2019-03-31

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2019-03-31 07:27 pm

La campionessa

 
Parole: 680
Fandom: Persona 5
Partecipa al COWT9
Prompt: Stella
Note: in Persona 5, a ciascuno dei personaggi principali è associato un arcano maggiore, che ne determina la personalità.


La campionessa




Hifumi ricordava ancora la sua prima partita a Shōgi: era con suo nonno, che le aveva spiegato le regole, le aveva mostrato le pedine e spiegato come avrebbe potuto vincere. Aveva solo quattro anni, troppo piccola per capire davvero come giocare, ma si era subito appassionata e a casa la madre le aveva fatto trovare subito la plancia e le pedine in soggiorno, dove ogni giorno sua madre giocava con lei.
Il nonno era un insegnante di Shōgi, aveva avuto tra i suoi alunni anche sua madre ed era stato un giocatore professionista apprezzato da tutti. La madre di Hifumi non aveva seguito la sua carriera perché non era molto portata per le strategie, il nonno quindi aveva grandi speranze per sua nipote, perché almeno una persona nella famiglia fosse in grado di seguire le sue orme e Hifumi ne era molto felice.

 

Poi però sua madre aveva iniziato ad iscriverla alle gare, a forzarla a partecipare a ogni torneo. Quasi per caso, aveva fatto la sua prima intervista a un giornale e all'improvviso ce n'era stata un'altra. Alla fine Hifumi si era ritrovata a essere famosa: una personalità dello Shōgi. Una campionessa letale e bellissima, così titolavano i giornali.

Stava avendo la carriera che la madre aveva sognato e che non era stata in grado di realizzare. Era una vera stella dello Shōgi e sua madre non parlava d'altro: secondo lei avrebbe dovuto passare le sue giornate ad allenarsi, a studiare e a imparare mosse nuove, strategie. L'importante era che lei vincesse. Solo che le sue responsabilità non si fermavano lì, Hifumi doveva anche avere una vita senza macchie, una carriera scolastica pulita e nessuna distrazione.

Quando l'aveva vista con Ren, era impazzita. 

Hifumi era tornata a casa e l'aveva trovata seduta su una sedia in cucina. In silenzio, senza libri, sembrava fosse rimasta lì ad aspettarla senza fare niente fino a quel momento.

"Chi era quel ragazzo." Non le aveva neanche fatto la domanda, era una richiesta: Hifumi doveva semplicemente assecondarla di nuovo, fare ciò che lei desiderava, di nuovo. Tutto per la sua calma, tutto per la serenità in famiglia.

"Era un amico, mamma. Giochiamo a Shōgi insieme."

"Sei sicura che vi vediate per lo Shōgi?" La sua voce tremava, era come se dalla risposta a quella domanda dipendesse la vita stessa di sua madre.

"A te cosa importa?" Hifumi si era voltata per andare nella sua stanza, ma la madre si era alzata in piedi di scatto, facendo cadere all'indietro la sedia.

"Non osare parlarmi così, non dopo tutto quello che ho fatto per te, non dopo il successo che grazie a me tu sei riuscita a ottenere. Ricorda che hai solo me da ringraziare per ciò che hai adesso."

Hifumi non riusciva a capire: non era possibile che le voci fossero vere, non poteva credere che sua madre avesse davvero truccato le sue partite, perché era questa l'insinuazione che stava facendo in quel momento. "Cosa intendi dire?"

"Lo sai benissimo." Il suo tono era tornato calmo. Aveva raccolto la sedia ed era uscita dalla cucina, lasciando Hifumi lì a registrare quelle informazioni: aveva creduto in se stessa fino a quel momento, aveva pensato di avere un valore come giocatrice, come stratega. Invece era tutto falso, era solo un trucco.

Sua madre aveva grandi aspettative su di lei e le aveva realizzate senza dare a lei la possibilità di crescere, di diventare davvero una campionessa. In quel momento sentiva di aver perso tutta la sua fiducia in se stessa, sentiva che tutto ciò per cui era stata lodata fino a quel momento era una gigantesca bugia della quale non si sarebbe mai più resa complice. Hifumi era corsa in camera sua e lì aveva iniziato a piangere. Le sue lacrime erano di amarezza, di sconfitta. 

