Apr. 3rd, 2019

quistisf: (Default)
Unite nello spirito
Memory loss
L'isola felice
La beffa
Istinto felino
Battle Royale
You in the dark




Fandom: Persona5
Personaggi: Twin Warden, Morgana, Ann, Ryuji, Kawakami
 
Justine e Caroline erano una cosa sola, entrambe lo sapevano, perché pensavano all’unisono e ciascuna sapeva sempre cosa l'altra avrebbe detto.
Erano gemelle, entrambe pensavano fosse per questo che non avevano mai bisogno di esprimere le loro idee e i loro sentimenti con la voce, perché loro comunicavano attraverso lo spirito.
Anche i dubbi dell'ultimo periodo sembravano averle assalite nello stesso momento.
A entrambe il comportamento di Igor pareva strano e, anche se sapevano che non avrebbero dovuto mettere in dubbio il loro maestro, non avevano potuto evitare di guardarsi a lungo negli occhi, ponendo quella domanda: è sempre stato così?

 
 
Quando avevano aperto gli occhi, era bastato un istante a entrambe per sentire la presenza dell’altra.
La ragazza si era rivolta verso la gemella conscia che l’unica cosa che sapeva era che loro dovevano stare insieme, qualunque cosa fosse successa.
“Tu ti ricordi qualcosa?”
“No, neppure il mio nome. So solo che siamo sorelle.”
Si erano fatte forza e si erano alzate in piedi, avevano notato i loro abiti: erano divise da guardie e intorno a loro c’erano delle celle. Che quella fosse una prigione? C’era qualcosa che non quadrava in quel loro risveglio, prima o poi insieme avrebbero capito cosa fosse.


 
 
 
 
Sadayo andava spesso a pescare, la rilassava.
Ne approfittava quasi sempre per leggere un libro tra quelli che aveva da parte, visto che la sua biblioteca personale continuava ad arricchirsi e lei tra la scuola, il secondo lavoro, gli impegni extra e i lavori di casa che si accavallavano sempre, non sarebbe mai riuscita a occuparsi della lettura nel suo appartamento, perché c’era sempre qualcosa di più importante da fare. Lì invece aveva iniziato a farsi una certa reputazione e in molti andavano a chiederle consigli. A lei piaceva restare in quel luogo e spesso non usava neanche l’esca, prendeva solo il pesce che poi avrebbe consumato e per il resto si rilassava e si lasciava andare alla lettura. Era la sua isola felice.


Gli avevano detto che gli avrebbero portato del sushi e Morgana non riusciva a evitare di sbavare al solo pensiero. Il suo tonno, poteva immaginarne il profumo e la fragranza. Poteva sentirlo sciogliersi sulla sua ruvida lingua felina.
Quando Ren, Futaba e il Boss erano entrati dalla porta, Morgana li stava aspettando seduto sullo sgabello, la coda vorticante di desiderio come un serpente. Ma l'espressione del Joker non gli diceva niente di buono.
"Mi dispiace, non avevamo più soldi... si è mangiata tutto lei."
Il gatto era deluso e furibondo. Era la seconda volta che capitava, la prima le cose erano andate in modo imprevedibile e lui aveva perdonato, ma questa volta non avevano scuse.
Futaba si era avvicinata a Morgana e gli aveva fatto qualche carezza, per poi dargli qualche pizzicata sul muso. "Mona, mi farò perdonare, te lo prometto!"
"E va bene, cos'altro posso fare?" Da gatto non poteva certo andare al ristorante a comprarsi del sushi, in fin dei conti.
Sconsolato, era sceso dalla sedia e si era accontentato di un vecchio pacco di crocchette al tonno.
 
 
A Morgana non era piaciuta per niente la gita sulla spiaggia. Forse era la sua parte felina a fargli odiare l’acqua e la sabbia che scottava bollente sotto le sue zampe, era però vero che la sua parte umana invece aveva apprezzato la rilassatezza del luogo e le ragazze in costume.
Morgana si stava annoiando così tanto che aveva deciso di fare un giro sul bagnasciuga, dove l’aria era meno asfissiante. I suoi occhi di felino erano stupido stati attirati da un granchio che stava imprudentemente muovendosi verso di lui.
Quando aveva avvicinato il muso per annusarlo, col solo intento di conoscerne l’odore, il granchietto gli aveva pizzicato il naso con decisione. Morgana aveva miagolato, infastidito. Chiunque avesse capito davvero le sue parole, avrebbe sentito i suoi variopinti insulti alla bestiolina.
Era in momenti come quello che Morgana si convinceva di essere un umano, un vero gatto si sarebbe mangiato quel piccolo tesserino fastidioso. Lui, invece, l’aveva lasciato andare via.




Battle Royale!AU
 
Ann si era nascosta in cima a un albero, non riusciva a pensare a cosa le sarebbe potuto succedere se lui l’avesse vista. Ormai erano rimasti solo in due: lei e Ryuji, il suo amico d’infanzia che probabilmente l’avrebbe uccisa appena l’avesse individuata.
Lei non avrebbe mai potuto, lei sarebbe morta pur di non spezzare la sua vita. A volte si era chiesta cosa sarebbe successo se fossero stati solo loro due a sopravvivere, ma non era stata in grado di rispondere.
Sperava che lui ricordasse che loro erano anime gemelle, fatte per stare insieme, per non farsi mai del male.
In quel momento Ann aveva incrociato il suo sguardo. Lui aveva alzato le mani, abbandonando le armi ed era corso verso di lei.
Forse sarebbero morti insieme, ma nessuno dei due avrebbe mai potuto interrompere volontariamente la vita dell’altro.
 




Midnight Channel!AU
Gli sembrava che fosse davvero una sciocchezza, ma Ryuji si era sempre chiesto se lui, che non era mai neanche riuscito a provare a invitare fuori una ragazza, avesse un'anima gemella. Quella notte pioveva e lui non riusciva a dormire.
Tanto valeva che ci provasse.
Si era messo a fissare la televisione spenta, fino a quando d'un tratto non vi aveva visto una figura lontana, con dei lunghi capelli biondi. Aveva capito subito chi fosse: Ann era sempre più vicina, al punto che temeva potesse uscire dallo schermo. E invece era svanita così com’era arrivata.
Ryuji era rimasto a fissare il nero della televisione con la bocca aperta. Non poteva crederci, ma a pensarci bene era felice che fosse lei.
quistisf: (Default)
Fandom: Originale
Partecipa al COWT9
Prompt: zodiaco

L'acquario
Libertà
Il salmone
13/09
I banchi di pesce
il re
Panico
What the Hell was that?!
il toro in libertà
La Corrida
La bilancia





L'acquario
Enrico aveva iniziato a sviluppare da piccolo la sua passione per i pesci e per gli acquari. Sin da quando suo padre gli aveva regalato il primo pesce, che aveva tenuto sempre in modo impeccabile, trattandolo con amore e dedizione. Conosceva ogni tipo di pesce, le alghe e le piante da acquario, ogni anno poi acquistava qualcosa di nuovo e modificava qualche elemento del suo mare personale. I suoi pesci avevano una delle vasche più grandi che esistessero in mercato e lui tentava di riprodurre il loro habitat con ogni mezzo a sua disposizione.
Le luci e la temperatura erano sempre regolati al meglio.
Peccato che nessuno potesse ammirare i suoi pesci, che erano gli unici amici che aveva, gli unici che lo aspettavano ogni giorno a casa.



Libertà
“Non è crudele tenere i pesci in acquario?” Gli aveva chiesto il figlio.
“Forse starebbero meglio liberi nel mare, è vero, ma qui sono al sicuro, Lorenzo.”
“Ma sono chiusi qui, non possono andare da nessuna parte. Si divertono?”
“Sono insieme e sono amici, e qui non c’è niente che possa fare loro del male, eccetto forse il gatto se un giorno capirà come alzare il coperchio.
La natura è crudele, Lorenzo, e io con loro faccio solo quello che vorrei fare con tutte le persone che amo: li proteggo, li nutro e mi assicuro che niente possa fare loro del male. Li tengo al riparo dai predatori e in questo modo garantisco loro una vita forse noiosa, ma di certo sicura.”



Il Salmone
"Mi dici qual'è il tuo pesce preferito?" Aveva chiesto alla mamma.
"Direi che è il salmone. E il tuo invece?"
Le si erano illuminati gli occhi: "Il pesce pagliaccio, Nemo! Perché è tutto colorato e bello."
"È una buona scelta."
"E perché tu il salmone?"
"Perché è un pesce molto forte, è l'unico che arriva al mare e poi riesce a tornare al fiume controcorrente, nuotando velocissimo per andare a incontrare la... la moglie e fare tanti piccoli salmoni."
Laura si stava provando a immaginare la fatica del nuotare controcorrente, lei in piscina faceva fatica ad andare avanti e l'acqua era ferma. "Allora anche il mio è il salmone."



13/09

La data, il tredici settembre di quell’anno era incisa sul suo braccio sin da quando era nato. Sua madre gli aveva spiegato che quella giornata evidentemente segnava un’esperienza per lui molto importante.
Quella mattina quindi si era alzato pensando a cosa gli sarebbe successo: su internet aveva letto che avrebbe potuto incontrare la sua anima gemella o che avrebbe potuto morire e lui sperava sinceramente che l’opzione corretta fosse la prima. Dopo colazione si era recato all’università come al solito, dove per ore si era guardato intorno in cerca di una persona nuova, qualcuno che fosse lì per lui.
Una volta terminate le lezioni aveva iniziato a pensare che forse in effetti l’opzione corretta determinasse la sua morte e cominciava a preoccuparsi.
Nonostante questo, non si era preoccupato di guardare la strada per attraversare e si era spaventato quando aveva sentito qualcosa dietro di sé che lo strattonava.
Aveva perso l’equilibrio ed era caduto all’indietro, pensando già alla botta di testa sullo spigolo del muretto di cemento che aveva visto tante volte negli horror e che credeva questa volta avrebbe davvero posto fine alla sua vita.
Invece era semplicemente caduto, senza ulteriori ripercussioni.
Appena aveva alzato la testa i suoi occhi erano stati catturati da quelli di una ragazza, probabilmente era stata lei a buttarlo a terra.
“Non guardi dove vai? Non ci tieni alla vita?”
Forse in realtà la prima opzione era corretta: aveva incontrato la sua anima gemella.

I banchi di pesci

Era sempre stata affascinata dai banchi di pesci e dai loro movimenti veloci e sincronizzati, spesso per rilassarsi guardava un video con i pesci e la musica sinfonica di sottofondo. Non sapeva se si muovessero in base alla corrente marina o alla presenza dei predatori e non le interessava, le piacevano i loro movimenti, delicati e leggeri: sembrava danzassero. A volte si immaginava come sarebbe stato essere un pesce e vivere insieme a migliaia di altri esseri con un pensiero unico. Si credeva se in quel caso sarebbe riuscita a scomparire nella massa, invece di continuare a essere additata come strana, diversa.

