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2021-01-31 04:43 pm

E se tornassi? - persona5

Fandom: Persona 5
Personaggi: Goro Akechi, Ren Amamiya
Spoiler!
Scritta per la Maritombola, prompt: 
68. “Non pensavo mi saresti mancato/a tanto.” / “Tu invece non mi sei mancato/a affatto.”
E se tornassi?



Negli ultimi giorni Ren aveva immaginato più volte di vedere Akechi con la coda dell’occhio, al punto che era arrivato a chiedersi se il suo fosse senso di colpa o tristezza per aver perso un amico. Akechi aveva sbagliato, era vero. Era un assassino e avrebbe dovuto pagare per ciò che aveva fatto perché, al contrario dei Phantom Thieves, lui aveva ucciso in nome della giustizia e questo non era perdonabile e mai lo sarebbe stato. 

Akechi aveva pagato con la vita i suoi errori e Ren si era chiesto tante volte come avrebbe fatto a continuare a vivere dopo essersi pentito di ciò che aveva fatto. Ogni giorno avrebbe dovuto fare i conti con le vite che aveva spezzato, con il dolore che aveva causato. Non era sicuro che ce l’avrebbe fatta.

“Ciao, Ren.”

Quando aveva sentito la sua voce si era sentito di pietra. Aveva stretto i pugni e voltato la testa per trovarsi di fronte il sorriso di Akechi, superbo e sicuro come al solito. 

Akechi era vivo e sembrava divertito. “Non pensavo mi saresti mancato tanto, Amamiya.”

 “Tu invece non mi sei mancato affatto, Goro.” Non era vero, ma forse, in effetti, lo sapeva già.

 
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2020-04-01 08:29 pm

Stay tonight - Persona 5

 Fandom: Persona 5

Personaggi: Futaba Sakura, Ren Amamiya

Prompt: https://www.youtube.com/watch?v=3EmUmbhDRiY

One Shot

Partecipa al COWT10

 

 

Stay tonight

 

Can't you stay

Stay with me into the night

Stay, I need you close

You can go back when the sun rise again

Just stay tonight, just stay

(KEiiNO - Spirit In The Sky) 

 

 

Durante le ultime notti Futaba non era riuscita a dormire. Continuava a cercare di pensare ad altro, ma il suo pensiero tornava sempre e comunque a lui, a Ren. 

Mancava poco ormai alla realizzazione del loro piano. Entro pochi giorni lui sarebbe stato costretto a fingere la sua morte e loro avrebbero dovuto fingere che fosse successa davvero.

Futaba continuava a chiedersi cosa avrebbe fatto se lui fosse morto davvero, se per qualunque ragione il loro piano fosse fallito e la colpa fosse in qualche modo stata sua non avrebbe mai potuto perdonarselo. 

Si sentiva persa, distrutta e sola come non lo era mai stata prima. 

Prima di conoscerlo la solitudine era per lei una sensazione rassicurante, da sola era artefice del suo destino e poteva incontrare amici online se lo desiderava, dove lei era conosciuta e rispettata, ma nessuno sapeva davvero chi fosse, era solo Medjed: l’unica e originale, potente e imitata. 

Nella vita reale invece era molto diversa: indifesa, terrorizzata all’idea che qualcuno le parlasse o la vedesse in carne e ossa, fragile come si sentiva.

Aveva chiesto aiuto ai Phantom Thieves proprio perché non riusciva più a vivere chiusa in casa, nella sua tomba in attesa che la morte arrivasse a prenderla donandole sollievo, ai suoi occhi. Spiare Ren e gli altri le aveva fatto capire che doveva cambiare qualcosa e se lei non fosse riuscita a farlo in tempi brevi, non ne sarebbe uscita più.

 

Le dispiaceva anche per Sojiro, che provava a proteggerla con tutte le sue forze, ma che in quel frangente non poteva fare nulla per aiutarla, perché Futaba sapeva che il cambiamento doveva arrivare da lei direttamente e soltanto lei avrebbe potuto decidere di uscire dalla sua prigione e far entrare il mondo.

I ragazzi si erano dimostrati tutti molto comprensivi con lei fin da subito, anche se la prima sera li aveva spaventati a morte. Per la prima volta  dopo tanto tempo, ripensandoci aveva riso di gusto, ricordandosi di Makoto e del suo terrore.

Ne avevano passate tante da allora e Futaba si era affezionata a tutti loro, ma Ren le tornava nei pensieri molto più spesso di tutti gli altri, e i pensieri che aveva su di lui cominciavano a farla sentire a disagio.

 

Aveva iniziato a sognarlo e nei sogni la abbracciava, la stringeva a sé e la ringraziava per tutto quello che lei faceva per il gruppo. Futaba si svegliava su di giri e rossa in viso, accaldata e col cuore in gola. Non aveva mai avuto il coraggio di esprimergli i suoi sentimenti, perché immaginava che lui avrebbe riso di fronte alla sua dichiarazione. In fin dei conti si era accorta di non essere l’unica a essere interessata a lui, e tra tutte si chiedeva come avrebbe potuto sceglierla, stramba e incapace di stare al mondo com’era.

C’era Makoto, intelligente, abile e coraggiosa; e poi Ann, la bellezza fatta persona. La dolce, premurosa e bellissima Ann. 

Haru, poi, era l’eleganza e la raffinatezza ed era anche ricca, cosa che non guastava.

Cosa aveva lei più di loro, si chiedeva Futaba e non era in grado di rispondere. Grande cervello, ma non aveva intelligenza pratica. Era carina, questo lo sapeva, ma non bella come le altre e il suo portamento non era altrettanto buono, ricurva e imbranata com’era.


Quella sera però stava cercando di non pensare a tutti i suoi difetti. Quella sera voleva andare da lui perché sapeva che poteva essere la sua unica possibilità e non voleva rimpiangerla per il resto della sua vita.

Era arrivata nella sua stanza trafelata, quasi correndo perché sapeva che se si fosse fermata, se si fosse data il tempo di pensare sarebbe tornata indietro e si sarebbe seppellita sotto il suo letto per passare la notte nella vergogna della sua paura. Non poteva avere paura di lui, doveva provare.

 

Gli era saltata al collo tremando di paura e lui aveva risposto al suo abbraccio. Morgana per fortuna non era lì a vedere quel pessimo spettacolo e ad aggiungere vergogna a quella che già provava. 

“Futaba, va tutto bene?”
“No, non va bene. Io… non voglio perderti.”

Ren le stava accarezzando i capelli con una mano, mentre con l’altra la stringeva con affetto. “Non mi perderete, funzionerà. Ho fiducia in te, in voi.”

“Puoi… puoi…” Non riusciva a parlare, con la testa appoggiata al suo petto, sentiva il suo cuore battere regolare e non faceva altro che cercare un modo per trovare le parole. Per un attimo era arrivata a pensare di scrivergli un messaggio col cellulare, visto che le parole non volevano uscirle dalla bocca. “Io… Ren, io posso… posso restare con te?”

Futaba aveva alzato la testa ed era riuscita a guardarlo negli occhi. La paura che lui la rifiutasse si stava facendo più flebile ogni secondo che passava. Si stava domandando se lui la vedesse come una sorellina minore, come una sciocca ragazzina infatuata di lui come le altre. Ma negli occhi scuri di Ren non c’era disprezzo, non c’era imbarazzo e neppure paura.

“Posso restare con te stanotte?” Gli aveva chiesto raccogliendo tutte le sue forze. Lui l’aveva attirata a sé in un bacio che era stato diverso da come lo aveva sempre immaginato Futaba.

Non che la ragazza avesse alcun tipo di esperienza, ma pensava che sarebbe stato difficile e invece tutto era stato anche troppo naturale. Avevano passato la notte insieme sul letto di Ren, quasi senza parlare. Futaba si era addormentata tra le sue braccia ed era stato il sonno più bello della sua vita. Sentiva di aver superato un ostacolo che aveva sempre creduto insormontabile.

 

Sperava di cuore che il piano funzionasse, perché voleva di più dei baci di quella notte, voleva una vita con Ren, voleva diventare una donna a tutti gli effetti, una donna in grado di uscire a cena con lui e di andare a comprargli un regalo senza arrossire e sapeva che con lui avrebbe potuto farcela. Con lui sarebbe diventata una persona migliore persino lei, nonostante la sua incapacità cronica di vivere come una persona normale.

 

Futaba era uscita dal LeBlanc con un sorriso beato stampato sul volto ed era tornata nel suo letto sperando che Sojiro non si fosse accorto della sua assenza quella notte. In realtà anche se lui l’avesse scoperta non le sarebbe importato. Era troppo felice, ci si sarebbe potuta abituare.

 


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2020-03-31 10:06 pm

Ricordi di un ladro fantasma- Ricordi di una vita tranquilla - Persona 5

Ricordi di un ladro fantasma
Ricordi di una vita tranquilla


Fandom: Persona 5
Personaggi: Ren Amamiya, Morgana, Phantom Thieves, Genitori di Ren
Prompt: scambio di persona. Cosa succederebbe se il Joker un giorno si risvegliasse nella casa dove ha sempre vissuto coi suoi genitori e scoprisse che non è mai stato il leader dei Phantom Thieves? E se l'altro Ren, quello che invece ha sempre avuto una vita normale si risvegliasse di fianco a un gatto parlante? Chissà se alla fine sarebbero contenti dei loro destini
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Al suo risveglio, Ren si sentiva più stanco di quando era andato a dormire, eppure non aveva neanche messo la sveglia per quella domenica di tranquillità.

Aveva promesso a Futaba che sarebbero andati al cinema insieme, lei aveva già un film in mente e di certo sarebbe stato qualcosa di avventuroso con dei robot da qualche parte.

Si era alzato in piedi con l’idea di controllare la televendita di Tanaka e poi di correre a farsi una doccia per poi essere tranquillo e libero.

Solo che quello non era il suo solito letto e lui non era al Leblanc: era nella casa dove aveva sempre vissuto coi suoi genitori. Si alzò di scatto per accendere la luce e ne ebbe la conferma.

Scese le scale circospetto per trovarsi di fronte ai suoi genitori che come se niente fosse stavano preparando la colazione.

“Bevi un caffè, Ren? Oggi abbiamo preparato la colazione all’americana: pancake! Sei contento?”
Il ragazzo era immobile come uno spaventapasseri, la bocca aperta alla ricerca di qualcosa da dire. “Grazie,” rispose, sedendosi senza riuscire ancora a riordinare i pensieri.

Che fosse impazzito? Che stesse sognando?

A pensarci bene sembrava più un sogno la sua vita a Tokyo con i Phantom Thieves.

“Ma che giorno è?” Domandò fissando sua madre.

“Ren, stai bene? Sei pallido e mi sembri quasi sul punto di svenire.”

“Sono… confuso. Ma il processo come… devo andare a Tokyo?”

Sua madre si mise a ridere. “Ma cosa stai dicendo? Ma quale processo? Devi avere fatto un bel sogno interessante.”

 

E la sua Persona? La Velvet room che fine avevano fatto? Non poteva aver perso mesi della sua vita senza averne neppure il ricordo, eppure pareva proprio fosse così anche se il calendario gli diceva che esattamente il giorno che si aspettava che fosse. Era forse finito in un’altra dimensione? E se lui era lì, chi c’era al suo posto?

Si era messo a ridere al pensiero del nuovo Ren e al suo risveglio di fianco a Morgana, chissà che colpo poteva aver preso. Sperava che non fosse fuggito urlando dalla stanza pensando di essere vittima di uno scherzaccio di cattivo gusto.

Si chiedeva solo se era ancora in grado di invocare le Persona. Le sentiva a pensarci, doveva solo trovare un palazzo o il memento della sua città, sempre che esitesse.

 

Aveva iniziato a girare il paese subito dopo colazione. Si era concentrato nella ricerca di un qualsiasi indizio e aveva installato l’app, ma nulla era apparso.

Quando aveva iniziato a perdere tutte le sue speranze aveva visto qualcosa che l’aveva fatto sperare, però.

Aveva seguito la ragazza bionda correndo fino a quando si era trovato di fronte alla porta della Velvet room. Justine e Caroline gli sorridevano. “In questa realtà non hai ancora fatto il patto, puoi scegliere. Se entrerai nella velvet room di tua volontà però il tuo destino sarà deciso, e non sarà la storia che hai già vissuto, ma un’altra storia diversa, con persone diverse. Non puoi tornare indietro ormai.”

Il Joker era solo Ren. Avrebbe potuto continuare a vivere la sua adolescenza preoccupandosi solo dei problemi che un comune studente doveva affrontare. Non c’era stato il processo e questo significava che il se stesso di cui aveva preso il posto aveva ignorato le richieste di aiuto di quella ragazza, evitando di scontrarsi con l’uomo che poi l’aveva denunciato.

Lui però era diverso, lui non si sarebbe seduto comodamente a lasciarsi guidare dalle decisioni altrui. Nonostante i rischi che ben conosceva avrebbe aperto quella porta e avrebbe compiuto il suo destino. In fin dei conti non c’era più Ren senza il Joker.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ricordi di una vita tranquilla

 

 

 

 

Ren si era svegliato in un luogo sconosciuto. L’unico essere vivente nella stanza oltre a lui era un gatto nero che dormiva sul letto al suo fianco. Che fosse un sogno? Si era vestito in tutta fretta e aveva iniziato a impacchettare le sue cose quando aveva sentito una voce.

“Ren, ma dove vai?”

Il ragazzo aveva sussultato e si era voltato ancora più confuso. Non c’era nessuno dietro di lui, solo il gatto. Infatti l’animale lo stava guardando seduto sul letto. “Ma che ti prende oggi?”

Aveva urlato con tutto il fiato che aveva in gola. Il gatto aveva parlato.

“La vuoi smettere di fare il cretino? Ren, smettila di urlare adesso! Hey, che succede?”

“Ma tu chi sei? Dove sono?”
“Ma sei ubriaco? Io sono Morgana, tu sei Ren e sei a Tokyo, al Cafè LeBlanc, dove vivi.”

“Io non abito a Tokyo… E questo deve essere un sogno.”

Morgana aveva sospirato. “Ok, allora è un sogno. Siediti sul letto, prendi il tuo cellulare e guardalo.”

Ren aveva seguito gli ordini del gatto. Le fotografie nel suo telefono gli mostravano una vita che non conosceva, che non ricordava e della quale era francamente un po’ spaventato. I messaggi allo stesso modo sembravano scritti in codice visti gli argomenti assurdi che trattavano.

Futaba era arrivata in pochi minuti e aveva cercato di capire cosa fosse successo, ma non ci era riuscita neppure lei. “È come se tu venissi da un’altra dimensione nella quale Ren non è mai arrivato a Tokyo e non ha mai risvegliato i poteri delle sue Persona. Chissà se saresti ancora capace di invocarle? Ma soprattutto, chissà se esiste ancora il Memento.”

Morgana era intervenuta. “Certo che esiste, non so se sarei qui altrimenti.”

I due avevano iniziato a parlare senza che Ren riuscisse a capire una parola dei loro discorsi: memento, palazzi, persona, tesori da rubare e cuori da prendere, phantom thieves e altre sciocchezze che non riusciva neppure a ricordare. “Scusate.”

Li aveva interrotti. “Mi aiutate a capirci qualcosa? Io penso ancora che sia tutto troppo assurdo per essere vero.”

Futaba aveva scritto qualcosa sul cellulare a velocità impossibile e il suo telefono aveva vibrato. “Andiamo nel Memento e vediamo cosa succede. Ho chiamato gli altri.”

 

Gli altri erano di certo molto più normali del gatto e della ragazza nerd stranissima che aveva già conosciuto. Ren si era stupito nel constatare che a combattere ci fossero due ragazze all’apparenza bellissime, un teppista ossigenato e un ragazzo che sembrava non voler stare lì con loro.

Al segnale dato da Morgana erano stati trasportati magicamente in un luogo assurdo.

“Almeno ha la maschera,” aveva osservato Futaba, ancora irritata per aver perso il suo Ren.

Il ragazzo si stava guardando intorno spaesato ed era impallidito quando si era accorto che anche i suoi abiti erano cambiati. Si stava toccando la faccia per cercare di capire cosa avesse addosso. “Eccoci al Memento, e siamo solo all’inizio. Ora vediamo se sai combattere.”

Non era facile per lui stare lì in mezzo a quegli strani ragazzi, ma dopo avere provato a resistere alle storie di Morgana e di Futaba aveva deciso di concedere loro il beneficio del dubbio. I documenti che attestavano il processo di cui non aveva memoria, poi, l’avevano convinto che forse era vero che veniva da un’altra realtà.

Il messaggio che aveva mandato ai suoi ne era stato la conferma. Di fronte al suo “come state” avevano risposto chiedendo come andava a Tokyo e gli avevano detto quanto fossero entrambi in attesa di aprile per poterlo riabbracciare finalmente.

 

Aveva seguito i ragazzi lungo le scale. “Vedrai, sono sicura che combattere ti risulterà naturale, sei sempre stato il più forte tra noi.”

Ren aveva fatto un salto quando il gatto si era trasformato in un pulmino, o forse era un camioncino, ma era salito insieme agli altri. Dopo meno di un minuto si erano trovati di fronte a una creatura orribile. “Ecco un’ombra, preparati.” Aveva detto Makoto guardandolo con speranza.

Gli altri avevano evocato quelle che loro avevano chiamato Persona, e lui era rimasto lì immobile.

“Joker, vai, combatti con noi.”