Sua madre l'aveva delusa oltre ogni limite che lei credeva possibile, aveva rovinato tutto per egoismo, per superbia. Volendo dimostrare quanto sua figlia fosse perfetta, aveva forzato gli eventi, aveva comprato il successo e ora Hifumi aveva perso ogni desiderio di giocare ancora a Shōgi, oltre al rispetto per sua madre.


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2019-03-31 07:31 pm

Sangue del suo sangue

Parole: 662
Fandom: Persona 5
Partecipa al COWT9
Prompt: L'appeso
Note: In Persona 5 ogni personaggio è associato a uno degli arcani maggiori, che ne determina le caratteristiche


Sangue del suo sangue

Quando aveva visto la donna, Iwai aveva sentito un brivido lungo la schiena. 

Gli aveva ricordato sua madre, forse per quegli occhi vuoti, che cercavano solo di soddisfare il bisogno di droga o di alcool. Era uno sguardo che lui conosceva bene, perché aveva passato l'infanzia a cercare di vedere negli occhi di sua madre anche un po' d'affetto. Invece lei era felice solo quando riusciva a procurarsi della droga. Da bambino spesso erano stati i nonni a prendersi cura di lui, quando scappava di casa perché la madre si dimenticava di preparargli il pranzo o quando non tornava per niente a casa.

Poi avevano cambiato casa, erano andati a stare in una città lontana e a Iwai non era rimasto più nessuno che lo accudisse. 

Aveva imparato ad arrangiarsi, spesso chiedendo aiuto agli stessi spacciatori, che si erano a volte dimostrati più gentili e premurosi con lui di quanto non lo fosse stata la sua stessa madre, erano loro a dargli da mangiare e ad aiutarlo con lo studio: uomini della Yakuza che senza troppi rimorsi prendevano tutto il denaro di sua madre e quello di chi come lei si era abbandonato nel baratro delle dipendenze, quei soldi sarebbero serviti a comprargli il materiale per andare a scuola e a dargli una vita dignitosa. Quegli uomini senza scrupoli poi si preoccupavano che quel piccolo, quel bambino sfortunato che passava i suoi pomeriggi seduto sul marciapiede ad aspettare che la madre tornasse a casa, avesse almeno cibo nello stomaco e un quaderno in cui scrivere.

In particolare ricordava di come uno di loro lo invitasse spesso a mangiare insieme a lui, un tale di nome Nishikawa che era ciò che di più vicino a un padre avesse mai avuto. 

Era diventato in breve la sua figura maschile di riferimento e, come era logico, aveva seguito i suoi passi e la sua carriera. Così Iwai era entrato nella Yakuza come protetto di Nishikawa e in breve in loro aveva trovato l'unica famiglia che avesse mai avuto.

In quel momento, però, quando la donna aveva affermato di voler vendere suo figlio, qualcosa dentro di lui era cambiato: si era sentito la causa della disperazione di tutti i bambini le cui famiglie venivano risucchiate dalle dipendenze, aveva capito che il modo di vivere che lui considerava normale in realtà non lo era per niente, che distribuiva dolore e disperazione e che a pagare le conseguenze delle sue azioni oltre a chi faceva uso delle sostanze che lui procurava erano i figli, i parenti delle persone con cui aveva a che fare.

Fino a prima aveva pensato che fosse un modo come un altro per guadagnarsi da vivere, in fin dei conti lui aveva la pistola, ma riteneva di non avere mai fatto male a nessuno.

"Prendi tuo figlio e torna a casa." Le aveva detto.

 

La donna se n'era andata piangendo, non per la paura di perdere il sangue del suo sangue, ma perché non era riuscita ad avere ciò che desiderava veramente, non era riuscita a soddisfare la sua dipendenza.

Iwai l'aveva seguita, più che altro per controllare che non proponesse quell'idiozia di vendere suo figlio anche a qualcun altro.

L'aveva vista abbandonare la culla di fianco al portone, poi era corsa via. Iwai aveva corso per cercare di acciuffarla, ma si era fermato per controllare come stesse il piccolo.

