Gli Arcani

Apr. 3rd, 2019 11:07 pm
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Ryuji
Gun About
Sae
Yusuke
Arrivederci
Gossip Girl
No-Good-Tora




 
 
Fin da piccolo Ryuji aveva dimostrato di amare la corsa.
Quando era nervoso, iniziava a correre e ogni problema svaniva dalla sua mente, ogni cosa diventava più bella mentre percorreva il sentiero del parco, veloce come il vento. Ricordava come sua madre lo guardasse, felice di vedere quanto il figlio fosse vivace e attivo. Non aveva paura di nulla, non si fermava di fronte agli ostacoli, a volte evitandoli per un soffio e altre volte prendendoli in pieno. Molto spesso, tornava dalla madre con dei graffi evidenti sulle braccia o zoppicando leggermente, ma sempre correndo e ogni volta con un sorriso di gioia.
Sua madre non si era sorpresa per niente quando aveva saputo che era entrato nella squadra di atletica della sua scuola, aveva semplicemente pensato che quello fosse l'unico modo che il figlio avesse per non creare troppi problemi, perché con la corsa si sfogava e anche a casa era più tranquillo nei giorni in cui si allenava.
Ryuji, dal canto suo, sapeva di non essere particolarmente intelligente o dotato per il ragionamento complesso, ma quando correva si sentiva libero ed era certo che se avesse potuto allenarsi, per quanto triste o nervoso fosse stato, avrebbe ritrovato il suo equilibrio.
Più volte si era messo nei guai seguendo il suo impulso, ma non poteva farci niente: quando vedeva un'ingiustizia di qualunque tipo sentiva il bisogno di mettersi dalla parte della ragione, soprattutto quando a subire gli attacchi dei prepotenti erano persone indifese o incapaci di reagire ai soprusi.
 
Kamoshida aveva esagerato quando aveva iniziato a far girare la voce di come suo padre avesse lasciato lui e la madre per andare chissà dove a fare la bella vita del giovane single senza responsabilità. Ryuji l'aveva attaccato ed era finita male per tutti: la squadra era stata sciolta, lui si era trovato senza borsa di studio e con una gamba rotta. Aveva rovinato tutto.
Ryuji era contento che il padre se ne fosse andato. Era solo un codardo: frustrato nella vita, violento con la moglie e con il figlio. Supporto economico a parte, non avevano bisogno di lui. A volte, però, sentiva la madre piangere durante la notte e sapeva quanto non ce la facesse a sopportare di stare da sola con lui, di essere costretta a sopravvivere lavorando in ogni momento possibile per mantenerlo. Lui cercava di non essere di peso e la borsa di studio era stata importante per la loro sussistenza.
La rissa con Kamoshida e il conseguente scioglimento della squadra erano stati difficili da accettare per la madre. Non sei riuscito a lasciare correre neanche per la borsa di studio? Dovevi proprio reagire?
 
Lui sapeva che sua madre era arrabbiata e delusa dal suo comportamento, anche perché in quei frangenti le ricordava lui, Ryuji non riusciva a spiegarle quanto le sue motivazioni fossero estremamente diverse da quelle di suo padre. Il danno era fatto e la cosa peggiore era che Kamoshida ne era uscito completamente pulito, nonostante tutti sapessero che anche con la squadra di pallavolo si comportava in modo prepotente, facendo subire a chi non rendeva abbastanza ogni tipo di vessazione.
Il suo tentativo di ribellione non era servito a nulla, aveva solo rovinato se stesso e la sua vita.
Si era ripromesso di tentare di contenere i suoi impulsi, di evitare di reagire in modo sbagliato alle provocazioni, ci stava provando con tutte le sue forze e sperava che presto avrebbe smesso di sentire quella rabbia cieca che lo forzava a gridare il suo dissenso. La strada era ancora lunga, perché Ryuji continuava a non sopportare i comportamenti ingiusti, ma forse, ora che aveva incontrato Ren, ce l'avrebbe fatta.
 
 






 
 
Quando non giocava a Gun About, Shinya non era altro che un piccolo, insulso perdente.
A scuola era sempre stato trattato come tale e una parte di lui si era abituata agli insulti e ai maltrattamenti che subiva dai bulletti che continuavano a perseguitarlo.
 
