sul pavimento c’era una scatola o forse era una cassa, non ne era sicuro, posta di fronte a una sedia di vimini, per il resto era completamente vuota.

“Quindi ha visto… ehm… come è fatta la cantina. Direi che non c’è muffa, né acqua. Possiamo tornare di sopra?” 

Ma Pietro si sentiva attratto da quella scatola. Illuminando in giro aveva notato qualcosa anche sul pavimento. Si era chinato in ginocchio per capire cosa fosse e gli sembrava cera, come se una grossa candela, o forse tante candele fossero state bruciate lì sotto, sul pavimento. “Che strano, candele…” Aveva sussurrato. Poi aveva alzato il telefono e aveva spostato il coperchio della scatola. Dentro c’erano dei libri per bambini ben tenuti. Un rumore di fronte a lui gli aveva fatto alzare la torcia. C’era qualcosa lì. Aveva tentato di arretrare ed era caduto all’indietro per lo spavento. L’urlo gli era rimasto in gola, avrebbe giurato di aver visto due occhi gialli brillare nel buio. 

L’agente immobiliare se ne stava immobile, schiacciato contro il muro con uno sguardo di terrore negli occhi. Fissava Pietro, per quanto l’uomo gli risultasse visibile con la scarsa luce della torcia. “Signor Mareschi, pensa che possiamo scap- tornare di sopra adesso?” L’uomo cercava di sorridere e di contenere la paura, lo si capiva dal tono basso della sua voce tremante.
“Andiamo, andiamo subito.” Una volta al sicuro dal buio della cantina, Pietro Mareschi aveva ripensato a ciò che era avvenuto al piano di sotto. “Ci sono dei pipistrelli laggiù, spero non siano topi… in ogni caso con la ristrutturazione qualsiasi bestia ci sia, sarà costretta a sloggiare. Però pensavo meglio per l’interno della casa, si vede che non ci abita nessuno da decenni. Offrirò meno” Aveva riso del suo spavento, chiara suggestione, e insieme all’agente aveva lasciato la proprietà.

 

***

 

Era passato un mese da quando aveva presentato la sua offerta per la casa, Pietro era quasi sicuro che sarebbe stato necessario contrattare, che ci sarebbero state altre offerte e i proprietari, per quanto desiderassero vendere, avrebbero cercato di alzare un po’ il prezzo per ottenere il massimo dalla casa nella quale avevano passato la loro infanzia.

Era così convinto che non si sarebbe aggiudicato la casa con la cifra che aveva offerto, che lui riteneva sottodimensionata al valore della villa, che non aveva neppure detto alla moglie che presto avrebbero traslocato. 

Marzia gli aveva proposto di cambiare casa qualche tempo prima e lui le aveva promesso che presto avrebbero trovato il posto giusto nel quale vivere tutti insieme in armonia. 

Pietro amava la moglie e desiderava la sua felicità, d’altro canto era convinto che questa scelta l’avrebbe resa felice. Si sentiva come in un bel film nel quale il marito mostra alla moglie la chiave dorata per la felicità e lei gli appende le braccia al collo, scossa, innamorata e felice in vista del nuovo nido d’amore.

 

Le cose però non erano andata come aveva previsto, infatti l’offerta era stata accettata e sua moglie non aveva preso bene per niente la notizia del suo acquisto. Pietro ci era rimasto così male che si era chiuso in se stesso dopo aver domandato a sua moglie soltanto perché fosse così delusa, quasi preoccupata a causa di questa sua idea.

“Amore, tu mi giudicherai superficiale o solo stupida, lo so… Ma quella casa è infestata dai fantasmi.”

Pietro temeva quella risposta. Era convinto che fossero solo dicerie, ma la sensazione di disagio gli era aleggiata nella mente a giorni alterni e da quando era stato in quella cantina non si era più sentito lo stesso. Ricordava quegli occhi: i due occhi gialli che lo avevano svegliato più di una volta durante le sue notti di solito così tranquille.

In ogni caso non si tornava indietro: la vendita era andata a buon fine e Pietro aveva deciso che, anche ci fosse stato un fantasma, sarebbe stato lui a sloggiare e non di certo loro. 

“Male che vada la rivenderemo.” Aveva proposto, solo per assecondare i desideri della moglie e sicuro che quando avesse ammirato il giardino e la grande scalinata dell’ingresso, anche lei avrebbe amato la loro nuova casa.

Trovare gli operai per i lavori di ristrutturazione era stato più difficile del previsto. Le ditte della città si erano rifiutate di entrare nella proprietà e Pietro si era chiesto come fosse possibile che in tutta la città l’unico a non credere ai fantasmi fosse lui. Del resto non gli importava molto: dal suo punto di vista erano tutte fandonie e se loro volevano crederci e lasciarsi condizionare da qualcosa di invisibile, affari loro. Lui non si sarebbe piegato a certe sciocchezze.

Aveva ingaggiato una ditta che veniva da fuori città, che non si era fatta problemi a entrare nella casa e a ricevere i suoi soldi. È un lavoro onesto, si era ripetuto per tutto il tempo, mentre gli operai stavano in quella casa. Pietro pensava anche che quello fosse un ottimo modo di mettere alla prova i fantasmi, perché se fossero davvero esistiti, e già questo era poco probabile, si sarebbero manifestati con gli operai e in questo caso avrebbero spaventato loro, togliendo ai Mareschi ogni dubbio e convincendoli a rimettere la casa sulla piazza immobiliare. L’uomo però sperava di riuscire a finire i lavori senza intoppi, per tentare almeno di riportare la casa all’antico splendore e recuperare quanto perduto.

 

Durante le sue elucubrazioni si era anche chiesto se non avrebbe fatto bene a buttarla giù del tutto e a ricostruirla daccapo, magari dall’altro lato del giardino, ma era chiaro che fosse una soluzione poco pratica e lunga dal punto di vista burocratico, oltre che estremamente dispendiosa. Poi, però, richiamando la sua razionalità, tornava a giudicare quelle sciocchezze da creduloni per quello che erano: superstizioni.

 

I lavori procedevano lenti. Pareva che agli operai fosse giunta voce dei presunti fantasmi che popolavano la casa e che si fossero rifiutati di entrare in cantina, la stanza dove questi ospiti indesiderati vivevano, almeno secondo i pettegolezzi senza fondamento. Pietro continuava a dubitare della sua sicurezza, ma non avrebbe ceduto: i lavori dovevano essere conclusi, o lui non avrebbe saldato il conto alla ditta.

 

Marzia, dopo una resistenza iniziale, si era decisa a prendere parte attiva ai progetti di rinnovamento e affiancava l’architetto nelle decisioni, con grande gioia di Pietro, che le aveva lasciato libertà di prendere ogni decisione visto quanto si fidava del suo gusto. L’architetto le dava consigli sulle scelte dei materiali più innovativi e dei colori più alla moda, non era difficile arredare una casa senza grossi limiti di budget, ma a lei piaceva fare le cose con attenzione e parsimonia. Aveva scelto di migliorare l’efficienza energetica della casa, senza fare grosse modifiche strutturali. Il giardino le piaceva molto più dell’interno della casa, che riteneva un po’ troppo vecchio stampo per i suoi gusti. Marzia amava le case moderne, con soppalchi in legno chiaro agganciati a cavi d’acciaio, spazi ampi, travi a vista. Lì l’unica stanza che avrebbe potuto soppalcare era l’ingresso, che però era anche la stanza che le piaceva di più e che non voleva cambiare per niente al mondo. Avrebbe solo ristrutturato la scala e rifatto il pavimento, oltre agli impianti ovviamente.

All’inizio il pensiero del fantasma la inquietava un po’, ma dopo aver passato qualche giorno in giro per le stanze aveva dovuto ammettere di non avere riscontrato niente di strano nel periodo che aveva passato in casa.

Aveva trovato il giardiniere senza fatica e per caso, perché il nuovo inquilino del condominio di fronte le si era presentato offrendole di lavorare per lei.

La donna ne era stata felice, visto che temeva che non sarebbe stato semplice trovare qualcuno che volesse lavorare stabilmente in quella casa, le vecchie credenze erano dure a morire, lei lo sapeva bene.

Il giardiniere aveva potato gli alberi, tolto le erbacce e ripulito la fontana. Aveva sostituito la vecchia panchina in legno ormai distrutta con due nuove, più moderne, e aveva posto intorno alla fontana e alle panchine un pergolato con due magnifici glicini che già stavano iniziando a crescere rigogliosi. Marzia adorava il profumo dei glicini e aveva insistito per piantarli nonostante sapesse che quando fossero finalmente andati ad abitare lì la bella stagione sarebbe stata ormai conclusa, anche solo vedere i loro splendidi fiori la metteva di buon umore.

Durante la pulizia del giardino erano tornate alla luce le due lapidi, si trattava di vecchissime tombe che secondo l’architetto erano rimaste solo per ricordo, a guardare le date pareva che fossero addirittura antecedenti alla costruzione della casa. Marzia aveva deciso di lasciarle lì dov’erano, pensando che anche se i loro spiriti fossero stati in quella casa, sicuramente non li avrebbero minacciati se loro avessero dimostrato rispetto. La donna aveva imparato a conoscere ogni parte di quel giardino, era certa che anche il suo Guido l’avrebbe amato.

Stava iniziando a pensare che forse avrebbero potuto essere felici lì, che Pietro aveva fatto bene ad acquistarla e le avrebbe dato una possibilità, desiderava imparare ad amarla.

Marzia teneva molto all'arredamento della sua dimora, ora che aveva deciso che le sarebbe piaciuto vivere lì. Aveva deciso che avrebbe recuperato alcuni dei vecchi mobili che appartenevano al dottore, facendoli restaurare e magari lavorandoci in prima persona. 