Ren aveva preso coraggio e aveva cercato dentro di sé la forza per invocare la sua Persona. Non era stato facile riuscire a sentire la capacità di riuscirci, qualcosa di nuovo e di stranissimo, ma quando aveva iniziato a pensare all’invocazione era successo tutto in modo naturale.

La Persona era apparsa e lui si era sentito strano. Quell’essere separato da lui era come se fosse parte della sua stessa anima. Agiva come un prolungamento della sua volontà.

Ren aveva lanciato il colpo di grazia sull’ombra e alla fine del combattimento era rimasto a fissare la Persona, quell’essere che sentiva di conoscere e che non aveva mai visto prima. E quando era scomparsa, o l’aveva lasciata andare, ancora non capiva bene come funzionasse, si era sentito un eroe.

“Lo facciamo ancora?” Aveva chiesto rivolto agli altri Phantom Thieves, che lo stavano osservando con sguardo interrogativo.

“Come ti senti?” Aveva chiesto Ann.

“Benissimo, è una sensazione unica e non vedo l’ora di imparare a combattere.”

Avevano continuato ad allenarsi per qualche ora, fino a quando Ren non aveva iniziato a prendere confidenza con tutte le Persona che poteva controllare.

 

Al loro rientro gli altri ragazzi erano sembrati poco entusiasti. “Scusaci,” aveva detto Ryuji. “Tu sei diverso dal Ren che abbiamo conosciuto noi, ma sei come lui. Ora non sappiamo bene se sperare che tu resti o che torni il vecchio Ren e che tu riacquisisca la tua vecchia vita.”

“Capisco,” Aveva risposto Ren. “Se anche dovessi tornare alla mia vecchia vita, credo che verrei comunque a cercarvi, ora che so che questo mondo esiste.”

Quella notte Ren era andato a dormire presto, stanco a causa dei combattimenti. Morgana si era messo al suo fianco come sempre, ma sembrava inquieto.

“Credi che tornerò alla mia vecchia vita al mio risveglio.”

“Non ne ho idea,” aveva risposto il saggio gatto. “Comunque vada sono stato contento di averti conosciuto, spero solo che non arrivi un altro Ren ancora domani, perché ho fatto una fatica a spiegarti tutto oggi e non vorrei ripetere l’esperienza.”

Ren si era messo a ridere, ma sentiva dentro una strana amarezza: desiderava avere indietro la sua vecchia vita, ma non avrebbe lasciato questa, della quale aveva potuto assaporare un solo assaggio che non gli era bastato per niente. Non poteva immaginare di tornare un ragazzo semplice di provincia ora che sapeva che avrebbe potuto essere il Joker, il leader del gruppo dei ladri di cuori che con il loro potere stava rendendo il mondo un posto migliore.

In cuor suo sapeva che in ogni caso quell’esperienza sarebbe stata per sempre parte di lui e un po’ si dispiaceva al pensiero dell’altro Ren, che probabilmente in quel momento stava solo studiando.

 
 
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2020-03-21 10:20 pm

Verae amicitiae sempiternae sunt


Verae amicitiae sempiternae sunt

Le vere amicizie sono eterne



Quando si erano salutati Ren e gli altri sapevano che si sarebbero rivisti presto. La loro non era un'amicizia che col tempo sarebbe diventata sempre più flebile fino a finire. Avevano vissuto insieme troppe avventure, troppi momenti unici che li avevano cambiati, li avevano definiti per gli adulti che stavano diventando. Le esperienze nel memento e i combattimenti con le ombre li avevano uniti in un legame fortissimo.

Impossibile da scogliere al punto che si sentivano fratelli, più che amici.

Akechi non c'era più e tutti loro sapevano che alla fine persino lui, che pareva aver dimenticato l'amore, si era stupito del loro legame. Persino lui aveva capito quanto loro fossero forti solo per il fatto di essere insieme.

Ren era il centro del loro profondo rapporto e nessuno di loro l'avrebbe mai dimenticato, così come Morgana, l'unico che l'avrebbe seguito fino a casa. Giusto pochi mesi, poi il loro amico sarebbe tornato per Futaba e per Sojiro, che era stato un vero e proprio padre per Ren, ma anche per tutti loro che avevano potuto avere una seconda casa al LeBlanc.

Forse un giorno nel futuro ci sarebbe stato di nuovo bisogno dei Phantom Thieves, che fosse per sconfiggere nuove ombre arrivate a minacciare la pace o fosse solo per festeggiare il compleanno di uno di loro. Sarebbero sempre stati legati, fino alla fine delle loro vite.
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2020-03-21 09:07 pm

Vita sine proposito vaga est

 

 

Fandom: Persona 5

Personaggi: Yusuke Kitagawa

Genere: introspettivo

Prompt: Vita sine proposito vaga est

Flashfic

Partecipa al COWT10

 


Vita sine proposito vaga est

la vita senza una meta è vagabondaggio


Cosa ne sarebbe stato di lui se avesse lasciato veramente l'arte? 

Yusuke sapeva di non aver mai avuto veramente una meta nella vita.

Si era limitato ad accettare la guida di Madarame e a fare ciò che lui aveva definito e deciso al suo posto. Ma aveva veramente un talento che fosse degno di essere chiamato tale o la sua era soltanto pura tecnica  che l'avrebbe reso al massimo un critico d'arte e non certo un artista, perché privo della capacità di trasmettere la profondità, la bellezza e la raffinatezza delle quali l'arte vive.

Aveva tentato di concentrarsi sulla ricerca della bellezza ed era caduto, poi aveva ricercato l'estro e aveva nuovamente fallito. Si sentiva un vagabondo senza meta da quando aveva preso l'amara decisione di lasciare perdere il suo sogno e di trovarne uno meno complicato da seguire, più adatto alla sua mancanza di valore.


Si era sentito così distrutto dopo la rivelazione delle menzogne di Madarame da non essere stato più in grado di capire se il suo talento fosse reale o no.

Negli ultimi giorni però aveva capito che dubitare di se stesso non l'avrebbe aiutato nella sua ricerca di una strada, qualunque essa fosse stata.

Essere parte dei Phantom Thieves gli aveva fatto comprendere quanto la mente umana potesse essere profonda e quanto fosse importante dar voce ai propri sogni e viverli. Non reprimerli e chiuderli in una scatola di bugie e di scuse.


Forse avrebbe dovuto ricominciare a dipingere pensando solo al suo istinto, al suo sogno e alle emozioni che stava provando in quei giorni. Seguire il proprio cuore era la scelta giusta e chi meglio di lui poteva saperlo. Aveva bisogno di una meta, non poteva lasciare che il suo desiderio si perdesse nel suo cuore. 

Avrebbe smesso di vagabondare per dar voce al mare di sensazioni che aveva dentro, senza cercare di razionalizzarlo o di analizzarlo. Solo così avrebbe avuto davvero modo di dimostrare il suo talento.

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2020-03-21 09:02 pm

Vox Populi, vox Dei

 

Fandom: Persona 5

Personaggi: Toranosuke Yoshida

Genere: introspettivo

Prompt: Vox populi, vox dei

Flashfic

Partecipa al COWT10

 

 

Vox Populi, vox Dei

Voce di popolo, voce di Dio


Yoshida era rimasto in silenzio per almeno dieci minuti dopo avere ascoltato il discorso di Shido in televisione. Per tutto il tempo, durante la propaganda, il politico non aveva fatto altro che ricercare il favore del popolo votante con mezze frasi volte a mettere il dubbio sull'operato degli altri partiti politici e a togliere la fiducia nel futuro del paese instillando paura. Aveva parlato di quanto lui sarebbe stato diverso, di quante cose sarebbero cambiate se lui fosse andato al potere, ma i suoi discorsi erano totalmente privi di fondamento politico e servivano soltanto a esaltare il popolo. Non erano che slogan.

Il popolo desiderava davvero questo? 

Bugie e false sicurezze? 

Tora non sapeva se la parte più grande della colpa fosse dei politici, che si erano adeguati furbescamente a quel sistema, o dei cittadini che non erano più abituati a sentire discorsi sinceri e si lasciavano prendere dalle polemiche, sempre più scontenti della società, sempre più stressati e impoveriti. Era facile prendersela con gli altri. Che fossero altri politici, altre aziende, altri stati. Purché la colpa non fosse di aveva voce.

Era diventato un mondo fatto di bugie e lui non lo sopportava. Forse se lo scandalo che l'aveva coinvolto fosse avvenuto in questi tempi nessuno ci avrebbe fatto troppo caso. Sarebbe bastato gridare al complotto e attirare l'attenzione su qualsiasi altro partito, sulle tasse troppo alte, sul crimine in aumento. Le voci si sarebbero zittite in un attimo e tutti avrebbero aspettato il nuovo scandalo, dimenticandosi del precedente. Se fosse successo lui non sarebbe mai cambiato, non avrebbe imparato da quell'esperienza e sarebbe stato anche lui un politico corrotto, come parecchi ormai.

La voce del popolo è la voce di Dio, dicevano. E se il popolo voleva gossip e drammi nella politica forse era lui a sbagliare, si diceva Tora, ma non voleva credere che fosse così. Il popolo aveva solo bisogno di tempo, presto non sarebbe più stato abbagliato dalle chiacchiere di Shido.

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2020-03-21 08:52 pm

Homo faber fortunae suae - Nosce te ipsum - Persona 5

 

Fandom: Persona 5

Personaggi: Goro Akechi

Genere: introspettivo

Prompt: Homo Faber fortunae suae 

Flashfic

Partecipa al COWT10

Homo faber fortunae suae

 

L'uomo è l'artefice della sua fortuna

 

 


Akechi non aveva mai accettato il fatto che il padre avesse abbandonato lui e la madre come fossero spazzatura, che si fosse limitato a ignorare le richieste di aiuto da parte della donna che aveva tentato di crescerlo e che non avesse mai voluto incontrare il figlio.

Non l'avrebbe mai perdonato, né si sarebbe mai arreso al suo destino. Lui non era che il figlio di una prostituta che si era limitata a riempirgli lo stomaco di cibo e a cacciarlo di casa quando incontrava i suoi clienti. Non era stata in grado di gestire la sua vita e che alla fine si era suicidata dopo aver reso l'esistenza di suo figlio un inferno di vergogna, che l'aveva portato solo a cercare di nascondersi, di annullarsi e di confondersi nella massa di persone che abitavano la città e il quartiere a luci rosse. Non c'erano tanti bambini nel suo palazzo, perché in genere le donne come sua madre riuscivano a rimboccarsi le maniche e a trovare un lavoro più adatto a una madre. La sua no, lei era una debole e aveva ceduto all'alcool, alla droga e infine anche alla morte.

L'uomo è l'artefice della sua fortuna.

L'aveva sentito dire a Masayoshi Shido: suo padre in una conferenza che aveva rilasciato in televisione. Akechi ci aveva ragionato e aveva reso suo quel pensiero, sembrava raccontare la sua vita e il suo scopo. Aveva deciso che avrebbe iniziato a credere nelle sue possibilità, non si sarebbe più nascosto, avrebbe dimostrato a tutti che sotto quei modi gentili e dimessi c'era un leone pronto a ruggire e a prendersi il suo posto nel mondo, anche se pareva che fino a quel momento il mondo fosse contento di averlo potuto ignorare. Non avevano mai avuto aiuti, solo la borsa di studio per la scuola che alla fine si era presa cura di lui, dopo che la madre aveva deciso di morire, lavandosi anche lei le mani di lui e condannandolo a un'esistenza di solitudine, ma ricca di possibilità, perché finalmente Akechi era libero. È un bambino intelligente, fatto per essere un leader, avevano detto le sue insegnanti a scuola. Nonostante fosse solo e a volte la disperazione prendesse il sopravvento sulla sua determinazione Akechi avrebbe infine trionfato.

Avrebbe preso ciò che era suo di diritto, non gli importava come. Chiunque si fosse trovato al suo cospetto avrebbe dovuto riconoscere il suo valore di detective e la sua intelligenza superiore, perché lui non si sarebbe fermato di fronte a nessun ostacolo. Sarebbe arrivato a suo padre e lui l'avrebbe riconosciuto, si sarebbe scusato per aver permesso che la sua infanzia fosse così miserabile e, alla fine, avrebbe capito quanto avesse perso quando aveva deciso di abbandonarlo. Perché Akechi era speciale, era unico, ed era l'artefice del proprio meraviglioso destino.

A volte sognava la voce sicura del padre rotta dalle lacrime, immaginava la sorpresa e la gioia da parte sua nello scoprire che fino a quel momento era stato guidato nelle scelte proprio dal figlio che aveva abbandonato, che invece aveva scelto di stare al suo fianco nonostante fosse in grado di fare molto da solo. Non aveva bisogno di lui, ma era necessario che Shido si rendesse conto di chi aveva di fronte: un uomo che si era fatto da solo, a partire da sotto zero.

 

Fandom: Persona 5

Personaggi: Futaba Sakura

Genere: introspettivo

Prompt: Nosce te ipsum

Flashfic

Partecipa al COWT10

 

 

Nosce te ipsum

conosci te stesso


Futaba non era mai stata in grado di comprendere bene i sentimenti e le intenzioni di chi le stava intorno. Non le era mai riuscito naturale come invece pareva essere per Ann, nei confronti della quale aveva provato ammirazione fin da quando l'aveva conosciuta.

Il suo percorso di comprensione del mondo la stava portando ad analizzare la socialità degli esseri umani come lei non facesse parte della stessa umanità, si sentiva un pesce fuor d'acqua, una strana creatura aliena costretta a vivere secondo le regole della società quando tutto le appariva fin troppo complicato.

Non era uscita di casa quasi per niente, se non per andare da Sojiro qualche rara volta per poi scappare a nascondersi appena un singolo cliente entrava dalla porta.

Era molto più semplice per lei comprendere il codice informatico, che non mentiva e non ammetteva interpretazioni. Non correva il rischio di sbagliare quando scriveva un codice, né quando trovava l'accesso a siti protetti cercando tra le righe pulite un punto debole.


Magari le altre persone fossero state così, se solo fosse stato sufficiente conoscere il linguaggio per comprenderle. Purtroppo però non era così e in fondo Futaba cominciava a lasciarsi sedurre dal fascino dell'umanità in Ann, come soprattutto in Ren.


Ren. Grazie a lui avrebbe imparato a conoscere il mondo, sotto la sua guida gentile avrebbe compreso un po' meglio se stessa e quello strano calore che sentiva dentro quando lui le era vicina. Che fosse amore? 

Futaba arrossiva quando la domanda le passava per la mente, ma anche lo fosse stato non era ancora pronta ad affrontarlo: la sua strada per conoscere se stessa era ancora lunga e l'unica certezza che aveva era che lui, in ogni caso, le sarebbe stato accanto in quel viaggio avventuroso tra le insidie che la sua stessa mente creava per farla rallentare. 

Alla fine avrebbe trionfato, sarebbe stata in grado di vivere nel mondo e di essere orgogliosa di se stessa, senza paura, senza scappare.

 

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2020-03-07 11:10 pm

Skull e la Chitarra

 

Fandom: Persona 5
Genere/tipo: Flashfic, slice of life
Prompt: Luoghi di Nocturnia
Partecipa al COWT10!

Skull e la chitarra

 

Ryuji aveva desiderato una chitarra elettrica per molto tempo. 

Si era concentrato sulla corsa in quegli anni, ma ormai la scuola era finita, aveva iniziato a lavorare e lui finalmente si sentiva in diritto di comprarne una e di imparare a suonarla. 

Di fronte alla vetrina del negozio Brian e Matt strumenti musicali stava osservandole con bramosia, nell'attesa che il suo amico arrivasse per consigliarlo.

"Ma perché proprio una chitarra?" La voce dietro le sue spalle l'aveva terrorizzato sul momento. Yusuke pareva soddisfatto di essere riuscito a fargli quella bella sorpresa. 

"Una chitarra perché non posso comprare la batteria, non ci sta in casa."

"Ma perché non un clarinetto o un violino allora?"

Ryuji aveva guardato il suo amico di sottecchi, un po' pentito per aver chiesto a lui: all'artista, e non a Makoto o ad Ann che forse l'avrebbero aiutato di più.

"Entriamo..."

Una volta dentro erano subito stati colpiti dalla grande quantità di strumenti musicali appesi alle pareti, alcuni dei quali erano loro sconosciuti. 

"Buongiorno, sono Matt, come posso aiutarvi?"

"Buongiorno, vorrei una chitarra elettrica."

Il commesso aveva iniziato a camminare facendo loro cenno di seguirli: "Ha già tutto quello che serve oltre alla chitarra? Amplificatore, accordatore se è alle prime armi, poi magari una custodia di qualche tipo?"

Ryuji non aveva in effetti pensato a cosa gli sarebbe servito, ma era lì anche per farsi consigliare: "Non ho nulla." 

Matt si era diretto verso un palchetto al centro del negozio dal quale si notava una gigantografia dei proprietari con il motto usa gli strumenti giusti con Brian e Matt!

 

"Un bundle perfetto per voi, ecco qui: chitarra, corde di ricambio, plettri, supporto da pavimento o da parete per lo strumento, cavi e amplificatore. Offriamo anche un ottimo sconto sul totale e un accesso al nostro corso base di tecnica online e agli spartiti base per imparare."