Il Re
Il desiderio più grande di Andrea era vedere gli animali selvatici in libertà.
Aveva prenotato il viaggio in Africa perché la savana era l’ambiente che lo aveva sempre affascinato più degli altri, ma non si aspettava che dal vivo sarebbe stata ancora più spettacolare di quanto avesse mai immaginato.
Ricordava l’arrivo alla destinazione con la Jeep. La guida aveva detto che non c’era mai la certezza di vedere leoni o ghepardi, ma che invece gli erbivori sarebbero stati sicuramente presenti nelle vicinanze del fiume. Si era poi raccomandato che nessuno pensasse di scendere dalla Jeep e che non cercassero di fare rumore per attirare gli animali.
Aveva potuto osservare delle zebre e alcune antilopi in corsa. Ma dopo un paio d’ore finalmente era arrivato il re: un leone dal manto chiaro e splendente, dalla criniera folta e dai muscoli vibranti ben visibile sotto il corto manto. La coda terminava con un ciuffo di pelo e si muoveva elegante.
Si era semplicemente seduto all’ombra di un albero, dopo essersi stiracchiato come un grosso gatto contro il tronco. Era chiaro che avesse mangiato e che probabilmente sarebbe presto stato raggiunto dal suo branco. Era stupendo, era chiaro guardandolo perché lo chiamassero re.
Andrea non muoveva un muscolo pur di tenerlo inquadrato alla perfezione con la sua reflex. Gli aveva scattato una quantità assurda di foto.
Per sempre si sarebbe ricordato di quel giorno, anche perché la sua foto gli avrebbe fatto vincere un concorso di fotografia.

Panico
Panico
Paolo aveva sentito un urlo provenire dalla stanza della sua coinquilina. Aveva bussato alla sua camera e lei aveva gridato di nuovo: “Aiuto!”
Aveva quindi aperto lentamente la porta e l’aveva trovata in piedi sul letto, con un libro saldo tra le mani.
“C’è uno scorpione!” 
Paolo si era messo a ridere. “E tu per uno scorpioncino ti preoccupi così tanto? Sono anche insetti utili, sai?”
“Utili o no, fallo sparire.”
Paolo aveva mantenuto il controllo, ma la realtà era che lo scorpioncino era in realtà un mezzo gigante, non ne aveva mai visti di così grandi e si stava domandando come avrebbe fatto a portarlo via senza per forza ucciderlo, nonostante avesse abbastanza paura anche al solo pensiero di avvicinarsi a quella coda acuminata e pericolosa.
Aveva recuperato una scatola da scarpe, mentre la cercava sentiva Lisa che continuava a ripetere “Guarda che se sparisce io vado a dormire in camera tua, non ci resto qui, sbrigati. Per favore!”
Raccolto il suo coraggio era tornato dentro e con l’aiuto di una scopa aveva infilato l’insetto nella scatola. “Ecco fatto, ora vado a liberarlo giù.”
Lisa finalmente si era lasciata cadere sul letto, esausta. “Grazie, e scusa se ho urlato. Ora però vai che se ti scappa è la volta che svengo.”
Era sceso e l’aveva lasciato ai piedi di un albero, per poi osservarlo sparire in mezzo all’erba.





What the hell was that?!


Infilandosi gli stivali, Caterina aveva sentito qualcosa di strano, come se dentro ci fosse qualcosa, aveva quindi iniziato a tirare fuori il piede quando aveva sentito un dolore lancinante sull’alluce.
Lo scorpione era fuggito non appena si era staccato dal suo piede, lasciandola lì dolorante.
Caterina sapeva bene che le punture degli scorpioni non sono molto diverse da quelle di una vespa, quindi aveva cercato di mantenere la calma, ma aveva chiamato aiuto perché non riusciva proprio ad appoggiare il piede.
Suo marito era arrivato quasi subito e nel vedere la scena si era messo a ridere. Non riusciva a smettere. “E tu che la prendi sempre in giro,” aveva constatato ridendo. Lei non capiva a cosa si riferisse.
“Aiutami invece di fare lo stupido!”
Lui continuava a ridere. “Uno scorpione, vero?”
Lei gli aveva tirato un leggero pugno contro la gamba.
“É un sì? Sai, è successo anche a mia sorella quando era piccola, esattamente con degli stivali e esattamente su quel dito. Credo ci sia una maledizione in questa casa!”
Per fortuna Giuliano era riuscito a smettere di ridere in poco tempo, lei lo conosceva e per questo non si era arrabbiata di fronte a quella reazione. Una volta in casa aveva raccontato ai suoceri ciò che era successo ed entrambi avevano riso.
“Ora mi sa che non riderai più quando vedrai tua cognata che sbatte le scarpe, vero?” in effetti, forse un po’ se l’era meritata quella lezione.

Il toro in libertà



Paola andava spesso in campagna dai nonni e più di una volta le avevano chiesto di andare a prendere il latte dal vicino di casa. Lei amava osservare le mucche e un paio di volte il signor Giuseppe le aveva anche permesso di provare a mungerle, ricordava come avesse guidato le sue mani e come a lei fosse sembrato strano e terribilmente affascinante.
Quel giorno però il vicino non l’aveva fatta entrare nella stalla, anzi, le aveva chiesto di entrare subito nella loro casa. Paola si era chiusa dietro il portone d’ingresso, sentiva rumori continui dalla stalla e si stava spaventando.
Poi l’aveva visto attraverso la finestra: il toro aveva iniziato a correre in circolo nel cortile, aveva iniziato a compiere cerchi sempre più grandi, fino a quando non aveva deviato per campi. Libero, possente e muscoloso, correva con la testa bassa e in effetti faceva abbastanza paura.
L’avevano tenuta lì per quasi un’ora, fino a quando il toro non era stato riportato nella stalla.
Trovava incredibile quel contrasto tra le mucche, così mansuete e la forza combattiva del toro, e si chiedeva cosa avrebbe fatto se l’avesse trovato per la strada. Di certo anche lei avrebbe combattuto, in fin dei conti era del segno del toro.


La Corrida


Era andata in Spagna per la prima volta negli anni ottanta, era solo una ragazza in vacanza coi genitori e nessuno di loro si era preoccupato troppo di ciò che avrebbero visitato. Avevano preso un pacchetto viaggio completo da un’agenzia che comprendeva alcune visite e spettacoli.
Quando erano entrati nello stadio della Corrida, subito Monica aveva pensato che l’aspetto non sembrasse per nulla divertente: pareva un circo, con la terra al centro e attorno gli spalti. Non c’era molta gente, ma lentamente lo stadio si stava riempiendo e c’erano anche bambini, quindi aveva pensato che assomigliasse a uno spettacolo da circo.
Aveva detto ai suoi che avrebbe preferito non andare, ma visto che avevano il biglietto alla fine si era fatta convincere, soprattutto perché sapeva che non l’avrebbero lasciata da sola e che quindi avrebbero rinunciato anche loro altrimenti.
Quando era entrato il torero, si era esibito facendo svolazzare un po’ il telo rosso che aveva e le bandierine che teneva in mano, Monica non aveva capito cosa fossero di preciso, l’avrebbe purtroppo scoperto presto.
Quando il toro era entrato, il pubblico aveva iniziato a incitare il torero gridando “Olé!” ogni volta che riusciva a evitare l’animale.
Il toro sembrava furibondo ed era triste vederlo lì a rispondere alle provocazioni di quell’uomo che chiaramente non aveva buone intenzioni.
Quando la prima di quelle bandierine gli era stata piantata sulla schiena il toro aveva sollevato il collo in segno di dolore e lei aveva visto subito le gocce di sangue sulla sabbia. Nel vedere quello spettacolo, sempre più difficile da sopportare, nell’osservare e nel sentire i lamenti del toro sempre più lento, sempre più debole, aveva iniziato a piangere. I suoi genitori che all’inizio si erano uniti ai cori di incitamento col pubblico, avevano smesso di parlare. 
“Andiamo via,” aveva detto suo padre.
A Monica erano venuti in mente i Gladiatori all’epoca degli antichi romani e si era ricordata di come tutti in classe si fossero chiesti come la morte potesse essere considerata intrattenimento. Forse, pensava, se un povero toro poteva soffrire in quel modo solo per una questione di divertimento, l’umanità non si era civilizzata poi tanto in duemila anni.

La bilancia


La bilancia era sempre stata la sua peggior nemica. Adele era a dieta da sempre e nell’ultimo periodo, da quando aveva iniziato a uscire con Leonardo, non aveva più fatto molto caso a ciò che mangiava. Tra cene fuori, dolci e pizze immaginava di aver preso peso. La verità però era che si sentiva molto meglio in quel periodo di quanto non si fosse sentita in tutta la sua vita.
Le importava poco il suo peso in quel momento, perché finalmente aveva iniziato a sentirsi bella nonostante la cellulite, nonostante la pancia e i polpacci grossi.
Per questo quando invece si era accorta di aver perso ben due chili e mezzo, aveva quasi fatto un salto di gioia: era davvero felice.

Friends

Apr. 3rd, 2019 10:31 pm
quistisf: (Default)
Fandom: Friends
Personaggi: Monica, Chandler, Phoebe, Ursula
Partecipa al COWT9
Prompt: Zodiaco


TV
Suicide
Lies
Lo specchio
Scherzi della mente
Papà





TV
Da piccole, quando la loro mamma le metteva di fronte alla televisione, Phoebe stava in silenzio a guardare ciò che la madre aveva approvato. Ursula invece si metteva di spalle, per niente felice di vedere sempre le stesse videocassette contenenti film tagliati in più punti, le cui storie non filavano mai del tutto.
"Sono stufa, perché non posso guardare i cartoni animati come tutti gli altri?" Chiedeva, protestando.
Phoebe invece credeva nello scudo di protezione che la loro mamma aveva creato per loro e non aveva alcuna intenzione di rompere l'incanto e di tornare a vivere nel mondo di tutti gli altri bambini, preferiva stare nel loro, ricco d'amore.

suicide
Quando sua madre Lily si era suicidata era stata Ursula a trovarla.
Era entrata nella stanza e, piangendo, aveva subito aperto le finestre e chiuso il gas, poi era tornata fuori dall'appartamento, dove Phoebe si era fermata a cercare di attirare un gatto.
"Dobbiamo andare dalla nonna, adesso." Aveva ordinato, prendendola per un braccio.
Non sapeva cosa fare ed era terrorizzata, ma parlarne con Phoebe non avrebbe migliorato la situazione, odiava l'immaturità della sorella alla quale non poteva mai dire niente di serio e in quel momento era da sola ad affrontare quel dolore terribile, aveva bisogno di un adulto.

Lies
Ursula non riusciva a evitare di mentire.
Quando Phoebe era stata al ristorante, per un attimo le si era scaldato il cuore nel constatare che stava bene, erano anni che non la vedeva e non poteva esserne certa.
Poi però aveva parlato e a Ursula era tornata in mente la bambina che viveva sulle nuvole con la quale aveva dovuto aver a che fare per tutta la sua infanzia. Aveva provato più volte a trascinarla nella realtà, ma lei preferiva stare nel suo mondo di favole e Ursula non poteva sopportarlo. Neppure lei era una santa, mentiva per avere ciò che voleva dalla vita, ciò che quando aveva provato a giocare rispettando le regole le era sempre stato negato. Un po' alla volta le bugie avevano iniziato a diventare un po' difficili da mantenere in modo coerente, ma Ursula era sempre stata intelligente e ogni volta che le cose non erano andate secondo i suoi piani si era reinventata. Forse si stava raccontando una favola anche lei in quel momento, forse assomigliava a sua madre e a Phoebe più di quanto avrebbe voluto ammettere, ma avrebbe continuato a vivere così: secondo le sue regole, proteggendosi da ciò che poteva farle male.