In fin dei conti le era sempre piaciuta la pittura e coi pennelli aveva una buona manualità, le mancava imparare qualcosa di nuovo e sentirsi utile alla vita famigliare visto che da quando aveva avuto Guido, per scelta aveva rinunciato al lavoro come fotografa, che amava. Quando suo figlio era cresciuto, la donna aveva pensato di ricominciare, ma loro volevano anche un altro figlio, i soldi non erano un problema col lavoro di Pietro e lei desiderava passare tutto il tempo possibile con Guido. Semplicemente non era successo, almeno fino a quel momento, perché anche finalmente era di nuovo incinta, e l’aveva appena scoperto: il momento perfetto per arredare una nursery con le sue mani, col suo amore di madre e di donna.

Aveva deciso di tenere gli armadi a muro, pezzi fatti su misura che nonostante l’incuria dell’abbandono erano rimasti perfetti. Li aveva fatti smontare e ripulire, poi li aveva verniciati lei stessa. Stessa cosa per il tavolo del salone da pranzo, al quale aveva deciso di affiancare delle sedie moderne, comode, con la seduta in pelle e la struttura in acciaio. Niente tappeti, pavimenti in legno chiaro e mobili semplici dei quali non si sarebbe stancata mai. 

In una giornata di giugno aveva deciso di andare a controllare la soffitta. Non era praticamente stata toccata dagli operai, che avevano rifatto la guaina del tetto senza preoccuparsi di sistemarla. Marzia aveva pensato di andare a ripulirla, le sembrava giusto fare qualcosa da sola per la sua casa, per sentirla più sua, curiosa dei tesori che avrebbe potuto trovare lassù, perché la soffitta è il luogo dei cimeli di famiglia, si sa. Oggetti di scarso valore monetario, che però hanno importanza affettiva.

La soffitta non era lugubre come la cantina, dove aveva giurato che non avrebbe mai messo piede. Lassù Marzia non si sentiva in pericolo. C’era un po’ di spazzatura in giro, che la donna aveva ammucchiato in un angolo, poi avrebbe chiamato qualcuno che la smaltisse insieme al resto dei rifiuti della casa. Non devi affaticarti, né sollevare oggetti pesanti. Le ripeteva sempre il suo Pietro, soprattutto da quando aveva saputo che era incinta. Ma Marzia si sentiva felice e stava bene, sapeva fin dove poteva arrivare.

In una mattinata di lavoro, aveva selezionato e tenuto da parte tre scatoloni, contenenti vecchi abiti e fotografie che col tempo avrebbe ricontrollato e selezionato. Tutto il resto poteva essere buttato.

“Di questi cosa ne facciamo, signora?”

Gli operai le avevano portato due scatoloni che a un primo esame sembravano contenere libri per bambini. “Portateli in soffitta e metteteli sullo scaffale. È l’unico che c’è e ci sono sopra altre scatole. Scendendo portate giù la spazzatura per favore.” Altri cimeli da esaminare, non vedeva l’ora.


***

Si erano trasferiti nella loro nuova casa in novembre, dopo circa otto mesi dall'acquisto. 

I lavori alla fine erano stati portati a termine, anche se c’era stato qualche intoppo. Gli operai si erano lasciati suggestionare dalle storie di fantasmi e si erano alternati più del previsto, ma l'importante era il risultato e nonostante le difficoltà e gli imprevisti tutto era finalmente perfetto.

 

I due avevano mostrato con orgoglio la nuova dimora al loro unico figlio, Guido, che per la prima volta aveva potuto ammirare la sua nuova stanza con il letto da bambino grande. In fin dei conti ormai aveva quasi cinque anni.

Per Guido, la nuova casa era un paradiso. Non era molto più grande rispetto a quella in cui stavano prima, ma era più misteriosa, perfetta da esplorare con le missioni, che erano il suo gioco preferito. Guido avrebbe tanto desiderato avere un fratellino, ma in tutta sincerità ne avrebbe preferito uno già in grado di fare qualcosa con lui, non uno di quelli piccoli e  rumorosi che non sanno neanche stare in piedi come quello che invece stava per arrivare. 

Avrebbe dovuto pazientare un bel po' per potere giocare con lui, ma nel frattempo avrebbe imparato a conoscere bene quella casa.

A Guido non era permesso scendere in cantina, né salire in soffitta, ma il resto della casa gli era completamente accessibile. Poteva stare in giardino solo insieme alla mamma, ma il giardino in quella stagione era noioso: era tutto secco e l'acqua della fontana che gli sarebbe tanto piaciuto spruzzare in giro era troppo fredda per potersi divertire un po'. No, Guido stava molto meglio in casa.

La sua stanza preferita era lo studio di suo padre, che era anche l'unica nella quale aveva l'ordine di non toccare nulla. Guido si sedeva sulla poltrona di pelle imbottita del padre, prendeva una delle sue penne dal portaoggetti sulla scrivania e iniziava a scrivere a modo suo documenti importanti.

Spesso la mamma arrivava e si metteva dall'altra parte della scrivania, gli chiedeva di fargli un disegno e lui la accontentava. Poi gli diceva di firmare il documento e lui, orgoglioso, scriveva in fondo al foglio la lettera emme, l'unica che conosceva. La mamma gli aveva provato a insegnare anche la G- di Guido, ma non gli veniva bene, lei però gli aveva assicurato che presto avrebbe imparato. 

 

La stanza della casa che gli piaceva meno, invece, era nuova nursery, che aveva il grosso armadio col pavimento che cigolava ogni volta che lui gli passava di fianco. Lì dentro faceva sempre freddo, anche se la mamma gli aveva assicurato che non sarebbe stato un problema, che era normale visto che era la stanza con meno sole. Lui non sapeva cosa volesse dire, perché il sole era in cielo ed era ovunque, ma le aveva dato ragione, anche se non era certo che la situazione sarebbe migliorata entro la nascita del suo fratellino.

 

 

Un pomeriggio la mamma l'aveva chiamato per chiedergli un bicchiere di acqua. Era stanca a causa del fratellino nella sua pancia ormai enorme. "Non me la sento di fare le scale adesso, perché mi gira la testa. Per favore, portami un bicchiere di acqua, che poi ti leggo questo libro.  

Guido amava quella storia: c'erano i pirati e anche le sirene, e il tesoro da trovare. Era sceso per le scale felice, diretto in cucina. La casa quando tutto era silenzioso come quel pomeriggio, era ancora un po' troppo misteriosa per i suoi gusti, la mamma gli aveva detto che si sarebbe abituato presto, ma a volte gli sembrava che qualcuno lo guardasse, che respirasse al suo fianco. Succedeva anche durante la notte: si svegliava di colpo e quando si guardava intorno non c'era nessuno.

Quel pomeriggio però qualcuno c'era: un bambino biondo poco più piccolo di lui stava inginocchiato di fianco alla porta. 

"Chi sei?" Gli aveva chiesto Guido, incerto. Il bambino stava in silenzio, le mani strette intorno alle proprie spalle, gli occhi bassi e lo sguardo preoccupato. Guido era confuso. "Sei mio fratello?"

"No... Sono Ludovico, una volta vivevo qui, sono il figlio del giardiniere." 

Guido gli aveva sorriso. Sapeva che il giardiniere viveva nella casa di fianco, ma non aveva mai visto quel bambino. "Allora possiamo giocare insieme, magari domani? Oggi devo portare l'acqua alla mamma che ha sete e poi mi ha detto che mi racconta una storia."

"Domani, va bene. Io tanto sono sempre qui."

Guido era corso in cucina, ma al suo ritorno il nuovo amico non c'era più. Aveva controllato che la porta fosse chiusa ed era tornato al piano superiore.

“Mamma, ti ho portato l’acqua! E sai che ho conosciuto Ludovico!"

"E chi sarebbe Ludovico?" Marzia si era sollevata a sedere posizionando dietro la schiena un cuscino in più e aveva preso una pastiglia insieme all'acqua che il figlio le aveva portato. Uno degli integratori che le erano stati prescritti dal medico per la sua gravidanza ormai vicina al termine.

"È il figlio del giardiniere. Ha detto che domani possiamo giocare insieme!" la donna si era dimenticata che il giardiniere sarebbe stato lì a lavorare quel pomeriggio. Si era alzata con lentezza, un po' incerta nei movimenti, e aveva raggiunto la finestra. Da lì aveva salutato con la mano il giardiniere che stava tagliando i rami secchi di uno dei vecchi olmi che erano rimasti in giardino proprio per richiesta di Marzia, che ne amava l'imponente figura.

"Va bene, allora domani puoi giocare con Ludovico. Sono contenta che tu abbia trovato un nuovo amico."

“Sembra proprio simpatico,” aveva commentato Guido, raggiante, porgendole il libro e sedendosi al suo fianco.

***

Il giorno seguente Guido si era svegliato elettrizzato, in attesa trepidante dell’incontro con il suo nuovo amico. Da quando erano nella casa nuova non era ancora andato all'asilo, la mamma gli aveva spiegato che sarebbe andato in un asilo nuovo dopo Natale, perché avevano cambiato casa troppo in fretta e non avevano ancora il posto per lui. La realtà era che Marzia all'inizio era convinta che non sarebbero rimasti in quella casa per più di qualche giorno e non aveva presentato la richiesta per tempo, ma le avevano assicurato che da gennaio non ci sarebbero stati problemi. Le dispiaceva un po' che suo figlio fosse così solo in quel periodo, ma lo vedeva felice nelle sue battute di esplorazione. Col tempo anche lei si era abituata alle stranezze della loro nuova casa, come il cigolio che faceva il pavimento quando si passava di fronte al bagno, o come gli scricchiolii che arrivavano dalla soffitta. "Mi basta sapere che non ci sono bestie strane," aveva dichiarato con convinzione. 

 

Ludovico era seduto sulla panchina, al freddo del giardino. Marzia l'aveva invitato a entrare, sorpresa dal fatto che non stava neppure indossando una giacca. "Hai freddo? Vuoi che ti presti un maglione?" 