Ma quando si trovava di fronte allo schermo del suo gioco lui era "The King": il re.
Non aveva mai perso una partita, mai. A volte si chiedeva cosa avrebbe fatto se qualcuno l'avesse sconfitto, anche se sapeva che era praticamente impossibile, perché The King non sbagliava un colpo e non aveva incontrato, fino a quel momento, nessuno in grado di metterlo anche solo in minima difficoltà.
In sala giochi lo trattavano come un adulto, gli dimostravano rispetto e ammirazione e lui si era abituato in fretta a essere apprezzato e lodato. Aveva iniziato a farsi pagare le partite dai suoi avversari e a volte si faceva dare anche qualche piccolo extra. Quello era l'unico luogo in cui comandava lui.
 
A scuola invece era tutta un'altra storia, ma Shinya evitava di lamentarsi con sua madre a casa, non aveva senso farlo perché di tutta risposta lei in genere lo sgridava per essersi fatto mettere i piedi in testa e il giorno successivo si presentava a scuola per esibirsi un una scenata che lo metteva una volta di più al centro dell'attenzione.
Per questo Shinya non le aveva raccontato ciò che era successo quella mattina.
"Dov'è il tuo cappello?" Gli aveva chiesto.
"L'ho perso." osservava il tavolo, i piatti ancora vuoti in attesa che la cena finisse di cuocere.
La madre gli si era avvicinata e l'aveva guardato dritto negli occhi:"Ne sei sicuro, Shinya? L'hai perso? E dimmi, dove?"
Lui osservava le sue mani sulle ginocchia, la testa china, incapace di mentire a sua madre, non era mai stato forte, anzi... Tutti l'avevano capito, per questo continuavano a infierire su di lui ogni volta che ne avevano l'occasione.
La madre sembrava fare lo stesso. I suoi occhi esprimevano disprezzo e anche solo averli incrociati per un attimo aveva messo in crisi i nervi di Shinya. "Sono stati loro, vero?"
Lui non riusciva a capire cosa avrebbe dovuto fare per non farsi trattare in quel modo, come poteva lei dargli la colpa per il comportamento sbagliato di altri ragazzi? Come poteva fargli pesare la sua incapacità di comportarsi allo stesso modo?
"Quando imparerai a difenderti? Perché non hai chiesto aiuto al professore?"
Era inutile: sua madre non avrebbe mai capito che non lo stava aiutando. Era una situazione senza via d'uscita e di nuovo non sarebbe migliorata.
"Allora pare che domani mi dovrò fare un altro giretto alla tua scuola per insegnare ai tuoi professori a fare il loro mestiere e a controllare gli studenti, non a lasciarli a pascolare in giro senza prestare loro attenzione. Come se non avessi abbastanza da fare..."
"No." Shinya l'aveva interrotta urlando. "Per favore, mamma, non venire a scuola." Aveva pregato, sapendo che probabilmente non l'avrebbe ascoltato.
Sua madre aveva versato il cibo nei piatti senza parlare e Shinya aveva passato la cena a pensare che almeno il giorno seguente avrebbe avuto tempo per stare in sala giochi. Aveva sorriso. "Scusa, mamma, lo so che lo fai per me. Lascia che mi arrangi a riprendere il cappello."
Lei era rimasta a osservarlo senza credergli. "Va bene, se domani quando tornerai a casa avrai il cappello, vorrà dire che finalmente hai imparato. Ora mangia."
Non sarebbe tornato dai bulli, nè tantomeno dai professori. Avrebbe risolto la situazione a modo suo, nell'unico che gli era venuto in mente: avrebbe ricomprato quel berretto con i soldi vinti durante le partite quel pomeriggio. Sua madre sarebbe stata felice e le cose si sarebbero calmate, almeno per un po'.




 
 
 
 
"You don't have to do a single thing, and you're provided with food, clothes, a home... I've had no time to think on such ridiculous thoughts. Would Dad have been happy with them? I don't care. He died upholding some lofty sense of righteousness, leaving all his responsibilities on us. Isn't it about time you grew up and acknowledged our situation!? Right now, you're useless to me. All you do is eat away at my life!"
—Sae Niijima lashing out at Makoto Niijima, Persona 5
 
