Apr. 1st, 2020

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 Fandom: Harry Potter

Personaggi: Lily Evans, Petunia Evans, James Potter, Harry Potter

Prompt: Muse, Knights of Cydonia

One Shot

Partecipa al COWT10

 

We'll fight

 

You and I we’ll fight for our rights

you and I we’ll fight to survive

(Muse, Knights of Cydonia)

 

 

 

 

Da piccola, Lily non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventata una Strega. Non aveva mai sognato di avere mirabolanti poteri magici, al contrario di sua sorella Petunia che nei loro giochi insieme era sempre più forte, più bella e più ricca di lei. A Lily non era mai dispiaciuto fare la parte della bambina indifesa o della classica “piccola fiammiferaia” a cui tutti chiudevano le porte in faccia. Non le interessava vincere, non aveva un’indole competitiva come quella di sua sorella e per questo non provava neppure a rubarle la scena.

Ogni Natale Petunia aveva sempre recitato una poesia per la famiglia, per loro era stata una tradizione sin da quando sua sorella era stata in grado di impararla a memoria, e la bambina era felice di mettersi in mostra di fronte alla famiglia, le piaceva il palcoscenico. Quando Lily era cresciuta, però, sua madre aveva preteso che le due si dividessero quel ruolo e se a Lily non interessava per niente, per Petunia quello era stato a dir poco un affronto.

Dopo il primo anno, durante il quale le due avevano litigato tutto il giorno, il ruolo era stato dato a Petunia senza discussioni per la pace di tutta la famiglia e per la gioia di Lily.

 

Quando i suoi poteri si erano palesati, Lily era in compagnia di sua sorella. Stavano giocando e come sempre Petunia faceva le veci della buona samaritana che dava asilo alla povera, indifesa Lily, che in cambio le stava tessendo una corona di fiori come dono, in segno della sua riconoscenza.

La bambina aveva sollevato la corona a mezz’aria e l’aveva guardata con occhi sorpresi, come se lei non c’entrasse nulla con quella magia. Petunia si era convinta di essere stata lei a muoverla ed era rimasta a dir poco delusa quando si era resa conto che invece non c’entrava per niente.


La partenza per Hogwarts di Lily aveva allontanato le due sorelle in modo irrimediabile al punto che al ritorno di Lily per le vacanze di Natale le due avevano a malapena parlato, nonostante Lily avesse cercato Petunia continuamente, cercando di raccontarle ogni cosa sulla sua nuova scuola, sugli amici e sui professori, pareva che la sorella non avesse alcuna intenzione di stare con lei.

Ne aveva sofferto così tanto da averne pianto per anni, fino a quando non si era resa conto che sua sorella non l’avrebbe mai perdonata, ma che in fondo non era colpa sua: non aveva chiesto lei quei poteri e glieli avrebbe donati se solo avesse potuto farlo, solo che questo non era possibile. La gelosia era un sentimento che Lily non aveva mai fatto suo e, anche se avrebbe amato sua sorella per tutta la sua vita, non poteva più continuare a soffrire per qualcosa che non sarebbe mai cambiato, suo malgrado.

 

 

Da quando le cose erano degenerate nel Mondo Magico a causa della presenza di colui che non deve essere nominato Lily aveva più volte pensato alla sua famiglia e in particolare proprio a Petunia. Sapeva di non poter spiegare loro quanto grave fosse il pericolo che tutti stavano correndo, come sapeva che non avrebbero mai capito quella guerra e i motivi per cui era iniziata. Lei era una Sanguesporco e per questo tutta la sua famiglia rischiava di pagare, non poteva permetterlo e aveva deciso di metterli tutti al sicuro, o almeno di provarci. Lei e James avevano posto incantesimi di protezione nelle loro case sperando che fossero sufficienti, ma era certa che non sarebbero bastate poche protezioni per fermare Lord Voldemort.


Quando aveva saputo di aspettare un bambino, Lily si era sentita combattuta tra la gioia infinita e la paura per ciò che sarebbe potuto accaderle. Fino a quel momento non aveva mai avuto paura per se stessa, ma ora non era solo lei che avrebbe rischiato la vita. C’era anche il suo bambino, c’era anche Harry con lei e per lui doveva stare attenta.

Aveva cercato la sorella e le aveva comunicato la lieta novella per ritrovarsi di fronte a un muro di impassibilità. “Non te l’avevo detto forse, ma sono incinta anche io.” le aveva detto guardandola con ribrezzo e chiudendole quasi la porta in faccia. 