Ma Ludovico aveva scosso la testa, il sorriso aperto sul volto aveva tranquillizzato la donna. "Mi sono dimenticato della giacca, il nonno mi dice sempre che devo metterla altrimenti mi ammalo."

Marzia gli aveva teso le mani. "Fammi sentire se hai le mani fredde, sei pallido." Il bambino si era alzato di colpo. "No, sto bene. Andiamo a giocare!" La madre aveva fatto un cenno d'assenso ai due, che si erano diretti verso la stanza di Guido. Li aveva seguiti in camera, ma poi aveva pensato di mettersi nella stanza di fianco a leggere un libro per lasciarli tranquilli, certa che fossero in grado di giocare senza distruggere tutto. Guido aveva davvero bisogno di un amico e di qualche svago.

"Mamma," la voce di suo figlio l'aveva svegliata di colpo. 

"Guido, scusa, mi devo essere addormentata..." 

"Sì, dormivi. Ludovico mi ha detto di lasciarti dormire, dice che le mamme sono sempre stanche."

"Hai fame? Volete qualcosa da mangiare?"

"Lui è andato via, ha detto che possiamo vederci ancora domani, e possiamo fare un'esplorazione!"

"Oohh! Addirittura un'esplorazione? Ma è proprio l'amico che cercavi! State solo attenti a non ficcarvi nei guai, io domani non mi metterò a dormire, vi controllerò: promesso!"


Il giorno seguente, Ludovico si era presentato in giardino dal mattino. A Marzia  sembrava davvero strano che suo padre lo lasciasse libero di fare ciò che desiderava senza mai passare a prenderlo o a controllarlo. Aveva deciso che alla prima occasione gliene avrebbe parlato, ma doveva ammettere che c'era stato qualche passo avanti, perché almeno questa volta il bambino aveva la giacca, e che giacca: un cappottino di velluto a coste imbottito, di quelli che andavano di moda negli anni ottanta. Marzia aveva pensato che potesse essere del padre, era davvero molto carino. 

 

Guido e Ludovico erano rimasti a esplorare il giardino durante la mattina. Marzia aveva pensato di lasciarli fare, approfittando della giornata serena e tiepida che l'inverno gli stava offrendo.

Li aveva osservati per un po' dalla finestra nascondersi e appostarsi sotto le panchine, dietro le piante, e poi li aveva visti salire la scala esterna per raggiungere il terrazzo al primo piano.

 

"Ehi, Guido, Ludovico! Venite qui se volete una buona merenda!

Guido era arrivato di corsa. "Grazie!" Aveva esclamato, strappando il piatto con la mela dalle mani della mamma. "Ludovico è tornato a casa, ha detto che era stanco, ma dopo torna."


Nel pomeriggio, Marzia aveva visto di nuovo Ludovico fuori sulla panchina. “Suona il campanello quando arrivi, ti apro io!” Ma lui non le aveva risposto, era arrossito, la testa bassa, e poi si era lasciato trascinare dalla presa decisa di Guido, che l’aveva trascinato dentro. I due avevano deciso di esplorare la casa.

Stavano salendo la scala appiattiti sui gradini, nascosti ai loro nemici invisibili. Poi si erano diretti nella stanza di Guido, dove si erano appostati sotto il letto in attesa di Marzia, che conosceva questa abitudine del figlio e aveva lasciato loro un frullato da bere sul tavolino da gioco. “Chissà dove saranno i due esploratori…” aveva dichiarato uscendo, suscitando delle risatine misteriose da sotto il letto.

“Andiamo nell’armadio?” aveva chiesto Guido. Ludovico l’aveva seguito, ma non voleva entrare. 

“Io preferisco stare fuori…”

“Hai paura? Guarda che posso entrare prima io, tu conti i secondi, poi facciamo scambio.”

Ludovico sembrava nervoso. “No, piuttosto giochiamo a nascondino e se vuoi vai nell’armadio.”

I due si erano accordati, Ludovico aveva iniziato a contare sulla parete della porta d’ingresso. L’unica regola era che dovevano stare nascosti in casa, anche se la mamma aveva aggiunto che non dovevano fare niente di pericoloso, regola che i due avevano accettato.

Arrivato a cento, Ludovico era corso verso l’armadio della nursery, dove aveva subito trovato Guido. 

Il bambino aveva corso così veloce che a Guido era parso che fosse volato giù dalle scale. 

“Non correte sulle scale!” aveva urlato la mamma. Ma i due non l’avevano ascoltata.

“Adesso conto io!” Guido era certo che l’avrebbe trovato subito, ma arrivato a cento aveva iniziato a girare per la casa senza successo.

Nello studio aveva controllato sotto la scrivania, nell’armadio a muro, dietro la libreria e nel bagno di servizio, ma niente. Sotto il tavolo del salone e dietro le porte non c’era. In cucina aveva aperto perfino il frigo, eppure non c’era traccia di Ludovico. La porta della cantina però era aperta. La mamma non voleva che lui scendesse, ma lei non era lì, era al telefono con la nonna, sul tavolino all’ingresso a controllare che lui non corresse su e giù per le scale. 

La porta non cigolava, era nuova. Guido aveva iniziato a fare un gradino alla volta e aveva sentito una risata. Accesa la luce, gli era parso di vedere un’ombra, ma sembrava che il suo amico non fosse neppure lì. Poi però l’aveva notato appoggiato al muro, quasi in volo, di nuovo. 

“Tana per Ludovico in cantina!” Aveva urlato, per poi correre verso l’ingresso. Ludovico era lontanissimo, ma era arrivato insieme a lui.

“A me fa paura laggiù, tu non hai paura della cantina?” Aveva domandato Guido all’amico.

“No, mi piace laggiù. Ci sono stato tante volte.”

Guido si era chiesto cosa significasse quel discorso, ma aveva pensato che ci fosse stato prima che loro andassero a vivere lì e, scrollando le spalle, l’aveva invitato di nuovo a giocare.

 

Le visite di Ludovico erano continuate nei giorni seguenti. Il bambino era quasi sempre con loro al punto che Marzia si era chiesta se il giardiniere non li avesse presi per una scuola materna gratuita. Allo stesso tempo però era felice che suo figlio potesse passare il tempo con un amico della sua età.
A darle più fastidio era il fatto che il bambino si presentasse sempre in giardino senza suonare il campanello e a lei non piaceva che il padre gli aprisse il cancello senza chiederle il permesso, sarebbe stato peggio ancora se lui le avesse prese senza chiedere il permesso.

Un sabato, approfittando della presenza a casa di Pietro, Marzia aveva deciso di andare dal giardiniere per informarlo delle visite del figlio, convinta che lui forse non ne sapeva niente. Non le dispiaceva che il bambino entrasse in casa loro quando voleva, ma non le faceva piacere che utilizzasse le sue chiavi per dargli libero accesso a casa loro, non era nei patti e non lo avrebbe più accettato. No: avrebbe suonato il campanello come tutti gli ospiti che si rispettano. La donna aveva suonato il campanello energica, quasi avesse potuto trasmettere la sensazione allo strumento elettronico, ma il suono ovviamente non aveva subito alcun cambiamento. Ad aprirle la porta era stata una donna in compagnia di un bambino.

"Buongiorno, posso aiutarla?" Aveva chiesto la donna.

"Buongiorno, sono la signora Mareschi. Suo marito è in casa?" 

La moglie del giardiniere aveva scosso la testa, incerta. "È un piacere conoscerla, signora, mio marito tornerà stasera, oggi è a lavorare in una serra fuori città. Comunque ci presentiamo: io sono Annalisa e lui è nostro figlio Roberto."

"Piacere, io sono Marzia." Le due donne si erano strette la mano con cordialità. "Sono qui per parlare di Ludovico, non sapevo che aveste due figli!"

L'espressione di Annalisa non era per niente rassicurante. "Signora, mi scusi: noi abbiamo solo Roberto, io temo di non sapere chi sia Ludovico."

Marzia era sbiancata e si era sentita mancare. Il pensiero di un bambino che entrava come voleva nella sua casa con le chiavi le dava fastidio, ma il non sapere veramente chi fosse la faceva sentire persa. "Ma... ma allora c-chi?" Nella testa avevano iniziato a vorticarle pensieri orribili, poi il buio. 

 

 

***

 

Marzia si era svegliata sul letto di ospedale in preda a dolori fortissimi.

Un’infermiera le stava tenendo la mano. Le parlava. “Signora, il bambino sta per nascere, deve respirare profondamente.”

Ma la donna continuava a pensare a Guido, in casa con Ludovico, il bambino che non era il figlio del giardiniere, eppure riusciva a entrare dal cancello senza problemi. “Mio figlio…” aveva sussurrato, il dolore non accennava a diminuire.

“Signora Mareschi, suo marito sta arrivando e il bambino sta bene, è un po’ presto, ma è pronto per nascere.
Lei è svenuta, si ricorda? Ha avuto un calo di pressione, ma per fortuna non si è fatta male perché la sua vicina l’ha presa al volo.”

“G-Guido?”

La donna non sapeva certo chi fosse Guido e non poteva aiutarla, aveva cercato di calmarla sperando che il marito arrivasse il più in fretta possibile, e per fortuna dopo qualche minuto era arrivato, trafelato e rosso in volto. 

“Marzia! Come stai, tesoro?”

La donna gli aveva arpionato l’avambraccio con le unghie, cercando di mantenere il controllo della sua voce. “Dov’è Guido?”

“L’ho portato da mia madre, è con lei.” 

La donna non aveva più parlato e il suo respiro aveva iniziato a regolarizzarsi. Le contrazioni erano dolorose e sempre più frequenti, ma il suo Guido era al sicuro.

“Dobbiamo parlare, Pietro. Domani, domani parliamo.” 

Il marito annuiva condiscendente.“Quello che vuoi, domani ci pensiamo. Ora pensa solo a respirare.”

