Apr. 19th, 2025

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Originale Capitolo 2

Partecipa al COWT 14

Prompt: bad ending

 

Disclaimer: tutti i riferimenti a persone e cose realmente esistiti sono puramente casuali.

Tutti i personaggi presenti nella storia sono frutto della mia fantasia.


Il viaggio verso l'Isola di Hermann - capitolo 2 Originale


Il mare era calmo, il relitto ondeggiava leggero seguendo la corrente.

Lucilla si svegliò di colpo. Era ancora notte. Era probabile che avesse dormito poco più di un’ora, forse solo alcuni minuti. Aveva passato tutta la giornata sotto il calore del sole, senza cibo né qualcosa da bere e la voglia di rifocillarsi con l’acqua del mare aperto aveva continuato a tentarla per tutto il tempo. Nonostante l’estate non fosse ancora arrivata, aveva sofferto il caldo sotto i raggi del sole. Le aveva scottato la pelle, l’aveva fatta sudare. Per cercare di risolvere il problema la donna aveva messo in acqua i suoi stracci e si era coperta, ma il sale sulla pelle arrossata bruciava persino di più.

Continuò a osservare intorno a lei in cerca di un qualunque segnale di presenza umana. Non ve n’era traccia. Nessuna isola all’orizzonte, nessuna nave. Resistette fino alla sera passando di frequente dal sonno alla veglia.


Preferì la notte al giorno. Si sentiva ancora più sola, ma nel buio stava riuscendo a riposare un po’ di più, le si erano anche schiariti i pensieri. 

Le sue speranze erano delicate come un bicchiere di cristallo sull’orlo di un precipizio, ma Lucilla pensava che la sua sopravvivenza al naufragio fosse un segno del destino. Perché il fato avrebbe dovuto salvarla da morte certa per lasciarla lì in mezzo al mare. Non aveva senso.


Quando sorse il sole, seppe che non avrebbe superato la giornata. Tentò di alzarsi per guardare meglio all’orizzonte, ma barcollò e cadde sulle tavole della sua scialuppa di fortuna. Doveva bere, la gola le ardeva e le sue labbra erano secche e rotte dal calore, dal sale e dalla disidratazione. Solo un po’ di acqua, un bicchiere, un sorso. Ormai era un pensiero continuo che non era più in grado di scacciare. Era quasi ironico morire di sete in mezzo a tutta quell’acqua. Si trascinò fino al bordo del suo relitto lasciò che una mano toccasse il mare. Con tutta la sua forza si spinse ancora più vicina al bordo della zattera e lasciò che la sua mano galleggiasse. Passò qualche minuto ad ascoltare il rumore del mare intorno a lei, a guardare la sua mano scavare nella superficie cristallina del mare e tornare fuori senza fatica. Bevve un sorso, uno solo non le avrebbe fatto male.


Si addormentò numerose volte nel corso della giornata. Fu svegliata dal suono di una tromba. Si alzò di scatto e salutò la nave, rinvigorita dalla certezza che l’avrebbero salvata. Un giovane marinaio vestito di bianco scese lungo una scala di corda con una borraccia e la invitò a bere, poi la legò a una corda, che l’equipaggio issò a bordo in pochi minuti. Le diedero cibo e acqua in abbondanza e la accompagnarono in una cabina, nella quale dopo giorni poté dormire un sonno lungo e riposante. Era stata a pochi passi dalla morte, ma aveva ragione: il destino non l’aveva abbandonata.


Il relitto apparve sulla sponda a est dell’Isola di Hermann solo quattro giorni dopo il naufragio della Dama Enrica. Sull’ammasso di assi che un tempo erano state parte della nave giaceva una ragazza che fu in seguito riconosciuta come la contessina Lucilla De Cornieri. Fu trovata dal giardiniere della residenza estiva della famiglia, che subito avvisò la famiglia. La giovane aveva in volto un’espressione serena. Probabilmente se n’era andata nel sonno.