 

Poi era arrivata la profezia e con essa la disperazione era diventata ancora più forte. Lily continuava a piangere, incapace di sopportare la paura che sarebbe potuto succedere qualcosa a lei, ma soprattutto al suo bambino, e in quel momento aveva deciso che l’avrebbe protetto a qualunque costo, anche se le fosse costato la sua stessa vita.

Era andata da Petunia un’ultima volta con il desiderio di cercare un riavvicinamento con la sorella. Le aveva telefonato e la sorella le aveva concesso un pranzo di famiglia.

Lily e James erano arrivati, vestiti eleganti e pronti ad assecondare la famiglia Dursley senza utilizzare in alcun modo la magia in quella giornata.

Non avevano mai conosciuto Vernon, che a detta di Petunia era un uomo di successo che le stava dando tutto ciò che la donna desiderava e che agli occhi dei Potter era un fastidioso borghese ottuso che parlava solo attraverso luoghi comuni. Si vedeva però che lui e sua sorella si amavano e questo aveva tranquillizzato molto Lily.

 

Alla fine della cena, poco prima di andare. Lily aveva deciso di affrontare l’argomento per cui erano lì: “Petunia, la situazione è molto grave. Non voglio assolutamente metterti in pericolo e quindi non ci faremo più vedere, almeno per un po’, fino a quando la situazione non si sarà un po’ tranquillizzata… ma se mi dovesse succedere qualcosa vorrei chiederti se ti prenderai tu cura di Harry. Lo faresti?”

Petunia aveva guardato il pancione della sorella e all’improvviso si era ricordata di quanto la amava quando erano piccole. Lily era una bambina quasi perfetta e per Petunia non era mai stato facile essere alla sua altezza, ma le aveva sempre tenuto testa, almeno fino a quando non erano apparsi i suoi stupidi poteri magici, che oltre ad averla allontanata da lei in modo irrecuperabile l’avevano anche resa ancora più speciale agli occhi di tutti, mettendo Petunia in un angolo ombroso.

Però le voleva bene: quando c’erano i temporali le permetteva di dormire nel suo letto e la stringeva a sé fino a quando non si addormentavano entrambe; la aiutava sempre con la colazione al mattino e la aspettava sia al ritorno che all’andata per la scuola.

“Ma certo…” le aveva detto, mettendo nelle sue parole quanta più naturalezza possibile. Lily era corsa ad abbracciarla e Petunia avrebbe ricordato per sempre quel momento. Avrebbe tanto desiderato risponderle e dirle quanto le aveva sempre voluto bene, invece era stata zitta e aveva risposto all’abbraccio con delle piccole pacche sulla spalla della sorella, incapace di esprimere il suo amore, ancora consumata dalla gelosia.

 

Lily e James erano tornati a casa sereni, perché in fondo sapevano che l’incontro era andato tutto sommato meglio di quanto si aspettassero. Ma di fronte a loro non vedevano altro che buio. Avrebbero combattuto ancora per salvare le loro vite, per il diritto del loro bambino ad avere una vita e non a morire per mano di Voldemort. Non avrebbe vinto lui, sarebbero stati loro a trionfare un giorno, per Harry, per l’Ordine e anche per Petunia e la sua famiglia.

 

Era incinta di otto mesi quando James era stato chiamato per combattere con l’Ordine. Lei era stata costretta a restare a casa e per tutto il tempo aveva avuto il cuore in gola. Ogni rumore fuori la faceva sobbalzare e ogni minuto le pareva più lungo del precedente. 

Aveva promesso al suo James che sarebbe stata forte, che non si sarebbe lasciata cogliere dalla paura e dallo sconforto, ma più il tempo passava e meno Lily si sentiva in grado di sopportare la situazione.

 

Era così diverso quando potevano combattere insieme. Si coprivano a vicenda e prendevano parte alle missioni dell’Ordine senza paura, anche se sapevano che ogni volta poteva essere l’ultima. Il loro amore in parte a volte li frenava, perché ciascuno di loro desiderava che l’altro stesse al sicuro, ma era anche il motore che li faceva partecipare alle missioni, era il motivo per cui combattevano: per il loro futuro insieme. Perché fosse possibile vivere all’aria aperta senza doversi preoccupare del fatto che Lily era una Sanguesporco, senza avere paura per i loro figli che un giorno sarebbero arrivati.

 

Lily aveva deciso di combattere proprio per le sue origini. La famiglia Babbana dalla quale proveniva era per i Mangiamorte motivo di vergogna. Le sue origini la rendevano una nullità che non meritava neppure di vivere, come tutti gli altri Babbani. Come i suoi amici quando andava a scuola, i vicini di casa dei suoi genitori e come tutto il resto della sua famiglia. La Strega sapeva bene che la sua origine non avrebbe mai potuto determinare il suo valore. Sapeva di non aver rubato i suoi poteri ad altri Maghi inermi. 