Sae aveva solo un obiettivo in quel periodo: doveva prendere i Phantom Thieves.
Era esausta, da troppo tempo non riusciva a riposare tranquillamente, anche perché quando andava a dormire si ritrovava a pensare alle prove che aveva raccolto, ai dettagli di ogni vittima e a tutti quei discorsi sul "cambiare il cuore" della gente, che solo poche settimane prima le sarebbero sembrate sciocchezze da film di Hollywood e alle quali invece alla fine aveva cominciato a credere.
Si domandava come fosse possibile che qualcuno riuscisse a far confessare a una persona ogni suo crimine, come si potesse portare al pentimento un uomo che fino a quel momento era stato convinto di ciò che faceva nella vita, come Madarame, un vecchio artista che aveva passato tutta la sua vita a rubare arte ai suoi protetti e che all'improvviso si era riscoperto pentito del suo comportamento. Cosa era successo davvero, si chiedeva.
Sae era convinta che ciascuno fosse responsabile delle proprie azioni e per questo riteneva che le confessioni estorte non si sapeva come dai Phantom Thieves fossero in realtà valide, visto che ottenevano il giusto risultato. Doveva ancora convincersi della loro esistenza, ma ci avrebbe lavorato, avrebbe esaminato ogni dettaglio e avrebbe scoperto la verità dietro le storie forse un po' troppo romanzate che li riguardavano.
Era contenta che l'avessero messa a lavorare su un caso così controverso, perché Sae pensava che questo l'avrebbe messa nelle condizioni di poter dimostrare il suo valore, cosa che le avrebbe potuto portare ad avere la promozione che meritava.
La sua vita non era facile: era la tutrice di Makoto e per quanto sua sorella fosse matura e autonoma e non le creasse quasi mai problemi, era pur sempre sotto la sua responsabilità e non poteva permettersi di lasciarla a se stessa. Del resto, il padre non aveva lasciato loro molto denaro con cui mantenersi, quindi le due dovevano contare sullo stipendio di Sae per sopravvivere e lei non poteva permettersi di mettersi a piangersi addosso, così come non poteva lamentarsi. Suo padre aveva fatto l'errore di pensare alla giustizia come a un ideale da perseguire sempre e comunque, questo l'aveva portato alla morte e solo lei e Makoto lo ricordavano, il suo nome era finito nel dimenticatoio nonostante tutto quello che aveva fatto, inutilmente, per quella città.
Che significato aveva la giustizia nel mondo in cui vivevano? Sae viveva nella realtà, dove quel che contava era tirare fuori le unghie e dimostrare il proprio valore. Vincere, scoprire il colpevole o trovarne uno che la mettesse in buona luce era tutto ciò che desiderava. Voleva avere ciò che le spettava per il suo impegno sia nel lavoro che nella vita. Avrebbe dimostrato a tutti che lei valeva più di quanto tutti credessero, anche Makoto, che la giudicava, come si permetteva di farlo? Con tutto ciò che Sae faceva per lei, con tutte le rinunce che aveva dovuto sopportare per starle vicina...
Sae aveva in diritto di essere un po' egoista, aveva il diritto di realizzare il suo desiderio, viveva per quello, ormai.
 
 
 
 
 
 






 
 
 
Quando Yusuke iniziava a dipingere un quadro, non sempre aveva un'idea di ciò che ne sarebbe uscito. A volte si preparava i colori per riprodurre una natura morta per fare esercizio e poi, dopo la prima pennellata, si ritrovava a cambiare completamente idea e a comporre un disegno astratto lasciandosi guidare dall'impulso. Spesso si fermava e iniziava a ragionare su ciò che aveva davanti agli occhi, in quei momenti veniva assalito dai dubbi e iniziava a chiedersi quale fosse il modo giusto di proseguire.
Madarame gli aveva sempre detto di lasciarsi guidare dall'ispirazione, ma Yusuke non riusciva a mettere d'accordo il disegno che gli appariva in testa quando riteneva di essere folgorato da un'idea e ciò che invece finiva sulla tela. Molto spesso si sforzava a seguire l'idea iniziale convinto che fosse quella migliore, per poi deviare lentamente verso il pensiero che aveva preso forma nelle sue mani osservando la tela o muovendo il pennello.
Forse pensava troppo, si ripeteva: gli artisti come tali agiscono seguendo l'impulso, la forza dell'arte era quella che arrivava a chi vedeva i dipinti dall'autore, per questo era importante avere un'idea da esprimere e il problema col quale Yusuke si trovava a combattere era che le sue idee erano contraddittorie e confuse e non era in grado di esprimerle con la sua arte in modo univoco.
Quando cercava di pulire il suo disegno irrimediabilmente lo rendeva più scialbo e osservandolo non riusciva a vederci nulla di interessante, invece quando lasciava che la sua mano prendesse il sopravvento, scollegando la testa, produceva tele confuse e caotiche, che probabilmente riproducevano la confusione nella sua mente in quel periodo.
C'era un equilibrio, lo sapeva, doveva soltanto trovarlo al più presto per cercare di non perdere la spinta a creare.
Era convinto di avere il talento necessario a diventare davvero qualcuno, l'aveva preso da sua madre, da quella donna che solo da infante aveva potuto guardare negli occhi e alla quale avrebbe voluto fare migliaia di domande. Forse era il suo attaccamento a quel passato che ormai era irrecuperabile che lo portava fuori strada, era chiaro che per avere risultati avrebbe dovuto concentrarsi sul presente, lasciando da parte le emozioni che gli tornavano costantemente in testa pensando al passato.
Era quello il suo problema? Aveva forse un modo per chiudere col passato del tutto, di accettarlo e poi sentirsi finalmente libero di proseguire con la sua vita e con la sua arte, che in quel periodo era l'unica ragione per la quale si alzava dal letto la mattina?
Si chiedeva se sarebbe mai riuscito a trovare il bilanciamento tra il controllo e l'estro, se un giorno qualcuno vedendo una delle sue opere avrebbe identificato Yusuke Kitagawa, il grande artista scoperto da Madarame, il filantropo che aveva scoperto e incoraggiato l'arte di decine di giovani artisti dei quali anche Yusuke aveva potuto constatare la crescita, visto che era lì con loro ogni giorno, perché per lui Madarame era più di un maestro, era ciò che di più vicino lui avesse a una famiglia.
Di questo l'avrebbe sempre ringraziato.
Per ripagarlo non doveva fare altro che ricominciare a dipingere, senza pensarci troppo.
 