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Originale
Partecipa al COWT 14
Prompt: il castello abbandonato 
Avventura

Il viaggio di Daniel


Il viaggio di Daniel si stava rivelando più lungo del previsto. Era partito parecchie ore prima dal suo paese natale per portare il carico al porto, ma sulla strada non aveva incontrato anima viva. 

Era la prima volta che usciva dal villaggio e tutti si erano impegnati a dispensargli buoni consigli prima della sua partenza. Questo però non l’aveva aiutato a prendere la strada giusta, a quanto pareva, perché sembrava proprio che lì intorno non ci fosse alcun porto, tantomeno il mare. Aveva avuto qualche dubbio, in effetti, soprattutto quando si era trovato a passare sul ponte di legno mezzo scassato, rischiando anche di perdere carro e carico lungo la strada. E poi non aveva incontrato villaggi, né viandanti, né altri carri.

Si grattò il mento, lo faceva sempre quando pensava, e decise che la cosa migliore da fare fosse portare il carro nel punto più alto raggiungibile, solo che senza strade era un po’ difficile far salire il carro, perciò quando arrivò ai piedi di una ripida collina, legò il cavallo a un albero e iniziò a salire. Da lassù fu certo che era finito in mezzo al nulla. 

Gira a destra, poi segui le indicazioni per il porto, andrai in discesa, così gli avevano detto. A pensarci bene lui era andato in salita, e non poco dall’inizio del viaggio. Forse si era sbagliato di nuovo a distinguere destra e sinistra. Schioccò le dita, lo faceva sempre quando era dispiaciuto. Iniziò a scrutare la boscaglia e le campagne intorno a lui in cerca di una capanna, di fumo o un qualunque segno di vita, ma non c’era anima viva, solo corvi in cielo e rumori di qualche animale tra gli alberi dietro di lui.

Si grattò la fronte e pensò che tornare indietro ormai fosse fuori discussione, presto sarebbe stato buio e il cavallo era già stanco. Sua madre gli diceva sempre che lui non era il coltello più affilato del cassetto, ma quello lo capiva bene. aggirò il boschetto per vedere dall’altro lato dell’altura poiché era certo che quella fosse la direzione giusta: da qualche parte doveva pur esserci un villaggio.
Batté le mani, lo faceva sempre quando esultava, quando notò il castello, le mura coperte di edera lo mimetizzavano tra gli alberi del bosco che lo circondava, ma da lassù Daniel aveva notato il fossato e le torri. Scese veloce e liberò il cavallo, chiedendosi cosa avrebbe trovato ad attenderlo. Sua madre gli aveva detto di raccontare sempre che veniva dal villaggio di Velda, perché tutti amano i Veldani, sono sempre amichevoli e vendono le stoffe a tutti. Il ragazzo sperò che, magari in cambio di alcune delle stoffe che portava nel carro, sarebbe stato accolto e rifocillato per la notte. Il giorno seguente se ne sarebbe andato, non avrebbe arrecato troppo disturbo. Sarebbe stato ancora meglio se avesse trovato un piccolo villaggio nel quale vendere le sue stoffe, pensò grattandosi la spalla, così non sarebbe dovuto andare di nuovo fino al porto, sarebbe solo tornato a casa.

Il cavallo aveva approfittato della breve sosta per mangiare e per riposare un po’, quindi ripartì senza troppe preghiere, Daniel invece cominciava a sentirsi davvero stanco, era quasi il tramonto e lui non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti.

Daniel fischiettava sul carro, lui e Zampebianche si avvicinavano al castello a ritmo veloce, però, più andava avanti, più si rendeva conto che qualcosa non quadrava: sembrava che quella strada non venisse percorsa molto spesso, gli alberi erano grandi, l’erba alta e i campi non sembravano coltivati. Le stesse mura del castello, a cui si stava avvicinando, erano coperte di edera completamente. 