E pensare a quanto si era arrabbiata con Severus quando le aveva spiegato la filosofia di Voldemort… Aveva perso il suo amico per gelosia, come sua sorella, ma anche a causa della vicinanza di Severus ai Mangiamorte.

Come puoi parlare con loro e poi venire a cercarmi, non capisci che se fosse per loro io sarei carne da macello, così come tutti gli altri Babbani. 

Severus le rispondeva che lei era diversa, ma a lei non era mai bastato. E ora… James probabilmente stava combattendo proprio con lui. Con quello che era stato un tempo suo amico e che li aveva venduti in cambio di un ruolo di rilievo tra le schiere del Signore Oscuro, come lo chiamavano i suoi adepti.

 

Lily aveva sempre combattuto per la sua libertà e avrebbe ricominciato a farlo quando Harry fosse nato. Stare a casa in attesa di James era per lei difficilissimo. Molto più di combattere, perché l’attesa era passiva. Ogni cosa poteva essere accaduta a James e ai suoi amici, a Silente e ai Weasley senza che lei lo sapesse e il non poterli aiutare la faceva sentire completamente inutile.

Non aveva mai pregato in vita sua. Sapeva che nel Mondo Magico non esisteva un Dio come per i Babbani, e per quella notte si sarebbe affidata a quel Dio che non conosceva sperando che proteggesse comunque i suoi cari. Tutti quanti fino a quando lei non avesse potuto ricominciare a combattere.

 

Quella sera James era arrivato a casa ferito, ma vivo. L’aveva trovata distesa sul divano, addormentata, ma chiaramente tesa. L’aveva presa tra le sue braccia per portarla nel letto, svegliandola. Lily aveva iniziato a piangere stringendolo forte a sé e causandogli un gemito di dolore. “Cosa è successo?” Aveva chiesto notando la ferita del marito.

“Doveva essere una missione leggera, invece ci hanno attaccato di sorpresa. Se non ci fosse stato Sirius sarei morto probabilmente.”

Lily aveva tirato a James una pacca sulla spalla. “Non dirmi queste cose, lo sai che non posso sopportare di non essere lì con voi…”

C’era una domanda che Lily non voleva fare. Anche se sapeva che era così, non desiderava sapere se Severus era tra i Mangiamorte. 

“Avevano la maschera, non sappiamo chi fossero.” Aveva detto James, rispondendo al suo silenzio. “Comunque con questa ferita mi sono assicurato almeno una settimana di pace con te, con voi.”

Anche se sarebbe stata una sola settimana, avrebbero assaporato ogni minuto nell’attesa di ricominciare a combattere, nell’attesa di avere il futuro di pace che desideravano per la loro famiglia.

 

 

Dalla nascita di Harry molte cose erano cambiate nella vita dei Potter. Se nei primi tempi avevano continuato a cercare di mantenere la vita di prima, col tempo si erano resi conto che ciò che tutti dicevano loro era vero: erano l’obiettivo primario di Voldemort e non potevano permettersi di farsi trovare per il bene di tutto.

Erano nascosti da ormai così tanto tempo da sentirsi in prigione nella loro bella casa comoda, ma dopo la profezia non erano più loro i destinatari dell’odio di Colui che non deve essere nominato, ma il loro piccolo bambino innocente, che da Prescelto era diventato simbolo della speranza di tutti coloro che volevano la caduta di Lord Voldemort, compresi Lily e James.

L’idea di cambiare Custode Segreto era stata di Sirius. Il loro amico si sentiva tutt’altro che al sicuro, preda delle minacce continue di quasi tutti i Black si sentiva a un passo dalla cattura. Nessuno di loro l’aveva detto, ma tutti avevano il sospetto che Remus potesse essere la spia all’interno dell’Ordine della Fenice. Un lupo mannaro facilmente diventa Mangiamorte e questo era risaputo.

Lily non aveva mai creduto che Remus avrebbe potuto tradirli. Non il dolce Remus che lei conosceva da anni e che amava lei e James come fratelli, ma Lily nell’ultimo periodo non si fidava di anima viva, solo di James e di Albus Silente.

 

Sirius, Peter e Albus erano stati gli ultimi ad andare dai Potter, portando loro regali per Harry e cibo per sussistere in quei giorni concitati. “Siamo vicini, ragazzi, presto tutto sarà finito in un modo o nell’altro.” Aveva detto Sirius, stanco e speranzoso. 