 






 
 
Ren era arrivato a Tokyo senza molte speranze, ricordava che quella sera era stanco per il viaggio e quando aveva incontrato Sojiro l'aveva preso per un burbero che mirava soltanto a intascare i soldi dell'affido e che lo avrebbe lasciato al suo destino. I suoi genitori erano stati ben felici di lasciarlo andare. Non che prima si fossero presi cura di lui in modo ineccepibile, ma di certo lui non pensava che avrebbero avuto così poca fiducia in lui da credere alle accuse e non al proprio figlio. Invece gli erano sembrati soddisfatti all'idea di passare un anno in libertà assoluta, senza obblighi, senza dover pensare alla sua scuola o a dove fosse. Non avevano chiamato che un paio di volte in tutto quel tempo.
In Sojiro, invece, aveva trovato una famiglia che mai aveva pensato di desiderare: gli aveva insegnato i segreti della caffetteria e del curry, gli aveva dato fiducia e libertà, anche quando aveva scoperto che proprio lui, il suo affidatario che aveva promesso di stare lontano dai guai, era in realtà uno dei Phantom Thieves. Nemmeno allora aveva dubitato di lui.
Non era stato l'anno noioso durante il quale pensava che avrebbe soltanto studiare e assecondare il proprio tutore, no, in quell'anno aveva cambiato il suo destino.
Lui e suoi amici avevano vissuto avventure che li avrebbero tenuti legati per sempre l'uno all'altro, perché uniche e irripetibili.
Ryuji era stato il primo a trovare il coraggio di avvicinarlo, quando Ren pensava che nessuno desiderasse avere a che fare con lo studente violento che era stato condannato per aggressione. Anche in lui c'era molto più valore di quanto gli altri vedessero e in quell'anno era riuscito a trovare il suo equilibrio e ad agire meno d'impulso. Poi c'era stata Ann, la dolce Ann che seguiva sempre il suo cuore. Yusuke e Haru, poi, l'artista peculiare e la donna in carriera, la regina del caffè. E Futaba, il genio, l'eremita. Era tanto cambiata da quando l'avevano conosciuta, finalmente non aveva più paura.
 
Ma sarebbe tornato indietro una volta concluso l'anno scolastico. Sarebbe tornato a Tokyo per Makoto. In lei aveva trovato un legame così forte che i due avevano giurato che non si sarebbe spezzato in quell'anno e lui sperava che fosse veramente così.
 
Morgana almeno sarebbe rimasto con lui, sempre che l'avesse trovato visto che era dalla sera prima che non lo vedeva. Insieme a lui si sarebbe sentito meglio anche a casa dei suoi.
Aveva chiuso la sua enorme valigia, lasciando fuori solo il suo diario, il regalo di Sojiro. Desiderava lo tenesse lui per ricordarlo, anche se Sojiro l'aveva invitato a tornare ogni volta che l'avesse desiderato, perché la stanza nella quale aveva vissuto sarebbe rimasta lì per lui.