Lo specchio

Per anni, nel periodo in cui aveva vissuto per strada, Phoebe si era sforzata di non pensare a sua sorella. Ursula se n’era andata via un giorno, senza dire niente a lei e alla nonna e da quel momento Phoebe non se n’era più preoccupata.
Un giorno, passando di fronte a una vetrina aveva intravisto il suo riflesso su uno degli specchi esposti. Aveva avuto un tuffo al cuore, si era fermata ed era ritornata sui suoi passi. Nel notare lo specchio si era intristita. Anche se non avevano mai avuto un buon rapporto, non le sarebbe dispiaciuto incontrarla e vedere come se la passava.

Papà
Ursula non pensava troppo al passato, il presente la impegnava abbastanza da impedirle di avere troppe distrazioni. Phoebe le aveva detto di aver trovato l’uomo che le aveva concepite, non lo considerava suo padre e in tutta onestà sperava fosse morto. A volte si era chiesta se la sua vita sarebbe stata diversa se lui fosse rimasto con loro, ma non voleva saperlo. Non le interessava: Ursula non era certo una santa, viveva alla giornata facendo ciò che voleva. Non era piena di amici come sua sorella, né le interessava esserlo. Nella vita aveva imparato a contare su se stessa e avrebbe continuato su quella strada.



Scherzi della mente
"It is said that if one would stare at the screen of a closed television, alone, at midnight during a heavy rain, one could see their soul mate."
—Chie Satonaka


Monica aveva sentito quella storia da qualche parte, non sapeva neppure dove, ma tentare non l'avrebbe fatta sembrare troppo scema, in fin dei conti mettersi di fronte a una televisione spenta non era strano come bruciare salvia e fotografie degli ex, era molto meno imbarazzante e se Rachel fosse entrata nella stanza non si sarebbe resa conto delle intenzioni di Monica.
Si era seduta e aveva quindi iniziato a concentrarsi sul suo desiderio di conoscere la propria anima gemella e lentamente aveva iniziato a vedere qualcosa. Per un attimo aveva pensato di essere impazzita nel vedere riflesso il viso di Chandler. sconvolta, aveva scosso la testa e si era stropicciata gli occhi con forza. Probabilmente aveva davvero bevuto un bicchiere di troppo.

I gemelli

Apr. 3rd, 2019 10:44 pm
quistisf: (Default)
Fandom: Harry Potter
Personaggi: Fred Weasley, George Weasley
Partecipa al COWT9
Prompt: Gemelli

“I hate you!” “No you don’t.”
Fulminati
Polvere
Il Bolide

“I hate you!” “No you don’t.”

Fred aveva messo a punto un nuovo tipo di scherzo per il loro negozio, che avrebbe aperto entro pochi giorni. Si trattava di un cioccolatino che, se i suoi calcoli fossero stati esatti, avrebbe causato un irrefrenabile bisogno di ballare.
Visto che non aveva alcuna voglia di testarlo su se stesso, aveva messo il cioccolatino nella tasca della sua giacca, facendo spuntare leggermente l’incarto.
Pensava che di certo uno dei suoi fratelli l’avrebbe preso appena l’avesse visto e sperava tanto che sarebbe stato Percy, ma con George sarebbe stato molto più divertente, ne era certo.
Si era disteso per riposare un po’ e si era addormentato.
“Ti odioooo!” Un urlo l’aveva svegliato.
Il suo gemello stava ridendo come un pazzo mentre saltellava per la stanza.
“Non mi odi, semmai mi ami, dillo che mi ami!” Fred era scattato in piedi e stava saltellando verso il fratello. “Sono un genio!”
Si erano messi a ballare insieme, facendo passi a caso e senza alcuna coordinazione. Fred non gli aveva detto che non era sicuro che l’effetto sarebbe passato in tempi brevi e sperava che la vendetta del fratello sarebbe stata altrettanto divertente.

Fulminati
Quando ai due gemelli Weasley veniva in mente uno scherzo, era come se l'idea balenasse a entrambi in mente nello stesso instante: si guardavano negli occhi ed era fatta.
Quella volta era stata una cosa semplice, era bastato un cenno: avevano passato in silenzio tutta la giornata, cosa che aveva preoccupato da subito i loro genitori e quando Avevano sentito il rumore del secchio avevano capito che finalmente il misfatto era stato svelato.
Percy era entrato in casa ricoperto di fango dalla testa ai piedi, col mantello nuovo del quale si era tanto vantato che quasi sicuramente era da buttare.
Posso permettermelo perché io lavoro per il Ministro.
Prima o poi avrebbe imparato, forse, a tenere chiusa la sua boccaccia.


Polvere
Non piangere, George sapeva che Fred avrebbe detto così se ne avesse avuto la possibilità.
Lui gli parlava ancora. A volte iniziava a parlare aspettandosi che arrivasse lui a concludere le sue frasi come accadeva un tempo. Ma non sarebbe più successo e lui avrebbe fatto bene a cominciare a rendersene conto. Aveva altri fratelli, era vero, ma nessuno di loro era Fred.
A George sembrava di aver perso una parte di se stesso, perché anche quando stavano separati solo per poche ore, quando si ritrovavano era come se non si vedessero da una vita.
Senza di lui, ora George avrebbe dovuto contare solo sulle sue forze.

Il Bolide
Alla fine era successo: George era uscito dall’allenamento su una barella.
Giocando a Quidditch qualche piccolo errore poteva capitare, soprattutto ai Battitori che non sempre riuscivano a dirigere i Bolidi dove volevano. I gemelli Weasley però sbagliavano di rado. Il problema era che a volte giocavano tra loro più che con la squadra, si lanciavano addosso i bolidi con una velocità e una precisione che spesso Oliver aveva considerato piacevole da vedere, ma che a volte diventava troppo pericolosa.
“Andateci piano,” aveva ordinato. Ma a loro gli ordini davano l’orticaria, quindi i due avevano deciso di fare comunque a modo loro. Certo, Fred avrebbe potuto aspettare che George finisse di parlare con Anjelina prima di lanciargli addosso il Bolide, ma si sa: gli errori possono capitare.

Drabble

Apr. 3rd, 2019 10:48 pm
quistisf: (Default)



Fandom: A Game of Thrones
Personaggi: Cersei Lannister, Jaime Lannister
Partecipa al COWT9
Prompt: Gemelli

Never Alone

Jaime e Cersei erano sempre insieme.
Non c'era niente che li potesse dividere: giocavano, correvano e dormivano insieme.
Erano uniti a un livello tanto profondo che quando venivano separati sembrava che il loro spirito si spegnesse, che nulla importasse loro, passavano il tempo mogi e apatici ad aspettare di vedersi. Cersei era capace di domandare almeno dieci volte in un'ora "Quando posso stare con Jaime?" E lui spesso scappava dalla sua stanza per andare a cercarla. Non avevano bisogno di parlare per trovarsi in un determinato luogo, sembravano guidati dalle loro anime gemelle che non avrebbero mai permesso loro di perdersi.


L'intruso
La prima volta che Cersei aveva visto Tyrion aveva detto che quello non era suo fratello. Aveva ucciso sua madre e lei non l’avrebbe mai perdonato. Jaime invece aveva guardato nella culla per lungo tempo, osservando le piccole mani che ondeggiavano lente e i suoi occhi grandi e profondi. Non gli sembrava così male. “Guardalo, non fa paura!” Jaime sapeva che i discorsi del padre avevano influenzato sua sorella, ma si chiedeva come avesse potuto un infante così piccolo uccidere una persona, gli sembrava assurdo.
“Ora vorrai più bene a lui che a me?” Gli aveva chiesto.
“Non potrei, noi siamo uniti.”



Equilibrio

Apr. 3rd, 2019 10:50 pm
quistisf: (Default)
Fandom: FFVIII
Personaggi: Quistis Trepe, Seifer Almasy
Partecipa al COWT9
Prompt: Bilancia
Parole: 180

Note: ho preso da qui le caratteristiche del segno della bilancia https://oroscopo.grazia.it/bilancia/caratteristiche-segno-bilancia.html

Equilibrio

 

Quistis era sempre stata una persona equilibrata: nella sua carriera da studentessa al Garden non aveva mai avuto problemi in questo senso, ma da quando era arrivato Seifer la sua vita era cambiata. Le piaceva lavorare in gruppo e cercava sempre di gestire le situazioni in modo che tutti riuscissero a fare la loro parte senza sentirsi inutili o sovraccarichi di lavoro, per questo e per le sue strategie sempre studiate era conosciuta come una delle più promettenti insegnati del Garden.

Cercava sempre ogni modo possibile per crearsi attorno armonia e tranquillità, ma con lui non c’era verso di riuscirci. Adorava fare lunghe discussioni e lui troncava ogni singolo discorso. Anche Squall lo faceva, ma solo perché era un tipo taciturno.

Seifer invece cercava sempre di farla arrabbiare in ogni modo. La punzecchiava, la contraddiceva. Per sua fortuna, però, fino a quel momento Quistis era riuscita a mantenersi tranquilla, mancava poco, però perché lo lasciasse lì ad arrangiarsi nella caverna con Ifrit. Visto che si riteneva tanto bravo lei gli avrebbe dato la possibilità di dimostrarlo una volta per tutte.

 

quistisf: (Default)
Fandom: Persona 5
One shot
Partecipa al COWT9
Prompt: Arcani maggiori
Note: In Persona 5 ogni personaggio è associato a uno degli Arcani Maggiori, che ne determina le caratteristiche.

Afficionado
La Veggente
Sadayo
Il Tonfo
Doubts
Il test
Yaldabaoth


 
"There are probably a lot of people who have high hopes for the Phantom Thieves' next move. So I've also implemented an anonymous poll on the site. "Do you believe in the Phantom Thieves, or not?""

—Yuuki Mishima, Persona 5
Dopo aver confessato ad Amamiya e a Sakamoto ciò che veramente accadeva con Kamoshida, Yuuki si era sentito più leggero.
Arrivato a casa, si era domandato perché tutti continuassero a mantenere il segreto, visto che la gloria per le vittorie della squadra di pallavolo era tutta per il professore, loro, che si impegnavano al massimo per ottenere risultati, spesso sforzandosi più di quanto sarebbe stato accettabile in una scuola, non avevano che rimproveri e vessazioni continue. Dove era la soddisfazione che avevano l’anno precedente? Quando prima che arrivasse Kamoshida la squadra non vinceva sempre, ma almeno era unita e non cercavano continuamente di incolparsi a vicenda per evitare di dover subire le ire del loro allenatore.
Quei due avevano ragione e il giorno seguente Yuuki avrebbe parlato anche con gli altri della squadra, avrebbe tentato di mettersi in prima linea per trovare una soluzione.
Shiho aveva pagato le conseguenze delle paure della squadra. Il solo pensare di essere stato lui a mandarla nell’ufficio di quel maiale lo faceva stare male. Aveva la nausea da quando aveva visto la ragazza volare giù dal tetto della scuola e si chiedeva cosa avrebbe potuto fare per evitare quella situazione. Lui, un codardo. Sapeva benissimo che non avrebbe mai veramente agito, nemmeno quando lui era stato colpito dalla crudeltà di Kamoshida era stato in grado di reagire.
Era un debole, lo era sempre stato e la cosa non sarebbe cambiata da un giorno all’altro, ma Yuuki avrebbe provato a lavorarci.
 