Silente appariva pensieroso più di quanto non l’avessero mai visto. “Si stanno muovendo e questo è certo. Purtroppo c’è di certo una spia tra noi perché sanno troppi dettagli, conoscono bene i nostri piani. Tra qualche giorno però capiremo chi è.” Silente aveva divulgato ai vari membri dell’Ordine notizie differenti e aspettava il momento buono per vedere dove i Mangiamorte sarebbero andati a colpire.

“Vorrei tanto che diventassi tu il nostro Custode Segreto, Albus.”

Silente aveva preso le mani dei Potter. “Mi piacerebbe, ma sapete che con me non sareste al sicuro. Sono l’indesiderato numero due, solo dopo il vostro Harry.

 

Peter se ne stava in un angolo a giocare con Harry, che da ormai qualche giorno stava in piedi da solo. Lily e James lo avevano scelto per le sue capacità peculiari: nascondersi per lui era facile e nonostante Peter non brillasse certo per coraggio, erano certi che avrebbe resistito di fronte al pericolo, in qualche modo.

“È proprio cresciuto.” Aveva detto il loro amico prima di abbracciarli e di andarsene da lì insieme agli altri ospiti.

 

I Potter non lo sapevano ancora, ma avevano firmato la loro condanna a morte quella sera.

 

La notte in cui Voldemort arrivò alla loro porta a portare loro la morte, capirono cosa avevano fatto, ma ormai era troppo tardi per rimediare. James fu guidato dal desiderio di proteggere la sua famiglia, ma anche dal risentimento nei confronti del tradimento del suo amico, che lui considerava al pari di un fratello. Aveva combattuto per tutto l’Ordine e per Remus, per avere messo in dubbio la sua fedeltà. Non era bastato però.

Lily invece aveva pregato. Non immaginava che la sua preghiera sarebbe diventata il motivo per cui suo figlio sarebbe sopravvissuto. 

Harry Potter avrebbe continuato a combattere per tutti loro e un giorno, non troppo lontano, la verità sarebbe venuta a galla.

In ogni caso, Lily avrebbe vegliato su suo figlio anche dall’aldilà, perché nulla avrebbe potuto separarla da lui, neppure la morte.

 

 

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 Fandom: Persona 3

Personaggi: Yukari Takeba, Mitsuru Kirijo, SEES

Prompt: ideali a cui aspirare

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Ideali a cui aspirare

 

 

Yukari si era sempre considerata una ragazza ottimista.

Per quanto le cose nella sua vita non fossero andate sempre come aveva sperato, aveva cercato di superare i problemi con il sorriso.

Ricordava ancora di quando aveva ricevuto la notizia della morte di suo padre. Le sue lacrime, la rabbia al pensiero che non gli avrebbe mai parlato, ma soprattutto un senso di tristezza perché non era certa che lui sapesse quanto era stato importante per lei e quanto lei gli volesse bene. L’aveva sempre visto come un uomo difficile da fare ridere, duro e severo, ma dopo la sua morte si era resa conto di non averlo conosciuto come gli altri.

Era serio nel lavoro, questo era risaputo da tutti, ma pareva sempre troppo triste. Come se ciò che faceva non gli piacesse.

Qualche volta Yukari glielo aveva chiesto. Ma tu sei contento del tuo lavoro, papà?

Gli chiedeva. 

Sono uno scienziato, faccio cose segrete che a volte non mi piacciono, ma il mio lavoro mi piace.

E cosa fai adesso, papà, gli chiedeva, lui allora le spettinava i capelli fingendo di non aver sentito la domanda.

La risposta era arrivata a Yukari solo molto tempo dopo. 

Aveva sempre rispettato Mitsuru. L’aveva considerata un’amica anche perché all’inizio era l’unica ragazza su cui potesse fare affidamento nei SEES, ma soprattutto per i suoi numerosi pregi: era seria e sempre affidabile e le era sempre sembrata molto più matura rispetto a tutti loro.

Le pareva impossibile che avessero soltanto un anno di differenza.

Mitsuru era anche dotata di un’intelligenza per la quale Yukari avrebbe venduto l’anima. Più volte la ragazza si era chiesta come facesse a far quadrare i combattimenti, il lavoro nel consiglio studentesco e i suoi voti sempre al massimo, soprattutto visto che Yukari sapeva quanto si impegnasse anche alla guida dei SEES. Lo sguardo di Mitsuru però era sempre stato estremamente triste. Era come se sapesse qualcosa che tutti loro ignoravano, o se avesse capito che il loro compito era quasi impossibile da portare a termine con successo. 

Yukari si vergognava al ricordo della prima volta che aveva avuto la possibilità di usare l’evoker. 