 

Dopo la nascita di Emanuele, Marzia era al settimo cielo, ma il pensiero del bambino misterioso non le dava pace. Aveva raccontato a Pietro delle visite del bambino misterioso e lui non riusciva a darle ragione. 

“Pietro… e se fosse il fantasma?”

Ma l’uomo aveva riso. “Ma su, non dire sciocchezze, magari è un senzatetto…”

“Oh, bella prospettiva: un senzatetto pulito e profumato che non mangia mai con noi, sempre vestito di tutto punto. Proprio un senzatetto.” Aveva osservato lei.

Dopo tre giorni, quando era tornata a casa, Marzia si era messa a chiamare Ludovico a squarciagola in giro per le stanze, arrivando persino in cantina. Pietro teneva in braccio il piccolo Emanuele, convinto che la donna stesse perdendo il senno. Lui in fin dei conti era una persona razionale. “Vai in soffitta e prendi gli scatoloni che ci sono lassù, sullo scaffale. Portali giù nello studio che dobbiamo controllare tutto.

I due avevano messo il piccolo Emanuele a dormire nella culla al suo fianco.

Nello scatolone con gli abiti avevano trovato dei vestiti della taglia perfetta per Ludovico: maglioncini, pantaloni di velluto a coste e la giacca, quella che Marzia aveva ammirato addosso a Ludovico poche settimane prima. “Questa l’aveva lui, è davvero…”

Un brivido di dubbio stava salendo lungo la schiena di Pietro, che non era in grado di accettare quella realtà così impossibile, ma poi avevano aperto anche l’altro scatolone, quello con le fotografie.
Risalivano al periodo precedente alla fuga se così potevano chiamarla, dei proprietari precedenti. La fine degli anni ottanta, quindi. Ritraevano la famiglia Baldi alle feste i famiglia, tutti insieme. E in una di queste c’era anche Ludovico. Marzia aveva tirato fuori la foto dall’album e sul retro c’era la didascalia: Ludo, Lucia e Sera.

Pietro aveva riconosciuto Serafina, ma in quella foto era sorridente, i lineamenti più rotondi e sereni, il volto rosa e non cadaverico.

Marzia stava per avere un esaurimento nervoso: “Cosa dobbiamo fare? È un fantasma davvero… Come facciamo? Devo andarmene da qui…” Ma la donna sentiva affetto nei confronti di quel piccolo fantasma, pensava che per quanto strano, forse non fosse malvagio. “E se ci stesse proteggendo? Se volesse solo un po’ di compagnia?”

Ma Pietro non aveva mai sentito parlare di spettri gentili e anche se quello era un bambino, avrebbe chiamato un esorcista o chiunque si chiamasse per eliminarlo: era la sua proprietà. Aveva anche paura, ma non voleva ammetterlo neppure a se stesso.

Restava solo lo scatolone coi libri per bambini. Marzia l’aveva aperto e dentro c’erano alcuni tra i più bei libri che conosceva: La storia infinita, il mago di oz, i racconti di Andersen e tutte le fiabe che poteva sperare di trovare. C’era anche Peter Pan in versione illustrata. In bilico sul fianco dello scatolone c’era anche una busta. Marzia l’aveva presa con curiosità. Sul fronte c’era scritto: Ai nuovi proprietari della casa.

L’uno di fianco all’altro, Marzia e Pietro avevano iniziato a leggerla.

 

Cari proprietari della casa,

Sono Fausto Baldi e vi prego di leggere questa lettera fino in fondo.

La mia famiglia è sempre stata unita. Ho cresciuto i miei tre figli con amore e dedizione, dando loro tutto ciò che era in mio potere donare. Purtroppo ammetto ora di avere sbagliato, perché con superficialità li ho resi aridi alla vita e all’amore.

I libri che sono in questo scatolone appartengono a Ludovico, mio nipote. Forse avete già avuto il piacere di conoscerlo, giacché gira in questa casa da decenni nella solitudine. Spero che non vi abbia spaventati come ha fatto con la mia famiglia.

Purtroppo la sua è una storia triste, ma desidero che voi la conosciate.

Ludovico è nato a seguito di una relazione clandestina tra il nostro giardiniere e mia figlia Lucia. L’uomo, tale Antonio Pontelli, è fuggito in un’altra città come un ladro quando ha scoperto della gravidanza di mia figlia. 

Lei non desiderava abortire, ha accolto Ludovico con amore, ma si è ritrovata presto vittima della depressione. I suoi due fratelli non sono stati in grado di capirla. Poco dopo la nascita di Ludovico senza rendercene conto tutti ci siamo allontanati da lei: i suoi fratelli sono andati a vivere altrove, io e mia moglie eravamo presi dai nostri interessi e dal lavoro, oltre che dalla malattia di mia moglie che in quel periodo era appena stata scoperta (questa è un’altra storia). 

Così presi da noi stessi, non ci siamo accorti della gravità del suo stato, al punto che non ci aspettavamo che avrebbe tentato il suicidio. Non sottovalutate mai le malattie come la depressione, sono terribili e chi ne soffre ha bisogno di avere attorno amore e pace.

Lucia è stata portata in un ospedale psichiatrico, nel quale ha passato i successivi tre anni. Quello è stato un altro dei nostri errori: non avremmo mai dovuto lasciarla a se stessa.

Nel frattempo Ludovico è stato cresciuto da noi, che abbiamo cercato di dargli affetto e amore materno. È sempre stato un bambino tranquillo, ma la mamma gli mancava molto, sentiva che lei sarebbe dovuta essere con lui.

Al suo ritorno, Lucia non stava meglio, ma di nuovo noi siamo stati ciechi di fronte ai suoi bisogni. L’ironia della sorte è che io: un medico, non sono stato in grado di comprendere la gravità della situazione.

Un giorno, mentre erano soli in casa, si è chiusa in cantina con Ludovico. Li abbiamo trovati la sera stessa. Deceduti, abbracciati. 

Abbiamo pianto, ci siamo sentiti in colpa, ma poi un giorno Ludovico è tornato.

I miei figli e mia moglie ne hanno avuto paura, ma lui non ha mai fatto niente di male. 

Ho iniziato a scendere in cantina per leggergli le sue storie preferite. Venivo qui ogni volta che ne avevo la possibilità.

Poi mia moglie è peggiorata. Lei non sopportava la vista del fantasma, le causava dolore ricordare quanto negligente fosse stata nei confronti di Lucia. Ne era terrorizzata, così come i miei figli.

Ludovico non farebbe male a una mosca, cerca solo compagnia.

Io ho continuato a visitarlo fino a oggi, ma sento che la mia fine è vicina.

Ora sapete perché non volevo vendere questa casa: non potevo abbandonare mio nipote. Spero solo che voi possiate accettarlo, nel caso in cui lui decida di mostrarsi a voi.

Credo che lo spirito di mia figlia non sia rimasto qui perché lei aveva realizzato la sua vita. Desiderava la morte e l’ha ottenuta. Spero che un giorno anche mio nipote riesca a viaggiare verso la luce.

Spero che lo amiate, come l’ho amato io. Sia in vita che dopo.

Cordiali saluti, 

Fausto Baldi

 

Marzia stava piangendo, commossa dalla storia triste che aveva appena conosciuto. Pietro era immobile e fissava un punto di fronte a lui: Ludovico era fermo di fianco alla libreria, la testa a osservarsi la punta dei piedi.

“Ludovico, vieni qui.” L’aveva chiamato Marzia. Suo marito era indietreggiato di qualche passo nel vedere il caschetto biondo del fantasma scuotersi mentre annuiva. “Lo sai che sei un fantasma?”

Ludovico, sempre in silenzio, aveva fatto pochi passi verso di loro, poi si era fermato e aveva annuito di nuovo.

“Non avere paura, vieni qui.” Marzia sentiva che le parole di Fausto Baldi erano sincere e non aveva più paura. 

Il bambino era a un passo da lei. “Io… ho provato a cercare la luce. Il mio nonno me l’ha detto tante volte, ma la luce non c’è, io non la vedo.”

Marzia l’aveva abbracciato. Era la prima volta che lo toccava. All’inizio era stato strano, ma poi aveva sentito una sensazione di calore arrivare da dentro di lei. “Non preoccuparti, non vogliamo che tu te ne vada.”

Pietro era fermo a bocca aperta dietro di loro. Lo sguardo a metà tra il terrorizzato e il truce. Non sapeva cosa dire.

“Ludovico, vuoi farci del male?”

Il bambino aveva sbarrato gli occhi. “No! Io… voglio… una mamma.”

Marzia lo sentiva. Sapeva dentro di lei che il piccolo fantasma non le stava mentendo. “Allora bentornato a casa.”

Non sarebbe stato facile, ma Marzia era sicura che ce l’avrebbero fatta. 

 

 

 

 

 

Non l’avevano mai capito, fino ad allora. La sua vecchia famiglia, i Baldi, erano sempre scappati terrorizzati da lui, tutti tranne suo nonno. Lui andava a trovarlo spesso. Arrivava in cantina, si metteva sulla sedia e accendeva le candele, poi gli raccontava le storie, ogni volta una nuova. Quando un libro finiva, gliene portava un altro. Gli aveva anche insegnato a leggere. “Non crescerai più di così, ma puoi iniziare a comportarti da bambino grande: potrai leggere le tue storie da solo quando io non ci sarò più.”

Avrebbe tanto voluto mostrarsi alla zia Serafina, ma lei non voleva proprio vederlo, l’unica volta che si era mostrato, la zia gli aveva lanciato addosso tutto quello che aveva trovato a portata di mano e se n’era andata urlando.

La sua nuova mamma, Marzia, aveva apparecchiato la tavola per quattro, anche se sapeva che lui non avrebbe mangiato era certa che avrebbe apprezzato il gesto. Sarebbe sempre rimasto così: ragazzino di cinque anni che desiderava solo avere una famiglia, un amico con cui giocare e una madre che gli raccontasse le storie. Proteggeva quella casa da quando era morto e avrebbe continuato, anche se non sapeva quando avrebbe finalmente visto la luce. L’aveva invocata tante volte, ma non negli ultimi giorni, non da quando aveva di nuovo una famiglia.