Il giorno seguente a scuola aveva visto tutti quegli strani adesivi:
Ruberemo il tuo cuore
Sig. Suguru Kamoshida
Il lussurioso bastardo
Speriamo che tu sia pronto.
the Phantom Thieves of Hearts
 
Dal giorno seguente, Kamoshida non si era più presentato a scuola e Yuuki immaginava, sebbene fosse quasi assurdo, potesse esserci una correlazione tra quei biglietti e l’improvvisa malattia del professore, ma non riusciva a immaginare come qualcuno potesse rubare il cuore di qualcun altro.
Aveva osservato Amamiya, Sakamoto e Takamaki e li aveva visti più sereni, soddisfatti. Ann l’aveva anche ringraziato per aver detto loro la verità, anche se era chiaro che pensava fosse troppo tardi.
 
Aveva avuto la certezza che i Phantom Thieves fossero loro solo il giorno della confessione di Kamoshida. Come potevano avere fatto? Le domande continuavano a frullargli in testa, ma non otteneva alcuna risposta, perché quello che avevano fatto era semplicemente impossibile.
 
Mishima aveva preso coraggio, era andato da Ren a chiedergli come avessero fatto a rubare il cuore del professore e se avessero in mente un nuovo obiettivo.
“Voglio aiutarvi,” gli occhi gli brillavano, conscio che avrebbe potuto farlo veramente.
Ren aveva negato. “Non so di cosa tu stia parlando, mi sembra una roba da film, non crederai davvero che sia possibile rubare i cuori della gente, vero?”
Yuuki aveva ignorato le sue negazioni, era sicuro che lui fosse uno di loro e non aveva certo bisogno di conferme, anche se avrebbe voluto avere almeno qualche risposta. “Il Phantom Afficionado Website, sarà un sito nel quale la gente potrà commentare, in più posterò anche dei sondaggi per aiutarvi a trovare il nuovo obiettivo, per aiutarvi.”
A Mishima non era sfuggito lo sguardo sorpreso di Amamiya, era evidente che l’avesse preso sottogamba, ma lui non era un semplice fan e non sarebbe stato un peso per loro, al contrario: li avrebbe aiutati, finalmente aveva uno scopo nella vita.


 





Sin da piccola, Chihaya aveva avuto delle intuizioni difficili da attribuire al caso.
Riusciva sempre a capire cosa stesse per succedere e non sapeva spiegarsi come facesse a indovinare ogni volta. Sua nonna le aveva raccontato di avere lo stesso dono. “L’ho sentito in te quando ti ho vista per la prima volta.” E un giorno le aveva regalato un mazzo di Tarocchi.
Chihaya li aveva trovati splendidi: i colori vibranti la attiravano e i disegni erano a volte quasi spaventosi, ma in ciascuno di essi lei vedeva bellezza e opportunità.
Appena aveva toccato le carte, aveva sentito un calore diffondersi nel suo corpo a partire dalle sue mani, come se quegli arcani fossero sempre stati parte di lei, come se prima le fosse mancato qualcosa.
La nonna l'aveva invitata a mescolarle, a sentirle sulle mani una a una e a fare amicizia con le carte per avere la loro fiducia, perché non la tradissero quando chiedeva loro di avere le risposte che cercava.
Chihaya aveva sentito dentro di sé che l'avevano accettata quasi subito e, quando si era sentita pronta, aveva preso una carta e l'aveva messa sul tavolo di fronte sé.
"Come immaginavo," La nonna sembrava contenta. "Sai cosa significa?"
"Che il destino può cambiare?"
"No, Aya, significa che il destino non cambia, che dobbiamo accettare i cambiamenti della nostra vita, che non è altro che un piccolo frammento nel disegno cosmico del destino. La carta ti dice che questo è il tuo destino e ti invita ad accettarlo e a compierlo."
Chihaya sentiva da sempre la voce dell’universo e aveva accettato la sua sorte sin dalla prima volta che ne aveva avuta la possibilità, quando aveva aiutato una delle sue amiche a capire cosa desiderasse sua madre per il compleanno.
"Pensi di poter accettare un destino così bello e così difficile?"
"Sì."
"Sai che qualcuno potrebbe non capire e avere paura delle tue facoltà, anche la tua mamma forse. Quindi stai attenta. Se hai dubbi, chiedi aiuto alle carte, loro non ti mentiranno, se seguirai il tuo destino."
Chihaya l'aveva abbracciato, ma aveva ascoltato il consiglio della nonna e non aveva mai fatto previsioni apertamente, soprattutto non aveva mai usato le carte in pubblico.
Un giorno però tornando a casa aveva avuto una pessima sensazione: il suo sguardo continuava a essere catturato da un condominio che vedeva ogni giorno tornando da scuola e non l'aveva mai notato, non così. In particolare osservava una finestra e continuava a pensare alla distruzione.
Era corsa in camera sua a tirare fuori le carte, mentre l'inquietudine dentro di lei continuava a crescere, e aveva chiesto loro di aiutarla a capire. Aveva estratto la torre, la distruzione, e subito dopo la morte rovesciata: sciagura, morte, esplosione. Aveva visto tutto nella sua mente.
Aveva capito subito ed era corsa da sua madre con le lacrime agli occhi: "Mamma, il palazzo, quello laggiù, esploderà, dobbiamo fermarlo."
Sia madre la guardava come se si fosse appena svegliata da un incubo
"Cosa? Calmati, Aya, cosa stai dicendo?"
"L'ho visto."
Chihaya era corsa fuori e uscita sulla strada. Il condominio era uno dei più grandi nel loro paese e di certo se fosse successo qualcosa sarebbe stato un disastro, sia per la gente per le strade che per gli abitanti del condominio.
Era corsa a suonare a tutti i campanelli, chiedendo agli abitanti di uscire e di chiamare i pompieri.
C'era gente ovunque, qualcuno era preoccupato, altri erano semplicemente curiosi di capire cosa volesse quella bambina.
I pompieri avevano fatto un controllo e in effetti avevano riscontrato un'importante fuga di gas.
"Hai sentito l'odore?" Chihaya, che da ore urlava disperata finalmente si stava calmando, ora che le avevano detto che grazie a lei era andato tutto bene, ma si chiedeva se fosse davvero quello il suo destino: l'essere trattata da pazza dalla quasi totalità della gente.
Quando erano tornate a casa, sua madre le aveva chiesto come avesse fatto a sentire l'odore di gas da quella distanza e Aya aveva scosso la testa. "Non lo so, io... l'ho sentito."
Sua madre non aveva messo in dubbio quelle parole, anche se aveva capito che sua figlia molto probabilmente possedeva lo stesso dono di sua nonna, la maledizione che l'aveva costretta a cambiare casa da ragazza. Sperava che lei l'avrebbe superato, perché sua madre sapeva quanto la sua Aya fosse speciale e l'avrebbe protetta a ogni costo.




 
 
Sadayo aveva chiesto a Takase di presentarsi nel suo ufficio dopo la scuola. Si sentiva in colpa per ciò che avrebbe dovuto dirgli, sotto ordine del preside, e aveva pensato di tentare di conoscere le sue ragioni prima di chiedergli gentilmente di andarsene da quella scuola, cosa che avrebbe semplicemente fatto partire un circolo vizioso che avrebbe ridotto il povero ragazzo a cambiare parecchie scuole e a finire col perdere la possibilità di completare gli studi.
Takase era entrato nella sala professori con uno sguardo spaventato, sembrava avere capito ciò che lo aspettava ed era evidente che fosse rassegnato a eseguire gli ordini della sua professoressa.
"Buongiorno, Takase."
"Buongiorno professoressa Kawakami." Lei l'aveva invitato a sedersi.

"Parliamoci chiaro, Taiki, sei qui perché i tuoi voti sono i peggiori della scuola e tu sai benissimo che così non si può andare avanti."
Il ragazzo teneva gli occhi bassi, si osservava le mani rovinate dal contatto con l'acqua. "Lo so... Solo che io non riesco a fare meglio. Vorrei andare meglio, ma devo lavorare da quando i miei genitori sono morti, se non lo facessi non potrei venire a scuola."
Sadayo aveva sentito un groppo allo stomaco nel constatare quanto il ragazzo all'apparenza duro e svogliato sembrasse tenere alla propria istruzione. "Quante ore lavori a settimana?"
Lui aveva iniziato a contare sottovoce. "Di solito almeno trentacinque, a volte di più..."
"Cosa? Ma è un lavoro a tempo pieno!"
"Sono tre part time."
Sadayo aveva intenzione di parlare al preside della situazione difficile di Takase, ma aveva l'impressione che a lui non importasse conoscere le motivazioni dietro lo scarso rendimento del ragazzo, voleva soltanto liberarsi del problema per mantenere alte le medie della scuola.
"Ti posso aiutare io, dare qualche lezione privata. Gratuita, ovviamente. Perché il tuo impegno mostra dedizione e ti meriti un aiuto."
"Grazie, professoressa Kawakami." Taiki si era alzato e aveva fatto un inchino in segno di referenza.
"Di niente, fammi avere una lista dei tuoi orari liberi e faremo un piano per le lezioni private."
Il ragazzo sembrava sollevato, e Sadayo sentiva che era proprio con quel genere di studenti che aveva la possibilità di dimostrare la sua dedizione al lavoro di insegnante che aveva scelto anche per poter aiutare i ragazzi più bisognosi di attenzione e di tempo. Non avrebbe lasciato perdere, avrebbe combattuto con Taiki per la sua promozione.
"Ora devo andare al lavoro, grazie, davvero."
Il preside non aveva accolto con gioia l'iniziativa di Sadayo, ma le aveva detto di fare come credeva.
I due si incontravano tre volte a settimana. La professoressa si era impegnata a fargli recuperare alcune materie, partendo da quelle per le quali doveva recuperare di più e recuperando man mando e stava avendo dei risultati che qualcuno avrebbe potuto definire mediocri, ma che vista la situazione di Takase erano in realtà ottimi.
Il ragazzo era sempre più stanco, ma si impegnava più che poteva per far sì che l'impegno di entrambi non fosse vanificato dal suo fallimento, che quasi tutti si aspettavano.
Le aveva raccontato dei suoi tutori, che non si prendevano cura di lui dal punto di vista economico e l'avevano praticamente lasciato a se stesso, consci del fatto che in quel modo non sarebbe stato in grado di diplomarsi. Lui però si era rimboccato le maniche e aveva iniziato a lavorare per mantenersi. Sadayo lo considerava uno dei ragazzi più forti che conosceva.
Purtroppo in quel periodo le voci sul conto di Takase avevano iniziato a moltiplicarsi e qualcuno aveva iniziato a insinuare che il ragazzo fosse coinvolto in affari loschi non ben definiti. Le chiacchiere erano arrivate anche al preside che l'aveva convocata.
"Può scegliere: o lascia perdere il ragazzo o io mi vedrò costretto a perdere un'insegnante che rispetto a causa di un piccolo delinquente che non merita il nostro tempo."
Sadayo si era trovata con le spalle al muro. Non voleva lasciare Takase a se stesso, ma non poteva perdere il suo lavoro, non riusciva a immaginare di dover rinunciare a tutta la sua classe, ai ragazzi che aveva portato a crescere fino a quel momento, per lui.
Avrebbe trovato un modo per aiutarlo.
"Se vuole restare, glielo deve dire adesso." Il preside le aveva indicato il telefono del suo ufficio. "Lo chiami e gli dica che non potete continuare con le lezioni private."
Sadayo aveva avuto l'impulso di andare via sbattendo la porta. Per lei era impensabile che un preside decidesse in modo volontario di lasciare che uno studente, forse non troppo promettente, ma comunque proveniente da una situazione difficile, venisse abbandonato dal sistema scolastico che avrebbe dovuto invece tutelarlo.
Era combattuta, ma sapeva che avrebbe sistemato le cose, avrebbero fatto di nascosto, bastava solo che lei lo chiamasse e poi avrebbero parlato di persona, le cose potevano ancora risolversi.
"Pronto, Takase. Sono Kawakami. Mi dispiace, ma non posso più darti le mie lezioni private..."
Il ragazzo aveva salutato con entusiasmo quando aveva sentito la voce della professoressa, per poi attaccare immediatamente appena aveva compreso il motivo di quella chiamata.
Avrebbero trovato una soluzione. Lei nel peggiore dei casi avrebbe pagato un tutor al ragazzo e le cose sarebbero andate bene. Ci voleva solo un po' di tempo.
Il giorno dopo Sadayo leggendo il giornale aveva appreso la terribile verità. Non avrebbe avuto altro tempo per risolvere le cose con Taiki, perché quel ragazzo problematico non c'era più. Complici la forte pioggia e la stanchezza accumulata lavorando era andato a sbattere contro un mezzo pesante e aveva perso la vita.
Sentiva che la colpa era sua.
 