Mitsuru e Akihiko erano andati con lei nel Tartarus, domandandole se lei fosse pronta almeno cento volte. 

Tutti loro sapevano che combattere era necessario per la sopravvivenza della città. Il continuo aumento dei casi di sindrome dell’apatia rendeva la loro attività di combattimento vitale perché nel mondo reale continuassero a vivere normalmente.

Yukari però nonostante si fosse sentita pronta ed elettrizzata all’idea di essere finalmente in prima linea nel combattimento, aveva deluso i suoi amici. Era rimasta ferma a fissare la canna della pistola. Tremante e inutile, incapace di fare la sua parte anche quando Akihiko era stato ferito dall’ombra contro la quale stava combattendo da solo, ed era soltanto colpa di Yukari.

 

Nessuno l’aveva incolpata dell’accaduto. Non apertamente almeno, ma lei sapeva bene che Mitsuru era delusa dal suo comportamento immaturo e inadeguato. E di fronte al suo fallimento Yukari non aveva fatto niente di buono. Aveva semplicemente passato la notte a piangere, rinnegando il passato e sperando che i due le avrebbero permesso di riprovarci. Solo che non c’era nessuno che desiderasse combattere con lei, e come poteva biasimarli? Era inutile sotto pressione, debole e stupida. Continuava a chiedere se la natura, il mondo o qualunque cosa le avesse dato il potere di invocare la sua Persona non si fosse sbagliato con lei. Non sarebbe mai stata un’eroina in grado di salvare il mondo.

Avrebbe continuato a osservare Mitsuru, però, sperando ogni giorno di diventare più simile a lei. 

Sull’intelligenza non c’era nulla che potesse fare, ma tutto sommato non era quello il suo punto più debole. Semmai era il coraggio a mancarle. Al pensiero di Akihiko che combatteva anche per lei, senza mollare neanche per un istante, le erano tornate le lacrime agli occhi. Si era chiesta quanto fosse potuta sembrare una stupida con la pistola tra le mani, incapace di utilizzare l’evoker  e piangente come una bambina. Era certa che quando Akihiko era stato colpito il suo primo pensiero fosse andato a quanto lei fosse stata inutile in quel combattimento. Perché non c’era alcuna giustificazione al suo comportamento, per quanto si sforzasse Yukari non riusciva a trovarla. 

Li aveva delusi e soprattutto aveva deluso se stessa.

La sua determinazione sembrava dissolta nell’aria e Yukari non faceva che piangere da sola nella sua stanza. Combattuta tra il desiderio di vedere Mitsuru e di dirle che ce l’avrebbe fatta, che desiderava un’altra possibilità e la paura che la ragazza le avrebbe semplicemente chiesto di tornare da dov’era arrivata. Di andarsene dal dormitorio in quanto persona non più desiderata. Lei avrebbe fatto questo. Lei non si sarebbe mai perdonata.

E se invece avesse fallito di nuovo? E se con la sua inettitudine avesse causato danni più gravi della ferita di Akihiko? Come avrebbe convissuto con se stessa se avesse causato la morte di qualcuno?

 

Eppure a pensarci aveva i suoi punti di forza. Quando tirava con l’arco per esempio si sentiva come se nulla potesse fermarla. Lì al club era considerata la migliore e si rendeva conto di essere capace di far scomparire il resto del mondo concentrandosi solo e unicamente sul bersaglio, sul suo respiro e sulle braccia tese che sentiva un tutt’uno con l’arco. Perché non riusciva ad avere la stessa determinazione anche quando si trovava a dover utilizzare l’evoker?

Il fatto che a scuola fosse considerata una delle ragazze più popolari poi la faceva sentire speciale in qualche modo. Sapeva di non essere anche in quel senso ai livelli di Mitsuru, ma i suoi compagni di scuola la rispettavano e consideravano forse più di quel che valeva.

 

Quando era andato a stare al dormitorio il ragazzo nuovo però si era sentita diversa. Prima di tutto perché non era più l’ultima arrivata e poi perché lui coi suoi modi tranquilli e pacati l’aveva fatta sentire un po’ sciocca con tutte le sue paure.

Yukari da piccola aveva pensato di morire, forse era per questo che non riusciva a esorcizzare la morte premendo il grilletto, i suoi pensieri tornavano sempre alla perdita di suo padre e alla sua tristezza quando gli aveva detto addio l’ultima volta.

Il combattimento di Minato con l’ombra l’aveva fatta sentire ancora meno utile di quanto lo era stata fino a quel momento.