Il ponte sopra il fossato era abbassato e l’accesso all’interno appariva libero. La realtà era che non c’era proprio una porta.

Daniel si grattò il mento e si chiese quale scelta avesse. Non era mai stato un grande pensatore, nessuno gli rivolgeva mai domande importanti, semplicemente gli dicevano cosa fare e lui eseguiva. “Se non c’è nessuno, posso dormire tranquillo. Se c’è qualcuno magari trovo compagnia.” Disse, più rivolto a se stesso che al suo cavallo, che comunque non lo avrebbe capito, in effetti.

Il ragazzo staccò l’animale dal carro e portò il suo fido destriero a quella che un tempo era la stalla. Fu felice nel notare il rubinetto a leva di un pozzo, che azionò più e più volte, fino a quando l’acqua non prese a scorrere. Riempì un secchio al suo cavallo, bevve un po’ d’acqua anche lui, si riempì la borraccia e chiuse il recinto. 

“Ora penso a me. A dopo, Zampebianche.”

Si guardò intorno. Era ormai l’imbrunire e se qualcuno fosse stato nel castello, di certo Daniel avrebbe visto una candela o magari sentito delle voci che gli avrebbero rivelato la presenza di un uomo o una donna.

“C’è qualcuno?” Urlò, le mani a conca ai lati della bocca per amplificare il suono.

Rimase in attesa per qualche istante. “Se c’è qualcuno, non è che mi risponde?” Provò di nuovo, nessuna risposta. “Per favore!” Ma a quanto pareva, non sempre la gentilezza serviva, al contrario di come gli aveva insegnato sua madre.


Daniel si guardò intorno e si grattò la testa, pensò che per trovare un letto e qualcosa da mettere sotto i denti sarebbe stato opportuno esplorare gli edifici lì intorno, quindi decise di iniziare da quello più vicino. 

La porta era aperta, ma l’edificio era del tutto vuoto.

Il ragazzo uscì, non aveva senso restare lì se non c’era niente, e continuò a cercare il luogo adatto per riposare.

Gli sembrava un po’ strano che lì non ci fosse proprio nessuno, ma sua madre gli aveva detto di non farsi troppe domande, gli aveva spiegato tante volte che lui era più bravo a fare che a pensare, quindi proseguì. Entrò in altri tre edifici, tutti piccoli, nella zona di ingresso del castello. Nel primo c’erano dei sacchi pieni di semi, uno di essi conteneva della frutta secca. Era stato abbastanza fortunato, perché non era la cena migliore del mondo, ma avrebbe mangiato qualcosa almeno. Raccattò delle noci e alcune nocciole, poi proseguì fino al secondo. Lì c’erano alcuni mobili che, se avesse avuto il carro vuoto, forse si sarebbe anche portato a casa: un bel tavolo con quattro massicce sedie di legno e una grossa stufa da cucina. L’ultimo stabile invece conteneva solo alcune armi, che però non gli servivano, quindi le lasciò lì, anche se aveva sempre desiderato avere una spada. Sua madre però gli diceva sempre che non voleva che lui si facesse male, era sicuro che lei avrebbe preferito che non le toccasse neanche, quindi si allontanò.


Si avviò in salita verso il complesso principale del castello. “C’è qualcuno?” Chiese di nuovo. Ma ancora nessuno gli rispose. Poco male, pensò: ho un castello tutto per me. 

Riuscì a entrare dal portone senza difficoltà, perché di nuovo la porta era aperta. Che strano, pensò grattandosi il mento: perché avevano lasciato tutto lì dentro senza neppure chiudere a chiave? La stanza del trono era lunga almeno come un campo, alta più di una quercia, tutta in pietra, con enormi stendardi consumati e lerci che scendevano giù dalle pareti. Daniel osservò i due troni rivestiti di bellissimo velluto, un tempo era rosso, constatò. A terra c’era un tappeto lungo tutta la sala e ai due lati di esso alcuni candelabri alti almeno quanto lui. A Daniel sarebbe sempre piaciuto sedersi su un trono, quindi con il suo sacchettino pieno di frutta secca si avviò verso la sedia regale ridacchiando e battendo le mani.