Stava piangendo, ma quando aveva incrociato lo sguardo con Iwai all'improvviso aveva smesso. Aveva occhi tristi e confusi, ma quando Iwai l'aveva sfiorato per sentire se avesse freddo, il piccolo aveva riso e nel suo sguardo aveva visto speranza. Era allora che aveva deciso: quella era la sua opportunità.


Si sarebbe preso cura di quel bambino come se fosse stato suo e gli avrebbe dato una vita fatta di gioia e di affetto. Forse non avrebbe mai rimediato ai suoi errori degli ultimi anni, ma si sarebbe impegnato al massimo per dare a quel bambino, al suo bambino, una vita felice, per quanto possibile.


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2019-03-31 07:36 pm

Vivere o morire

 
Fandom: Persona 5
Parole: 866
Partecipa al COWT9
Prompt: La Papessa

Note: In Persona 5 ogni personaggio è associato a uno degli arcani maggiori, che ne determina le caratteristiche.
 

 Vivere o morire

Stai tranquilla: funzionerà. 

la voce di Ren continuava a rimbombarle nella testa. Doveva fidarsi, doveva credere che il piano sarebbe andato bene e smetterla di avere tutti quei dubbi, ma Makoto non riusciva a togliersi di dosso il brivido freddo dato dal lento scivolare alle sue spalle della parola morte. 

Makoto continuava a pensare a un piano b, a qualcosa che l’avrebbe salvato di sicuro, ma non riusciva a trovare una soluzione. Vivere o morire, è l’unico modo.

Mancavano solo due giorni. In due giorni avrebbe dovuto guardarlo negli occhi e lasciarlo al suo destino, sperando che lui fosse abbastanza forte, abbastanza in sé da convincere Sae.

Sae, sua sorella. Avrebbe potuto provare lei a convincerla, lasciarle qualche indizio in giro per casa. E se invece avesse peggiorato la situazione? Makoto sapeva bene che non avrebbe dovuto parlare troppo, perché un suo errore sarebbe stato fatale alla missione. Sua sorella era stata accecata dal desiderio di dimostrare il suo valore, aspirava a essere perfetta e questo senza che lei se ne fosse resa conto l’aveva messa fuori strada, rendendola una specie di burattino nelle mani dei suoi superiori che oltre ad averla usata per darla in pasto ai fan dei Phantom Thieves, ora stavano usando persino il suo palazzo, il suo cuore, e come fine ultimo avevano l’uccisione di un gruppo di ragazzi, tra i quali forse presto avrebbe scoperto esserci anche sua sorella.

 

Makoto era sempre stata una persona razionale, ma nell’ultimo periodo aveva capito che molto spesso le scelte razionali sono dipendenti da quella parte nascosta di noi che crea il mondo cognitivo. Cambiare la sua percezione di se stessa, mettere Sae nella condizione di capire che stava sbagliando avrebbe potuto far crollare il palazzo e rendere il loro articolato piano un fallimento completo. In quel caso cosa avrebbero fatto? 

 

La sua visione del mondo era cambiata in modo più che drastico da quando era diventata una dei Phantom Thieves. L’esistenza del mondo cognitivo dava una profondità alla forza della mente umana che lei aveva immaginato, ma della quale non avrebbe mai pensato di poter avere le prove.

 

Era certa di una cosa, però: comunque fosse andata, Akechi avrebbe pagato. Un brivido le passò lungo la schiena nel momento in cui si immaginò a ucciderlo, perché l’avrebbe fatto, senza alcun dubbio, se lui avesse davvero ucciso Ren.

 

Non era mai stata favorevole alla pena di morte, ma il pensiero si era insinuato nella sua mente nel dormiveglia, quando il suo cuore era più debole. Nell’ultimo periodo, da quando avevano avuto la certezza del tradimento di Akechi, Makoto aveva pianto ogni giorno anche se non si era mai fatta vedere. Succedeva sotto la doccia quando la carezza tiepida delle gocce d’acqua le toglieva di dosso la tensione che la faceva andare avanti in quel periodo e in questo modo la privava della sua maschera, della sua sicurezza e della sua razionalità.