Ryuji non aveva guardato altro: "Lo prendo!" Yusuke aveva tentato di convincerlo a guardarsi un po' attorno prima, ma aveva capito cosa l'avesse colpito a quel modo: L'amplificatore e la chitarra erano decorati con un'immagine che sembrava proprio Skull, sembravano fatte su misura per lui.

Erano stati nel negozio praticamente solo cinque minuti: Ryuji aveva dato il suo indirizzo e pagato immediatamente.

Una volta fuori dal negozio Ryuji aveva saltellato ridendo: "Hai visto, la chitarra con Skull, il più figo dei Phantom Thieves!" 

"Già, che fortuna... Neanche l'avessero fatto di proposito. Che bravi commercianti, davvero."

Già, non potevano davvero sapere chi fossero.

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2020-03-07 10:53 pm

In cucina con Ale

 

Fandom: Persona 5
Genere/tipo: One shot, generale
Prompt: Luoghi di Nocturnia
Partecipa al COWT10!

In Cucina con Ale

 

Makoto in vacanza si sentiva libera. La parte di lei attenta a fare sempre la cosa giusta le lasciava la libertà di non preoccuparsi continuamente dei doveri e dello studio, in fin dei conti le vacanze erano fatte per rilassarsi e lei era umana come tutti.

 

Aveva deciso di viaggiare da sola e aveva scelto l'Italia, nonostante in molti le avessero detto che quasi nessun italiano parla inglese in modo comprensibile e lei odiava non riuscire a farsi capire. 

Aveva prenotato alcune esperienze, il sito del turismo le chiamava così. E quella sera era in attesa della più strana: Cucina con Ale al ristorante Cucina con Ale.

Stava rileggendo le regole con attenzione: vi sarà fornito un grembiule e un cappello, e in cucina troverete ogni tipo di utensile per dare sfogo alla vostra creatività culinaria.

 

Makoto non cucinava come una cuoca provetta, ma non era così incapace e desiderava affinare le sue doti nella cucina occidentale. Era stata accolta da un uomo affascinante: alto, coi capelli scuri e folti e gli occhi penetranti.

- Buonasera, io sono Ale - le aveva detto nel suo italiano sensuale e Makoto non aveva potuto far altro che sorridere come una sciocca e dire il suo nome.

Una volta in cucina, in un inglese fluido lui le aveva chiesto cosa lei desiderasse cucinare. Makoto gli aveva detto che aveva sempre voluto imparare a fare il risotto. 

- Molto bene, allora stasera faremo il risotto.

L'uomo le aveva spiegato tutto il procedimento in modo eccellente. Makoto aveva preso appunti e assaggiato i sapori sotto la sua guida di cuoco eccellente. Col piatto di risotto fumante, poi, lei era andata ad accomodarsi a uno dei tavoli, notando che in sala c'erano altri tre clienti che stavano chiacchierando tra loro, coi piatti vuoti di fronte. 

Dopo aver mangiato, la ragazza era andata a fare due chiacchiere con gli altri clienti, che le avevano confermato di aver comprato il suo stesso pacchetto. Le avevano spiegato che quella sera tutti insieme avrebbero cucinato i loro piatti per i clienti veri del ristorante, cosa che la ragazza aveva trovato un po' strana, quasi assurda: veramente aveva pagato per lavorare al ristorante di quell'Ale?

In effetti alla fine in cinque erano stati messi ciascuno nella propria postazione e sotto la guida costante di Ale avevano passato la serata a cucinare e ad assaggiare, a imparare e a ridere nella grande cucina professionale del ristorante. 

Makoto alla fine si era resa conto di aver passato una delle serate più divertenti della sua vita e, anche se un po' continuava a pensare che l'uomo li avesse sfruttati, non poteva non ammettere che l'avrebbe rifatto, pagando di nuovo. 

Finalmente sapeva come fare il risotto, e non solo quello.

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2020-03-07 10:47 pm

A dieta? Mai

 

Fandom: Persona 5
Genere/tipo: slice of life
Prompt: Luoghi di Nocturnia
Partecipa al COWT10!

 

A dieta, mai.


- Ma che idea è chiamare una cioccolateria Dieta. Come gli è venuto in mente?

Ren aveva alzato le spalle - Non ci avevo neanche pensato in realtà.

- Che facciano solo dolci dietetici? Oh, sarebbe meraviglioso, Potrei finalmente mangiare tutto il cioccolato che voglio e non preoccuparmi di ingrassare. Magari ne regalerei un po' anche a Mika, magari si calma un po' e la smette di essere così competitiva. - Ann si era fermata e aveva fatto a Ren cenno di entrare.

- Va bene, mangiamo qualcosa.

All'interno c'erano un'enorme vetrina piena di praline diversi e un'altra ricca di tavolette di cioccolata, di biscotti e di altri dolcetti di ogni tipo.

Una signora dalle guance paffute, con una cuffia e un grembiule rosso con il nome della cioccolateria, li aveva accolti con un aperto sorriso.

- Perché dieta? - Aveva chiesto Ann.

- Perché per chi è a dieta abbiamo dei dolcetti proteici, e sono buonissimi, anche se in realtà ne abbiamo solo di due tipi, laggiù. Abbiamo comunque anche i classici dolci che possono andare bene per tutti, ovviamente. Nessuno dovrebbe davvero stare a dieta, soprattutto non voi che siete così belli. La dieta va fatta col cuore felice. -

Ann era rimasta a osservare i vassoi già pronti, pensando alle parole della donna. Lei la pensava un po' così, non poteva neanche pensare di mettersi a Dieta. Aveva iniziato a contare con le dita guardando un punto indistinto del vuoto.

- Desiderate un vassoietto di praline? - aveva chiesto la proprietaria, perché a guardarla bene doveva esserlo.

- No. - Aveva risposto Ann, continuando a contare. - Ne vorrei dodici.


Prima che i due pagassero, la donna aveva dato ai due una pralina a testa in assaggio. Era senza dubbio cioccolato eccellente.

- Arrivederci, - li aveva salutati la signora con allegria.


Ren stava portando i due sacchetti colmi di pacchetti regalo - Ma per chi è tutta questa cioccolata? 

- Per cominciare uno è per te, ne ho presa per tutti, la signora era simpatica.

Ren era felice del regalo. Li avrebbe conservati con cura e gli avrebbero aiutato a pensare a lei. - Grazie. Ora torniamo a casa.

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2019-04-03 11:07 pm
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Gli Arcani

Ryuji
Gun About
Sae
Yusuke
Arrivederci
Gossip Girl
No-Good-Tora




 
 
Fin da piccolo Ryuji aveva dimostrato di amare la corsa.
Quando era nervoso, iniziava a correre e ogni problema svaniva dalla sua mente, ogni cosa diventava più bella mentre percorreva il sentiero del parco, veloce come il vento. Ricordava come sua madre lo guardasse, felice di vedere quanto il figlio fosse vivace e attivo. Non aveva paura di nulla, non si fermava di fronte agli ostacoli, a volte evitandoli per un soffio e altre volte prendendoli in pieno. Molto spesso, tornava dalla madre con dei graffi evidenti sulle braccia o zoppicando leggermente, ma sempre correndo e ogni volta con un sorriso di gioia.
Sua madre non si era sorpresa per niente quando aveva saputo che era entrato nella squadra di atletica della sua scuola, aveva semplicemente pensato che quello fosse l'unico modo che il figlio avesse per non creare troppi problemi, perché con la corsa si sfogava e anche a casa era più tranquillo nei giorni in cui si allenava.
Ryuji, dal canto suo, sapeva di non essere particolarmente intelligente o dotato per il ragionamento complesso, ma quando correva si sentiva libero ed era certo che se avesse potuto allenarsi, per quanto triste o nervoso fosse stato, avrebbe ritrovato il suo equilibrio.
Più volte si era messo nei guai seguendo il suo impulso, ma non poteva farci niente: quando vedeva un'ingiustizia di qualunque tipo sentiva il bisogno di mettersi dalla parte della ragione, soprattutto quando a subire gli attacchi dei prepotenti erano persone indifese o incapaci di reagire ai soprusi.
 
Kamoshida aveva esagerato quando aveva iniziato a far girare la voce di come suo padre avesse lasciato lui e la madre per andare chissà dove a fare la bella vita del giovane single senza responsabilità. Ryuji l'aveva attaccato ed era finita male per tutti: la squadra era stata sciolta, lui si era trovato senza borsa di studio e con una gamba rotta. Aveva rovinato tutto.
Ryuji era contento che il padre se ne fosse andato. Era solo un codardo: frustrato nella vita, violento con la moglie e con il figlio. Supporto economico a parte, non avevano bisogno di lui. A volte, però, sentiva la madre piangere durante la notte e sapeva quanto non ce la facesse a sopportare di stare da sola con lui, di essere costretta a sopravvivere lavorando in ogni momento possibile per mantenerlo. Lui cercava di non essere di peso e la borsa di studio era stata importante per la loro sussistenza.
La rissa con Kamoshida e il conseguente scioglimento della squadra erano stati difficili da accettare per la madre. Non sei riuscito a lasciare correre neanche per la borsa di studio? Dovevi proprio reagire?
 
Lui sapeva che sua madre era arrabbiata e delusa dal suo comportamento, anche perché in quei frangenti le ricordava lui, Ryuji non riusciva a spiegarle quanto le sue motivazioni fossero estremamente diverse da quelle di suo padre. Il danno era fatto e la cosa peggiore era che Kamoshida ne era uscito completamente pulito, nonostante tutti sapessero che anche con la squadra di pallavolo si comportava in modo prepotente, facendo subire a chi non rendeva abbastanza ogni tipo di vessazione.
Il suo tentativo di ribellione non era servito a nulla, aveva solo rovinato se stesso e la sua vita.
Si era ripromesso di tentare di contenere i suoi impulsi, di evitare di reagire in modo sbagliato alle provocazioni, ci stava provando con tutte le sue forze e sperava che presto avrebbe smesso di sentire quella rabbia cieca che lo forzava a gridare il suo dissenso. La strada era ancora lunga, perché Ryuji continuava a non sopportare i comportamenti ingiusti, ma forse, ora che aveva incontrato Ren, ce l'avrebbe fatta.
 
 






 
 
Quando non giocava a Gun About, Shinya non era altro che un piccolo, insulso perdente.
A scuola era sempre stato trattato come tale e una parte di lui si era abituata agli insulti e ai maltrattamenti che subiva dai bulletti che continuavano a perseguitarlo.
 
Ma quando si trovava di fronte allo schermo del suo gioco lui era "The King": il re.
Non aveva mai perso una partita, mai. A volte si chiedeva cosa avrebbe fatto se qualcuno l'avesse sconfitto, anche se sapeva che era praticamente impossibile, perché The King non sbagliava un colpo e non aveva incontrato, fino a quel momento, nessuno in grado di metterlo anche solo in minima difficoltà.
In sala giochi lo trattavano come un adulto, gli dimostravano rispetto e ammirazione e lui si era abituato in fretta a essere apprezzato e lodato. Aveva iniziato a farsi pagare le partite dai suoi avversari e a volte si faceva dare anche qualche piccolo extra. Quello era l'unico luogo in cui comandava lui.
 
A scuola invece era tutta un'altra storia, ma Shinya evitava di lamentarsi con sua madre a casa, non aveva senso farlo perché di tutta risposta lei in genere lo sgridava per essersi fatto mettere i piedi in testa e il giorno successivo si presentava a scuola per esibirsi un una scenata che lo metteva una volta di più al centro dell'attenzione.
Per questo Shinya non le aveva raccontato ciò che era successo quella mattina.
"Dov'è il tuo cappello?" Gli aveva chiesto.
"L'ho perso." osservava il tavolo, i piatti ancora vuoti in attesa che la cena finisse di cuocere.
La madre gli si era avvicinata e l'aveva guardato dritto negli occhi:"Ne sei sicuro, Shinya? L'hai perso? E dimmi, dove?"
Lui osservava le sue mani sulle ginocchia, la testa china, incapace di mentire a sua madre, non era mai stato forte, anzi... Tutti l'avevano capito, per questo continuavano a infierire su di lui ogni volta che ne avevano l'occasione.
La madre sembrava fare lo stesso. I suoi occhi esprimevano disprezzo e anche solo averli incrociati per un attimo aveva messo in crisi i nervi di Shinya. "Sono stati loro, vero?"
Lui non riusciva a capire cosa avrebbe dovuto fare per non farsi trattare in quel modo, come poteva lei dargli la colpa per il comportamento sbagliato di altri ragazzi? Come poteva fargli pesare la sua incapacità di comportarsi allo stesso modo?
"Quando imparerai a difenderti? Perché non hai chiesto aiuto al professore?"
Era inutile: sua madre non avrebbe mai capito che non lo stava aiutando. Era una situazione senza via d'uscita e di nuovo non sarebbe migliorata.
"Allora pare che domani mi dovrò fare un altro giretto alla tua scuola per insegnare ai tuoi professori a fare il loro mestiere e a controllare gli studenti, non a lasciarli a pascolare in giro senza prestare loro attenzione. Come se non avessi abbastanza da fare..."
"No." Shinya l'aveva interrotta urlando. "Per favore, mamma, non venire a scuola." Aveva pregato, sapendo che probabilmente non l'avrebbe ascoltato.
Sua madre aveva versato il cibo nei piatti senza parlare e Shinya aveva passato la cena a pensare che almeno il giorno seguente avrebbe avuto tempo per stare in sala giochi. Aveva sorriso. "Scusa, mamma, lo so che lo fai per me. Lascia che mi arrangi a riprendere il cappello."
Lei era rimasta a osservarlo senza credergli. "Va bene, se domani quando tornerai a casa avrai il cappello, vorrà dire che finalmente hai imparato. Ora mangia."
Non sarebbe tornato dai bulli, nè tantomeno dai professori. Avrebbe risolto la situazione a modo suo, nell'unico che gli era venuto in mente: avrebbe ricomprato quel berretto con i soldi vinti durante le partite quel pomeriggio. Sua madre sarebbe stata felice e le cose si sarebbero calmate, almeno per un po'.




 
 
 
 
"You don't have to do a single thing, and you're provided with food, clothes, a home... I've had no time to think on such ridiculous thoughts. Would Dad have been happy with them? I don't care. He died upholding some lofty sense of righteousness, leaving all his responsibilities on us. Isn't it about time you grew up and acknowledged our situation!? Right now, you're useless to me. All you do is eat away at my life!"
—Sae Niijima lashing out at Makoto Niijima, Persona 5
 
Sae aveva solo un obiettivo in quel periodo: doveva prendere i Phantom Thieves.
Era esausta, da troppo tempo non riusciva a riposare tranquillamente, anche perché quando andava a dormire si ritrovava a pensare alle prove che aveva raccolto, ai dettagli di ogni vittima e a tutti quei discorsi sul "cambiare il cuore" della gente, che solo poche settimane prima le sarebbero sembrate sciocchezze da film di Hollywood e alle quali invece alla fine aveva cominciato a credere.
Si domandava come fosse possibile che qualcuno riuscisse a far confessare a una persona ogni suo crimine, come si potesse portare al pentimento un uomo che fino a quel momento era stato convinto di ciò che faceva nella vita, come Madarame, un vecchio artista che aveva passato tutta la sua vita a rubare arte ai suoi protetti e che all'improvviso si era riscoperto pentito del suo comportamento. Cosa era successo davvero, si chiedeva.
Sae era convinta che ciascuno fosse responsabile delle proprie azioni e per questo riteneva che le confessioni estorte non si sapeva come dai Phantom Thieves fossero in realtà valide, visto che ottenevano il giusto risultato. Doveva ancora convincersi della loro esistenza, ma ci avrebbe lavorato, avrebbe esaminato ogni dettaglio e avrebbe scoperto la verità dietro le storie forse un po' troppo romanzate che li riguardavano.
Era contenta che l'avessero messa a lavorare su un caso così controverso, perché Sae pensava che questo l'avrebbe messa nelle condizioni di poter dimostrare il suo valore, cosa che le avrebbe potuto portare ad avere la promozione che meritava.
La sua vita non era facile: era la tutrice di Makoto e per quanto sua sorella fosse matura e autonoma e non le creasse quasi mai problemi, era pur sempre sotto la sua responsabilità e non poteva permettersi di lasciarla a se stessa. Del resto, il padre non aveva lasciato loro molto denaro con cui mantenersi, quindi le due dovevano contare sullo stipendio di Sae per sopravvivere e lei non poteva permettersi di mettersi a piangersi addosso, così come non poteva lamentarsi. Suo padre aveva fatto l'errore di pensare alla giustizia come a un ideale da perseguire sempre e comunque, questo l'aveva portato alla morte e solo lei e Makoto lo ricordavano, il suo nome era finito nel dimenticatoio nonostante tutto quello che aveva fatto, inutilmente, per quella città.
Che significato aveva la giustizia nel mondo in cui vivevano? Sae viveva nella realtà, dove quel che contava era tirare fuori le unghie e dimostrare il proprio valore. Vincere, scoprire il colpevole o trovarne uno che la mettesse in buona luce era tutto ciò che desiderava. Voleva avere ciò che le spettava per il suo impegno sia nel lavoro che nella vita. Avrebbe dimostrato a tutti che lei valeva più di quanto tutti credessero, anche Makoto, che la giudicava, come si permetteva di farlo? Con tutto ciò che Sae faceva per lei, con tutte le rinunce che aveva dovuto sopportare per starle vicina...
Sae aveva in diritto di essere un po' egoista, aveva il diritto di realizzare il suo desiderio, viveva per quello, ormai.
 