Ludovico sapeva solo che il nonno gli aveva sempre ordinato di non farsi vedere da nessuno che non fosse lui e che quando aveva smesso di andare a trovarlo si era sentito tanto triste. Per mesi aveva resistito: si era nascosto agli occhi di quelli nuovi osservandoli mentre la sua casa mutava. Aveva osservato quanto tenevano  alla sua casa, aveva sentito l’amore di Marzia per Guido e l’aveva desiderato anche per sé. Conosceva la solitudine del suo amico, privato dell’asilo e della presenza dei suoi coetanei, perché era la stessa che sentiva lui, quindi aveva deciso di iniziare a mostrarsi.

All’inizio aveva avuto paura di loro, i vivi sono strani e a volte reagiscono male. Ma dopo decenni da fantasma aveva imparato a controllare bene il suo corpo e sapeva come funzionava.

Sapeva di essere il figlio del giardiniere e di Lucia Baldi e sapeva che sua madre non l’aveva mai voluto. Piangeva sempre, poi una sera l’aveva portato in cantina e lì avevano smesso di piangere. Avevano smesso di vivere, ma non ricordava come fosse successo.

Con i Mareschi, Ludovico era finalmente di nuovo parte di una famiglia, li avrebbe protetti e accompagnati alla vecchiaia come solo un fantasma può fare. Vegliava su di loro la notte, cantava cantilene al piccolo Emanuele e non viveva, ma era felice, alla fine.
Il nonno aveva ragione: non avrebbe dovuto rinunciare alla gioia solo perché era morto.

 

quistisf: (Default)
Avvertimenti: morte 
Fandom: originale
Generi: horror, introspettivo, sovrannaturale
Partecipa al COWT11
Prompt: Sereno/Oscurità

Questa storia è ispirata a un luogo che frequentavo da ragazza, un rifugio chiamato Posa Puner, un luogo fresco e affascinante in alto in montagna. Ovviamente quel luogo ha ispirato solo l'ambientazione, non la storia in sé, che è pura fantasia.
Ho deciso di farne un capitolo perché la cosa stava andando un po' troppo per le lunghe, spero di concludere la storia entro la fine del COWT

Forza team Meridian!





Di pozze e di fobie






Stefania aveva sempre avuto paura del buio.
 

Fin da piccola, quando ricordava che suo cugino Simone la prendeva in giro e le faceva scherzi di cattivo gusto, chiudendola nell’armadio o spegnendo la sua lucina portatile per dispetto quando lei si distraeva o quando stava per addormentarsi.

Suo padre le aveva regalato una torcia ricaricabile, che lei portava sempre con sé, e un portachiavi con una lucina a LED per essere pronta a ogni imprevisto. Quando poi aveva avuto il suo primo cellulare si era procurata subito un caricabatterie esterno e aveva sviluppato una dipendenza dalla funzione torcia.

I suoi genitori l’avevano portata da diversi psicologi nel corso degli anni, ma nessuno di loro aveva svelato il mistero e Stefania, nonostante fosse una persona molto razionale, continuava la sua vita convivendo con il costante terrore del buio. Da donna adulta confessare questa fobia le sembrava quasi un’ammissione di stupidità, infatti cercava sempre di evitare situazioni che l’avrebbero costretta a dare spiegazioni.

 

Non aveva potuto nascondersi con Michele, però. Non dopo che avevano iniziato a vivere insieme. Si frequentavano da ormai quattro anni e lei era stata bravissima a non trovarsi mai al buio con lui, aveva usato ogni arma in suo possesso per evitarsi situazioni pericolose, come quando lui l'aveva invitata a vedere la luna e le stelle cadenti sotto il cielo d’agosto, e lei aveva avuto un gran mal di stomaco o quando le aveva proposto di andare in montagna a passare le vacanze in una cascina isolata, ma lei aveva appena acquistato una splendida offerta per un paio di notti in un centro benessere in città.


Michele aveva pensato che ci fosse qualcosa che lei non voleva dirgli, ma aveva anche capito che lei non desiderava parlarne e le voleva lasciare la libertà di esporsi coi suoi tempi. Forse riteneva una perdita di tempo il guardare le stelle, forse preferiva le feste o le luci della città alla montagna solitaria e silenziosa.

"Devo confessarti una cosa, sediamoci." Stefania, seria come raramente l'aveva vista, l'aveva invitato ad accomodarsi sul divano e si era messa di fronte a lui, sulla poltroncina gialla che insieme avevano scelto pochi giorni prima.

"Devo preoccuparmi?" Si chiedeva se fosse incinta, o malata, o se si fosse già resa conto che la loro vita insieme non aveva futuro.

"No, è una cosa mia...  Non è grave, ma è una cosa che n-non..." Stefania era in difficoltà. Con un’espressione truce aveva preso fiato e stretto i pugni per darsi coraggio, evitando di sentire le lacrime che sembravano essersi fatte largo sul suo viso. "Ho paura del buio. Non posso stare al buio,” gli aveva confessato tutto d’un fiato osservandosi i piedi con vergogna.

Lui era scoppiato a ridere, si era immaginato chissà quale segreto e non gli pareva niente di grave. 

“Eh, va bene, mi dispiace,” aveva cercato di minimizzare.

La reazione di Michele però aveva indotto in Stefania un pianto disperato, resosi conto del problema che aveva causato, Michele si era avvicinato a lei cercando di consolarla e l'aveva stretta a sé. 

“Mi dispiace, non so come fare. Scusa!”

“Ma su, non è grave, stai tranquilla, la supereremo insieme.” L'abbraccio sembrava aver sciolto la tensione di Stefania, che dopo qualche minuto di pianto finalmente stava ricominciando a respirare con tranquillità. 

Avevano deciso insieme che avrebbero tentato una terapia d’urto: sarebbero andati in campeggio. Stefania aveva avvertito un brivido quando quella parola era stata pronunciata per la prima volta dal suo compagno, ma non ci aveva voluto pensare troppo: avrebbe fatto ciò che sarebbe servito per diventare finalmente autonoma, per superare la sua fobia.

 

Stefania non aveva praticamente niente per il campeggio, quindi avevano iniziato la loro avventura direttamente dal negozio, dove avevano acquistato una tenda, un sacco a pelo, una grossa torcia con la carica manuale - giusto per sicurezza, perché Stefania sperava di riuscire a superare la paura, ma non aveva intenzione di passare la notte intera a piangere terrorizzata nella tenda, soprattutto senza il suo fidato cellulare - un pentolino elettrico e un aggeggio che si chiamava accumulatore o qualcosa del genere, per cucinare qualcosa senza corrente.

Michele, che da grande amante dei campeggi non vedeva l’ora di tornare a farne uno, era elettrizzato: “Non serve che andiamo in mezzo al bosco, visto che hai paura, ma conosco un posto che pare una meraviglia e non è neanche molto distante da qui: è consigliato per le famiglie con bambini piccoli, vicinissimo a un agriturismo con ogni comfort possibile e a un campeggio attrezzato con i bungalow. Così se vediamo che non te la senti, possiamo passare la seconda notte sempre vicino alla natura, ma in un ambiente più controllato.”

Era convinto che lei si sarebbe resa conto che la sua era una paura irrazionale e che, grazie alla forza che lui le avrebbe trasmesso, insieme avrebbero superato tutto.

 

Erano partiti la mattina presto sotto il sole già torrido della città.
Stefania si era stupita nel constatare la quantità di automobili in fila per la montagna. Avevano fatto chilometri a passo d’uomo e lei cominciava a sentire un gran bisogno di andare in bagno. Era abituata ad andare al mare, ma quella strada non le era nuova. Il muretto, la rete lungo la collina e in particolare un’insegna lungo la strada le erano in qualche modo risultate familiari. “Io sono già stata qui, su questa strada.” Aveva dichiarato dopo un lungo viaggio nelle sue memorie infantili. “Solo che non ricordo niente.”

Era davvero possibile che fosse stata su quella montagna? Non sarebbe certo stato impossibile, in fin dei conti non era così distante da casa ed era una meta piuttosto conosciuta, era probabile che da piccola i suoi l’avessero portata lassù per una scampagnata in mezzo alla natura. Forse a vedere le mucche o magari per un pranzo al rifugio. Eppure, per quanto cercasse nella sua memoria, era certa di non essere mai stata in montagna in vita sua. Loro erano una famiglia da mare, al massimo da lago.

 

Quell’insegna però: il rosso sbiadito con il nome del rifugio in bianco e il cerchio azzurro sul retro non le era nuova. Era brutta, non era possibile che ce ne fosse un’altra  uguale.

Posa al bosc. 

 

- Mamma, che vuol dire posa?
- è il laghetto nel quale bevono le mucche e gli uccelli

- e perché manca la o finale a bosco?

- Perché è scritto in dialetto

 

Il dialogo le era tornato in mente quasi come un sogno, un momento impossibile che non riusciva a mettere a fuoco, ma insieme aveva sentito un brivido freddo salirle lungo la schiena. Aveva abbassato l’aria condizionata scuotendo la testa: era soltanto spaventata in vista del campeggio, tutto lì.

 

Il sole picchiava forte anche se la temperatura della montagna era molto più bassa di quella della città. Il parcheggio del rifugio brulicava di automobili e di gente che correva qua e là. Stefania era scesa dalla macchina un po’ titubante, cercando di scacciare il ricordo della croce cementata in cima alla collinetta, di fianco al rifugio, e dell’ombra maestosa che questo proiettava verso di loro. Non capiva da dove arrivassero questi ricordi freschi e allo stesso tempo nebulosi, ma non le piaceva quello che stavano riportando a galla.