Si fermò un istante prima di prendere posto e gonfiò il petto con aria solenne. “Re Daniel è arrivato!” 

Una volta seduto, finse di ascoltare sognante gli applausi di tutto il suo popolo, che lo amava. Sua madre gli diceva sempre che era una persona buona e che era facile volergli bene.

Rimase lì a sognare conversazioni di ogni tipo con i suoi consiglieri, pensò che i cuochi gli avrebbero cucinato dello stufato di carote, che era il suo preferito, e magari anche del pane fresco.

Dopo un po’, Daniel decise che era ora di alzarsi e procedette verso il grande tavolo dietro i due troni. Si sedette e iniziò a mangiare la sua frutta secca. Per romperla utilizzò uno strano oggetto grosso e pesante di forma sferica che stava su un piedistallo di fianco al tavolo. Continuò a mangiare fino a quando non fu sazio, solo che nel rompere le ultime nocciole la sfera si ruppe in mille pezzi, rilasciando una strana polverina viola. 

Daniel tossì e schioccò le dita. “Proprio con l’ultima nocciola, che sfortuna!" 

Si alzò e si diresse verso le stanze reali. Lì c’erano i letti ancora belli fatti, solo che erano un po’ sporchi, pensò mentre si grattava la pancia. Sua madre gli diceva sempre che non sarebbe stato qualche germe a ucciderlo, quindi il ragazzo alzò la coperta e controllò che sotto non ci fossero ragni, quelli non gli piacevano molto e in effetti era pieno di ragnatele, osservò.

Sbatté qualche volta il cuscino per togliere la polvere e si mise a letto. Si addormentò subito.


Il mattino dopo si risvegliò fresco e riposato, intorno a lui non c’era più la stanza abbandonata nella quale si era addormentato, ma una camera regale verniciata di fresco, con mobili nuovi e lenzuola linde. Si grattò la fronte: era sicuro di non aver preso sonno in quella stanza e lui non era un sonnambulo, sua madre gli diceva sempre che di notte lui non muoveva un muscolo, al punto che sembrava quasi morto.


Sentì delle voci e pensò che era ora che arrivasse qualcuno, così si diresse al piano inferiore, dove trovò almeno una trentina di persone che si zittirono appena lui varcò la soglia. 


“Eccolo, ecco l’eroe!”

Daniel era un po’ preoccupato, si indicò con il dito per capire se era proprio di lui che stavano parlando. “Io sono Daniel.” Riferì. 

Un uomo elegante con dei baffetti corti e un aspetto trafelato gli corse incontro: “Hai spezzato la maledizione, hai rotto la sfera! Come posso ringraziarti?”

Il ragazzo non sapeva cosa dire. Fu portato in festa per tutto il castello e a lui e al suo cavallo furono offerti oro e ricchezze, lui in cambio lasciò le sue stoffe e il nome del suo villaggio. Lo invitarono a tornare, dicendogli che gli sarebbero stati per sempre grati. 


Così Daniel tornò a casa con il titolo di cavaliere dato dal re in persona, più ricco di quanto avrebbe sperato. Sua madre forse non immaginava che proprio lui sarebbe stato chiamato eroe da qualcuno. Era fiero di se stesso. 