 

È così che i desideri si distorcono? Pensava.

Era probabile che questo suo desiderio di vendetta avrebbe cambiato anche il suo cuore se lei non avesse trovato un modo per fermarlo. Se avesse davvero ucciso Akechi non avrebbe mai potuto perdonarsi, questa era la verità, ma c’era quella parte di lei, quella che si risvegliava quando il cervello di Makoto abbassava la guardia, che appariva sempre più spesso e che lei razionalmente non riusciva a scacciare.

 

La giustizia non l’avrebbe mai punito, questa era una certezza. Akechi sarebbe stato un eroe per il resto della sua miserabile esistenza e lei non avrebbe potuto fare niente per impedirlo. Sarebbe stata una pazza ad andare a spiegare che le cose erano diverse da come erano state mostrate a tutti.

 

Aveva parlato agli altri del suo proposito, sempre come se fosse stata un’idea da delineare, quasi uno scherzo o un’eventualità vicina all’impossibile, ma dentro di sé Makoto cercava conferme. 

 

Non ne aveva avute. Sperava che almeno Haru capisse. Lei, che avrebbe in quel modo vendicato suo padre. Haru, però, aveva un animo mite, era la gentilezza fatta persona e aveva risposto a Makoto che non avrebbe mai potuto farlo, che era debole e incapace di azioni così forti.
Non farlo, Makoto. Aveva ragione, anche se le costava molto ammetterlo.

 

Morgana era fuori di sé in quel periodo, il suo essere solo un gatto nel mondo reale gli impediva di essere veramente d’aiuto a Ren e la cosa lo stava rendendo troppo nervoso.

Io se potessi lo farei, ma tu non farlo, Makoto. Ti distruggerebbe.

Tutti avevano la stessa risposta pronta per lei: Salva te stessa. Solo che lei non riusciva a stare lì con le mani in mano: aveva bisogno di mantenere il controllo della situazione e in quel momento non era possibile, avrebbe fatto bene a rassegnarsi e a fidarsi di Ren, del resto se c’era una persona alla quale Makoto avrebbe affidato la sua vita, sarebbe stato lui, l’aveva già fatto e non se n’era pentita.

Quindi si sarebbe fidata di lui, così come avrebbe cercato di credere in Sae e nella sua capacità di riconoscere la giustizia e la sincerità, dote che aveva dimostrato di avere in passato e che non era del tutto persa, Makoto ne era convinta.

 

Il piano avrebbe funzionato.


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2019-03-31 10:28 pm

Dream Catcher

Fandom: Persona 5
Personaggi: Futaba Sakura, Wakaba
Parole: 801
Partecipa al COWT9
Prompt: L'eremita

Dream Catcher


Nell'ultimo periodo, Futaba aveva iniziato ripetere continuamente lo stesso sogno: attraversava la strada a Shibuya, persa in mezzo a centinaia di persone. A nessuno nel sogno importava di lei, di come fosse vestita o di dove stesse andando.

Nel sogno lei non si sentiva oppressa da tutte quelle persone, perché era come se fosse trasparente lì in mezzo, come un fantasma che avrebbe potuto osservare tutti senza essere visto. Come se avesse avuto addosso un filtro, pensava da sveglia.

Eppure durante il giorno le cose cambiavano e lei non riusciva più neanche a pensare di uscire dalla sua stanza. Guardava la maniglia e pensava a quanto fosse pericolosa e difficile  anche solo da toccare. Se la immaginava rovente e si chiedeva come avrebbe trovato la forza di uscire da lì, se mai ce l'avesse fatta. Ma se la porta della camera era un ostacolo che riusciva ad affrontare, anche più volte al giorno per andare in bagno o per recuperare qualche provvista, quella d'ingresso era invece invalicabile: una montagna, un deserto senza oasi dal quale lei non sarebbe mai riuscita a uscire viva. 