Il ragazzo nuovo aveva capito subito cosa doveva fare e senza paura aveva combattuto con successo contro le due ombre che li avevano attaccati. E lei invece? Lei era rimasta a terra come una stupida a farsi salvare.

 

Avrebbe imparato da quella esperienza, più di quanto era riuscita a fare dai combattimenti precedenti. 

Quella notte Yukari aveva giurato a se stessa che nulla l’avrebbe fermata, non più.

Poteva anche morire, era vero, ma non sarebbe stato l’evoker a ucciderla, semmai la sua completa mancanza di coraggio avrebbe messo in pericolo lei e i suoi amici, e questo non poteva permetterlo.

Avrebbe combattuto prima di tutto per tutte le persone che amava, per fare in modo che fossero protette dalla sindrome dell’apatia che pareva prendere di mira sempre più ragazzi anche della loro scuola, avrebbe combattuto per dimostrare a se stessa che faceva bene a credere in se stessa, perché aveva un valore unico e nessuno degli altri poteva invocare la sua Persona, che era sua e unicamente sua.

Avrebbe combattuto per dimostrare a Mitsuru che meritava la sua fiducia, che la pazienza che le aveva dimostrato avrebbe ripagato, e l’avrebbe fatto anche per Akihiko, per proteggerlo in futuro e per curarlo se ne avesse avuto bisogno.

Sarebbe stata utile al gruppo dei SEES per Minato, perché fin da subito aveva capito quanto quel ragazzo fosse speciale, quanto fosse portato al combattimento e sapeva che li avrebbe guidati attraverso un percorso che li avrebbe infine portati alla vittoria sulle Ombre, alla fine del Tartarus.

E sarebbe stata forte per suo padre che le aveva sempre detto di credere in se stessa quando era piccola, che non sarebbe mai tornato indietro, ma che un giorno era sicura che avrebbe rincontrato, e allora lui sarebbe stato fiero della sua Yukari e del coraggio, della determinazione che aveva dimostrato.

Non mirava a diventare la migliore, ma desiderava combattere, alla fine si era resa conto che la sua paura era scomparsa, sostituita da un’iniezione di coraggio che l’aveva fatta sentire in grado di cambiare le cose una volta per tutte.

 

 

 

Erano passati ormai mesi da quando per la prima volta aveva premuto il grilletto dell’evoker per invocare la sua Persona. 

Solo poche ore prima Mitsuru le aveva rivelato il grande segreto che aveva tenuto fino a quel momento. Yukari si sentiva delusa, perché prima di allora l’aveva sempre considerata quanto di più vicino avesse a un’amica e sentiva di aver perso una parte di se stessa e del suo passato con quella notizia. 

Suo padre era morto a causa della Kirijo group. Suo padre lavorava per il nonno di Mitsuru.

Yukari si era sentita una stupida per non avere mai chiesto alla madre o ai suoi nonni qualcosa in più sulla morte del padre, in fin dei conti non era un segreto per nessuno per chi stesse lavorando quando era morto, solo che lei aveva sempre evitato i dettagli, sempre per quella sua paura di affrontare la realtà che aveva sempre avuto, sin da piccola. Si chiedeva come Mitsuru l’avesse guardata in faccia fino a quel giorno, come avesse potuto rimproverarla e trattarla da ragazzina immatura quando sapeva che in realtà lei era in parte il motivo per cui si sentiva così sola, senza radici, senza una guida.

 

Quella notte la ragazza si era addormentata esausta, con le lacrime agli occhi e i pensieri che le vorticavano in testa. Ma la mattina appena sveglia aveva iniziato a vedere la situazione con un po’ di chiarezza in più: suo padre non era certo una vittima innocente di quell’esplosione perché ci aveva lavorato. Sapeva bene cosa fossero le Ombre e non si era fatto scrupoli a cercare di sfruttarle assieme ai Kirijo, anche lui in cerca di gloria, di fortuna, di un riconoscimento da parte del mondo scientifico nel quale sperava di diventare una figura di spicco, un giorno.

Mitsuru invece a essere sinceri non poteva avere colpa in quella situazione. Stava cercando di rimediare in prima persona, combattendo e prendendo sulle spalle gli errori che l’azienda della sua famiglia aveva commesso.
Mitsuru stava soltanto cercando di riparare ai loro errori mettendoci tutto l’impegno che poteva. Non era certo difficile capire perché se ne vergognasse. Si sentiva in colpa per loro e per tutte le morti che avevano causato. Si incolpava per ogni singola persona che cadesse nella sindrome dell’Apatia, ma lei non c’entrava per nulla. Yukari aveva sempre visto nello sguardo dell’amica una vena di tristezza e di preoccupazione costante e aveva sempre pensato che fosse a causa del suo senso di responsabilità, non aveva mai pensato che avrebbe potuto sentirsi complice della causa dell’apparizione del Tartarus.