Michele aveva caricato il suo grosso zaino da campeggio sulle spalle e sorrideva felice stringendo gli occhi accecati dal sole. “Andiamo? Montiamo la tenda e torniamo qui, che ne dici?”

Stefania aveva annuito, poi si era messa in spalla il borsone e aveva iniziato a camminare al fianco del compagno.

“Io sono già stata qui.” aveva ripetuto con un tono preoccupato che il ragazzo non aveva colto.

“Anche io, tante volte, poi ti faccio fare un sentiero bellissimo da quella parte, si vedono sempre i cervi…” Michele aveva continuato a parlare per tempo indefinito di funghi, di more e di volpi, per poi cominciare a decantare le meraviglie dei fiori di montagna e le delizie del rifugio dove sarebbero andati a cenare insieme quella sera. Nonostante il cielo fosse così limpido e pulito, nonostante gli uccellini continuassero a cinguettare amabilmente e le cicale col loro frinire coprissero il silenzio per lei quasi innaturale, l’inquietudine aveva iniziato a crescerle dentro. Un sentimento primordiale di paura si stava facendo spazio in lei, che sembrava non riuscire a pensare ad altro che alla fuga. Era stata una pessima idea

“Sia- Siamo al sicuro quassù?” Aveva chiesto interrompendo il monologo di Michele, che si era fermato a osservarla accigliato, con una mano a proteggere gli occhi dal sole. “Ma certo, non preoccuparti, ci sono io!”

Dopo qualche minuto di camminata erano arrivati al punto che Michele aveva scelto per loro: uno spazio delimitato da quattro numeri, vicino al bagno messo a disposizione dal campeggio.

 

Le aveva aperto la sedia da campeggio perché se ne stesse comoda mentre lui era impegnato a montare la tenda. “Vedrai che staremo benissimo. Conta anche che stanotte c’è la luna piena, non sarà del tutto buio. Vedrai che la luna in montagna è ancora più bella che in città e potremo vedere le stelle insieme.”

Un incubo. Per Stefania quella prospettiva era simile a un incubo. Aveva stretto la presa sul suo cellulare, in quel momento attaccato al caricabatterie solare che aveva acquistato senza motivo, visto che non sembrava funzionare. 

Finito di costruire la tenda, Michele l’aveva portata a dare un’occhiata ai bungalow del campeggio. Una decina di casette con porte, mura ed energia elettrica che le sembrarono un vero paradiso nell’inferno nel quale si era cacciata.

“M- Ma… non potremmo prenderne uno? È più comodo, no?”

Il sorriso sincero di Michele si era spento all’improvviso. “Non vuoi proprio provare a fidarti di me? Sono stato qui e sono sopravvissuto, posso aiutarti.”

Lui non poteva capire. La fobia non faceva parte di lui e non c’era verso per lei di convincerlo a comprendere quanto per lei invece fosse difficile essere lì in quel momento, quanto desiderasse scappare.. Senza contare l’assenza del bagno e dell’acqua potabile che per lei era una sciocchezza. Ma perché gli uomini amavano così tanto mettersi in condizioni meno agevoli. Il progresso esisteva per rendere le loro vite migliori, perché non sfruttarlo?

Stefania aveva tentato di sorridere. “E va bene, ma se stanotte dovrò andare in bagno, verrai con me.” 

Michele l’aveva attirata a sé, sollevandola dalla sedia. “Fidati di me,” aveva sussurrato sfiorandole il viso. “Non ti metterei mai in pericolo.”

 

Lo sapeva, altrimenti non sarebbe mai andata a ficcarsi in quell’inferno travestito da paradiso. Mentre il suo compagno la viveva come una splendida vacanza, per lei quella era una prova estrema da superare, il suo passaggio finale all’età adulta. Si immaginava a dire a una sua futura figlia che avere paura del buio era sciocco, che anche lei un tempo temeva l’oscurità, ma che non era più così. E allora le avrebbe proposto di provare anche lei.

 

Avevano pranzato coi panini che avevano preparato prima di partire e poi avevano fatto una lunga camminata nel bosco. Stefania era stata costretta ad ammettere che in effetti l’atmosfera tranquilla della montagna stava facendo effetto sui suoi nervi. La paura che aveva sentito addosso quella mattina aveva lasciato il posto alla curiosità e al desiderio di conoscere meglio quel luogo pulito. Di esplorare, respirare, guardare il mondo sotto di loro che scorreva accelerato rispetto alla montagna. Doveva ammettere che quel luogo aveva una certa attrattiva. 

 

Erano risaliti sulla collina che ospitava il rifugio dal lato opposto a quello da cui erano arrivati con l’automobile. Una salita ripida, ma tutto sommato affrontabile. Arrivati in cima, la brezza fresca pomeridiana le aveva causato un brivido. La temperatura era scesa più rapidamente del previsto.

“Vuoi che vada a prenderti la giacca? È rimasta in macchina, vero?”

Michele era sempre stato un osservatore, dote rara, e lei amava sentirsi coccolata dalle sue attenzioni. “Grazie, amore.” 

“Aspettami qui, o se vuoi vai verso l’ingresso. Io arrivo tra poco.”

L’aveva osservato scendere veloce la collina, quindi si era diretta verso l’ingresso. Solo in quel momento l’aveva vista: la posa. Una pozza, in pratica. Ai suoi occhi un piccolissimo, microscopico lago.

Quel colore sporco, verdastro, e il recinto. Si era voltata di scatto a osservare l’ingresso del rifugio: la doppia porta in legno consumato dal tempo, la stalla sul lato e la pavimentazione di fronte alla porta in ciottolato. Lei era già stata lì. Nausea, paura. Stefania sentiva di essere molto vicina a perdere del tutto il controllo di sé. Respirava, lenta, come se stesse facendo yoga. Il tocco della mano di Michele sulla sua spalla l’aveva fatta urlare. Stefania aveva iniziato a ridere, gli occhi le lacrimavano senza che lei riuscisse a fermarli, ma sperava che lui credesse che erano lacrime dovute al troppo ridere. “Scusa, non riesco a smettere.”

 

- Perché non posso entrare nel lago per fare il bagno?
- Perché quella è l’acqua da cui bevono le mucche. Tu non sei una mucca, sbaglio?
- Ma non posso neanche entrare? Perché hanno messo il recinto? Io se voglio ci passo.’
- Non lo farai, perché se ci provi e cadi lì dentro io non ti faccio salire in macchina. Resti qui, sei avvisata.

- Se resto qui posso pettinare le mucche?

 

Un ricordo sereno, che una volta messo a fuoco l’aveva fatta sorridere.

Era grata a Michele per avere insistito a portarla lassù, le sembrava di star recuperando pezzi del suo passato che altrimenti non avrebbe mai più ricordato. Spesso le era capitato di avere dei déja vu che non era in grado di spiegarsi e quando era stata dall’ipnotista lui le aveva confessato di non avere idea del motivo di quel suo blocco così totale. Michele stava riuscendo a riportare alla luce quel passato che lei aveva cancellato. Non soltanto lei, anche i suoi genitori.

La cosa la inquietava. Perché i suoi, così razionali e trasparenti con lei, le avevano sempre detto di non essere mai stati insieme in montagna? Forse era stato solo un pomeriggio come un altro. forse però era successo qualcosa di terribile. Stefania era terrorizzata, ma doveva sapere. La determinazione si stava facendo spazio in lei, sostituendo la sua convinzione primordiale di fuggire da quel luogo così calmo.


La coppia era andata a cenare al rifugio. Michele aveva detto il vero: il cibo era fantastico,  semplice, rustico, ma degno di un ristorante stellato.

“È anche per l’aria, sai? Qui l’aria è diversa, pura. Fa cambiare il sapore a ciò che mangiamo.”

Stefania aveva annuito convinta. “Domani a pranzo torniamo. Anzi, a colazione.” Sorrideva, ma il ragazzo aveva notato la sua inquietudine. “Senti, ma tu quante volte sei venuto qui?”

Michele aveva alzato lo sguardo sul soffitto, concentrandosi per contare. “Direi almeno una ventina? Forse anche di più.”

“E non ci sono leggende su questo posto? Qualcosa che magari in passato è successa, storie di cronaca?”

Michele era rimasto a bocca aperta, domandandosi cosa le stesse passando per la mente. “Leggende, non so, forse… Mi pare qualcosa sull’arca di Noè, ma credo sia una sciocchezza. Poi so che qualcuno ha parlato di Draghi, se ci credi, boh… io non penso, e non è neanche qui, ma tutto da un’altra parte. Ma cronaca, non credo. Non mi ricordo sinceramente, forse potresti chiedere a quello del rifugio, magari ha delle storie.”

Stefania si era illuminata. “Questa è un’ottima idea!” Si era alzata di colpo lasciandolo lì a domandarsi a cosa fosse dovuto questo suo improvviso cambio di umore.

 

 

La piccola Stefania era rimasta affascinata dalla montagna, al punto che i suoi genitori si erano chiesti come mai fino a quel momento non ci fossero mai andati. Entrambi preferivano il mare, ma un po’ di aria pura avrebbe di certo fatto bene alla loro bambina, questo era certo. 

Stefania era attirata dalla posa in modo quasi magico. Era abituata all’acqua: al mare verde e alle alghe, ai laghi contornati da giunchi e bambù. Ma mai aveva visto una posa. Una pozzanghera gigante. Nella sua mente da bambina si continuava a chiedere come fosse possibile che lì ci fosse ancora acqua. Immaginava fosse più profonda di quanto sembrava e una parte di lei ne era terrorizzata, ma si sentiva attratta da quel minuscolo specchio d’acqua al punto di non riuscire a pensare ad altro. Persino a cena, seduta su una delle panche fuori dal rifugio, aveva continuato a fissarla.

Stefania sentiva un richiamo fatto di campanelli, ma quando aveva detto a sua madre che lì sotto c’erano le fate, lei si era messa a ridere e le aveva fatto notare i grossi campanacci appesi ai colli delle mucche che giravano oltre il recinto, vicino alla posa.