 
 
 
 
 






 
 
 
Quando Yusuke iniziava a dipingere un quadro, non sempre aveva un'idea di ciò che ne sarebbe uscito. A volte si preparava i colori per riprodurre una natura morta per fare esercizio e poi, dopo la prima pennellata, si ritrovava a cambiare completamente idea e a comporre un disegno astratto lasciandosi guidare dall'impulso. Spesso si fermava e iniziava a ragionare su ciò che aveva davanti agli occhi, in quei momenti veniva assalito dai dubbi e iniziava a chiedersi quale fosse il modo giusto di proseguire.
Madarame gli aveva sempre detto di lasciarsi guidare dall'ispirazione, ma Yusuke non riusciva a mettere d'accordo il disegno che gli appariva in testa quando riteneva di essere folgorato da un'idea e ciò che invece finiva sulla tela. Molto spesso si sforzava a seguire l'idea iniziale convinto che fosse quella migliore, per poi deviare lentamente verso il pensiero che aveva preso forma nelle sue mani osservando la tela o muovendo il pennello.
Forse pensava troppo, si ripeteva: gli artisti come tali agiscono seguendo l'impulso, la forza dell'arte era quella che arrivava a chi vedeva i dipinti dall'autore, per questo era importante avere un'idea da esprimere e il problema col quale Yusuke si trovava a combattere era che le sue idee erano contraddittorie e confuse e non era in grado di esprimerle con la sua arte in modo univoco.
Quando cercava di pulire il suo disegno irrimediabilmente lo rendeva più scialbo e osservandolo non riusciva a vederci nulla di interessante, invece quando lasciava che la sua mano prendesse il sopravvento, scollegando la testa, produceva tele confuse e caotiche, che probabilmente riproducevano la confusione nella sua mente in quel periodo.
C'era un equilibrio, lo sapeva, doveva soltanto trovarlo al più presto per cercare di non perdere la spinta a creare.
Era convinto di avere il talento necessario a diventare davvero qualcuno, l'aveva preso da sua madre, da quella donna che solo da infante aveva potuto guardare negli occhi e alla quale avrebbe voluto fare migliaia di domande. Forse era il suo attaccamento a quel passato che ormai era irrecuperabile che lo portava fuori strada, era chiaro che per avere risultati avrebbe dovuto concentrarsi sul presente, lasciando da parte le emozioni che gli tornavano costantemente in testa pensando al passato.
Era quello il suo problema? Aveva forse un modo per chiudere col passato del tutto, di accettarlo e poi sentirsi finalmente libero di proseguire con la sua vita e con la sua arte, che in quel periodo era l'unica ragione per la quale si alzava dal letto la mattina?
Si chiedeva se sarebbe mai riuscito a trovare il bilanciamento tra il controllo e l'estro, se un giorno qualcuno vedendo una delle sue opere avrebbe identificato Yusuke Kitagawa, il grande artista scoperto da Madarame, il filantropo che aveva scoperto e incoraggiato l'arte di decine di giovani artisti dei quali anche Yusuke aveva potuto constatare la crescita, visto che era lì con loro ogni giorno, perché per lui Madarame era più di un maestro, era ciò che di più vicino lui avesse a una famiglia.
Di questo l'avrebbe sempre ringraziato.
Per ripagarlo non doveva fare altro che ricominciare a dipingere, senza pensarci troppo.
 
 






 
 
Ren era arrivato a Tokyo senza molte speranze, ricordava che quella sera era stanco per il viaggio e quando aveva incontrato Sojiro l'aveva preso per un burbero che mirava soltanto a intascare i soldi dell'affido e che lo avrebbe lasciato al suo destino. I suoi genitori erano stati ben felici di lasciarlo andare. Non che prima si fossero presi cura di lui in modo ineccepibile, ma di certo lui non pensava che avrebbero avuto così poca fiducia in lui da credere alle accuse e non al proprio figlio. Invece gli erano sembrati soddisfatti all'idea di passare un anno in libertà assoluta, senza obblighi, senza dover pensare alla sua scuola o a dove fosse. Non avevano chiamato che un paio di volte in tutto quel tempo.
In Sojiro, invece, aveva trovato una famiglia che mai aveva pensato di desiderare: gli aveva insegnato i segreti della caffetteria e del curry, gli aveva dato fiducia e libertà, anche quando aveva scoperto che proprio lui, il suo affidatario che aveva promesso di stare lontano dai guai, era in realtà uno dei Phantom Thieves. Nemmeno allora aveva dubitato di lui.
Non era stato l'anno noioso durante il quale pensava che avrebbe soltanto studiare e assecondare il proprio tutore, no, in quell'anno aveva cambiato il suo destino.
Lui e suoi amici avevano vissuto avventure che li avrebbero tenuti legati per sempre l'uno all'altro, perché uniche e irripetibili.
Ryuji era stato il primo a trovare il coraggio di avvicinarlo, quando Ren pensava che nessuno desiderasse avere a che fare con lo studente violento che era stato condannato per aggressione. Anche in lui c'era molto più valore di quanto gli altri vedessero e in quell'anno era riuscito a trovare il suo equilibrio e ad agire meno d'impulso. Poi c'era stata Ann, la dolce Ann che seguiva sempre il suo cuore. Yusuke e Haru, poi, l'artista peculiare e la donna in carriera, la regina del caffè. E Futaba, il genio, l'eremita. Era tanto cambiata da quando l'avevano conosciuta, finalmente non aveva più paura.
 
Ma sarebbe tornato indietro una volta concluso l'anno scolastico. Sarebbe tornato a Tokyo per Makoto. In lei aveva trovato un legame così forte che i due avevano giurato che non si sarebbe spezzato in quell'anno e lui sperava che fosse veramente così.
 
Morgana almeno sarebbe rimasto con lui, sempre che l'avesse trovato visto che era dalla sera prima che non lo vedeva. Insieme a lui si sarebbe sentito meglio anche a casa dei suoi.
Aveva chiuso la sua enorme valigia, lasciando fuori solo il suo diario, il regalo di Sojiro. Desiderava lo tenesse lui per ricordarlo, anche se Sojiro l'aveva invitato a tornare ogni volta che l'avesse desiderato, perché la stanza nella quale aveva vissuto sarebbe rimasta lì per lui.

In quella stanza aveva costruito tanti ricordi che avrebbero fatto per sempre parte del suo cuore e chiudendo quella porta si era sentito per un attimo vuoto. Ma la vita doveva andare avanti e lui tornava a casa con la certezza che i legami che aveva costruito in quell'anno sarebbero esistiti per sempre.
 
 



La passione di Ichiko per il giornalismo era nata quando era solo una ragazzina.
Da piccola amava scrivere i temi, per questo aveva deciso di iniziare a scrivere per il giornale della scuola, dove le avevano affidato una piccola rubrica di interviste per la quale ogni volta chiamava un personaggio di spicco all'interno della scuola. Una delle prime volte aveva intervistato il preside. Ricordava con affetto quella bambina innocente che faceva domande un po' insipide, come: Le piace il suo lavoro? Cosa pensa degli studenti?
 
Erano domande troppo aperte, troppo semplici. Col tempo aveva imparato a mirare meglio, a farsi valere e a leggere tra le righe.
Una volta, per caso, facendo una domanda di gossip al capitano della squadra di Pallavolo si era trovata di fronte a un'incongruenza e a quel punto si era resa conto di avere due possibilità: continuare a fare domande e cercare di capire cosa stesse cercando di nascondere o fare finta di niente. Aveva optato per la prima, esponendo uno scandalo nella scuola riguardante l’uso di sostanze dopanti, che venivano fornite dallo stesso allenatore.
Era stato in quel momento che aveva deciso che avrebbe fatto la giornalista di mestiere, perché aveva provato una grande soddisfazione nell’aver fatto venire alla luce la verità.
 
Non le piaceva più di tanto il gossip, ma era stato un buon modo per lei di iniziare con qualcosa di leggero.
Già dall'anno successivo aveva chiesto di occuparsi di politica, che le pareva più sulle sue corde. I suoi Sempai a scuola avevano notato la sua predisposizione per il lavoro ed erano stati d'accordo nell'affidarle articoli a volte complessi, che richiedevano una ricerca anche piuttosto impegnativa. Ichiko iniziava sempre raccogliendo tutti i dati necessari, controllando e incrociando le dichiarazioni degli interessati e cercando eventuali incongruenze per poi cercare domande che mettessero gli intervistati con le spalle al muro.
 
A scuola aveva conosciuto Kayo, l'unica che oltre a lei avrebbe desiderato in futuro una carriera da giornalista. Ichiko era più mite con le persone che intervistava, tendeva a metterli a proprio agio e a fare qualche domanda di riscaldamento prima di mollare la bomba come diceva lei. Kayo invece aveva uno stile più aggressivo: fin da subito metteva in chiaro che lei nonostante il suo aspetto mite e docile, fosse il Diavolo quando aveva in mente un articolo. Anche nella ricerca, Kayo andava avanti come un toro: dritta per la sua strada, senza prendere in considerazione eventuali impedimenti. Ichiko aveva trovato in lei un'amica e una collega che rispettava, avevano iniziato a confrontarsi in merito ai loro articoli, esaminavano una il lavoro dell'altra ed esprimevano eventuali perplessità o consigli.
Finita la scuola, avevano tentato la carriera allo stesso giornale, avevano avuto fortuna e avevano continuato a lavorare insieme per gli articoli più importanti.
Il giorno precedente, lei e Kayo avevano presentato il loro articolo sullo scandalo politico che coinvolgeva Shido. Erano così orgogliose del loro lavoro che la sera erano state a bere qualche drink al Crossroads per festeggiare, certe che la loro inchiesta sarebbe stata premiata.
Invece quella mattina Ichiko aveva avuto una doccia gelida appena sveglia: Kayo l'aveva chiamata furibonda, per dire che il loro articolo era stato rifiutato e che le avevano passate al gossip.
La sua amica odiava quel tipo di articoli e se n'era andata qualche giorno dopo.
Ichiko si continuava a chiedere se la ricerca della verità avesse davvero senso in quel mondo nel quale non veniva premiata come sarebbe stato giusto, anzi: entrambe stavano ancora pagando per ciò che avevano scoperto. Al giornale ogni volta che lei cercava uno spunto interessante che esulasse minimamente dal gossip fine a se stesso, veniva riportata a terra: tu non ti occupi di questo, così le dicevano.
Aveva continuato a lavorare perché sapeva che prima o poi avrebbe ricominciato a occuparsi di ciò che amava. Era appassionata e non avrebbe lasciato andare quello che era certa fosse il suo destino, ma ogni giorno si chiedeva perché si fosse fissata in quel modo con la ricerca della verità, non serviva a niente.
Forse avrebbe fatto bene a continuare a fare il paparazzo.
 







 
 
 
Toranosuke aveva perso il desiderio di continuare con la politica.
Si sentiva un vero fallito ad aver perso di nuovo le elezioni e pensava che nel giro di qualche anno avrebbe perso il conto delle sue sconfitte. Che senso aveva che continuasse a fare i suoi comizi quando lo ascoltavano giusto in quattro gatti? Perché continuava a importargli del futuro del suo paese che lo aveva rifiutato più e più volte?
I risultati delle ultime elezioni l'avevano lasciato di sasso: pensava che avrebbe ottenuto un riscontro migliore, invece era stato votato da una percentuale davvero infinitesimale dei votanti.
Eppure lui sapeva di avere qualcosa da dire, era sicuro che se fosse stato eletto avrebbe fatto un buon lavoro e che si sarebbe impegnato nel combattere la corruzione che nel sistema politico era sempre più accettata. Sognava una politica trasparente, senza sotterfugi, anche se sapeva di essere un po’ troppo idealista voleva provare ad arrivare a ottenere la miglior situazione possibile.
Spesso si era trovato di fronte a persone che semplicemente chiudevano gli occhi di fronte alla disonestà.
Erano passati venti anni dallo scandalo che lo aveva coinvolto. All'epoca era molto più impulsivo e non aveva saputo tenere la bocca chiusa di fronte a quello che per lui era un vero e proprio crimine. Aveva sbagliato a reagire alle provocazioni.
Quel politico corrotto l'aveva accusato di essere un venduto e lui non aveva saputo ribattere. Alla fine del dibattito, Toranosuke si era sentito sconfitto, incapace com'era stato di argomentare le sue accuse che erano sembrate soltanto dei tentativi di distogliere da sé l'attenzione.
Quel politico era stato bravo a metterlo dalla parte del torto e a luci spente, nello studio televisivo, era andato a congratularsi con lui per la pessima figura in diretta.
"Sei giovane, imparerai anche tu un giorno se capirai quando stare zitto." Rideva, con un’espressione tronfia, orgoglioso delle sue macchinazioni. Per Toranosuke la politica non era questo: aveva un'idea idealizzata di quel mondo, molto probabilmente, ma non aveva intenzione di abbassarsi al livello di quell'uomo, non avrebbe venduto la sua dignità per dei voti, né tantomeno per denaro.
Gli aveva tirato un pugno e l'uomo, meno giovane e poco prestante, era crollato come un fruscello di fronte a quell'unico colpo. Aveva agito in modo irrazionale di fronte alle accuse gratuite da parte di quel politico corrotto e ne aveva pagato le conseguenze.
Quel tizio rialzandosi gli aveva dato il nome col quale sarebbe stato etichettato per lungo tempo dopo quell'episodio. "No-good-Tora, non sai difenderti con le parole e usi le mani, eh?"
Toranosuke riconosceva di aver fatto qualche errore, più di uno in effetti. Aveva provato di nuovo a spiegare le sue ragioni, ma non ci era riuscito e aveva pensato seriamente di ritirarsi.
Ci aveva messo anni a ritrovare la fiducia in se stesso, ma anche in quel periodo aveva continuato a esprimere le sue idee attraverso piccoli comizi che in pochi ascoltavano e che spesso erano intervallati da qualcuno che passava a urlare: “non ascoltate il no-good-Tora.”
 
Da allora era cresciuto e aveva anche chiesto scusa a quell'uomo. Non per le accuse, veritiere, che poi tra l'altro erano anche state verificate, ma per il pugno. Riconosceva di avere sbagliato e sapeva che per quanto in pochi lo seguissero, avrebbe dovuto continuare a impegnarsi per chi credeva in lui e continuava a votarlo nonostante non fosse mai stato un politico di spicco.
Prima o poi avrebbero capito chi era veramente Toranosuke Yoshida e avrebbero smesso di chiamarlo in quel modo.
Nel frattempo si sarebbe rimesso in gioco: sarebbe tornato in piazza per continuare a esprimere la propria opinione, perché non voleva deludere chi continuava a considerarlo. Non intendeva zittire la parte di lui che amava la politica nonostante tutto.
 
quistisf: (Default)
2019-04-03 10:54 pm

(no subject)

Fandom: Persona 5
One shot
Partecipa al COWT9
Prompt: Arcani maggiori
Note: In Persona 5 ogni personaggio è associato a uno degli Arcani Maggiori, che ne determina le caratteristiche.

Afficionado
La Veggente
Sadayo
Il Tonfo
Doubts
Il test
Yaldabaoth


 
"There are probably a lot of people who have high hopes for the Phantom Thieves' next move. So I've also implemented an anonymous poll on the site. "Do you believe in the Phantom Thieves, or not?""

—Yuuki Mishima, Persona 5
Dopo aver confessato ad Amamiya e a Sakamoto ciò che veramente accadeva con Kamoshida, Yuuki si era sentito più leggero.
Arrivato a casa, si era domandato perché tutti continuassero a mantenere il segreto, visto che la gloria per le vittorie della squadra di pallavolo era tutta per il professore, loro, che si impegnavano al massimo per ottenere risultati, spesso sforzandosi più di quanto sarebbe stato accettabile in una scuola, non avevano che rimproveri e vessazioni continue. Dove era la soddisfazione che avevano l’anno precedente? Quando prima che arrivasse Kamoshida la squadra non vinceva sempre, ma almeno era unita e non cercavano continuamente di incolparsi a vicenda per evitare di dover subire le ire del loro allenatore.
Quei due avevano ragione e il giorno seguente Yuuki avrebbe parlato anche con gli altri della squadra, avrebbe tentato di mettersi in prima linea per trovare una soluzione.
Shiho aveva pagato le conseguenze delle paure della squadra. Il solo pensare di essere stato lui a mandarla nell’ufficio di quel maiale lo faceva stare male. Aveva la nausea da quando aveva visto la ragazza volare giù dal tetto della scuola e si chiedeva cosa avrebbe potuto fare per evitare quella situazione. Lui, un codardo. Sapeva benissimo che non avrebbe mai veramente agito, nemmeno quando lui era stato colpito dalla crudeltà di Kamoshida era stato in grado di reagire.
Era un debole, lo era sempre stato e la cosa non sarebbe cambiata da un giorno all’altro, ma Yuuki avrebbe provato a lavorarci.
 
Il giorno seguente a scuola aveva visto tutti quegli strani adesivi:
Ruberemo il tuo cuore
Sig. Suguru Kamoshida
Il lussurioso bastardo
Speriamo che tu sia pronto.
the Phantom Thieves of Hearts
 
Dal giorno seguente, Kamoshida non si era più presentato a scuola e Yuuki immaginava, sebbene fosse quasi assurdo, potesse esserci una correlazione tra quei biglietti e l’improvvisa malattia del professore, ma non riusciva a immaginare come qualcuno potesse rubare il cuore di qualcun altro.
Aveva osservato Amamiya, Sakamoto e Takamaki e li aveva visti più sereni, soddisfatti. Ann l’aveva anche ringraziato per aver detto loro la verità, anche se era chiaro che pensava fosse troppo tardi.
 