Mitsuru era solo una bambina quando c’era stata l’esplosione e nonostante tutto aveva da subito cercato di fare la sua parte per risolvere il problema causato dalla sua famiglia.
Aveva utilizzato l’evoker per la prima volta quando era ancora una bambina, come poteva incolparsi? Era semmai una vittima di quella situazione, esattamente come lei.

 

Yukari nonostante in fondo avesse sempre saputo che Mitsuru non c’entrava niente non aveva esitato a incolparla per la morte di suo padre, a farle pesare il suo silenzio che probabilmente già pesava come un macigno sulla sua testa ogni volta che le parlava. Non era stata una buona amica per lei, non certo migliore di Mitsuru, che invece aveva fatto il possibile perché fosse sempre a suo agio nonostante il suo carattere penosamente pavido.

Yukari era stata una palla al piede per il gruppo all’inizio e la sua amica l’aveva difesa e protetta sempre, nonostante tutto.

 

Era il momento di ricambiare. Sarebbe andata da lei e avrebbe detto a Mitsuru che doveva smetterla di prendersi le colpe della sua famiglia, che lei era coraggiosa, forte , determinata e intelligente, ma soprattutto era stata per lei una vera amica. 

 

Yukari avrebbe preso in mano la situazione per una volta, dimostrando una maturità che non sapeva di avere e che avrebbe fatto su. Avrebbe desiderato conoscere prima la verità, ma non era certa di come l’avrebbe presa, perché era molto meno emotivamente stabile di quanto volesse dare a credere. Forse se l’avesse saputo qualche mese prima se ne sarebbe andata da lì sbattendo la porta, per poi rendersi conto del suo errore e non essere in grado di ritornare a causa del suo onore, o meglio, della sua immaturità che non le permetteva di riconoscere i suoi errori. Non aveva neppure bisogno di perdonare Mitsuru, perché non c’era niente da perdonare. 

Finalmente Yukari poteva dire di essere diventata, forse, una persona migliore. Alla fine poteva essere fiera di se stessa e delle sue decisioni.

 

 

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 Fandom: Persona 5

Personaggi: Futaba Sakura, Ren Amamiya

Prompt: https://www.youtube.com/watch?v=3EmUmbhDRiY

One Shot

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Stay tonight

 

Can't you stay

Stay with me into the night

Stay, I need you close

You can go back when the sun rise again

Just stay tonight, just stay

(KEiiNO - Spirit In The Sky) 

 

 

Durante le ultime notti Futaba non era riuscita a dormire. Continuava a cercare di pensare ad altro, ma il suo pensiero tornava sempre e comunque a lui, a Ren. 

Mancava poco ormai alla realizzazione del loro piano. Entro pochi giorni lui sarebbe stato costretto a fingere la sua morte e loro avrebbero dovuto fingere che fosse successa davvero.

Futaba continuava a chiedersi cosa avrebbe fatto se lui fosse morto davvero, se per qualunque ragione il loro piano fosse fallito e la colpa fosse in qualche modo stata sua non avrebbe mai potuto perdonarselo. 

Si sentiva persa, distrutta e sola come non lo era mai stata prima. 

Prima di conoscerlo la solitudine era per lei una sensazione rassicurante, da sola era artefice del suo destino e poteva incontrare amici online se lo desiderava, dove lei era conosciuta e rispettata, ma nessuno sapeva davvero chi fosse, era solo Medjed: l’unica e originale, potente e imitata. 

Nella vita reale invece era molto diversa: indifesa, terrorizzata all’idea che qualcuno le parlasse o la vedesse in carne e ossa, fragile come si sentiva.

Aveva chiesto aiuto ai Phantom Thieves proprio perché non riusciva più a vivere chiusa in casa, nella sua tomba in attesa che la morte arrivasse a prenderla donandole sollievo, ai suoi occhi. Spiare Ren e gli altri le aveva fatto capire che doveva cambiare qualcosa e se lei non fosse riuscita a farlo in tempi brevi, non ne sarebbe uscita più.

 

Le dispiaceva anche per Sojiro, che provava a proteggerla con tutte le sue forze, ma che in quel frangente non poteva fare nulla per aiutarla, perché Futaba sapeva che il cambiamento doveva arrivare da lei direttamente e soltanto lei avrebbe potuto decidere di uscire dalla sua prigione e far entrare il mondo.