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Fandom: Persona 5
Personaggi: Chihaya Mifune
Prompt: chiaroveggente, prima persona
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One shot
La verità

In molti tra i clienti ai quali predico il futuro mi ripetono continuamente quanto io sia fortunata a vedere il mio destino e quello delle persone intorno a me. Magari fosse così semplice… All’inizio non lo è stato perché venivo evitata, è successo sin da quando ero una ragazzina, quando mi davano della strega e mi tenevano a distanza per paura che predicessi disgrazie. Come se fosse cambiato qualcosa. Nella mia città natale non riuscivano neppure a comprendere la differenza tra premonizione e capacità di alterare il destino. Il risultato è stato che ho imparato a tenermi dentro le risposte, anche se a volte proprio non ci riesco.


Il caso del giovane Ren mi sta mandando in crisi, perché il suo futuro è incerto e da quando lui è entrato nella mia vita anche il mio è diventato impossibile da decifrare. I tarocchi, che mi hanno sempre dato risposte, mi ignorano ogni volta che lui è parte delle mie domande. Quel ragazzo mi ha messa di fronte alle mie scelte discutibili e mi ha costretta a vedere ciò che ero diventata: una ciarlatana che avrebbe predetto qualunque sciocchezza in cambio di qualche soldo.

Quante volte nel passato ho maledetto il mio dono, pregando la natura di riprenderselo e di permettermi di vivere serenamente giorno dopo giorno, senza l’onere di dover portare nel mio cuore segreti, a volte difficili da tenere nascosti.

Qui a Tokyo non sono che una chiaroveggente di strada, per molti un momento di divertimento nel grigiore della vita di tutti i giorni.

Non so fare altro. Al mio arrivo nella capitale ho provato a ricominciare da zero, con persone nuove, lavorando in un ristorante e anche come commessa, ma sono sempre stata bollata come strana e infine licenziata. Bastavano poche parole dette senza troppo peso per fare sì che la mia fama di strega tornasse a colpirmi forte come un colpo di martello. Una maledizione che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Ho ricominciato a sfruttare il mio dono di chiaroveggente per sopravvivere e perché è l’unica cosa che so fare. Mi ero sempre detta che lo faccio per dare speranza, almeno fino a quando quel ragazzino non mi ha messa di fronte alla realtà: ero diventata il circo di strada che odiavo.

Devo ritrovare me stessa e la mia integrità per tornare la Chihaya innocente e pura a cui il dono è stato regalato dalla dea Fortuna.

Ci sto provando. Questa sera spero che Ren venga a trovarmi. Sarò sincera con lui come non lo sono stata neppure con me stessa nell’ultimo periodo e gli dirò ciò che vedo: lui è parte del mio destino, così come io sono parte del suo.


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fandom: originale
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prompt: la porta tra i mondi
One shot


La chiave per Eltra

Aveva trovato la chiave in soffitta, ma Alessia non aveva idea di cosa aprisse. Non ne aveva mai vista una simile: era in un metallo scuro, quasi nero, ed era incurvata al punto che la ragazza si chiese se sarebbe mai potuta entrare davvero in una serratura. Sua nonna l’aveva mandata in soffitta proprio a cercare una chiave e, stando alla descrizione che le aveva dato, poteva essere quella giusta.

La casa della nonna era sempre stata piena di misteri: stanze chiuse a chiave, rumori inspiegabili e passi che finivano nel nulla. Investigava spesso, con la sua lente di ingrandimento e il suo cappello, ma non era mai riuscita a trovare la fonte di quelle stranezze. Di fronte alle sue domande più volte, con occhi vivaci, la nonna le aveva detto che loro due si somigliavano come gocce d’acqua e che prima o poi avrebbe avuto le sue risposte. “Noi siamo diverse dai tuoi genitori e da tuo fratello, vedrai: un giorno vivrai delle splendide avventure!”

Le chiedeva sempre quando le avrebbero vissute, da piccola era sempre a cercare nuove sfide, a esplorare ogni luogo che visitavano. “Un giorno ci andrai, te lo prometto.”

Con l’andare degli anni la ragazza aveva iniziato a passare in quella casa sempre meno tempo e si era dimenticata di quei discorsi che da piccola la affascinavano e catturavano i suoi sogni.