Aveva avuto la certezza che i Phantom Thieves fossero loro solo il giorno della confessione di Kamoshida. Come potevano avere fatto? Le domande continuavano a frullargli in testa, ma non otteneva alcuna risposta, perché quello che avevano fatto era semplicemente impossibile.
 
Mishima aveva preso coraggio, era andato da Ren a chiedergli come avessero fatto a rubare il cuore del professore e se avessero in mente un nuovo obiettivo.
“Voglio aiutarvi,” gli occhi gli brillavano, conscio che avrebbe potuto farlo veramente.
Ren aveva negato. “Non so di cosa tu stia parlando, mi sembra una roba da film, non crederai davvero che sia possibile rubare i cuori della gente, vero?”
Yuuki aveva ignorato le sue negazioni, era sicuro che lui fosse uno di loro e non aveva certo bisogno di conferme, anche se avrebbe voluto avere almeno qualche risposta. “Il Phantom Afficionado Website, sarà un sito nel quale la gente potrà commentare, in più posterò anche dei sondaggi per aiutarvi a trovare il nuovo obiettivo, per aiutarvi.”
A Mishima non era sfuggito lo sguardo sorpreso di Amamiya, era evidente che l’avesse preso sottogamba, ma lui non era un semplice fan e non sarebbe stato un peso per loro, al contrario: li avrebbe aiutati, finalmente aveva uno scopo nella vita.


 





Sin da piccola, Chihaya aveva avuto delle intuizioni difficili da attribuire al caso.
Riusciva sempre a capire cosa stesse per succedere e non sapeva spiegarsi come facesse a indovinare ogni volta. Sua nonna le aveva raccontato di avere lo stesso dono. “L’ho sentito in te quando ti ho vista per la prima volta.” E un giorno le aveva regalato un mazzo di Tarocchi.
Chihaya li aveva trovati splendidi: i colori vibranti la attiravano e i disegni erano a volte quasi spaventosi, ma in ciascuno di essi lei vedeva bellezza e opportunità.
Appena aveva toccato le carte, aveva sentito un calore diffondersi nel suo corpo a partire dalle sue mani, come se quegli arcani fossero sempre stati parte di lei, come se prima le fosse mancato qualcosa.
La nonna l'aveva invitata a mescolarle, a sentirle sulle mani una a una e a fare amicizia con le carte per avere la loro fiducia, perché non la tradissero quando chiedeva loro di avere le risposte che cercava.
Chihaya aveva sentito dentro di sé che l'avevano accettata quasi subito e, quando si era sentita pronta, aveva preso una carta e l'aveva messa sul tavolo di fronte sé.
"Come immaginavo," La nonna sembrava contenta. "Sai cosa significa?"
"Che il destino può cambiare?"
"No, Aya, significa che il destino non cambia, che dobbiamo accettare i cambiamenti della nostra vita, che non è altro che un piccolo frammento nel disegno cosmico del destino. La carta ti dice che questo è il tuo destino e ti invita ad accettarlo e a compierlo."
Chihaya sentiva da sempre la voce dell’universo e aveva accettato la sua sorte sin dalla prima volta che ne aveva avuta la possibilità, quando aveva aiutato una delle sue amiche a capire cosa desiderasse sua madre per il compleanno.
"Pensi di poter accettare un destino così bello e così difficile?"
"Sì."
"Sai che qualcuno potrebbe non capire e avere paura delle tue facoltà, anche la tua mamma forse. Quindi stai attenta. Se hai dubbi, chiedi aiuto alle carte, loro non ti mentiranno, se seguirai il tuo destino."
Chihaya l'aveva abbracciato, ma aveva ascoltato il consiglio della nonna e non aveva mai fatto previsioni apertamente, soprattutto non aveva mai usato le carte in pubblico.
Un giorno però tornando a casa aveva avuto una pessima sensazione: il suo sguardo continuava a essere catturato da un condominio che vedeva ogni giorno tornando da scuola e non l'aveva mai notato, non così. In particolare osservava una finestra e continuava a pensare alla distruzione.
Era corsa in camera sua a tirare fuori le carte, mentre l'inquietudine dentro di lei continuava a crescere, e aveva chiesto loro di aiutarla a capire. Aveva estratto la torre, la distruzione, e subito dopo la morte rovesciata: sciagura, morte, esplosione. Aveva visto tutto nella sua mente.
Aveva capito subito ed era corsa da sua madre con le lacrime agli occhi: "Mamma, il palazzo, quello laggiù, esploderà, dobbiamo fermarlo."
Sia madre la guardava come se si fosse appena svegliata da un incubo
"Cosa? Calmati, Aya, cosa stai dicendo?"
"L'ho visto."
Chihaya era corsa fuori e uscita sulla strada. Il condominio era uno dei più grandi nel loro paese e di certo se fosse successo qualcosa sarebbe stato un disastro, sia per la gente per le strade che per gli abitanti del condominio.
Era corsa a suonare a tutti i campanelli, chiedendo agli abitanti di uscire e di chiamare i pompieri.
C'era gente ovunque, qualcuno era preoccupato, altri erano semplicemente curiosi di capire cosa volesse quella bambina.
I pompieri avevano fatto un controllo e in effetti avevano riscontrato un'importante fuga di gas.
"Hai sentito l'odore?" Chihaya, che da ore urlava disperata finalmente si stava calmando, ora che le avevano detto che grazie a lei era andato tutto bene, ma si chiedeva se fosse davvero quello il suo destino: l'essere trattata da pazza dalla quasi totalità della gente.
Quando erano tornate a casa, sua madre le aveva chiesto come avesse fatto a sentire l'odore di gas da quella distanza e Aya aveva scosso la testa. "Non lo so, io... l'ho sentito."
Sua madre non aveva messo in dubbio quelle parole, anche se aveva capito che sua figlia molto probabilmente possedeva lo stesso dono di sua nonna, la maledizione che l'aveva costretta a cambiare casa da ragazza. Sperava che lei l'avrebbe superato, perché sua madre sapeva quanto la sua Aya fosse speciale e l'avrebbe protetta a ogni costo.




 
 
Sadayo aveva chiesto a Takase di presentarsi nel suo ufficio dopo la scuola. Si sentiva in colpa per ciò che avrebbe dovuto dirgli, sotto ordine del preside, e aveva pensato di tentare di conoscere le sue ragioni prima di chiedergli gentilmente di andarsene da quella scuola, cosa che avrebbe semplicemente fatto partire un circolo vizioso che avrebbe ridotto il povero ragazzo a cambiare parecchie scuole e a finire col perdere la possibilità di completare gli studi.
Takase era entrato nella sala professori con uno sguardo spaventato, sembrava avere capito ciò che lo aspettava ed era evidente che fosse rassegnato a eseguire gli ordini della sua professoressa.
"Buongiorno, Takase."
"Buongiorno professoressa Kawakami." Lei l'aveva invitato a sedersi.

"Parliamoci chiaro, Taiki, sei qui perché i tuoi voti sono i peggiori della scuola e tu sai benissimo che così non si può andare avanti."
Il ragazzo teneva gli occhi bassi, si osservava le mani rovinate dal contatto con l'acqua. "Lo so... Solo che io non riesco a fare meglio. Vorrei andare meglio, ma devo lavorare da quando i miei genitori sono morti, se non lo facessi non potrei venire a scuola."
Sadayo aveva sentito un groppo allo stomaco nel constatare quanto il ragazzo all'apparenza duro e svogliato sembrasse tenere alla propria istruzione. "Quante ore lavori a settimana?"
Lui aveva iniziato a contare sottovoce. "Di solito almeno trentacinque, a volte di più..."
"Cosa? Ma è un lavoro a tempo pieno!"
"Sono tre part time."
Sadayo aveva intenzione di parlare al preside della situazione difficile di Takase, ma aveva l'impressione che a lui non importasse conoscere le motivazioni dietro lo scarso rendimento del ragazzo, voleva soltanto liberarsi del problema per mantenere alte le medie della scuola.
"Ti posso aiutare io, dare qualche lezione privata. Gratuita, ovviamente. Perché il tuo impegno mostra dedizione e ti meriti un aiuto."
"Grazie, professoressa Kawakami." Taiki si era alzato e aveva fatto un inchino in segno di referenza.
"Di niente, fammi avere una lista dei tuoi orari liberi e faremo un piano per le lezioni private."
Il ragazzo sembrava sollevato, e Sadayo sentiva che era proprio con quel genere di studenti che aveva la possibilità di dimostrare la sua dedizione al lavoro di insegnante che aveva scelto anche per poter aiutare i ragazzi più bisognosi di attenzione e di tempo. Non avrebbe lasciato perdere, avrebbe combattuto con Taiki per la sua promozione.
"Ora devo andare al lavoro, grazie, davvero."
Il preside non aveva accolto con gioia l'iniziativa di Sadayo, ma le aveva detto di fare come credeva.
I due si incontravano tre volte a settimana. La professoressa si era impegnata a fargli recuperare alcune materie, partendo da quelle per le quali doveva recuperare di più e recuperando man mando e stava avendo dei risultati che qualcuno avrebbe potuto definire mediocri, ma che vista la situazione di Takase erano in realtà ottimi.
Il ragazzo era sempre più stanco, ma si impegnava più che poteva per far sì che l'impegno di entrambi non fosse vanificato dal suo fallimento, che quasi tutti si aspettavano.
Le aveva raccontato dei suoi tutori, che non si prendevano cura di lui dal punto di vista economico e l'avevano praticamente lasciato a se stesso, consci del fatto che in quel modo non sarebbe stato in grado di diplomarsi. Lui però si era rimboccato le maniche e aveva iniziato a lavorare per mantenersi. Sadayo lo considerava uno dei ragazzi più forti che conosceva.
Purtroppo in quel periodo le voci sul conto di Takase avevano iniziato a moltiplicarsi e qualcuno aveva iniziato a insinuare che il ragazzo fosse coinvolto in affari loschi non ben definiti. Le chiacchiere erano arrivate anche al preside che l'aveva convocata.
"Può scegliere: o lascia perdere il ragazzo o io mi vedrò costretto a perdere un'insegnante che rispetto a causa di un piccolo delinquente che non merita il nostro tempo."
Sadayo si era trovata con le spalle al muro. Non voleva lasciare Takase a se stesso, ma non poteva perdere il suo lavoro, non riusciva a immaginare di dover rinunciare a tutta la sua classe, ai ragazzi che aveva portato a crescere fino a quel momento, per lui.
Avrebbe trovato un modo per aiutarlo.
"Se vuole restare, glielo deve dire adesso." Il preside le aveva indicato il telefono del suo ufficio. "Lo chiami e gli dica che non potete continuare con le lezioni private."
Sadayo aveva avuto l'impulso di andare via sbattendo la porta. Per lei era impensabile che un preside decidesse in modo volontario di lasciare che uno studente, forse non troppo promettente, ma comunque proveniente da una situazione difficile, venisse abbandonato dal sistema scolastico che avrebbe dovuto invece tutelarlo.
Era combattuta, ma sapeva che avrebbe sistemato le cose, avrebbero fatto di nascosto, bastava solo che lei lo chiamasse e poi avrebbero parlato di persona, le cose potevano ancora risolversi.
"Pronto, Takase. Sono Kawakami. Mi dispiace, ma non posso più darti le mie lezioni private..."
Il ragazzo aveva salutato con entusiasmo quando aveva sentito la voce della professoressa, per poi attaccare immediatamente appena aveva compreso il motivo di quella chiamata.
Avrebbero trovato una soluzione. Lei nel peggiore dei casi avrebbe pagato un tutor al ragazzo e le cose sarebbero andate bene. Ci voleva solo un po' di tempo.
Il giorno dopo Sadayo leggendo il giornale aveva appreso la terribile verità. Non avrebbe avuto altro tempo per risolvere le cose con Taiki, perché quel ragazzo problematico non c'era più. Complici la forte pioggia e la stanchezza accumulata lavorando era andato a sbattere contro un mezzo pesante e aveva perso la vita.
Sentiva che la colpa era sua.
 
 
 


 

Di nuovo il tonfo.
Quel rumore terribile e cupo che l'aveva accompagnato per anni nelle sue notti piene di incubi era tornato a tormentarlo.
Da un paio di notti, Akechi si svegliava di soprassalto, spaventato da quel rumore.
Poteva ricordare quel giorno come se fosse appena successo: era solo un bambino, ancora quasi innocente ed era appena tornato da scuola. La mamma non era andato a prenderlo e lui ci era rimasto male, ma era ormai abituato alla sua assenza costante. Da quando il padre se n'era andato lei non era più stata la stessa persona.
Era sempre stanca, nell'ultimo periodo aveva anche smesso di cucinare e Goro si trovava a mangiare soltanto del riso bollito a cui lui cercava di aggiungere qualcosa per dare un po' di sapore. Doveva chiederle di lavare i suoi vestiti, perché lui non era capace di farlo e spesso si ritrovava con la divisa della scuola sporca la mattina ed era costretto a mettersela comunque.
Quando era entrato in casa aveva visto la mamma in cucina, stava piangendo distesa sul pavimento. "Goro, vieni qui, vieni dalla mamma." Lui le era andato incontro, preoccupato.
"Stai male, mamma?" Le aveva domandato, sempre più terrorizzato nel constatare che non rispondeva e continuava singhiozzare.
"Goro, amore, non preoccuparti per me. Non è colpa tua."
Il bambino si era messo a piangere. Per quanto provasse a capire cosa avesse sua madre, non riusciva a fare nulla per farla stare meglio. L'assenza del padre l'aveva buttata completamente a terra e lei aveva anche smesso di andare a lavorare.
"Vado a fare i compiti." Goro se n'era andato lasciandola distesa sul pavimento della cucina. In quel momento non stava piangendo.
Poi aveva sentito la porta del terrazzo che si apriva e aveva guardato fuori dalla finestra della sua camera, che dava sul terrazzo. Aveva visto sua madre in terrazzo, si stava sporgendo per guardare giù e lui non ne comprendeva il motivo.
Aveva pensato di andare a farle compagnia, anche perché sentiva addosso un brivido di inquietudine che non riusciva a scacciare. Quando era arrivato di fronte alla porta del terrazzo, aveva fatto giusto in tempo a incrociare con lei lo sguardo per un unico, eterno, istante, prima che lei si lasciasse andare e volasse come un angelo fino a colpire l'asfalto. Quel suono cupo che lui avrebbe ricordato per sempre.
Crescendo aveva capito che sua madre era depressa, ma ovviamente da bambino non avrebbe potuto immaginarlo e per un lungo periodo aveva incolpato se stesso della sua morte.
Goro era corso fuori dall'appartamento e aveva preso l'ascensore per scendere i cinque piani che lo separavano da lei. Era lì per terra, in una strana posizione innaturale, contornata da un'aura di sangue.
Subito una signora l'aveva preso per portarlo via di lì. L'aveva preso in braccio e tenuto con sé per un tempo che a lui era sembrato indefinibile. Era eterno e breve allo stesso tempo, perché Goro non riusciva a pensare e aveva passato quel tempo a farsi sempre la stessa domanda: Perché? Perché?
Non era giusto, Non meritava il destino che si era ritrovato a dovere sopportare.
Anche anni dopo, quando il suo piano per vendicarsi finalmente si era delineato e lui iniziava a pensare che avrebbe potuto portarlo a compimento, si domandava se il suo nuovo potere non fosse un modo della giustizia di ripagarlo della sua pessima infanzia, di tutte le famiglie affidatarie che aveva dovuto sopportare, di sua madre, troppo debole per la vita, e di suo padre, un uomo che presto sarebbe stato costretto a riconoscere la sua esistenza.
Tutto sommato forse era vero che c'era una giustizia che comandava le vite degli esseri umani e dopo tutta la sua sofferenza, dopo tutti i suoi sforzi per prendere ciò che gli spettava, finalmente qualcosa di inaspettato in senso positivo era successo: Goro Akechi era diventato un Dio.
 
 
 
 



 
 
 

 
 
 
La prima volta che Sojiro aveva incontrato Ren, aveva notato il suo sguardo era profondo e sincero e si era convinto di aver fatto la scelta giusta, perché forse aveva ragione, forse le cose non erano andate come dicevano.
Sojiro aveva letto della faccenda ed era andato subito a informarsi dai suoi vecchi colleghi. Quando Wakaba era stata uccisa, lui era certo che non si fosse suicidata, si era ripromesso di fare tutto ciò che era in suo potere per farla pagare al mandante ed era convinto di avere bene in mente chi fosse. Aveva seguito le mosse di quell'uomo e per questo alla fine si era ritrovato a osservare il processo al ragazzo, che era stato praticamente una farsa.
Non poteva essere un caso che improvvisamente la testimone avesse cambiato completamente idea e che questo avesse messo il ragazzo in una pessima posizione, confermando le dichiarazioni di quel vile che non aveva neanche messo il suo nome o la sua faccia nel rovinare il futuro a un ragazzo che, ormai ne era quasi convinto del tutto, era innocente.
Quando aveva accettato di prendersi cura di lui, Sojiro non sapeva con chi avrebbe avuto a che fare: poteva essere davvero un delinquente, una testa calda che non vedeva l'ora di attaccare briga con chiunque gli si presentasse di fronte, ma solo il pensiero che il ragazzo fosse stato incastrato l'aveva spinto ad agire.