I ragazzi si erano dimostrati tutti molto comprensivi con lei fin da subito, anche se la prima sera li aveva spaventati a morte. Per la prima volta  dopo tanto tempo, ripensandoci aveva riso di gusto, ricordandosi di Makoto e del suo terrore.

Ne avevano passate tante da allora e Futaba si era affezionata a tutti loro, ma Ren le tornava nei pensieri molto più spesso di tutti gli altri, e i pensieri che aveva su di lui cominciavano a farla sentire a disagio.

 

Aveva iniziato a sognarlo e nei sogni la abbracciava, la stringeva a sé e la ringraziava per tutto quello che lei faceva per il gruppo. Futaba si svegliava su di giri e rossa in viso, accaldata e col cuore in gola. Non aveva mai avuto il coraggio di esprimergli i suoi sentimenti, perché immaginava che lui avrebbe riso di fronte alla sua dichiarazione. In fin dei conti si era accorta di non essere l’unica a essere interessata a lui, e tra tutte si chiedeva come avrebbe potuto sceglierla, stramba e incapace di stare al mondo com’era.

C’era Makoto, intelligente, abile e coraggiosa; e poi Ann, la bellezza fatta persona. La dolce, premurosa e bellissima Ann. 

Haru, poi, era l’eleganza e la raffinatezza ed era anche ricca, cosa che non guastava.

Cosa aveva lei più di loro, si chiedeva Futaba e non era in grado di rispondere. Grande cervello, ma non aveva intelligenza pratica. Era carina, questo lo sapeva, ma non bella come le altre e il suo portamento non era altrettanto buono, ricurva e imbranata com’era.


Quella sera però stava cercando di non pensare a tutti i suoi difetti. Quella sera voleva andare da lui perché sapeva che poteva essere la sua unica possibilità e non voleva rimpiangerla per il resto della sua vita.

Era arrivata nella sua stanza trafelata, quasi correndo perché sapeva che se si fosse fermata, se si fosse data il tempo di pensare sarebbe tornata indietro e si sarebbe seppellita sotto il suo letto per passare la notte nella vergogna della sua paura. Non poteva avere paura di lui, doveva provare.

 

Gli era saltata al collo tremando di paura e lui aveva risposto al suo abbraccio. Morgana per fortuna non era lì a vedere quel pessimo spettacolo e ad aggiungere vergogna a quella che già provava. 

“Futaba, va tutto bene?”
“No, non va bene. Io… non voglio perderti.”

Ren le stava accarezzando i capelli con una mano, mentre con l’altra la stringeva con affetto. “Non mi perderete, funzionerà. Ho fiducia in te, in voi.”

“Puoi… puoi…” Non riusciva a parlare, con la testa appoggiata al suo petto, sentiva il suo cuore battere regolare e non faceva altro che cercare un modo per trovare le parole. Per un attimo era arrivata a pensare di scrivergli un messaggio col cellulare, visto che le parole non volevano uscirle dalla bocca. “Io… Ren, io posso… posso restare con te?”

Futaba aveva alzato la testa ed era riuscita a guardarlo negli occhi. La paura che lui la rifiutasse si stava facendo più flebile ogni secondo che passava. Si stava domandando se lui la vedesse come una sorellina minore, come una sciocca ragazzina infatuata di lui come le altre. Ma negli occhi scuri di Ren non c’era disprezzo, non c’era imbarazzo e neppure paura.

“Posso restare con te stanotte?” Gli aveva chiesto raccogliendo tutte le sue forze. Lui l’aveva attirata a sé in un bacio che era stato diverso da come lo aveva sempre immaginato Futaba.

Non che la ragazza avesse alcun tipo di esperienza, ma pensava che sarebbe stato difficile e invece tutto era stato anche troppo naturale. Avevano passato la notte insieme sul letto di Ren, quasi senza parlare. Futaba si era addormentata tra le sue braccia ed era stato il sonno più bello della sua vita. Sentiva di aver superato un ostacolo che aveva sempre creduto insormontabile.

 

Sperava di cuore che il piano funzionasse, perché voleva di più dei baci di quella notte, voleva una vita con Ren, voleva diventare una donna a tutti gli effetti, una donna in grado di uscire a cena con lui e di andare a comprargli un regalo senza arrossire e sapeva che con lui avrebbe potuto farcela. Con lui sarebbe diventata una persona migliore persino lei, nonostante la sua incapacità cronica di vivere come una persona normale.

 

Futaba era uscita dal LeBlanc con un sorriso beato stampato sul volto ed era tornata nel suo letto sperando che Sojiro non si fosse accorto della sua assenza quella notte. In realtà anche se lui l’avesse scoperta non le sarebbe importato. Era troppo felice, ci si sarebbe potuta abituare.

 


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