 
 


 

Di nuovo il tonfo.
Quel rumore terribile e cupo che l'aveva accompagnato per anni nelle sue notti piene di incubi era tornato a tormentarlo.
Da un paio di notti, Akechi si svegliava di soprassalto, spaventato da quel rumore.
Poteva ricordare quel giorno come se fosse appena successo: era solo un bambino, ancora quasi innocente ed era appena tornato da scuola. La mamma non era andato a prenderlo e lui ci era rimasto male, ma era ormai abituato alla sua assenza costante. Da quando il padre se n'era andato lei non era più stata la stessa persona.
Era sempre stanca, nell'ultimo periodo aveva anche smesso di cucinare e Goro si trovava a mangiare soltanto del riso bollito a cui lui cercava di aggiungere qualcosa per dare un po' di sapore. Doveva chiederle di lavare i suoi vestiti, perché lui non era capace di farlo e spesso si ritrovava con la divisa della scuola sporca la mattina ed era costretto a mettersela comunque.
Quando era entrato in casa aveva visto la mamma in cucina, stava piangendo distesa sul pavimento. "Goro, vieni qui, vieni dalla mamma." Lui le era andato incontro, preoccupato.
"Stai male, mamma?" Le aveva domandato, sempre più terrorizzato nel constatare che non rispondeva e continuava singhiozzare.
"Goro, amore, non preoccuparti per me. Non è colpa tua."
Il bambino si era messo a piangere. Per quanto provasse a capire cosa avesse sua madre, non riusciva a fare nulla per farla stare meglio. L'assenza del padre l'aveva buttata completamente a terra e lei aveva anche smesso di andare a lavorare.
"Vado a fare i compiti." Goro se n'era andato lasciandola distesa sul pavimento della cucina. In quel momento non stava piangendo.
Poi aveva sentito la porta del terrazzo che si apriva e aveva guardato fuori dalla finestra della sua camera, che dava sul terrazzo. Aveva visto sua madre in terrazzo, si stava sporgendo per guardare giù e lui non ne comprendeva il motivo.
Aveva pensato di andare a farle compagnia, anche perché sentiva addosso un brivido di inquietudine che non riusciva a scacciare. Quando era arrivato di fronte alla porta del terrazzo, aveva fatto giusto in tempo a incrociare con lei lo sguardo per un unico, eterno, istante, prima che lei si lasciasse andare e volasse come un angelo fino a colpire l'asfalto. Quel suono cupo che lui avrebbe ricordato per sempre.
Crescendo aveva capito che sua madre era depressa, ma ovviamente da bambino non avrebbe potuto immaginarlo e per un lungo periodo aveva incolpato se stesso della sua morte.
Goro era corso fuori dall'appartamento e aveva preso l'ascensore per scendere i cinque piani che lo separavano da lei. Era lì per terra, in una strana posizione innaturale, contornata da un'aura di sangue.
Subito una signora l'aveva preso per portarlo via di lì. L'aveva preso in braccio e tenuto con sé per un tempo che a lui era sembrato indefinibile. Era eterno e breve allo stesso tempo, perché Goro non riusciva a pensare e aveva passato quel tempo a farsi sempre la stessa domanda: Perché? Perché?
Non era giusto, Non meritava il destino che si era ritrovato a dovere sopportare.
Anche anni dopo, quando il suo piano per vendicarsi finalmente si era delineato e lui iniziava a pensare che avrebbe potuto portarlo a compimento, si domandava se il suo nuovo potere non fosse un modo della giustizia di ripagarlo della sua pessima infanzia, di tutte le famiglie affidatarie che aveva dovuto sopportare, di sua madre, troppo debole per la vita, e di suo padre, un uomo che presto sarebbe stato costretto a riconoscere la sua esistenza.
Tutto sommato forse era vero che c'era una giustizia che comandava le vite degli esseri umani e dopo tutta la sua sofferenza, dopo tutti i suoi sforzi per prendere ciò che gli spettava, finalmente qualcosa di inaspettato in senso positivo era successo: Goro Akechi era diventato un Dio.
 
 
 
 



 
 
 

 
 
 
La prima volta che Sojiro aveva incontrato Ren, aveva notato il suo sguardo era profondo e sincero e si era convinto di aver fatto la scelta giusta, perché forse aveva ragione, forse le cose non erano andate come dicevano.
Sojiro aveva letto della faccenda ed era andato subito a informarsi dai suoi vecchi colleghi. Quando Wakaba era stata uccisa, lui era certo che non si fosse suicidata, si era ripromesso di fare tutto ciò che era in suo potere per farla pagare al mandante ed era convinto di avere bene in mente chi fosse. Aveva seguito le mosse di quell'uomo e per questo alla fine si era ritrovato a osservare il processo al ragazzo, che era stato praticamente una farsa.
Non poteva essere un caso che improvvisamente la testimone avesse cambiato completamente idea e che questo avesse messo il ragazzo in una pessima posizione, confermando le dichiarazioni di quel vile che non aveva neanche messo il suo nome o la sua faccia nel rovinare il futuro a un ragazzo che, ormai ne era quasi convinto del tutto, era innocente.
Quando aveva accettato di prendersi cura di lui, Sojiro non sapeva con chi avrebbe avuto a che fare: poteva essere davvero un delinquente, una testa calda che non vedeva l'ora di attaccare briga con chiunque gli si presentasse di fronte, ma solo il pensiero che il ragazzo fosse stato incastrato l'aveva spinto ad agire.

 
La sua famiglia sarà ben lieta di liberarsi di lui, non hanno opposto resistenza quando è stato condannato. Sicuro di volerti tenere sulle spalle un fardello simile, Sakura?
 
E Sojiro aveva confermato di volere avere in affido il ragazzo. Lo doveva a Wakaba, era come se prendere lui con sé avrebbe potuto in parte cancellare le colpe che sentiva di avere con lei, per non averla salvata. Poteva aiutare qualcuno a ripararsi dall'oscurità di cui quel tale Shido si circondava. Non poteva neanche immaginare che la gente intorno a lui riuscisse a credere alle sue fandonie, invece sembravano tutti incantati da quel suo modo di fare da politico nuovo, da uomo onesto trascinato in un mondo corrotto che non accettava, quando in realtà si era macchiato di crimini terribili, perché aveva ucciso lui Wakaba, ne era sicuro.
 
 
Quel ragazzo sembrava arrabbiato, era vero, ma chiunque al suo posto lo sarebbe stato. Non gli avrebbe neanche domandato se avesse davvero assalito quel tipo, non gli interessava. Se davvero l'avesse fatto probabilmente gli avrebbe raccontato una bugia e a Sojiro non serviva una rassicurazione, era capacissimo di rendersi conto da solo del valore del ragazzo e in tutta sincerità anche lui avrebbe assalito quell'uomo se ne avesse avuta la possibilità. Gli aveva riferito la sua unica richiesta: "Non creare problemi."
 
Col tempo forse gli avrebbe fatto le dovute domande, nel frattempo si sarebbe limitato a osservarlo, senza interferire, dandogli la possibilità di esprimersi e aiutandolo quando glielo avesse chiesto. Era giusto dargli questa opportunità di dimostrarsi per ciò che era dandogli la libertà di farlo secondo i suoi termini e i suoi tempi. Solo così l'esperienza avrebbe potuto essere positiva per lui.
Sojiro sentiva che se avesse scommesso di credere in lui, il ragazzo non l'avrebbe deluso.
 