 
La sua famiglia sarà ben lieta di liberarsi di lui, non hanno opposto resistenza quando è stato condannato. Sicuro di volerti tenere sulle spalle un fardello simile, Sakura?
 
E Sojiro aveva confermato di volere avere in affido il ragazzo. Lo doveva a Wakaba, era come se prendere lui con sé avrebbe potuto in parte cancellare le colpe che sentiva di avere con lei, per non averla salvata. Poteva aiutare qualcuno a ripararsi dall'oscurità di cui quel tale Shido si circondava. Non poteva neanche immaginare che la gente intorno a lui riuscisse a credere alle sue fandonie, invece sembravano tutti incantati da quel suo modo di fare da politico nuovo, da uomo onesto trascinato in un mondo corrotto che non accettava, quando in realtà si era macchiato di crimini terribili, perché aveva ucciso lui Wakaba, ne era sicuro.
 
 
Quel ragazzo sembrava arrabbiato, era vero, ma chiunque al suo posto lo sarebbe stato. Non gli avrebbe neanche domandato se avesse davvero assalito quel tipo, non gli interessava. Se davvero l'avesse fatto probabilmente gli avrebbe raccontato una bugia e a Sojiro non serviva una rassicurazione, era capacissimo di rendersi conto da solo del valore del ragazzo e in tutta sincerità anche lui avrebbe assalito quell'uomo se ne avesse avuta la possibilità. Gli aveva riferito la sua unica richiesta: "Non creare problemi."
 
Col tempo forse gli avrebbe fatto le dovute domande, nel frattempo si sarebbe limitato a osservarlo, senza interferire, dandogli la possibilità di esprimersi e aiutandolo quando glielo avesse chiesto. Era giusto dargli questa opportunità di dimostrarsi per ciò che era dandogli la libertà di farlo secondo i suoi termini e i suoi tempi. Solo così l'esperienza avrebbe potuto essere positiva per lui.
Sojiro sentiva che se avesse scommesso di credere in lui, il ragazzo non l'avrebbe deluso.
 




 
 
Tae non era il tipo di persona che si arrende di fronte ai problemi, ma quella volta sentiva di non avere voce per decidere.
"Io sono contraria, vorrei che la mia posizione fosse chiara a tutti. È troppo presto per la sperimentazione di quel farmaco. Va perfezionato, ci sono ancora dei test da fare e io non credo sia il caso."
"Non è il tuo progetto, dottoressa Takemi, è di tutto il gruppo di ricerca, io ho deciso che si può fare e si farà, soprattutto se l'unica a opporsi sei tu. Preoccupati di annotare i dati in questa fase e non lamentarti mai più."
Il dottor Shoichi Oyamada sembrava voler sfruttare la sua posizione per decidere da solo come agire. Forte della presenza del padre e dello zio nell'ospedale, era diventato direttore prima di raggiungere una sufficiente maturità e questo rischiava di ricadere sui pazienti.
Aveva dei meriti, certo, ma il suo comportamento quando qualcuno gli andava contro ricordava quello di un bambino viziato che si vede negata una caramella.
Tae era giovane ed era entrata in quel progetto per le sue doti nella chimica farmaceutica, superiori a quelle di tutti i medici che avevano partecipato alle prime fasi dell'esperimento.
Quel pomeriggio era andata a pregare al tempio Meiji perché i test continuassero in modo positivo.
La paura più grande di Tae era che i fisici debilitati dei malati non avrebbero retto il principio attivo del farmaco e la cosa avrebbe potuto debilitarli ulteriormente, rendendo quindi la guarigione impossibile. Andava fatto prima un esperimento su soggetti sani, o almeno un po' meno gravi di quella ragazza, la piccola guerriera che Tae andava spesso a trovare in camera, tra una somministrazione e l'altra.
Dopo soli due giorni, Tae aveva cercato di convincere il dottor Oyamada a fermare il progetto, spiegando che lo stato dei pazienti era peggiorato, e gli esami ne confermavano la debilitazione. La ricercatrice era stata messa a tacere con la minaccia di essere cacciata e lei aveva accettato di non opporsi, continuando lei stessa a somministrare il farmaco.
Il quinto giorno, la domenica, aveva ricevuto una chiamata nella quale veniva informata che il test era concluso e che lei non si sarebbe più dovuta preoccupare di presentarsi al laboratorio. L'avevano licenziata.
L'unica contraria, a ragione viste le prove, era stata scelta per pagare al posto dei veri responsabili. Si aspettava che sarebbe potuto succedere, ma la cosa non la rendeva certo meno furibonda.
Il giorno seguente, Tae aveva cercato di entrare nel laboratorio a prendere le sue cose, ma era stata fermata all'ingresso dell'area privata: "Gliele manderemo a casa il prima possibile. Non si preoccupi."
"Sta dicendo che non posso recuperare le mie cose? Almeno me le faccia avere adesso. E mi faccia parlare con Oyamada.
Alla fine, dopo qualche telefonata, la receptionist l'aveva invitata a recarsi all'ufficio del supervisore, che aveva trovato seduto, solo e rosso in volto. Lo sguardo di chi prova vergogna, ma ha perso ogni dignità.
"Avete avuto un bel coraggio a scacciarmi. Ero l'unica contraria alla vostra idea."
 
"Ma c'era la tua firma, Takemi, sui fogli del test." Il vile uomo sorrideva, a metà tra l'imbarazzato di chi sa di mentire e il soddisfatto di chi ha portato a termine un piano ben definito. Ne era uscito vincitore e lei aveva solo le sue parole contro quell'uomo e tutti gli altri, che di sicuro si sarebbero lasciati convincere piuttosto in fretta a usare lei come capro espiatorio e poi a dimenticarla. A fare finta che non fosse mai esistita.
A pensare che fino a qualche giorno prima Tae rideva con loro, passava il suo tempo con loro, raccontava loro le sue giornate e i suoi desideri. Ed ecco come era stata ripagata: con bugie e occhiate sfuggevoli.
"Il nome sul medicinale è comunque tuo. Sai perché il test è stato interrotto?"
"No, ma presumo per ciò che avevo detto e dimostrato?"
"Sarebbe stato bello, per te. Invece no: Miwa è morta. Ecco perché abbiamo smesso."
Tae era distrutta, non riusciva a capire come superare quel momento. Avrebbe dovuto combattere con le unghie e con i denti per farsi valere, doveva andarsene lei per impedire questo terribile epilogo che le aveva fatto perdere tutto: il lavoro, la passione, la fiducia nelle sue possibilità e, soprattutto, la sua dolce, piccola guerriera, la sua Miwa-chan.
 
 
 
 



Yaldabaoth
Yaldabaoth
La memoria di Igor era ancora molto confusa: si era risvegliato in quella prigione buia, senza finestre, la cui porta sembrava essere sbarrata da incanti e da lucchetti di ogni genere. Si sentiva molto stanco, come se avesse compiuto un grande sforzo prima di essere imprigionato. Qualcosa di importante.
Dopo aver atteso per giorni, i ricordi avevano iniziato a ritornare.
Quando l'essere si era presentato nella Velvet room, Igor l'aveva accolto come sempre aveva fatto con tutti: con educazione e curiosità. Lavenza si era innervosita, invece, era evidente che la sua creatura fosse stata più attenta di lui in quel caso.
"E così tu saresti il proprietario di questo posto?" Yaldabaoth lo osservava con supponenza. "Direi che mi piace qui, anche se ci sarebbe bisogno di una piccola aggiustatina all'arredamento."
"Posso sapere il motivo della sua visita, esimio Yaldabaoth?"
"Ma certo," il divino essere si era seduto di fronte a Igor. "Sono qui perché abbiamo un interesse in comune: l'umanità. Ho sempre avuto il desiderio di metterli alla prova per capire se davvero meritino il libero arbitrio o se invece farebbero bene a non avere la possibilità di scegliere. Mi piacerebbe governarli come un giusto Dio."
Igor cominciava a capire, sapeva di avere poche possibilità di fare qualcosa contro un essere come Yaldabaoth e temeva che per quanto si fosse impegnato avrebbe comunque perso. Quindi aveva radunato le sue forze mentre il Dio, il Sacro Graal raccontava il suo piano studiato nei dettagli, stava impiegando quel tempo prezioso a raccogliere la speranza dell'umanità e a darle forma. Come in passato era riuscito a dare vita a Margaret, a Elizabeth, a Theodore e infine a Lavenza, stava formando Morgana: la speranza, l'unica che restava all'umanità.
Nel frattempo il Dio raccontava di come avesse individuato un Trickster: un ragazzo guidato dall'Arcano del Matto, che l'avrebbe aiutato a testare l'umanità, iniziando il suo percorso verso lo scontro con la sua nemesi che sarebbe stato inevitabile, grazie a lui.
Non c'era molto tempo prima che Yaldabaoth si stancasse di parlare, il processo di creazione forse non sarebbe giunto al termine in tempo. Lavenza, che aveva capito che cosa stava succedendo, aveva allora attirato l'attenzione del Dio.
"Non cederemo tanto facilmente, non hai in diritto di giocare con il destino dell'umanità nonostante la tua natura divina.” Lavenza aveva lanciato un incantesimo contro il Dio, certa che non avrebbe funzionato.
Yaldabaoth aveva parato il colpo senza sforzo e aveva risposto con un unico incanto che l’aveva messa fuorigioco. Rideva, conscio che contro il suo potere non avevano speranza di vincere.
"Veniamo a lei, signor proprietario: non si deve preoccupare, quando avrò completato il mio piano le restituirò questo luogo al quale pare essere così affezionato."
Igor aveva fatto in tempo a sentire la nascita della creatura nel suo cuore prima di cedere all'incanto di Yaldabaoth.
 
Non c'erano vie d'uscita da quella prigione, per quanto ne cercasse.
Si chiedeva cosa fosse successo a Lavenza e purtroppo la risposta più plausibile a quella domanda non gli piaceva per niente: Yaldabaoth poteva benissimo averla uccisa, perché se così non fosse stato di certo lei sarebbe andata a liberarlo.
Era anche possibile che l'avesse imprigionata da qualche parte, ma dove. Concentrandosi Igor avrebbe forse potuto sentire la sua presenza, ma era ancora troppo provato dalla creazione per riuscirci.
Tutto ciò che poteva fare era aspettare e affidarsi alla speranza. E con lui tutto il resto dell'umanità.
 
quistisf: (Default)
2019-04-03 09:57 pm

Drabble Persona 5

Unite nello spirito
Memory loss
L'isola felice
La beffa
Istinto felino
Battle Royale
You in the dark




Fandom: Persona5
Personaggi: Twin Warden, Morgana, Ann, Ryuji, Kawakami
 
Justine e Caroline erano una cosa sola, entrambe lo sapevano, perché pensavano all’unisono e ciascuna sapeva sempre cosa l'altra avrebbe detto.
Erano gemelle, entrambe pensavano fosse per questo che non avevano mai bisogno di esprimere le loro idee e i loro sentimenti con la voce, perché loro comunicavano attraverso lo spirito.
Anche i dubbi dell'ultimo periodo sembravano averle assalite nello stesso momento.
A entrambe il comportamento di Igor pareva strano e, anche se sapevano che non avrebbero dovuto mettere in dubbio il loro maestro, non avevano potuto evitare di guardarsi a lungo negli occhi, ponendo quella domanda: è sempre stato così?

 
 
Quando avevano aperto gli occhi, era bastato un istante a entrambe per sentire la presenza dell’altra.
La ragazza si era rivolta verso la gemella conscia che l’unica cosa che sapeva era che loro dovevano stare insieme, qualunque cosa fosse successa.
“Tu ti ricordi qualcosa?”
“No, neppure il mio nome. So solo che siamo sorelle.”
Si erano fatte forza e si erano alzate in piedi, avevano notato i loro abiti: erano divise da guardie e intorno a loro c’erano delle celle. Che quella fosse una prigione? C’era qualcosa che non quadrava in quel loro risveglio, prima o poi insieme avrebbero capito cosa fosse.


 
 
 
 
Sadayo andava spesso a pescare, la rilassava.
Ne approfittava quasi sempre per leggere un libro tra quelli che aveva da parte, visto che la sua biblioteca personale continuava ad arricchirsi e lei tra la scuola, il secondo lavoro, gli impegni extra e i lavori di casa che si accavallavano sempre, non sarebbe mai riuscita a occuparsi della lettura nel suo appartamento, perché c’era sempre qualcosa di più importante da fare. Lì invece aveva iniziato a farsi una certa reputazione e in molti andavano a chiederle consigli. A lei piaceva restare in quel luogo e spesso non usava neanche l’esca, prendeva solo il pesce che poi avrebbe consumato e per il resto si rilassava e si lasciava andare alla lettura. Era la sua isola felice.


Gli avevano detto che gli avrebbero portato del sushi e Morgana non riusciva a evitare di sbavare al solo pensiero. Il suo tonno, poteva immaginarne il profumo e la fragranza. Poteva sentirlo sciogliersi sulla sua ruvida lingua felina.
Quando Ren, Futaba e il Boss erano entrati dalla porta, Morgana li stava aspettando seduto sullo sgabello, la coda vorticante di desiderio come un serpente. Ma l'espressione del Joker non gli diceva niente di buono.
"Mi dispiace, non avevamo più soldi... si è mangiata tutto lei."
Il gatto era deluso e furibondo. Era la seconda volta che capitava, la prima le cose erano andate in modo imprevedibile e lui aveva perdonato, ma questa volta non avevano scuse.
Futaba si era avvicinata a Morgana e gli aveva fatto qualche carezza, per poi dargli qualche pizzicata sul muso. "Mona, mi farò perdonare, te lo prometto!"
"E va bene, cos'altro posso fare?" Da gatto non poteva certo andare al ristorante a comprarsi del sushi, in fin dei conti.
Sconsolato, era sceso dalla sedia e si era accontentato di un vecchio pacco di crocchette al tonno.
 
 
A Morgana non era piaciuta per niente la gita sulla spiaggia. Forse era la sua parte felina a fargli odiare l’acqua e la sabbia che scottava bollente sotto le sue zampe, era però vero che la sua parte umana invece aveva apprezzato la rilassatezza del luogo e le ragazze in costume.
Morgana si stava annoiando così tanto che aveva deciso di fare un giro sul bagnasciuga, dove l’aria era meno asfissiante. I suoi occhi di felino erano stupido stati attirati da un granchio che stava imprudentemente muovendosi verso di lui.
Quando aveva avvicinato il muso per annusarlo, col solo intento di conoscerne l’odore, il granchietto gli aveva pizzicato il naso con decisione. Morgana aveva miagolato, infastidito. Chiunque avesse capito davvero le sue parole, avrebbe sentito i suoi variopinti insulti alla bestiolina.
Era in momenti come quello che Morgana si convinceva di essere un umano, un vero gatto si sarebbe mangiato quel piccolo tesserino fastidioso. Lui, invece, l’aveva lasciato andare via.




Battle Royale!AU
 
Ann si era nascosta in cima a un albero, non riusciva a pensare a cosa le sarebbe potuto succedere se lui l’avesse vista. Ormai erano rimasti solo in due: lei e Ryuji, il suo amico d’infanzia che probabilmente l’avrebbe uccisa appena l’avesse individuata.
Lei non avrebbe mai potuto, lei sarebbe morta pur di non spezzare la sua vita. A volte si era chiesta cosa sarebbe successo se fossero stati solo loro due a sopravvivere, ma non era stata in grado di rispondere.
Sperava che lui ricordasse che loro erano anime gemelle, fatte per stare insieme, per non farsi mai del male.
In quel momento Ann aveva incrociato il suo sguardo. Lui aveva alzato le mani, abbandonando le armi ed era corso verso di lei.
Forse sarebbero morti insieme, ma nessuno dei due avrebbe mai potuto interrompere volontariamente la vita dell’altro.
 




Midnight Channel!AU
Gli sembrava che fosse davvero una sciocchezza, ma Ryuji si era sempre chiesto se lui, che non era mai neanche riuscito a provare a invitare fuori una ragazza, avesse un'anima gemella. Quella notte pioveva e lui non riusciva a dormire.
Tanto valeva che ci provasse.
Si era messo a fissare la televisione spenta, fino a quando d'un tratto non vi aveva visto una figura lontana, con dei lunghi capelli biondi. Aveva capito subito chi fosse: Ann era sempre più vicina, al punto che temeva potesse uscire dallo schermo. E invece era svanita così com’era arrivata.
Ryuji era rimasto a fissare il nero della televisione con la bocca aperta. Non poteva crederci, ma a pensarci bene era felice che fosse lei.
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2019-03-31 10:54 pm

First Sight

Fandom: Persona 5
Personaggi: Ann Takamaki, Ryuji Sakamoto, Ren Amamiya 
Parole: 621
Partecipa al COWT9
Prompt: gli amanti
Note: in Persona 5 a ogni personaggio è associato un arcano maggiore, che ne determina le caratteristiche

First Sight

La prima volta che si erano visti, Ann aveva pensato che prima di allora non aveva mai visto degli occhi profondi come quelli di Ren Amamiya. Era rimasta sconvolta da quello sguardo e si era chiesta se qualcuno avrebbe mai detto o pensato di lei qualcosa di simile.

Tutti sembravano restare colpiti dal suo aspetto nordico, dai capelli biondi, dagli occhi azzurri e da quel fisico da modella che le era stato donato dai suoi genitori, ma si fermavano a quello.