In quella stanza aveva costruito tanti ricordi che avrebbero fatto per sempre parte del suo cuore e chiudendo quella porta si era sentito per un attimo vuoto. Ma la vita doveva andare avanti e lui tornava a casa con la certezza che i legami che aveva costruito in quell'anno sarebbero esistiti per sempre.
 
 



La passione di Ichiko per il giornalismo era nata quando era solo una ragazzina.
Da piccola amava scrivere i temi, per questo aveva deciso di iniziare a scrivere per il giornale della scuola, dove le avevano affidato una piccola rubrica di interviste per la quale ogni volta chiamava un personaggio di spicco all'interno della scuola. Una delle prime volte aveva intervistato il preside. Ricordava con affetto quella bambina innocente che faceva domande un po' insipide, come: Le piace il suo lavoro? Cosa pensa degli studenti?
 
Erano domande troppo aperte, troppo semplici. Col tempo aveva imparato a mirare meglio, a farsi valere e a leggere tra le righe.
Una volta, per caso, facendo una domanda di gossip al capitano della squadra di Pallavolo si era trovata di fronte a un'incongruenza e a quel punto si era resa conto di avere due possibilità: continuare a fare domande e cercare di capire cosa stesse cercando di nascondere o fare finta di niente. Aveva optato per la prima, esponendo uno scandalo nella scuola riguardante l’uso di sostanze dopanti, che venivano fornite dallo stesso allenatore.
Era stato in quel momento che aveva deciso che avrebbe fatto la giornalista di mestiere, perché aveva provato una grande soddisfazione nell’aver fatto venire alla luce la verità.
 
Non le piaceva più di tanto il gossip, ma era stato un buon modo per lei di iniziare con qualcosa di leggero.
Già dall'anno successivo aveva chiesto di occuparsi di politica, che le pareva più sulle sue corde. I suoi Sempai a scuola avevano notato la sua predisposizione per il lavoro ed erano stati d'accordo nell'affidarle articoli a volte complessi, che richiedevano una ricerca anche piuttosto impegnativa. Ichiko iniziava sempre raccogliendo tutti i dati necessari, controllando e incrociando le dichiarazioni degli interessati e cercando eventuali incongruenze per poi cercare domande che mettessero gli intervistati con le spalle al muro.
 
A scuola aveva conosciuto Kayo, l'unica che oltre a lei avrebbe desiderato in futuro una carriera da giornalista. Ichiko era più mite con le persone che intervistava, tendeva a metterli a proprio agio e a fare qualche domanda di riscaldamento prima di mollare la bomba come diceva lei. Kayo invece aveva uno stile più aggressivo: fin da subito metteva in chiaro che lei nonostante il suo aspetto mite e docile, fosse il Diavolo quando aveva in mente un articolo. Anche nella ricerca, Kayo andava avanti come un toro: dritta per la sua strada, senza prendere in considerazione eventuali impedimenti. Ichiko aveva trovato in lei un'amica e una collega che rispettava, avevano iniziato a confrontarsi in merito ai loro articoli, esaminavano una il lavoro dell'altra ed esprimevano eventuali perplessità o consigli.
Finita la scuola, avevano tentato la carriera allo stesso giornale, avevano avuto fortuna e avevano continuato a lavorare insieme per gli articoli più importanti.
Il giorno precedente, lei e Kayo avevano presentato il loro articolo sullo scandalo politico che coinvolgeva Shido. Erano così orgogliose del loro lavoro che la sera erano state a bere qualche drink al Crossroads per festeggiare, certe che la loro inchiesta sarebbe stata premiata.
Invece quella mattina Ichiko aveva avuto una doccia gelida appena sveglia: Kayo l'aveva chiamata furibonda, per dire che il loro articolo era stato rifiutato e che le avevano passate al gossip.
La sua amica odiava quel tipo di articoli e se n'era andata qualche giorno dopo.
Ichiko si continuava a chiedere se la ricerca della verità avesse davvero senso in quel mondo nel quale non veniva premiata come sarebbe stato giusto, anzi: entrambe stavano ancora pagando per ciò che avevano scoperto. Al giornale ogni volta che lei cercava uno spunto interessante che esulasse minimamente dal gossip fine a se stesso, veniva riportata a terra: tu non ti occupi di questo, così le dicevano.
Aveva continuato a lavorare perché sapeva che prima o poi avrebbe ricominciato a occuparsi di ciò che amava. Era appassionata e non avrebbe lasciato andare quello che era certa fosse il suo destino, ma ogni giorno si chiedeva perché si fosse fissata in quel modo con la ricerca della verità, non serviva a niente.
Forse avrebbe fatto bene a continuare a fare il paparazzo.
 