La bambina si era risentita, perché conosceva bene la differenza tra il trillo di un campanellino e il rumore basso e sordo di un campanaccio. 

Era stato in quel momento che suo padre le aveva confessato che quella notte avrebbero dormito lì. Stefania era saltata sulla sedia, felice di potersi svegliare il mattino dopo e di avere ancora la possibilità di osservare la posa. 

 

Il proprietario del rifugio era un uomo anziano, un contadino gentile che amava le sue mucche e che produceva i formaggi con passione. Quella sera aveva accompagnato Stefania e gli altri due bambini che avrebbero dormito lì alla stalla e la bambina aveva dato la buonanotte alle mucche, riparate nei loro giacigli di fieno e crusca.

 

Quando Stefania aveva inquadrato il proprietario del rifugio, si era resa conto che non era più lo stesso dei suoi ricordi. La donna gli si era avvicinata sorridente, pensando a come introdurre il discorso.
“Buonasera, complimenti per la cena, era tutto ottimo.”

“Passerò i complimenti alla cuoca, grazie.” L’uomo sembrava affabile, nulla a che vedere con l’immagine dei burberi montanari che era abituata a vedere in televisione.

“Mi scusi, lei conosce il vecchio proprietario? Io venivo qui da bambina e mi farebbe piacere rivederlo, se fosse possibile.”

“Oh, mio padre… Ho preso il suo posto qualche anno fa. Lui vive giù in paese, qui è tutto più scomodo. Non si può vivere in alta montagna a ottant’anni, anche se, fosse per lui, sarebbe ancora qui a lavorare con le mucche.” l’uomo aveva iniziato a ridere, forse nervoso.

“Pensi che mi ero dimenticata di questo posto, ma oggi quando sono arrivata qui mi sono resa conto di esserci stata, ho anche dormito qui.” Stefania non era sicura di dove il discorso l’avrebbe portata, ma doveva fare un tentativo. “Ero certa di avere visto solo le foto nei giornali dopo che era successa quella disgrazia, e invece…” 

L’espressione del proprietario si era rabbuiata all’improvviso. Stefania aveva colto nel segno. L’uomo aveva sospirato e allargato le braccia. “Storie simili avvengono spesso in montagna, purtroppo. Anche noi abbiamo avuto la nostra dose di sfortuna, temo sia inevitabile.”

“In quel periodo io ero piccola, ricordo anche di avere dormito qui.”

“Quella sera… c’erano tre bambini.”

 

 

Stefania aveva fatto la doccia e la mamma le stava pettinando i capelli ancora umidi. Le stanze spartane del rifugio non avevano gli asciugacapelli, ma il proprietario era stato così gentile da prestarne loro uno, che suo padre era andato a restituire subito dopo l’uso.

La luna piena brillava sul cielo limpido della notte e Stefania ne era ipnotizzata. Non era abituata a guardare le stelle e la luna, ma così in alto in montagna il cielo era differente da quello che era abituata a vedere. 

Un leggero vento muoveva le fronde degli alberi, ed era l’unico rumore che Stefania sentiva.

Non c’era la televisione in camera, la bambina era abituata ad averla in albergo al mare e le sembrava una mancanza tutt’altro che trascurabile. Un po’ delusa, aveva deciso di usare la finestra per osservare la calma all’esterno e, come le era capitato nel pomeriggio, la posa la stava chiamando. Sentiva il rumore dell’acqua stagna nelle orecchie. Ne sentiva l’odore acre e il suo colore era quello dato dal riflesso della luna sulle acque.

Era rimasta a guardare fuori dalla finestra fino a quando sua madre non l’aveva invitata ad andare a letto, cosa che Stefania aveva immediatamente fatto.

Le chiuse non erano state usate e le pesanti tende doppie non bastavano a eliminare del tutto la luce della luna piena che filtrava dalla finestra.

Stefania si era addormentata quasi subito, ma aveva continuato a sognare quella piccola pozza d’acqua, sentendone di nuovo il richiamo oscuro. La sensazione non era semplice da descrivere: per quanto se ne sentisse attratta, una parte di lei le ripeteva di fuggire, di non lasciarsi ammaliare dalla voce soave che le parlava del mondo lì sotto. Sotto la montagna, nella pozza.

 

Stefania si era alzata e aveva notato che qualcosa era cambiato: la stanza era più buia. Aveva tirato la finestra per trovarsi di fronte a una luna non più piena, ma mangiata da qualcosa. Ne vedeva a malapena una piccola parte, che non illuminava più gli alberi, ma che si riverberava ancora nell’acqua scura della posa.

 Allora l’aveva visto: il bambino. Il piccolo Sebastiano, avevano visto le mucche insieme. 

Il richiamo non era più forte come prima, forse la pozza aveva già trovato la sua preda e non aveva bisogno di altre vittime. Stefania aveva posato entrambe le mani sul vetro della finestra, la voce ferma in gola. La luna era stata inghiottita dall’oscurità quasi del tutto e soltanto il suo contorno ora era visibile sulla pozza.

Sebastiano aveva scavalcato la recinzione e stava camminando verso la posa. 

Stefania era preoccupata, sentiva dei tamburi batterle nella testa, i campanelli suonavano e l’acqua sembrava aver assunto un colore più limpido.

Una mano, un invito a entrare. Un canto leggiadro. 

La paura teneva Stefania inchiodata alla finestra, un silenzio che le urlava dentro. Avrebbe voluto battere le mani contro la finestra e gridare con tutta la forza che aveva a Sebastiano di non ascoltare la posa, di fuggire più lontano che poteva, di tornare al rifugio.

Chissà se i suoi genitori erano nei loro letti a dormire tranquilli, forse anche loro lo stavano cercando. Sarebbe bastato poco, doveva fermarlo.

Stefania era uscita di corsa dalla stanza e aveva tentato di svegliare i suoi genitori, ma a nulla erano servite le sue richieste, perché i due sembravano essere caduti in un sonno così profondo da non essere in grado di sentirla.

Aveva aperto la porta, urlando a tutti di svegliarsi, ma nessuno pareva sentirla. 

Per un istante aveva pregato che quello fosse soltanto un sogno, che non ci fosse qualcosa nella posa che stava chiamando il suo nuovo amico, perché lei era certa che qualunque cosa fosse, ormai l’aveva scelto e lei non sarebbe stata in grado di fermarla.

Aveva corso a perdifiato giù dalla collinetta, rischiando anche di cadere più di una volta, ma quando era arrivata di fronte al recinto si era dovuta fermare. Una luce pareva illuminare la pozza da sotto. Un canto, una mano che sporgeva dal centro della posa.

 

Il nostro è un mondo dentro la montagna

Luogo felice, luogo di cuccagna

I tuoi desideri noi esaudiremo

E tutti insieme qui canteremo

 

Entra nella casa nella posa

Qui con noi avrai qualsiasi cosa

Insieme a noi non temerai più nulla

Sarai sicuro come in una culla

 

Sebastiano si muoveva al rallentatore. Stefania piangeva, i suoi piedi restavano piantati a terra, come se qualcosa li stesse tenendo fermi. La bambina si sforzava, gridava, ma nessuno pareva sentirla in quel mondo addormentato. Anche il vento era cessato, nessun movimento attorno a loro. In compenso l’acqua stagnante della posa danzava, quasi fosse un oceano. 

 

Sebastiano era a un passo dalla riva e quando aveva posato il piede sull’acqua non era andato a fondo, ci stava camminando sopra. In compenso la voce che Stefania sentiva da quando il sole era tramontato era più vicina, più limpida. Una donna dalla pelle liscia, luminosa come la luna,  stava emergendo dalla pozza, tendendo la mano a Sebastiano.

Il bambino le era corso intorno, pochi passi verso la fine, la figura si era avvolta intorno a lui, materna.

L’abbraccio nel quale l’aveva stretto sembrava caldo e amorevole, ma Stefania sapeva che non avrebbe mai più rivisto il suo amico, perché la creatura che lo stava stringendo non apparteneva al loro mondo.

Lenti, erano scesi dentro la posa, che dopo averli inghiottiti era tornata calma e piatta. 

Stefania era crollata in ginocchio, segno che il potere della creatura era debole, se non inesistente ormai.

Una voce le aveva iniziato a dire che andava tutto bene.
Carezze tiepide l’avevano riaccompagnata nella sua stanza, ripetendole che non c’era nulla che non andasse,
ora puoi dormire, dicevano melliflue, non ti devi preoccupare.

 

 

Stefania si era svegliata di soprassalto, spaventando a morte Michele che dormiva profondamente al suo fianco.

“Che succede?” Aveva chiesto il ragazzo ancora intontito dal sonno.

“Sai se ci sarà un’eclissi di luna?” la voce di Stefania era calma, ma nei suoi occhi illuminati dal lumino elettrico che avevano nella tenda c’era un’inquietudine profonda. 

“Domani, forse?” 

Non capiva come fosse possibile, ma la memoria era tornata di colpo: lei sapeva cosa era successo quella notte. 

Il buio in quel momento non la spaventava, ma temeva ciò che sarebbe successo di lì all’eclissi. Nella mente aveva un ricordo nebuloso riguardante un articolo che aveva letto mentre scorreva distratta i titoli delle notizie su un sito a caso. Non ricordava la data, ma sapeva che era vicina.

“L’eclissi mi pare domani? Volevo portare il telescopio di mio padre per vederla bene, ma non…”

“Domani dobbiamo dormire al rifugio.” I pensieri della ragazza stavano volando nella ricerca di risposte: aveva davvero modo di fermare quella creatura? Pareva che fosse lei a decidere chi poteva sentirla e chi no e Stefania era convinta che solo i bambini fossero immuni al suo incantesimo. Il pensiero dei suoi genitori addormentati come morti la fece rabbrividire. Forse, visto che l’aveva già sentita si era in qualche modo immunizzata? Forse la creatura avrebbe voluto dirle qualcosa? E se avesse provato a prenderla con sé come aveva fatto con Sebastiano?