Ann sentiva che dentro di lei c'era molto di più e avrebbe tanto desiderato che anche chi le stava attorno se ne accorgesse, ma pareva quasi che la maggior parte dei suoi compagni a scuola fossero intimiditi da lei, tutti tranne Shiho, la sua amica, l’unica a cui raccontava ogni cosa, per lei Ann avrebbe scalato montagne e corso maratone.

 

Nella vita Ann aveva sempre seguito il suo cuore e poteva dire di non essersene mai pentita. In classe, continuava a osservare quel tipo, Amamiya, e si chiedeva se davvero fosse un violento come tutti dicevano, se davvero fosse stato processato per un assalto a un innocente, perché in lui non vedeva aggressività, quanto determinazione e non si era mai sbagliata nel valutare le persone, quindi si fidava di lui.

Era rimasta un po' stupita nel constatare che avesse fatto amicizia proprio con Sakamoto, un altro ragazzo che lei considerava un incompreso. Era immaturo e parlava senza pensare alle conseguenze, in più agiva di impulso, spesso esagerando con le sue reazioni, ma era sempre stato onesto e lei tutto sommato pensava che ci fossero elementi ben peggiori coi quali stringere rapporti in quella scuola. Ann non poteva dimenticare come Ryuji si fosse guadagnato una cattiva nomea facendo quello che anche lei avrebbe desiderato: mettendo Kamoshida con le spalle al muro, ponendolo di fronte alla verità che lui aveva a quel punto negato con tutte le sue forze, e soprattutto usando il suo potere e facendo in quel modo ricadere la colpa sul suo vecchio amico, che era diventato il capro espiatorio per lo scioglimento della squadra di corsa. 

Kamoshida non era il tipo di persona in grado di accettare una sconfitta, avrebbe mentito e affondato quante più persone fosse stato possibile pur di stare a galla, pur di mantenere quella sua reputazione di grande sportivo e di bravo insegnante. 

Era chiaro ad Ann che non lo fosse mai stato, la ragazza si chiedeva cosa sarebbe successo se anche lei avesse provato a reagire: Avrebbe iniziato a diffondere maldicenze sul suo conto? L'avrebbe resa come Ryuji? Una persona da evitare. Forse però era più probabile che si vendicasse su Shiho, e lei non avrebbe mai potuto sopportarlo.

Guardandosi intorno, Ann aveva capito che probabilmente già spettegolavano su di lei, perché in molti, soprattutto tra le ragazze, avevano smesso di parlarle quando Kamoshida aveva iniziato a spargere voci sulla loro frequentazione. Non poteva essere certa che fosse stato proprio il professore a farlo, ma era un dato di fatto che lui avesse più volte usato quelle dicerie per avvicinarla a lui, convincendola che in realtà non ci fosse niente di male e che le altre ragazze erano solo invidiose della sua fortuna.

 

Ann aveva origliato il discorso di Amamiya e di Sakamoto: li aveva sentiti parlare di Kamoshida, avevano detto di volerlo fermare e lei desiderava aiutarli, per Shiho, per se stessa e per tutte le persone che quel maiale aveva fatto soffrire.

Quei due erano come lei: due persone incomprese e sole che cercavano di combattere le ingiustizie e che per questo venivano ripagati nel migliore dei casi con l'indifferenza. Loro avrebbero fatto il possibile per cambiare quella situazione insopportabile, nel suo cuore, Ann era convinta che insieme ce l'avrebbero fatta.

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2019-03-31 10:28 pm

Dream Catcher

Fandom: Persona 5
Personaggi: Futaba Sakura, Wakaba
Parole: 801
Partecipa al COWT9
Prompt: L'eremita

Dream Catcher


Nell'ultimo periodo, Futaba aveva iniziato ripetere continuamente lo stesso sogno: attraversava la strada a Shibuya, persa in mezzo a centinaia di persone. A nessuno nel sogno importava di lei, di come fosse vestita o di dove stesse andando.

Nel sogno lei non si sentiva oppressa da tutte quelle persone, perché era come se fosse trasparente lì in mezzo, come un fantasma che avrebbe potuto osservare tutti senza essere visto. Come se avesse avuto addosso un filtro, pensava da sveglia.

Eppure durante il giorno le cose cambiavano e lei non riusciva più neanche a pensare di uscire dalla sua stanza. Guardava la maniglia e pensava a quanto fosse pericolosa e difficile  anche solo da toccare. Se la immaginava rovente e si chiedeva come avrebbe trovato la forza di uscire da lì, se mai ce l'avesse fatta. Ma se la porta della camera era un ostacolo che riusciva ad affrontare, anche più volte al giorno per andare in bagno o per recuperare qualche provvista, quella d'ingresso era invece invalicabile: una montagna, un deserto senza oasi dal quale lei non sarebbe mai riuscita a uscire viva. 

Ricordava come una volta fosse rimasta ferma immobile a osservarla per almeno un'ora. Aveva bisogno di contattare Sojiro, perché gli aveva promesso di nuovo che l'avrebbe raggiunto al Le Blanc. "Tranquilla, non ci sono mai clienti e oggi piove, quindi non devi preoccuparti: saremo solo io e te e ti preparerò del Curry. Il tuo preferito…”

 

Futaba continuava a pensare al suo curry, alla ricetta di sua madre che lei aveva tanto amato, che continuava a essere il suo cibo preferito, ma non era riuscita comunque a uscire da lì. Nonostante la pioggia, nonostante fuori non ci fosse nessuno visto il tempaccio e il freddo, era rimasta di fronte alla porta per un tempo che le era sembrato eterno senza riuscire neppure a toccare quella maniglia.

Sentiva di non avere più speranza, sapeva che era tutto nelle sue mani, ma lei non aveva modo di muoversi, non avrebbe superato quella terribile situazione di prigionia autoimposta. "Vuoi che venga a prenderti?" Le aveva chiesto.

 

"Se vuoi arrivare qui, puoi portarmi tu il curry, io vengo la prossima volta."

 

Ma sapevano entrambi che non sarebbe mai successo.

Se c'era una cosa che continuava a rendere Futaba sempre più triste, era il senso di colpa che leggeva negli occhi di Sojiro. Lui ce la metteva tutta a darle gli stimoli e gli spunti per muoversi, per uscire di lì, per tornare a vivere. Ma lei non era in grado di coglierli, sarebbe morta in quella casa. Sarebbe stata la sua tomba.

Nell'ultimo periodo anche vedere Sojiro, l'unica persona di cui ancora si fidava, le costava sempre più fatica. Lui aveva chiamato un dottore per cercare una soluzione, ma Futaba si era chiusa in camera, rifiutandosi di aprire. Aveva bloccato la porta e si era nascosta nell'armadio per tentare di impedire al dottore e a Sojiro di sentire il suo pianto. Perché non era felice di quella situazione, solo che non era in grado di capire come avrebbe potuto superarla. 

Se nella mente continuava a ripetersi che aprire quella porta non le avrebbe causato dolore, il suo corpo reagiva in un modo difficile da capire, per lei: la bloccava, i muscoli si paralizzavano, le mani tremavano e poi d'un tratto si muoveva senza decidere lei ciò che stava succedendo.

Era sempre stata molto strana, glielo dicevano tutti. Sua madre le ripeteva che era la sua intelligenza fuori dal comune che l'aveva resa un po' diversa dai suoi coetanei e che per questo non aveva molti amici. La realtà era che Futaba già all'epoca mentiva a sua madre, sin da piccola era sola e andava avanti con la sua vita solo per inerzia.

La scuola la annoiava e stava perdendo interesse anche nelle materie di studio, cosa che non era passata inosservata agli occhi di Wakaba, che però era presissima dal suo lavoro e che quindi stava dando la priorità a quello, pensando che la figlia ce l'avrebbe fatta. "Tu sei speciale.” Le ripeteva di continuo, accarezzandole la fronte.

E poi l'aveva abbandonata. Sua madre, Wakaba, si era suicidata per colpa di Futaba. Così le avevano detto quegli uomini. Erano passati anni e lei non era più riuscita a uscire di casa, poco importava dove fosse, non voleva più avere a che fare con quel mondo che non era mai stato suo amico, non voleva più causare dolore in chi amava, compreso Sojiro, il quale non aveva modo di aiutarla. 


La vera vita di Futaba era al computer, ma nell'ultimo periodo c'era poco che lei non fosse in grado di fare. Era diventata una hacker famosa, ma non avrebbe mai rivelato la sua identità segreta ad anima viva, perché il suo obiettivo era soltanto passare più inosservata che poteva, come in quel sogno.


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2019-03-31 07:36 pm

Vivere o morire

 
Fandom: Persona 5
Parole: 866
Partecipa al COWT9
Prompt: La Papessa

Note: In Persona 5 ogni personaggio è associato a uno degli arcani maggiori, che ne determina le caratteristiche.
 

 Vivere o morire

Stai tranquilla: funzionerà. 

la voce di Ren continuava a rimbombarle nella testa. Doveva fidarsi, doveva credere che il piano sarebbe andato bene e smetterla di avere tutti quei dubbi, ma Makoto non riusciva a togliersi di dosso il brivido freddo dato dal lento scivolare alle sue spalle della parola morte. 

Makoto continuava a pensare a un piano b, a qualcosa che l’avrebbe salvato di sicuro, ma non riusciva a trovare una soluzione. Vivere o morire, è l’unico modo.

Mancavano solo due giorni. In due giorni avrebbe dovuto guardarlo negli occhi e lasciarlo al suo destino, sperando che lui fosse abbastanza forte, abbastanza in sé da convincere Sae.

Sae, sua sorella. Avrebbe potuto provare lei a convincerla, lasciarle qualche indizio in giro per casa. E se invece avesse peggiorato la situazione? Makoto sapeva bene che non avrebbe dovuto parlare troppo, perché un suo errore sarebbe stato fatale alla missione. Sua sorella era stata accecata dal desiderio di dimostrare il suo valore, aspirava a essere perfetta e questo senza che lei se ne fosse resa conto l’aveva messa fuori strada, rendendola una specie di burattino nelle mani dei suoi superiori che oltre ad averla usata per darla in pasto ai fan dei Phantom Thieves, ora stavano usando persino il suo palazzo, il suo cuore, e come fine ultimo avevano l’uccisione di un gruppo di ragazzi, tra i quali forse presto avrebbe scoperto esserci anche sua sorella.

 

Makoto era sempre stata una persona razionale, ma nell’ultimo periodo aveva capito che molto spesso le scelte razionali sono dipendenti da quella parte nascosta di noi che crea il mondo cognitivo. Cambiare la sua percezione di se stessa, mettere Sae nella condizione di capire che stava sbagliando avrebbe potuto far crollare il palazzo e rendere il loro articolato piano un fallimento completo. In quel caso cosa avrebbero fatto? 

 

La sua visione del mondo era cambiata in modo più che drastico da quando era diventata una dei Phantom Thieves. L’esistenza del mondo cognitivo dava una profondità alla forza della mente umana che lei aveva immaginato, ma della quale non avrebbe mai pensato di poter avere le prove.

 

Era certa di una cosa, però: comunque fosse andata, Akechi avrebbe pagato. Un brivido le passò lungo la schiena nel momento in cui si immaginò a ucciderlo, perché l’avrebbe fatto, senza alcun dubbio, se lui avesse davvero ucciso Ren.

 

Non era mai stata favorevole alla pena di morte, ma il pensiero si era insinuato nella sua mente nel dormiveglia, quando il suo cuore era più debole. Nell’ultimo periodo, da quando avevano avuto la certezza del tradimento di Akechi, Makoto aveva pianto ogni giorno anche se non si era mai fatta vedere. Succedeva sotto la doccia quando la carezza tiepida delle gocce d’acqua le toglieva di dosso la tensione che la faceva andare avanti in quel periodo e in questo modo la privava della sua maschera, della sua sicurezza e della sua razionalità.

 

È così che i desideri si distorcono? Pensava.

Era probabile che questo suo desiderio di vendetta avrebbe cambiato anche il suo cuore se lei non avesse trovato un modo per fermarlo. Se avesse davvero ucciso Akechi non avrebbe mai potuto perdonarsi, questa era la verità, ma c’era quella parte di lei, quella che si risvegliava quando il cervello di Makoto abbassava la guardia, che appariva sempre più spesso e che lei razionalmente non riusciva a scacciare.

 

La giustizia non l’avrebbe mai punito, questa era una certezza. Akechi sarebbe stato un eroe per il resto della sua miserabile esistenza e lei non avrebbe potuto fare niente per impedirlo. Sarebbe stata una pazza ad andare a spiegare che le cose erano diverse da come erano state mostrate a tutti.

 

Aveva parlato agli altri del suo proposito, sempre come se fosse stata un’idea da delineare, quasi uno scherzo o un’eventualità vicina all’impossibile, ma dentro di sé Makoto cercava conferme. 

 

Non ne aveva avute. Sperava che almeno Haru capisse. Lei, che avrebbe in quel modo vendicato suo padre. Haru, però, aveva un animo mite, era la gentilezza fatta persona e aveva risposto a Makoto che non avrebbe mai potuto farlo, che era debole e incapace di azioni così forti.
Non farlo, Makoto. Aveva ragione, anche se le costava molto ammetterlo.

 

Morgana era fuori di sé in quel periodo, il suo essere solo un gatto nel mondo reale gli impediva di essere veramente d’aiuto a Ren e la cosa lo stava rendendo troppo nervoso.

Io se potessi lo farei, ma tu non farlo, Makoto. Ti distruggerebbe.

Tutti avevano la stessa risposta pronta per lei: Salva te stessa. Solo che lei non riusciva a stare lì con le mani in mano: aveva bisogno di mantenere il controllo della situazione e in quel momento non era possibile, avrebbe fatto bene a rassegnarsi e a fidarsi di Ren, del resto se c’era una persona alla quale Makoto avrebbe affidato la sua vita, sarebbe stato lui, l’aveva già fatto e non se n’era pentita.

Quindi si sarebbe fidata di lui, così come avrebbe cercato di credere in Sae e nella sua capacità di riconoscere la giustizia e la sincerità, dote che aveva dimostrato di avere in passato e che non era del tutto persa, Makoto ne era convinta.

 

Il piano avrebbe funzionato.


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2019-03-31 07:31 pm

Sangue del suo sangue

Parole: 662
Fandom: Persona 5
Partecipa al COWT9
Prompt: L'appeso
Note: In Persona 5 ogni personaggio è associato a uno degli arcani maggiori, che ne determina le caratteristiche


Sangue del suo sangue

Quando aveva visto la donna, Iwai aveva sentito un brivido lungo la schiena. 

Gli aveva ricordato sua madre, forse per quegli occhi vuoti, che cercavano solo di soddisfare il bisogno di droga o di alcool. Era uno sguardo che lui conosceva bene, perché aveva passato l'infanzia a cercare di vedere negli occhi di sua madre anche un po' d'affetto. Invece lei era felice solo quando riusciva a procurarsi della droga. Da bambino spesso erano stati i nonni a prendersi cura di lui, quando scappava di casa perché la madre si dimenticava di preparargli il pranzo o quando non tornava per niente a casa.

Poi avevano cambiato casa, erano andati a stare in una città lontana e a Iwai non era rimasto più nessuno che lo accudisse. 

Aveva imparato ad arrangiarsi, spesso chiedendo aiuto agli stessi spacciatori, che si erano a volte dimostrati più gentili e premurosi con lui di quanto non lo fosse stata la sua stessa madre, erano loro a dargli da mangiare e ad aiutarlo con lo studio: uomini della Yakuza che senza troppi rimorsi prendevano tutto il denaro di sua madre e quello di chi come lei si era abbandonato nel baratro delle dipendenze, quei soldi sarebbero serviti a comprargli il materiale per andare a scuola e a dargli una vita dignitosa. Quegli uomini senza scrupoli poi si preoccupavano che quel piccolo, quel bambino sfortunato che passava i suoi pomeriggi seduto sul marciapiede ad aspettare che la madre tornasse a casa, avesse almeno cibo nello stomaco e un quaderno in cui scrivere.

In particolare ricordava di come uno di loro lo invitasse spesso a mangiare insieme a lui, un tale di nome Nishikawa che era ciò che di più vicino a un padre avesse mai avuto. 

Era diventato in breve la sua figura maschile di riferimento e, come era logico, aveva seguito i suoi passi e la sua carriera. Così Iwai era entrato nella Yakuza come protetto di Nishikawa e in breve in loro aveva trovato l'unica famiglia che avesse mai avuto.

In quel momento, però, quando la donna aveva affermato di voler vendere suo figlio, qualcosa dentro di lui era cambiato: si era sentito la causa della disperazione di tutti i bambini le cui famiglie venivano risucchiate dalle dipendenze, aveva capito che il modo di vivere che lui considerava normale in realtà non lo era per niente, che distribuiva dolore e disperazione e che a pagare le conseguenze delle sue azioni oltre a chi faceva uso delle sostanze che lui procurava erano i figli, i parenti delle persone con cui aveva a che fare.

Fino a prima aveva pensato che fosse un modo come un altro per guadagnarsi da vivere, in fin dei conti lui aveva la pistola, ma riteneva di non avere mai fatto male a nessuno.

"Prendi tuo figlio e torna a casa." Le aveva detto.

 

La donna se n'era andata piangendo, non per la paura di perdere il sangue del suo sangue, ma perché non era riuscita ad avere ciò che desiderava veramente, non era riuscita a soddisfare la sua dipendenza.