In quel periodo Alessia passava molto tempo lì, perché sua nonna Erminia si era rotta il femore e lei stessa si era offerta di prendersi cura di lei nel corso di quell’estate. Prese la chiave e la portò con sé. 

“Ci beviamo un tè?” Propose all’anziana donna una volta arrivata nella stanza.

“Sì, ma vorrei berlo in soggiorno, se non ti dispiace.”

La nipote annuì, prese la sedia a rotelle e aiutò Erminia a salirci sopra con movimenti calcolati e sicuri. La mise dentro l’ascensore che avevano fatto costruire per il nonno qualche anno prima e insieme scesero al piano terra. 

Il salone era arredato con mobili in legno scuro, tipici degli anni in cui erano stati acquistati. Una della parete era cosparsa di specchi con larghe cornici di legno intarsiate che da piccola avevano sempre affascinato Alessia. Era lì che giocava alla scuola di ballo e recitava fingendosi una famosa attrice.

Andò in cucina a preparare il tè e sistemò le tazze sul vistoso vassoio di argento antico che da sempre utilizzavano per servire bevande calde. 

Lo sistemò sul tavolino dove la nonna la aspettava, sembrava seria.

“Oh, tieni la chiave!” Annunciò Alessia, porgendogliela.

L’anziana donna prese invece la tazza calda con entrambe le mani. “Quella è tua ora. Dovrai usarla con molta attenzione e donarla a chi tu riterrai tuo successore nel custodirla.” 

Alessia piegò la testa di lato, forse la nonna aveva qualche piccolo problema di demenza. “Perché? Che chiave è?”

“Quella è la chiave della porta tra due mondi. Unisce il nostro a un mondo che presto conoscerai.” Sorrideva, negli occhi un’espressione vivace e nostalgica. “La città dove arriverai si chiama Eltra, in realtà è più un piccolo villaggio, ma la porta è ben custodita, vedrai. Potrai dire ai custodi il mio nome e loro ti accoglieranno. Ho vissuto splendide avventure nei dintorni di Eltra. Usa la catena per mettere la chiave intorno al collo e quando aprirai la porta la vedrai scomparire. Appena tornerai alla porta dall’altra parte essa riapparirà e potrai tornare a casa.”

La ragazza rise, nervosa. “Mi stai prendendo in giro, nonna?!

Erminia però alzò le spalle. “Anch’io ho reagito così quando l’ho ricevuta. Ho dovuto vedere. Alzati.”

Alessia pensò che assecondandola non sarebbe accaduto nulla di male, quindi seguì l’ordine.

“Metti al collo la chiave e vai verso lo specchio.” La ragazza continuò a obbedire, “Ora prendi in mano la chiave e chiedi di entrare.”

“Cosa devo fare? Dire io chiedo alla chiave di aprire la porta per Eltra e di farmi entrare?” Appena finì di pronunciare quelle parole, sentì un rumore simile a quello del vento tra i rami di un albero. Rimase a bocca aperta mentre lo specchio si apriva per rivelare una porta. 

“Bastava dire io chiedo di entrare. Per tornare basta chiedere di tornare.” La ragazza toccò la porta appena rivelatasi sotto i suoi occhi, poi tornò a rivolgere la sua attenzione alla nonna. 

“M- Ma allora è vero?”

“Ma certo che è vero. Non ti racconterei storie. Ora vai, fai il tuo primo giro. Puoi dire che li saluto, ma che dovranno venire loro a salutarmi, io non posso più viaggiare.”

“È un viaggio pericoloso?”

“No. Potresti vivere qualche avventura, ma non preoccuparti. Mi racconterai quando tornerai a casa. Ti aspetto qui.”

Alessia estrasse la chiave.“Hai mantenuto la tua promessa. Grazie.” Varcò la porta e svanì nel nulla, pronta alla prima delle sue avventure ad Eltra.


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