 
 
Tae non era il tipo di persona che si arrende di fronte ai problemi, ma quella volta sentiva di non avere voce per decidere.
"Io sono contraria, vorrei che la mia posizione fosse chiara a tutti. È troppo presto per la sperimentazione di quel farmaco. Va perfezionato, ci sono ancora dei test da fare e io non credo sia il caso."
"Non è il tuo progetto, dottoressa Takemi, è di tutto il gruppo di ricerca, io ho deciso che si può fare e si farà, soprattutto se l'unica a opporsi sei tu. Preoccupati di annotare i dati in questa fase e non lamentarti mai più."
Il dottor Shoichi Oyamada sembrava voler sfruttare la sua posizione per decidere da solo come agire. Forte della presenza del padre e dello zio nell'ospedale, era diventato direttore prima di raggiungere una sufficiente maturità e questo rischiava di ricadere sui pazienti.
Aveva dei meriti, certo, ma il suo comportamento quando qualcuno gli andava contro ricordava quello di un bambino viziato che si vede negata una caramella.
Tae era giovane ed era entrata in quel progetto per le sue doti nella chimica farmaceutica, superiori a quelle di tutti i medici che avevano partecipato alle prime fasi dell'esperimento.
Quel pomeriggio era andata a pregare al tempio Meiji perché i test continuassero in modo positivo.
La paura più grande di Tae era che i fisici debilitati dei malati non avrebbero retto il principio attivo del farmaco e la cosa avrebbe potuto debilitarli ulteriormente, rendendo quindi la guarigione impossibile. Andava fatto prima un esperimento su soggetti sani, o almeno un po' meno gravi di quella ragazza, la piccola guerriera che Tae andava spesso a trovare in camera, tra una somministrazione e l'altra.
Dopo soli due giorni, Tae aveva cercato di convincere il dottor Oyamada a fermare il progetto, spiegando che lo stato dei pazienti era peggiorato, e gli esami ne confermavano la debilitazione. La ricercatrice era stata messa a tacere con la minaccia di essere cacciata e lei aveva accettato di non opporsi, continuando lei stessa a somministrare il farmaco.
Il quinto giorno, la domenica, aveva ricevuto una chiamata nella quale veniva informata che il test era concluso e che lei non si sarebbe più dovuta preoccupare di presentarsi al laboratorio. L'avevano licenziata.
L'unica contraria, a ragione viste le prove, era stata scelta per pagare al posto dei veri responsabili. Si aspettava che sarebbe potuto succedere, ma la cosa non la rendeva certo meno furibonda.
Il giorno seguente, Tae aveva cercato di entrare nel laboratorio a prendere le sue cose, ma era stata fermata all'ingresso dell'area privata: "Gliele manderemo a casa il prima possibile. Non si preoccupi."
"Sta dicendo che non posso recuperare le mie cose? Almeno me le faccia avere adesso. E mi faccia parlare con Oyamada.
Alla fine, dopo qualche telefonata, la receptionist l'aveva invitata a recarsi all'ufficio del supervisore, che aveva trovato seduto, solo e rosso in volto. Lo sguardo di chi prova vergogna, ma ha perso ogni dignità.
"Avete avuto un bel coraggio a scacciarmi. Ero l'unica contraria alla vostra idea."
 
"Ma c'era la tua firma, Takemi, sui fogli del test." Il vile uomo sorrideva, a metà tra l'imbarazzato di chi sa di mentire e il soddisfatto di chi ha portato a termine un piano ben definito. Ne era uscito vincitore e lei aveva solo le sue parole contro quell'uomo e tutti gli altri, che di sicuro si sarebbero lasciati convincere piuttosto in fretta a usare lei come capro espiatorio e poi a dimenticarla. A fare finta che non fosse mai esistita.
A pensare che fino a qualche giorno prima Tae rideva con loro, passava il suo tempo con loro, raccontava loro le sue giornate e i suoi desideri. Ed ecco come era stata ripagata: con bugie e occhiate sfuggevoli.
"Il nome sul medicinale è comunque tuo. Sai perché il test è stato interrotto?"
"No, ma presumo per ciò che avevo detto e dimostrato?"
"Sarebbe stato bello, per te. Invece no: Miwa è morta. Ecco perché abbiamo smesso."
Tae era distrutta, non riusciva a capire come superare quel momento. Avrebbe dovuto combattere con le unghie e con i denti per farsi valere, doveva andarsene lei per impedire questo terribile epilogo che le aveva fatto perdere tutto: il lavoro, la passione, la fiducia nelle sue possibilità e, soprattutto, la sua dolce, piccola guerriera, la sua Miwa-chan.
 
 
 
 



Yaldabaoth
Yaldabaoth
La memoria di Igor era ancora molto confusa: si era risvegliato in quella prigione buia, senza finestre, la cui porta sembrava essere sbarrata da incanti e da lucchetti di ogni genere. Si sentiva molto stanco, come se avesse compiuto un grande sforzo prima di essere imprigionato. Qualcosa di importante.
Dopo aver atteso per giorni, i ricordi avevano iniziato a ritornare.
Quando l'essere si era presentato nella Velvet room, Igor l'aveva accolto come sempre aveva fatto con tutti: con educazione e curiosità. Lavenza si era innervosita, invece, era evidente che la sua creatura fosse stata più attenta di lui in quel caso.
"E così tu saresti il proprietario di questo posto?" Yaldabaoth lo osservava con supponenza. "Direi che mi piace qui, anche se ci sarebbe bisogno di una piccola aggiustatina all'arredamento."
"Posso sapere il motivo della sua visita, esimio Yaldabaoth?"
"Ma certo," il divino essere si era seduto di fronte a Igor. "Sono qui perché abbiamo un interesse in comune: l'umanità. Ho sempre avuto il desiderio di metterli alla prova per capire se davvero meritino il libero arbitrio o se invece farebbero bene a non avere la possibilità di scegliere. Mi piacerebbe governarli come un giusto Dio."
Igor cominciava a capire, sapeva di avere poche possibilità di fare qualcosa contro un essere come Yaldabaoth e temeva che per quanto si fosse impegnato avrebbe comunque perso. Quindi aveva radunato le sue forze mentre il Dio, il Sacro Graal raccontava il suo piano studiato nei dettagli, stava impiegando quel tempo prezioso a raccogliere la speranza dell'umanità e a darle forma. Come in passato era riuscito a dare vita a Margaret, a Elizabeth, a Theodore e infine a Lavenza, stava formando Morgana: la speranza, l'unica che restava all'umanità.
Nel frattempo il Dio raccontava di come avesse individuato un Trickster: un ragazzo guidato dall'Arcano del Matto, che l'avrebbe aiutato a testare l'umanità, iniziando il suo percorso verso lo scontro con la sua nemesi che sarebbe stato inevitabile, grazie a lui.
Non c'era molto tempo prima che Yaldabaoth si stancasse di parlare, il processo di creazione forse non sarebbe giunto al termine in tempo. Lavenza, che aveva capito che cosa stava succedendo, aveva allora attirato l'attenzione del Dio.
"Non cederemo tanto facilmente, non hai in diritto di giocare con il destino dell'umanità nonostante la tua natura divina.” Lavenza aveva lanciato un incantesimo contro il Dio, certa che non avrebbe funzionato.
Yaldabaoth aveva parato il colpo senza sforzo e aveva risposto con un unico incanto che l’aveva messa fuorigioco. Rideva, conscio che contro il suo potere non avevano speranza di vincere.
"Veniamo a lei, signor proprietario: non si deve preoccupare, quando avrò completato il mio piano le restituirò questo luogo al quale pare essere così affezionato."
Igor aveva fatto in tempo a sentire la nascita della creatura nel suo cuore prima di cedere all'incanto di Yaldabaoth.
 
Non c'erano vie d'uscita da quella prigione, per quanto ne cercasse.
Si chiedeva cosa fosse successo a Lavenza e purtroppo la risposta più plausibile a quella domanda non gli piaceva per niente: Yaldabaoth poteva benissimo averla uccisa, perché se così non fosse stato di certo lei sarebbe andata a liberarlo.
Era anche possibile che l'avesse imprigionata da qualche parte, ma dove. Concentrandosi Igor avrebbe forse potuto sentire la sua presenza, ma era ancora troppo provato dalla creazione per riuscirci.
Tutto ciò che poteva fare era aspettare e affidarsi alla speranza. E con lui tutto il resto dell'umanità.
 

Gli Arcani

Apr. 3rd, 2019 11:07 pm
quistisf: (Default)
Ryuji
Gun About
Sae
Yusuke
Arrivederci
Gossip Girl
No-Good-Tora




 
 
Fin da piccolo Ryuji aveva dimostrato di amare la corsa.
Quando era nervoso, iniziava a correre e ogni problema svaniva dalla sua mente, ogni cosa diventava più bella mentre percorreva il sentiero del parco, veloce come il vento. Ricordava come sua madre lo guardasse, felice di vedere quanto il figlio fosse vivace e attivo. Non aveva paura di nulla, non si fermava di fronte agli ostacoli, a volte evitandoli per un soffio e altre volte prendendoli in pieno. Molto spesso, tornava dalla madre con dei graffi evidenti sulle braccia o zoppicando leggermente, ma sempre correndo e ogni volta con un sorriso di gioia.
Sua madre non si era sorpresa per niente quando aveva saputo che era entrato nella squadra di atletica della sua scuola, aveva semplicemente pensato che quello fosse l'unico modo che il figlio avesse per non creare troppi problemi, perché con la corsa si sfogava e anche a casa era più tranquillo nei giorni in cui si allenava.
Ryuji, dal canto suo, sapeva di non essere particolarmente intelligente o dotato per il ragionamento complesso, ma quando correva si sentiva libero ed era certo che se avesse potuto allenarsi, per quanto triste o nervoso fosse stato, avrebbe ritrovato il suo equilibrio.
Più volte si era messo nei guai seguendo il suo impulso, ma non poteva farci niente: quando vedeva un'ingiustizia di qualunque tipo sentiva il bisogno di mettersi dalla parte della ragione, soprattutto quando a subire gli attacchi dei prepotenti erano persone indifese o incapaci di reagire ai soprusi.
 
Kamoshida aveva esagerato quando aveva iniziato a far girare la voce di come suo padre avesse lasciato lui e la madre per andare chissà dove a fare la bella vita del giovane single senza responsabilità. Ryuji l'aveva attaccato ed era finita male per tutti: la squadra era stata sciolta, lui si era trovato senza borsa di studio e con una gamba rotta. Aveva rovinato tutto.
Ryuji era contento che il padre se ne fosse andato. Era solo un codardo: frustrato nella vita, violento con la moglie e con il figlio. Supporto economico a parte, non avevano bisogno di lui. A volte, però, sentiva la madre piangere durante la notte e sapeva quanto non ce la facesse a sopportare di stare da sola con lui, di essere costretta a sopravvivere lavorando in ogni momento possibile per mantenerlo. Lui cercava di non essere di peso e la borsa di studio era stata importante per la loro sussistenza.
La rissa con Kamoshida e il conseguente scioglimento della squadra erano stati difficili da accettare per la madre. Non sei riuscito a lasciare correre neanche per la borsa di studio? Dovevi proprio reagire?
 
Lui sapeva che sua madre era arrabbiata e delusa dal suo comportamento, anche perché in quei frangenti le ricordava lui, Ryuji non riusciva a spiegarle quanto le sue motivazioni fossero estremamente diverse da quelle di suo padre. Il danno era fatto e la cosa peggiore era che Kamoshida ne era uscito completamente pulito, nonostante tutti sapessero che anche con la squadra di pallavolo si comportava in modo prepotente, facendo subire a chi non rendeva abbastanza ogni tipo di vessazione.
Il suo tentativo di ribellione non era servito a nulla, aveva solo rovinato se stesso e la sua vita.
Si era ripromesso di tentare di contenere i suoi impulsi, di evitare di reagire in modo sbagliato alle provocazioni, ci stava provando con tutte le sue forze e sperava che presto avrebbe smesso di sentire quella rabbia cieca che lo forzava a gridare il suo dissenso. La strada era ancora lunga, perché Ryuji continuava a non sopportare i comportamenti ingiusti, ma forse, ora che aveva incontrato Ren, ce l'avrebbe fatta.
 
 






 
 
Quando non giocava a Gun About, Shinya non era altro che un piccolo, insulso perdente.
A scuola era sempre stato trattato come tale e una parte di lui si era abituata agli insulti e ai maltrattamenti che subiva dai bulletti che continuavano a perseguitarlo.
 