Iwai l'aveva seguita, più che altro per controllare che non proponesse quell'idiozia di vendere suo figlio anche a qualcun altro.

L'aveva vista abbandonare la culla di fianco al portone, poi era corsa via. Iwai aveva corso per cercare di acciuffarla, ma si era fermato per controllare come stesse il piccolo.

Stava piangendo, ma quando aveva incrociato lo sguardo con Iwai all'improvviso aveva smesso. Aveva occhi tristi e confusi, ma quando Iwai l'aveva sfiorato per sentire se avesse freddo, il piccolo aveva riso e nel suo sguardo aveva visto speranza. Era allora che aveva deciso: quella era la sua opportunità.


Si sarebbe preso cura di quel bambino come se fosse stato suo e gli avrebbe dato una vita fatta di gioia e di affetto. Forse non avrebbe mai rimediato ai suoi errori degli ultimi anni, ma si sarebbe impegnato al massimo per dare a quel bambino, al suo bambino, una vita felice, per quanto possibile.


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2019-03-31 07:27 pm

La campionessa

 
Parole: 680
Fandom: Persona 5
Partecipa al COWT9
Prompt: Stella
Note: in Persona 5, a ciascuno dei personaggi principali è associato un arcano maggiore, che ne determina la personalità.


La campionessa




Hifumi ricordava ancora la sua prima partita a Shōgi: era con suo nonno, che le aveva spiegato le regole, le aveva mostrato le pedine e spiegato come avrebbe potuto vincere. Aveva solo quattro anni, troppo piccola per capire davvero come giocare, ma si era subito appassionata e a casa la madre le aveva fatto trovare subito la plancia e le pedine in soggiorno, dove ogni giorno sua madre giocava con lei.
Il nonno era un insegnante di Shōgi, aveva avuto tra i suoi alunni anche sua madre ed era stato un giocatore professionista apprezzato da tutti. La madre di Hifumi non aveva seguito la sua carriera perché non era molto portata per le strategie, il nonno quindi aveva grandi speranze per sua nipote, perché almeno una persona nella famiglia fosse in grado di seguire le sue orme e Hifumi ne era molto felice.

 

Poi però sua madre aveva iniziato ad iscriverla alle gare, a forzarla a partecipare a ogni torneo. Quasi per caso, aveva fatto la sua prima intervista a un giornale e all'improvviso ce n'era stata un'altra. Alla fine Hifumi si era ritrovata a essere famosa: una personalità dello Shōgi. Una campionessa letale e bellissima, così titolavano i giornali.

Stava avendo la carriera che la madre aveva sognato e che non era stata in grado di realizzare. Era una vera stella dello Shōgi e sua madre non parlava d'altro: secondo lei avrebbe dovuto passare le sue giornate ad allenarsi, a studiare e a imparare mosse nuove, strategie. L'importante era che lei vincesse. Solo che le sue responsabilità non si fermavano lì, Hifumi doveva anche avere una vita senza macchie, una carriera scolastica pulita e nessuna distrazione.

Quando l'aveva vista con Ren, era impazzita. 

Hifumi era tornata a casa e l'aveva trovata seduta su una sedia in cucina. In silenzio, senza libri, sembrava fosse rimasta lì ad aspettarla senza fare niente fino a quel momento.

"Chi era quel ragazzo." Non le aveva neanche fatto la domanda, era una richiesta: Hifumi doveva semplicemente assecondarla di nuovo, fare ciò che lei desiderava, di nuovo. Tutto per la sua calma, tutto per la serenità in famiglia.

"Era un amico, mamma. Giochiamo a Shōgi insieme."

"Sei sicura che vi vediate per lo Shōgi?" La sua voce tremava, era come se dalla risposta a quella domanda dipendesse la vita stessa di sua madre.

"A te cosa importa?" Hifumi si era voltata per andare nella sua stanza, ma la madre si era alzata in piedi di scatto, facendo cadere all'indietro la sedia.

"Non osare parlarmi così, non dopo tutto quello che ho fatto per te, non dopo il successo che grazie a me tu sei riuscita a ottenere. Ricorda che hai solo me da ringraziare per ciò che hai adesso."

Hifumi non riusciva a capire: non era possibile che le voci fossero vere, non poteva credere che sua madre avesse davvero truccato le sue partite, perché era questa l'insinuazione che stava facendo in quel momento. "Cosa intendi dire?"

"Lo sai benissimo." Il suo tono era tornato calmo. Aveva raccolto la sedia ed era uscita dalla cucina, lasciando Hifumi lì a registrare quelle informazioni: aveva creduto in se stessa fino a quel momento, aveva pensato di avere un valore come giocatrice, come stratega. Invece era tutto falso, era solo un trucco.

Sua madre aveva grandi aspettative su di lei e le aveva realizzate senza dare a lei la possibilità di crescere, di diventare davvero una campionessa. In quel momento sentiva di aver perso tutta la sua fiducia in se stessa, sentiva che tutto ciò per cui era stata lodata fino a quel momento era una gigantesca bugia della quale non si sarebbe mai più resa complice. Hifumi era corsa in camera sua e lì aveva iniziato a piangere. Le sue lacrime erano di amarezza, di sconfitta. 

Sua madre l'aveva delusa oltre ogni limite che lei credeva possibile, aveva rovinato tutto per egoismo, per superbia. Volendo dimostrare quanto sua figlia fosse perfetta, aveva forzato gli eventi, aveva comprato il successo e ora Hifumi aveva perso ogni desiderio di giocare ancora a Shōgi, oltre al rispetto per sua madre.


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2019-03-29 07:23 pm

Haru

Fandom: Persona 5
Personaggi: Haru Okumura, Morgana
Parole: 1901
Partecipa al COWT9
Prompt: L'imperatrice


 
Haru

Suo padre era sempre stato bravo a tenerla fuori dalle politiche aziendali, ma se da piccola ovviamente Haru non era interessata a quell'ambito della vita del padre e non avrebbe mai voluto essere coinvolta, nell'ultimo periodo avrebbe usato ogni mezzo per parlare con lui e per sentirsi adeguata a quella vita che lui le stava regalando.

Si sentiva una specie di eletta in quel mondo ovattato e comodo nel quale lui le dava ogni cosa che lei desiderasse, almeno quando si parlava di cose, di oggetti.

 

Haru si sentiva sola. A tavola la sera si sentiva come le principesse nei film, quando vorrebbero mangiare insieme al principe, allegramente, e invece sono costrette a tenere addosso il corsetto, a moderare voce e appetito e a stare a distanza da tutti.

Haru era intrappolata in quella vita: regina di un impero che non desiderava, ma del quale comunque andava orgogliosa.

La mamma da piccola le aveva raccontato come suo nonno avesse creato il suo impero, le aveva parlato di un uomo con un sogno, di una persona grande, dall'animo pulito. Sul cuore di suo padre non poteva certo dire niente di positivo, lo considerava nero e torbido come il caffè. Certo, era presente economicamente e si vedeva che desiderava che lei stesse al sicuro, ma al sicuro per lui aveva sempre lo stesso significato: economicamente al sicuro.

A Haru non interessava avere ancora più denaro, ogni tanto si chiedeva quanto ci avrebbe messo a spenderlo tutto se avesse deciso di acquistare tutto ciò che desiderava, ma dopo averci pensato bene era giunta alla conclusione che non avrebbe mai potuto farlo, neanche se si fosse impegnata a fondo nel tentare.

Desiderava avere degli amici, ma non pareva che ci fossero persone adatte a lei, o almeno questo era quanto continuava a ripetere suo padre. Lei aveva degli amici, però: le sue piante e i suoi fiori a scuola, che non le chiedevano continuamente di quanto fatturasse la sua azienda e che non le stavano vicini per avere un tornaconto personale.

 

Aveva capito che qualcosa non andasse in suo padre già da molto tempo, ma la conferma era avvenuta solo quando aveva sentito una sua telefonata nella quale egli affermava che si sarebbe spinto a tutto pur di aumentare i profitti.

 

Da un po' di tempo lei aveva già notato come la qualità nella catena di loro proprietà fosse calata in modo drastico: come i lavoratori un tempo felici e sorridenti si fossero trasformati in stanchi automi senza desiderio di continuare a lavorare per loro. I dipendenti nell'ultimo periodo cambiavano continuamente, tanto che quando era entrata nessuno l'aveva salutata col suo nome, nessuno la conosceva. Per un attimo aveva pensato di poter vivere un secondo da ragazza comune in quel luogo che lei conosceva bene. Aveva ordinato un caffè e aveva chiesto alla ragazza che l'aveva servita come fosse lavorare lì. La dipendente aveva esibito un sorriso tirato e aveva confermato che nonostante fosse stancante il lavoro fosse estremamente soddisfacente. 

Haru aveva capito che mentiva dagli occhi della ragazza, ma non aveva chiesto altro, pensando che magari poteva essere stata addestrata a mostrarsi sempre felice ed entusiasta per il lavoro.

La cosa le era parsa triste, ma lei era abituata alla tristezza, soprattutto da quando suo padre l'aveva trattata una volta di più da principessa e le aveva imposto una scelta amorosa, un decisione aziendale a suo dire, che la metteva nella pessima posizione di dover avere a che fare con quel ragazzo tanto elegante e bello quanto meschino e violento.

Lo odiava. Il solo pensare a lui le faceva scendere brividi freddi lungo la schiena e sulle braccia. Non poteva neanche immaginare di farsi toccare dalle sua mani morbide, che lei sentiva ruvide come carta vetrata. Quel sorriso, poi. Era così difficile per lei identificare qualcosa che ricordasse la gioia in quella smorfia di crudeltà e di egoismo che gli vedeva costantemente stampata in faccia.

Suo padre in quel periodo le ricordava proprio lui, anche per questo odiava che le si avvicinasse. Solo che mentre il signor Okumura non le concedeva mai neanche un minimo contatto fisico, e lei a volte avrebbe tanto avuto bisogno di un abbraccio o un comportamento da padre, pareva che quel maiale pareva non desiderasse altro. Le sue mani erano sempre invadenti e quando lei diceva no, lui sembrava quasi felice nel dimostrarle che se proprio avesse voluto farlo, avrebbe potuto continuare a suo piacimento, che si fermava per rispetto nei confronti della sua futura moglie.

 

Il matrimonio combinato era stato troppo e l’aveva spinta a reagire.

Stava camminando per strada, era appena stata a incontrare suo padre al lavoro, dove alla fine in realtà non era neanche riuscita a parlare con lui visto che era arrivato un tizio importante, forse un politico, che aveva avuto la meglio sulla figlia. Sugimura all’inizio si era offerto di accompagnarla a casa, ma lei piuttosto sarebbe andata a piedi e con una scusa era riuscita a evitarlo.

 

Lungo la strada aveva visto quel gatto, che girava lì intorno come se stesse cercando qualcosa. Il comportamento dell’animale era strano, sembrava che stesse cercando un luogo particolare o un modo per entrare, Haru si era stupita di quanto a guardarlo le ricordasse un essere umano.

Si era quindi avvicinata al gatto e all’improvviso era avvenuto un fatto stranissimo: il mondo attorno a lei era mutato e lei aveva visto quella enorme astronave.

Aveva urlato, terrorizzata stava cercando una spiegazione a quella strana allucinazione, ma era sicura di non essere sotto l’effetto di droghe o di alcool, l’unica soluzione possibile era che fosse svenuta, o peggio… forse era stata rapita dagli alieni, anche quella poteva essere una soluzione.

Poi aveva visto quella strana figura, sembrava comunque simile a un gatto e avrebbe potuto giurare di essere convinta che quello fosse lo strano animale che stava seguendo.

“Non gridare, per favore.” l’essere si era avvicinato e sembrava preoccupato per lei. “Mi spiace averti trascinata qui dentro. Ora ti riporto fuori.”

“Che posto è questo?” Haru era terrorizzata, ma pensava che forse non sarebbe stato male essere rapita dagli alieni ed essere costretta a cambiare vita, a non avere più niente a che fare con il suo vecchio mondo ricco di sfarzo e povero di libertà. Si era messa a piangere: “Voglio stare qui, non mandarmi via.”

Attirate probabilmente dalle urla di  Haru, erano arrivate alcune creature che poi la ragazza avrebbe saputo essere le ombre. Il gatto l’aveva protetta all’inizio e la ragazza aveva capito subito perché lui la volesse allontanare da quel posto: era pericoloso. Lei però era davvero stanca di sentirsi così poco utile, qualcosa in lei gridava per uscire. 

“Non preoccuparti, non ti succederà nulla.” Il felice sembrava sempre più stanco, ma combatteva con forza e decisione, Haru lo ammirava dal profondo del cuore per il modo quasi divertito che aveva di continuare a incitarla tra un attacco e l’altro. Era solo colpa sua se li avevano trovati e lei lo sapeva perché se non avesse urlato il suo difensore sarebbe passato, forse, inosservato. Forse avrebbe potuto anche scappare se non avesse dovuto difendere lei. Non poteva permettere che gli succedesse qualcosa.

“Ne mancano pochi.” 

Non era vero. Erano parecchi. La voce nella testa della ragazza continuava a ripeterle di accettare il suo destino, di smetterla di comportarsi da damigella in difficoltà e di cominciare a decidere da sola per il suo futuro. Smetti di fare la principessa, sei un’imperatrice!

All’improvviso si era sentita un fuoco arderle ovunque, come se una parte di lei stesse prendendo vita, come se fino a quel momento avesse solo dormito.

Non capiva come fosse successo, ma un essere soprannaturale, la sua Persona, aveva iniziato a combattere al suo fianco, come fosse una parte di lei. Haru non si sentiva ancora pienamente risvegliata, aveva capito che quello era solo l’inizio.

 

Dopo il combattimento il gatto l’aveva invitata a correre lontano da lì e l’aveva portata fuori.

Haru all’inizio aveva fatto fatica a comprendere cosa fosse il Metaverso e perché si fosse trovata lì con quello strano essere. Avesse parlato di quelle cose a qualcuno l’avrebbero presa per pazza. Stava chiacchierando con un gatto, era assurdo. Ancora più assurdo era il discorso che le stava facendo: quel posto strano dove avevano combattuto era il mondo cognitivo di suo padre, creato da lui. Haru aveva capito che qualcosa non andava in quel mondo e aveva iniziato a fare domande specifiche a Morgana, gli aveva chiesto cosa comportassero i combattimenti.

Aveva capito che il gatto era stato un membro dei Phamtom Thieves e che li aveva lasciati perché loro non avevano un obiettivo comune.

“E quale sarebbe il tuo obiettivo?"
“Devo ritrovare la mia vera forma fisica. Io… sono un essere umano.” Haru provava simpatia e affetto nei confronti di quel tenero esserino che in realtà sembrava essere meno indifeso e più esperto di lei, aveva provato il desiderio di aiutarlo, sì, ma anche di aiutare suo padre a cambiare.

“Quindi se noi rubassimo il suo Tesoro, lui cambierebbe. Come è successo agli altri, vero?”

“Sì. Smetterebbe di cercare di mantenere il suo desiderio distorto e cambierebbe.”

“Allora voglio rubare il suo tesoro. Voglio che il suo cuore cambi…” 

“Ti dovrai allenare se vuoi combattere ancora, ma ti posso aiutare, ti posso insegnare.” 

“Certo, sono disposta a fare tutto ciò che serve per aiutare mio padre, e per aiutare te a ritrovare la tua forma, anche. Grazie per tutto quello che hai fatto fino ad oggi.” Haru era sempre stata molto formale e non era sicura di come avrebbe dovuto comportarsi al di fuori di quella formalità, anche se si sentiva un po’ strana a inchinarsi di fronte a un gatto, il rispetto per quella creatura per lei andava al di là della sua forma animale, era chiaro che Morgana fosse un essere speciale e che Haru avrebbe potuto finalmente cambiare la sua vita, ritrovare la sua libertà grazie a lei.

Morgana le aveva dato la zampa e la ragazza l’aveva stretta. Si erano fatti una promessa.

 

 

 

Le cose purtroppo non erano andate come previsto. Suo padre non c’era più e Haru non sapeva cosa fare, cosa dire. Si era ritrovata improvvisamente da sola e non era sicura che la sua morte fosse del tutto collegata a ciò che lei aveva fatto coi Phantom Thieves. Tutti continuavano a scriverle, a chiederle come stava e se volesse parlare o stare con loro. Ma Haru aveva solo bisogno di stare da sola a capire cosa potesse fare. In quei giorni si era accorta che suo padre era cambiato, non vedeva l’ora di poter finalmente pranzare con lui, da soli, senza parlare solo di soldi o dell’a Big Bang Burger. Non vedeva l’ora di uscire con lui, di andare in vacanza insieme, magari. Invece non sarebbe mai successo niente di tutto questo e lei continuava a incolparsi per questo e per aver convinto tutto il gruppo a prendere parte a quella missione così egoista. 

Avrebbe scoperto chi fosse il vero colpevole e gliela avrebbe fatta pagare per tutto il dolore che aveva causato e non solo a lei.

L’inizio della sua nuova vita però sarebbe arrivato nel momento in cui lei fosse riuscita a rendersi la vera artefice del suo futuro. Avrebbe cominciato a porre le sue regole, non sarebbe più stata la principessa in difficoltà, Haru era l’imperatrice e soprattutto adesso che aveva Milady al suo fianco sarebbe riuscita a comportarsi come tale.