 
 
 
Toranosuke aveva perso il desiderio di continuare con la politica.
Si sentiva un vero fallito ad aver perso di nuovo le elezioni e pensava che nel giro di qualche anno avrebbe perso il conto delle sue sconfitte. Che senso aveva che continuasse a fare i suoi comizi quando lo ascoltavano giusto in quattro gatti? Perché continuava a importargli del futuro del suo paese che lo aveva rifiutato più e più volte?
I risultati delle ultime elezioni l'avevano lasciato di sasso: pensava che avrebbe ottenuto un riscontro migliore, invece era stato votato da una percentuale davvero infinitesimale dei votanti.
Eppure lui sapeva di avere qualcosa da dire, era sicuro che se fosse stato eletto avrebbe fatto un buon lavoro e che si sarebbe impegnato nel combattere la corruzione che nel sistema politico era sempre più accettata. Sognava una politica trasparente, senza sotterfugi, anche se sapeva di essere un po’ troppo idealista voleva provare ad arrivare a ottenere la miglior situazione possibile.
Spesso si era trovato di fronte a persone che semplicemente chiudevano gli occhi di fronte alla disonestà.
Erano passati venti anni dallo scandalo che lo aveva coinvolto. All'epoca era molto più impulsivo e non aveva saputo tenere la bocca chiusa di fronte a quello che per lui era un vero e proprio crimine. Aveva sbagliato a reagire alle provocazioni.
Quel politico corrotto l'aveva accusato di essere un venduto e lui non aveva saputo ribattere. Alla fine del dibattito, Toranosuke si era sentito sconfitto, incapace com'era stato di argomentare le sue accuse che erano sembrate soltanto dei tentativi di distogliere da sé l'attenzione.
Quel politico era stato bravo a metterlo dalla parte del torto e a luci spente, nello studio televisivo, era andato a congratularsi con lui per la pessima figura in diretta.
"Sei giovane, imparerai anche tu un giorno se capirai quando stare zitto." Rideva, con un’espressione tronfia, orgoglioso delle sue macchinazioni. Per Toranosuke la politica non era questo: aveva un'idea idealizzata di quel mondo, molto probabilmente, ma non aveva intenzione di abbassarsi al livello di quell'uomo, non avrebbe venduto la sua dignità per dei voti, né tantomeno per denaro.
Gli aveva tirato un pugno e l'uomo, meno giovane e poco prestante, era crollato come un fruscello di fronte a quell'unico colpo. Aveva agito in modo irrazionale di fronte alle accuse gratuite da parte di quel politico corrotto e ne aveva pagato le conseguenze.
Quel tizio rialzandosi gli aveva dato il nome col quale sarebbe stato etichettato per lungo tempo dopo quell'episodio. "No-good-Tora, non sai difenderti con le parole e usi le mani, eh?"
Toranosuke riconosceva di aver fatto qualche errore, più di uno in effetti. Aveva provato di nuovo a spiegare le sue ragioni, ma non ci era riuscito e aveva pensato seriamente di ritirarsi.
Ci aveva messo anni a ritrovare la fiducia in se stesso, ma anche in quel periodo aveva continuato a esprimere le sue idee attraverso piccoli comizi che in pochi ascoltavano e che spesso erano intervallati da qualcuno che passava a urlare: “non ascoltate il no-good-Tora.”
 
Da allora era cresciuto e aveva anche chiesto scusa a quell'uomo. Non per le accuse, veritiere, che poi tra l'altro erano anche state verificate, ma per il pugno. Riconosceva di avere sbagliato e sapeva che per quanto in pochi lo seguissero, avrebbe dovuto continuare a impegnarsi per chi credeva in lui e continuava a votarlo nonostante non fosse mai stato un politico di spicco.
Prima o poi avrebbero capito chi era veramente Toranosuke Yoshida e avrebbero smesso di chiamarlo in quel modo.
Nel frattempo si sarebbe rimesso in gioco: sarebbe tornato in piazza per continuare a esprimere la propria opinione, perché non voleva deludere chi continuava a considerarlo. Non intendeva zittire la parte di lui che amava la politica nonostante tutto.
 

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