Ma quando si trovava di fronte allo schermo del suo gioco lui era "The King": il re.
Non aveva mai perso una partita, mai. A volte si chiedeva cosa avrebbe fatto se qualcuno l'avesse sconfitto, anche se sapeva che era praticamente impossibile, perché The King non sbagliava un colpo e non aveva incontrato, fino a quel momento, nessuno in grado di metterlo anche solo in minima difficoltà.
In sala giochi lo trattavano come un adulto, gli dimostravano rispetto e ammirazione e lui si era abituato in fretta a essere apprezzato e lodato. Aveva iniziato a farsi pagare le partite dai suoi avversari e a volte si faceva dare anche qualche piccolo extra. Quello era l'unico luogo in cui comandava lui.
 
A scuola invece era tutta un'altra storia, ma Shinya evitava di lamentarsi con sua madre a casa, non aveva senso farlo perché di tutta risposta lei in genere lo sgridava per essersi fatto mettere i piedi in testa e il giorno successivo si presentava a scuola per esibirsi un una scenata che lo metteva una volta di più al centro dell'attenzione.
Per questo Shinya non le aveva raccontato ciò che era successo quella mattina.
"Dov'è il tuo cappello?" Gli aveva chiesto.
"L'ho perso." osservava il tavolo, i piatti ancora vuoti in attesa che la cena finisse di cuocere.
La madre gli si era avvicinata e l'aveva guardato dritto negli occhi:"Ne sei sicuro, Shinya? L'hai perso? E dimmi, dove?"
Lui osservava le sue mani sulle ginocchia, la testa china, incapace di mentire a sua madre, non era mai stato forte, anzi... Tutti l'avevano capito, per questo continuavano a infierire su di lui ogni volta che ne avevano l'occasione.
La madre sembrava fare lo stesso. I suoi occhi esprimevano disprezzo e anche solo averli incrociati per un attimo aveva messo in crisi i nervi di Shinya. "Sono stati loro, vero?"
Lui non riusciva a capire cosa avrebbe dovuto fare per non farsi trattare in quel modo, come poteva lei dargli la colpa per il comportamento sbagliato di altri ragazzi? Come poteva fargli pesare la sua incapacità di comportarsi allo stesso modo?
"Quando imparerai a difenderti? Perché non hai chiesto aiuto al professore?"
Era inutile: sua madre non avrebbe mai capito che non lo stava aiutando. Era una situazione senza via d'uscita e di nuovo non sarebbe migliorata.
"Allora pare che domani mi dovrò fare un altro giretto alla tua scuola per insegnare ai tuoi professori a fare il loro mestiere e a controllare gli studenti, non a lasciarli a pascolare in giro senza prestare loro attenzione. Come se non avessi abbastanza da fare..."
"No." Shinya l'aveva interrotta urlando. "Per favore, mamma, non venire a scuola." Aveva pregato, sapendo che probabilmente non l'avrebbe ascoltato.
Sua madre aveva versato il cibo nei piatti senza parlare e Shinya aveva passato la cena a pensare che almeno il giorno seguente avrebbe avuto tempo per stare in sala giochi. Aveva sorriso. "Scusa, mamma, lo so che lo fai per me. Lascia che mi arrangi a riprendere il cappello."
Lei era rimasta a osservarlo senza credergli. "Va bene, se domani quando tornerai a casa avrai il cappello, vorrà dire che finalmente hai imparato. Ora mangia."
Non sarebbe tornato dai bulli, nè tantomeno dai professori. Avrebbe risolto la situazione a modo suo, nell'unico che gli era venuto in mente: avrebbe ricomprato quel berretto con i soldi vinti durante le partite quel pomeriggio. Sua madre sarebbe stata felice e le cose si sarebbero calmate, almeno per un po'.




 
 
 
 
"You don't have to do a single thing, and you're provided with food, clothes, a home... I've had no time to think on such ridiculous thoughts. Would Dad have been happy with them? I don't care. He died upholding some lofty sense of righteousness, leaving all his responsibilities on us. Isn't it about time you grew up and acknowledged our situation!? Right now, you're useless to me. All you do is eat away at my life!"
—Sae Niijima lashing out at Makoto Niijima, Persona 5
 
Sae aveva solo un obiettivo in quel periodo: doveva prendere i Phantom Thieves.
Era esausta, da troppo tempo non riusciva a riposare tranquillamente, anche perché quando andava a dormire si ritrovava a pensare alle prove che aveva raccolto, ai dettagli di ogni vittima e a tutti quei discorsi sul "cambiare il cuore" della gente, che solo poche settimane prima le sarebbero sembrate sciocchezze da film di Hollywood e alle quali invece alla fine aveva cominciato a credere.
Si domandava come fosse possibile che qualcuno riuscisse a far confessare a una persona ogni suo crimine, come si potesse portare al pentimento un uomo che fino a quel momento era stato convinto di ciò che faceva nella vita, come Madarame, un vecchio artista che aveva passato tutta la sua vita a rubare arte ai suoi protetti e che all'improvviso si era riscoperto pentito del suo comportamento. Cosa era successo davvero, si chiedeva.
Sae era convinta che ciascuno fosse responsabile delle proprie azioni e per questo riteneva che le confessioni estorte non si sapeva come dai Phantom Thieves fossero in realtà valide, visto che ottenevano il giusto risultato. Doveva ancora convincersi della loro esistenza, ma ci avrebbe lavorato, avrebbe esaminato ogni dettaglio e avrebbe scoperto la verità dietro le storie forse un po' troppo romanzate che li riguardavano.
Era contenta che l'avessero messa a lavorare su un caso così controverso, perché Sae pensava che questo l'avrebbe messa nelle condizioni di poter dimostrare il suo valore, cosa che le avrebbe potuto portare ad avere la promozione che meritava.
La sua vita non era facile: era la tutrice di Makoto e per quanto sua sorella fosse matura e autonoma e non le creasse quasi mai problemi, era pur sempre sotto la sua responsabilità e non poteva permettersi di lasciarla a se stessa. Del resto, il padre non aveva lasciato loro molto denaro con cui mantenersi, quindi le due dovevano contare sullo stipendio di Sae per sopravvivere e lei non poteva permettersi di mettersi a piangersi addosso, così come non poteva lamentarsi. Suo padre aveva fatto l'errore di pensare alla giustizia come a un ideale da perseguire sempre e comunque, questo l'aveva portato alla morte e solo lei e Makoto lo ricordavano, il suo nome era finito nel dimenticatoio nonostante tutto quello che aveva fatto, inutilmente, per quella città.
Che significato aveva la giustizia nel mondo in cui vivevano? Sae viveva nella realtà, dove quel che contava era tirare fuori le unghie e dimostrare il proprio valore. Vincere, scoprire il colpevole o trovarne uno che la mettesse in buona luce era tutto ciò che desiderava. Voleva avere ciò che le spettava per il suo impegno sia nel lavoro che nella vita. Avrebbe dimostrato a tutti che lei valeva più di quanto tutti credessero, anche Makoto, che la giudicava, come si permetteva di farlo? Con tutto ciò che Sae faceva per lei, con tutte le rinunce che aveva dovuto sopportare per starle vicina...
Sae aveva in diritto di essere un po' egoista, aveva il diritto di realizzare il suo desiderio, viveva per quello, ormai.
 
 
 
 
 
 






 
 
 
Quando Yusuke iniziava a dipingere un quadro, non sempre aveva un'idea di ciò che ne sarebbe uscito. A volte si preparava i colori per riprodurre una natura morta per fare esercizio e poi, dopo la prima pennellata, si ritrovava a cambiare completamente idea e a comporre un disegno astratto lasciandosi guidare dall'impulso. Spesso si fermava e iniziava a ragionare su ciò che aveva davanti agli occhi, in quei momenti veniva assalito dai dubbi e iniziava a chiedersi quale fosse il modo giusto di proseguire.
Madarame gli aveva sempre detto di lasciarsi guidare dall'ispirazione, ma Yusuke non riusciva a mettere d'accordo il disegno che gli appariva in testa quando riteneva di essere folgorato da un'idea e ciò che invece finiva sulla tela. Molto spesso si sforzava a seguire l'idea iniziale convinto che fosse quella migliore, per poi deviare lentamente verso il pensiero che aveva preso forma nelle sue mani osservando la tela o muovendo il pennello.
Forse pensava troppo, si ripeteva: gli artisti come tali agiscono seguendo l'impulso, la forza dell'arte era quella che arrivava a chi vedeva i dipinti dall'autore, per questo era importante avere un'idea da esprimere e il problema col quale Yusuke si trovava a combattere era che le sue idee erano contraddittorie e confuse e non era in grado di esprimerle con la sua arte in modo univoco.
Quando cercava di pulire il suo disegno irrimediabilmente lo rendeva più scialbo e osservandolo non riusciva a vederci nulla di interessante, invece quando lasciava che la sua mano prendesse il sopravvento, scollegando la testa, produceva tele confuse e caotiche, che probabilmente riproducevano la confusione nella sua mente in quel periodo.
C'era un equilibrio, lo sapeva, doveva soltanto trovarlo al più presto per cercare di non perdere la spinta a creare.
Era convinto di avere il talento necessario a diventare davvero qualcuno, l'aveva preso da sua madre, da quella donna che solo da infante aveva potuto guardare negli occhi e alla quale avrebbe voluto fare migliaia di domande. Forse era il suo attaccamento a quel passato che ormai era irrecuperabile che lo portava fuori strada, era chiaro che per avere risultati avrebbe dovuto concentrarsi sul presente, lasciando da parte le emozioni che gli tornavano costantemente in testa pensando al passato.
Era quello il suo problema? Aveva forse un modo per chiudere col passato del tutto, di accettarlo e poi sentirsi finalmente libero di proseguire con la sua vita e con la sua arte, che in quel periodo era l'unica ragione per la quale si alzava dal letto la mattina?
Si chiedeva se sarebbe mai riuscito a trovare il bilanciamento tra il controllo e l'estro, se un giorno qualcuno vedendo una delle sue opere avrebbe identificato Yusuke Kitagawa, il grande artista scoperto da Madarame, il filantropo che aveva scoperto e incoraggiato l'arte di decine di giovani artisti dei quali anche Yusuke aveva potuto constatare la crescita, visto che era lì con loro ogni giorno, perché per lui Madarame era più di un maestro, era ciò che di più vicino lui avesse a una famiglia.
Di questo l'avrebbe sempre ringraziato.
Per ripagarlo non doveva fare altro che ricominciare a dipingere, senza pensarci troppo.
 