 

Stefania scosse la testa, sveglia come un grillo. Si voltò per trovarsi di fronte lo sguardo pensieroso di Michele. “Non dormi?” Le chiese, sbadigliando.

“Scusa, io… ho una cosa da fare.”

Nel buio della notte, Stefania si era messa le scarpe e la giacca a vento, poi aveva aperto la tenda ed era uscita quasi di corsa, senza neppure prendere con sé la sua torcia. Michele l’aveva seguita subito, incredulo e anche un po’ preoccupato. “M- Ma… è buio? Lo vedi che è buio?”

“Sì, lo vedo. Mi sa che sono guarita,” aveva risposto sardonica. Doveva andare a controllare, doveva entrare nella posa.

Lungo la strada aveva raccattato alcuni rami, i più lunghi che aveva trovato, poi aveva scavalcato il recinto ed era faccia a faccia con la posa.
“Stef? Cosa fai?” Michele si era chiesto se non sarebbe stato meglio per lui restare a letto, ma non aveva intenzione di lasciare da sola la sua compagna, anche perché non era certo delle sue intenzioni. Voleva forse entrare nella posa? “Guarda che non è acqua pulita.” Aveva tentato di dissuaderla.

Stefania aveva fatto due passi nell’acqua. A occhio e croce il diametro della posa era di sei, forse poteva arrivare a otto, metri. Dopo averne percorso il perimetro esterno si era convinta che non poteva nascondere niente. Coi bastoni aveva iniziato a tastare il fondo, rivelando ciò che si aspettava: niente buchi, niente ingressi a mondi sconosciuti sotterranei. Niente campanelli e niente voce fatata.

Un po’ delusa, Stefania era tornata a dormire, seguita da un Michele preoccupato e curioso. “Domani ti spiego,” gli aveva sussurrato all’orecchio dopo essersi pulita i piedi e le gambe con delle salviette monouso. 

 

Stefania era stata svegliata dalle grida di una donna. Non sapeva chi fosse, ma nel suo cuore sentiva di sapere che c’entrava Sebastiano, che era successo qualcosa.

La sua mamma le era corsa incontro e l’aveva abbracciata. 

- Meno male, sei qui! 

- Che cosa è successo a Sebastiano? - aveva domandato, sua madre era rimasta a fissarla senza parlare.

- Come lo sai? Hai visto qualcosa? - ma Stefania aveva scosso la testa, incerta. Aveva parlato seguendo il suo istinto, ma ciò che le arrivava alla mente le pareva sciocco a pensarci bene.

- No, ma è la sua mamma, vero? - Sua madre aveva annuito e l’aveva stretta di nuovo.

Nessun altro aveva notato i piedi sporchi di terra di Stefania, solo lei se n’era accorta quando era entrata in bagno a lavarsi i denti. Aveva nascosto le tracce, preoccupata che qualcuno le avrebbe altrimenti chiesto spiegazioni che non sarebbe riuscita a dare.

Quel pomeriggio i poliziotti erano stati a parlare con i suoi genitori e lei aveva sentito il bisogno di dire che Sebastiano secondo lei era nella posa.

Loro avevano riso della sua innocenza infantile, le avevano accarezzato la testa ignorando la sua idea. 

 

Appena sveglia, Stefania aveva iniziato a cercare col cellulare qualche notizia su ciò che era successo quella notte. Sebastiano era più stato ritrovato?

Erano forse scomparsi altri bambini? 

Quanto spesso avvenivano le eclissi lunari totali?

 

Alcune delle sue domande avevano avuto risposte: purtroppo nessuno aveva più avuto notizie di Sebastiano. L’ultima intervista di sua madre risaliva a pochi mesi prima e la donna appariva vecchia e stanca, eppure Stefania ricordava che avesse all’incirca l’età di sua madre. 

Le eclissi non avevano una regola, ma negli ultimi dieci anni ce n’erano state altre tre oltre a quella che stava per verificarsi, nessuna di queste con la luna piena, però. Stefania aveva iniziato a incrociare i dati andando indietro nel tempo. Era risalita a tre eventi precedenti alla scomparsa di Sebastiano: un bambino era scomparso dal paese a valle nel 1948, poi era stata la volta di una ragazza, che era in campeggio con degli amici. Era il 1974, lei era ubriaca e tutti avevano dato la colpa all’alcool, credevano si fosse persa e fosse caduta in un crepaccio. Un’altra volta invece, nell’estate del 1983, la posa era vuota a causa della siccità. Quell’anno non erano avvenuti incidenti, se così si poteva chiamarli.

Stefania era rimasta affascinata nell’osservare le foto della buca vuota e aveva constatato che si era svuotata anche altre volte. Non faceva paura per niente così, nuda e innocente. Solo un po’ di terra fangosa.

 

Forse la soluzione era proprio quella: doveva svuotare la pozza.

Quando Michele l’aveva raggiunta, insieme si erano diretti verso il rifugio per la colazione, come d’accordo. Lungo la strada, Stefania gli aveva raccontato della scomparsa di Sebastiano, di come lei fosse stata presente quella notte e di come fosse convinta che la sua paura del buio fosse originata proprio da quella notte. Non aveva intenzione di rivelargli tutto, perché era certa che non le avrebbe creduto, come avrebbe potuto? Lei stessa dubitava che i suoi fossero ricordi e non pezzi di un sogno che aveva immaginato da piccola.

“Avete una stanza libera per questa notte?” il proprietario le aveva sorriso, quella ragazza gli stava simpatica e sperava che sarebbe diventata una cliente affezionata. 

“Certo, ne abbiamo giusto una. Sarebbe una familiare, ma ve la lascio volentieri, vi posso fare entrare dopo pranzo, ma se volete potete lasciare qui i bagagli, ve li porto in camera io.” 

“Perfetto, grazie.” 

Stefania aveva ancora troppe domande e per cominciare aveva deciso che avrebbe sentito sua madre.

“Ciao, mamma, come va?”

La voce felice di sua madre aveva risposto con trasporto: “Steffy, sei al mare in vacanza?”

“No. Questa volta siamo andati in montagna, siamo al rifugio posa al bosc.” 

Come si aspettava dall’altro capo della linea sua madre attendeva in silenzio, “sai, sono venuta qui con Michele perché pensavo che fosse una buona terapia d’urto contro la mia fobia del buio, e ha funzionato. Non mi spaventa più.”

Ancora silenzio da parte della madre.
“Mamma… perché non abbiamo mai parlato della gita in montagna?”

Un sospiro pesante, poi un lamento. “Hai ragione… adesso ti ricordi, quindi.”

“Sì. Ricordo di Sebastiano, dell’eclissi e… Cosa è successo dopo che siamo tornati a casa, mamma?”

“È giusto che te lo dica. Preferisci venire qui a parlarne?”

“No, dimmelo subito, devo sapere tutto.”

 

Lorella aveva sempre capito la sua bambina al volo, si riteneva una madre fortunata perché aveva con sua figlia un ottimo rapporto. Sapeva che troppo presto sarebbe arrivata la pubertà e con essa tutti i problemi che ne sarebbero derivati, ma sperava tanto che il loro rapporto sarebbe rimasto buono, almeno.

Dopo il ritorno dal rifugio Posa al Bosc, però qualcosa tra lei e Stefania si era spezzato in modo irrimediabile, e lei non riusciva a capire cosa fosse. 

Forse a causa di un meccanismo di difesa psicologica, sua figlia non ricordava nulla di ciò che era successo lassù, al punto che appena qualcuno nominava la montagna, lei d’istinto sosteneva con forza di non esserci mai stata, come a volersi difendere da accuse che nessuno le avrebbe mai rivolto.

- Ti ricordi della posa? Ti ricordi delle mucche?
- Non ho mai visto le mucche, non sono mai stata in montagna.
- Steffy, cosa è successo a Sebastiano? Tu lo sai?
- Non conosco nessun Sebastiano, chi è?
- Steffy, perché hai paura del buio?
- Ho paura di stare sotto la luna senza la luce. La luna è anche sotto di noi.
Dopo il primo periodo, durante il quale la donna aveva tentato di estorcerle la verità con domande a trabocchetto, Lorella aveva rinunciato a capire cosa avesse visto. Né lei, né gli psicologi erano riusciti a capire perché la bambina avesse rimosso tutta la gita in montagna. Seguendo i loro consigli, i genitori avevano buttato via le fotografie e nascosto i loro ricordi, chiudendo per sempre quel discorso che causava loro un dolore troppo forte da sopportare.
Lorella si era chiesta tante volte cosa fosse potuto accadere a Sebastiano, ma ogni risposta la spaventava e nessuna era certa. Che fosse stato rapito? Che l’avesse ucciso uno dei suoi genitori e poi avesse fatto sparire il corpo? Che fosse uscito in preda al sonnambulismo e si fosse perso da qualche parte nella profondità della montagna?

Era certa che, se la risposta non era pervenuta fino a quel momento, non ne avrebbe mai avuta una, anche se il pensiero che la figlia forse avesse una risposta non le consentiva di dormire tranquilla. Si chiedeva sempre cosa sarebbe successo se lei un giorno si fosse ricordata, quale verità sarebbe affiorata allora?

“Mamma, io so che fine ha fatto Sebastiano, ma so anche che tu non mi crederesti.”
“Dimmelo, forse non ti crederò, ma io d- devo sapere…”

E Stefania aveva parlato, sua madre l’aveva ascoltata senza proferire parola per poi restare in silenzio.

“Mamma, stanotte ci sarà un’altra eclissi totale. Io resto qui.”

 

Aveva ancora qualche ora per capire come contrastare quella creatura, perché era certa che sarebbe tornata a cercare qualcuno e lei era l’unica che poteva impedirlo.

Avrebbe combattuto, doveva soltanto capire come fare. 

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