 






 
 
Ren era arrivato a Tokyo senza molte speranze, ricordava che quella sera era stanco per il viaggio e quando aveva incontrato Sojiro l'aveva preso per un burbero che mirava soltanto a intascare i soldi dell'affido e che lo avrebbe lasciato al suo destino. I suoi genitori erano stati ben felici di lasciarlo andare. Non che prima si fossero presi cura di lui in modo ineccepibile, ma di certo lui non pensava che avrebbero avuto così poca fiducia in lui da credere alle accuse e non al proprio figlio. Invece gli erano sembrati soddisfatti all'idea di passare un anno in libertà assoluta, senza obblighi, senza dover pensare alla sua scuola o a dove fosse. Non avevano chiamato che un paio di volte in tutto quel tempo.
In Sojiro, invece, aveva trovato una famiglia che mai aveva pensato di desiderare: gli aveva insegnato i segreti della caffetteria e del curry, gli aveva dato fiducia e libertà, anche quando aveva scoperto che proprio lui, il suo affidatario che aveva promesso di stare lontano dai guai, era in realtà uno dei Phantom Thieves. Nemmeno allora aveva dubitato di lui.
Non era stato l'anno noioso durante il quale pensava che avrebbe soltanto studiare e assecondare il proprio tutore, no, in quell'anno aveva cambiato il suo destino.
Lui e suoi amici avevano vissuto avventure che li avrebbero tenuti legati per sempre l'uno all'altro, perché uniche e irripetibili.
Ryuji era stato il primo a trovare il coraggio di avvicinarlo, quando Ren pensava che nessuno desiderasse avere a che fare con lo studente violento che era stato condannato per aggressione. Anche in lui c'era molto più valore di quanto gli altri vedessero e in quell'anno era riuscito a trovare il suo equilibrio e ad agire meno d'impulso. Poi c'era stata Ann, la dolce Ann che seguiva sempre il suo cuore. Yusuke e Haru, poi, l'artista peculiare e la donna in carriera, la regina del caffè. E Futaba, il genio, l'eremita. Era tanto cambiata da quando l'avevano conosciuta, finalmente non aveva più paura.
 
Ma sarebbe tornato indietro una volta concluso l'anno scolastico. Sarebbe tornato a Tokyo per Makoto. In lei aveva trovato un legame così forte che i due avevano giurato che non si sarebbe spezzato in quell'anno e lui sperava che fosse veramente così.
 
Morgana almeno sarebbe rimasto con lui, sempre che l'avesse trovato visto che era dalla sera prima che non lo vedeva. Insieme a lui si sarebbe sentito meglio anche a casa dei suoi.
Aveva chiuso la sua enorme valigia, lasciando fuori solo il suo diario, il regalo di Sojiro. Desiderava lo tenesse lui per ricordarlo, anche se Sojiro l'aveva invitato a tornare ogni volta che l'avesse desiderato, perché la stanza nella quale aveva vissuto sarebbe rimasta lì per lui.

In quella stanza aveva costruito tanti ricordi che avrebbero fatto per sempre parte del suo cuore e chiudendo quella porta si era sentito per un attimo vuoto. Ma la vita doveva andare avanti e lui tornava a casa con la certezza che i legami che aveva costruito in quell'anno sarebbero esistiti per sempre.
 
 



La passione di Ichiko per il giornalismo era nata quando era solo una ragazzina.
Da piccola amava scrivere i temi, per questo aveva deciso di iniziare a scrivere per il giornale della scuola, dove le avevano affidato una piccola rubrica di interviste per la quale ogni volta chiamava un personaggio di spicco all'interno della scuola. Una delle prime volte aveva intervistato il preside. Ricordava con affetto quella bambina innocente che faceva domande un po' insipide, come: Le piace il suo lavoro? Cosa pensa degli studenti?
 
Erano domande troppo aperte, troppo semplici. Col tempo aveva imparato a mirare meglio, a farsi valere e a leggere tra le righe.
Una volta, per caso, facendo una domanda di gossip al capitano della squadra di Pallavolo si era trovata di fronte a un'incongruenza e a quel punto si era resa conto di avere due possibilità: continuare a fare domande e cercare di capire cosa stesse cercando di nascondere o fare finta di niente. Aveva optato per la prima, esponendo uno scandalo nella scuola riguardante l’uso di sostanze dopanti, che venivano fornite dallo stesso allenatore.
Era stato in quel momento che aveva deciso che avrebbe fatto la giornalista di mestiere, perché aveva provato una grande soddisfazione nell’aver fatto venire alla luce la verità.
 
Non le piaceva più di tanto il gossip, ma era stato un buon modo per lei di iniziare con qualcosa di leggero.
Già dall'anno successivo aveva chiesto di occuparsi di politica, che le pareva più sulle sue corde. I suoi Sempai a scuola avevano notato la sua predisposizione per il lavoro ed erano stati d'accordo nell'affidarle articoli a volte complessi, che richiedevano una ricerca anche piuttosto impegnativa. Ichiko iniziava sempre raccogliendo tutti i dati necessari, controllando e incrociando le dichiarazioni degli interessati e cercando eventuali incongruenze per poi cercare domande che mettessero gli intervistati con le spalle al muro.
 
A scuola aveva conosciuto Kayo, l'unica che oltre a lei avrebbe desiderato in futuro una carriera da giornalista. Ichiko era più mite con le persone che intervistava, tendeva a metterli a proprio agio e a fare qualche domanda di riscaldamento prima di mollare la bomba come diceva lei. Kayo invece aveva uno stile più aggressivo: fin da subito metteva in chiaro che lei nonostante il suo aspetto mite e docile, fosse il Diavolo quando aveva in mente un articolo. Anche nella ricerca, Kayo andava avanti come un toro: dritta per la sua strada, senza prendere in considerazione eventuali impedimenti. Ichiko aveva trovato in lei un'amica e una collega che rispettava, avevano iniziato a confrontarsi in merito ai loro articoli, esaminavano una il lavoro dell'altra ed esprimevano eventuali perplessità o consigli.
Finita la scuola, avevano tentato la carriera allo stesso giornale, avevano avuto fortuna e avevano continuato a lavorare insieme per gli articoli più importanti.
Il giorno precedente, lei e Kayo avevano presentato il loro articolo sullo scandalo politico che coinvolgeva Shido. Erano così orgogliose del loro lavoro che la sera erano state a bere qualche drink al Crossroads per festeggiare, certe che la loro inchiesta sarebbe stata premiata.
Invece quella mattina Ichiko aveva avuto una doccia gelida appena sveglia: Kayo l'aveva chiamata furibonda, per dire che il loro articolo era stato rifiutato e che le avevano passate al gossip.
La sua amica odiava quel tipo di articoli e se n'era andata qualche giorno dopo.
Ichiko si continuava a chiedere se la ricerca della verità avesse davvero senso in quel mondo nel quale non veniva premiata come sarebbe stato giusto, anzi: entrambe stavano ancora pagando per ciò che avevano scoperto. Al giornale ogni volta che lei cercava uno spunto interessante che esulasse minimamente dal gossip fine a se stesso, veniva riportata a terra: tu non ti occupi di questo, così le dicevano.
Aveva continuato a lavorare perché sapeva che prima o poi avrebbe ricominciato a occuparsi di ciò che amava. Era appassionata e non avrebbe lasciato andare quello che era certa fosse il suo destino, ma ogni giorno si chiedeva perché si fosse fissata in quel modo con la ricerca della verità, non serviva a niente.
Forse avrebbe fatto bene a continuare a fare il paparazzo.
 







 
 
 
Toranosuke aveva perso il desiderio di continuare con la politica.
Si sentiva un vero fallito ad aver perso di nuovo le elezioni e pensava che nel giro di qualche anno avrebbe perso il conto delle sue sconfitte. Che senso aveva che continuasse a fare i suoi comizi quando lo ascoltavano giusto in quattro gatti? Perché continuava a importargli del futuro del suo paese che lo aveva rifiutato più e più volte?
I risultati delle ultime elezioni l'avevano lasciato di sasso: pensava che avrebbe ottenuto un riscontro migliore, invece era stato votato da una percentuale davvero infinitesimale dei votanti.
Eppure lui sapeva di avere qualcosa da dire, era sicuro che se fosse stato eletto avrebbe fatto un buon lavoro e che si sarebbe impegnato nel combattere la corruzione che nel sistema politico era sempre più accettata. Sognava una politica trasparente, senza sotterfugi, anche se sapeva di essere un po’ troppo idealista voleva provare ad arrivare a ottenere la miglior situazione possibile.
Spesso si era trovato di fronte a persone che semplicemente chiudevano gli occhi di fronte alla disonestà.
Erano passati venti anni dallo scandalo che lo aveva coinvolto. All'epoca era molto più impulsivo e non aveva saputo tenere la bocca chiusa di fronte a quello che per lui era un vero e proprio crimine. Aveva sbagliato a reagire alle provocazioni.
Quel politico corrotto l'aveva accusato di essere un venduto e lui non aveva saputo ribattere. Alla fine del dibattito, Toranosuke si era sentito sconfitto, incapace com'era stato di argomentare le sue accuse che erano sembrate soltanto dei tentativi di distogliere da sé l'attenzione.
Quel politico era stato bravo a metterlo dalla parte del torto e a luci spente, nello studio televisivo, era andato a congratularsi con lui per la pessima figura in diretta.
"Sei giovane, imparerai anche tu un giorno se capirai quando stare zitto." Rideva, con un’espressione tronfia, orgoglioso delle sue macchinazioni. Per Toranosuke la politica non era questo: aveva un'idea idealizzata di quel mondo, molto probabilmente, ma non aveva intenzione di abbassarsi al livello di quell'uomo, non avrebbe venduto la sua dignità per dei voti, né tantomeno per denaro.
Gli aveva tirato un pugno e l'uomo, meno giovane e poco prestante, era crollato come un fruscello di fronte a quell'unico colpo. Aveva agito in modo irrazionale di fronte alle accuse gratuite da parte di quel politico corrotto e ne aveva pagato le conseguenze.
Quel tizio rialzandosi gli aveva dato il nome col quale sarebbe stato etichettato per lungo tempo dopo quell'episodio. "No-good-Tora, non sai difenderti con le parole e usi le mani, eh?"
Toranosuke riconosceva di aver fatto qualche errore, più di uno in effetti. Aveva provato di nuovo a spiegare le sue ragioni, ma non ci era riuscito e aveva pensato seriamente di ritirarsi.
Ci aveva messo anni a ritrovare la fiducia in se stesso, ma anche in quel periodo aveva continuato a esprimere le sue idee attraverso piccoli comizi che in pochi ascoltavano e che spesso erano intervallati da qualcuno che passava a urlare: “non ascoltate il no-good-Tora.”
 
Da allora era cresciuto e aveva anche chiesto scusa a quell'uomo. Non per le accuse, veritiere, che poi tra l'altro erano anche state verificate, ma per il pugno. Riconosceva di avere sbagliato e sapeva che per quanto in pochi lo seguissero, avrebbe dovuto continuare a impegnarsi per chi credeva in lui e continuava a votarlo nonostante non fosse mai stato un politico di spicco.
Prima o poi avrebbero capito chi era veramente Toranosuke Yoshida e avrebbero smesso di chiamarlo in quel modo.
Nel frattempo si sarebbe rimesso in gioco: sarebbe tornato in piazza per continuare a esprimere la propria opinione, perché non voleva deludere chi continuava a considerarlo. Non intendeva zittire la parte di lui che amava la politica nonostante tutto.
 

Profile

quistisf: (Default)
quistis

April 2025

S M T W T F S
  1234 5
678 9101112
13 141516 17 18 19
20212223242526
27282930   

Most Popular Tags

Style Credit

Expand Cut Tags

No cut tags
Page generated Jun. 29th, 2025 09:15 pm
Powered by Dreamwidth Studios