Ricordava come una volta fosse rimasta ferma immobile a osservarla per almeno un'ora. Aveva bisogno di contattare Sojiro, perché gli aveva promesso di nuovo che l'avrebbe raggiunto al Le Blanc. "Tranquilla, non ci sono mai clienti e oggi piove, quindi non devi preoccuparti: saremo solo io e te e ti preparerò del Curry. Il tuo preferito…”

 

Futaba continuava a pensare al suo curry, alla ricetta di sua madre che lei aveva tanto amato, che continuava a essere il suo cibo preferito, ma non era riuscita comunque a uscire da lì. Nonostante la pioggia, nonostante fuori non ci fosse nessuno visto il tempaccio e il freddo, era rimasta di fronte alla porta per un tempo che le era sembrato eterno senza riuscire neppure a toccare quella maniglia.

Sentiva di non avere più speranza, sapeva che era tutto nelle sue mani, ma lei non aveva modo di muoversi, non avrebbe superato quella terribile situazione di prigionia autoimposta. "Vuoi che venga a prenderti?" Le aveva chiesto.

 

"Se vuoi arrivare qui, puoi portarmi tu il curry, io vengo la prossima volta."

 

Ma sapevano entrambi che non sarebbe mai successo.

Se c'era una cosa che continuava a rendere Futaba sempre più triste, era il senso di colpa che leggeva negli occhi di Sojiro. Lui ce la metteva tutta a darle gli stimoli e gli spunti per muoversi, per uscire di lì, per tornare a vivere. Ma lei non era in grado di coglierli, sarebbe morta in quella casa. Sarebbe stata la sua tomba.

Nell'ultimo periodo anche vedere Sojiro, l'unica persona di cui ancora si fidava, le costava sempre più fatica. Lui aveva chiamato un dottore per cercare una soluzione, ma Futaba si era chiusa in camera, rifiutandosi di aprire. Aveva bloccato la porta e si era nascosta nell'armadio per tentare di impedire al dottore e a Sojiro di sentire il suo pianto. Perché non era felice di quella situazione, solo che non era in grado di capire come avrebbe potuto superarla. 

Se nella mente continuava a ripetersi che aprire quella porta non le avrebbe causato dolore, il suo corpo reagiva in un modo difficile da capire, per lei: la bloccava, i muscoli si paralizzavano, le mani tremavano e poi d'un tratto si muoveva senza decidere lei ciò che stava succedendo.

Era sempre stata molto strana, glielo dicevano tutti. Sua madre le ripeteva che era la sua intelligenza fuori dal comune che l'aveva resa un po' diversa dai suoi coetanei e che per questo non aveva molti amici. La realtà era che Futaba già all'epoca mentiva a sua madre, sin da piccola era sola e andava avanti con la sua vita solo per inerzia.

La scuola la annoiava e stava perdendo interesse anche nelle materie di studio, cosa che non era passata inosservata agli occhi di Wakaba, che però era presissima dal suo lavoro e che quindi stava dando la priorità a quello, pensando che la figlia ce l'avrebbe fatta. "Tu sei speciale.” Le ripeteva di continuo, accarezzandole la fronte.

E poi l'aveva abbandonata. Sua madre, Wakaba, si era suicidata per colpa di Futaba. Così le avevano detto quegli uomini. Erano passati anni e lei non era più riuscita a uscire di casa, poco importava dove fosse, non voleva più avere a che fare con quel mondo che non era mai stato suo amico, non voleva più causare dolore in chi amava, compreso Sojiro, il quale non aveva modo di aiutarla. 


La vera vita di Futaba era al computer, ma nell'ultimo periodo c'era poco che lei non fosse in grado di fare. Era diventata una hacker famosa, ma non avrebbe mai rivelato la sua identità segreta ad anima viva, perché il suo obiettivo era soltanto passare più inosservata che poteva, come in quel sogno.


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2019-03-31 10:54 pm

First Sight

Fandom: Persona 5
Personaggi: Ann Takamaki, Ryuji Sakamoto, Ren Amamiya 
Parole: 621
Partecipa al COWT9
Prompt: gli amanti
Note: in Persona 5 a ogni personaggio è associato un arcano maggiore, che ne determina le caratteristiche

First Sight

La prima volta che si erano visti, Ann aveva pensato che prima di allora non aveva mai visto degli occhi profondi come quelli di Ren Amamiya. Era rimasta sconvolta da quello sguardo e si era chiesta se qualcuno avrebbe mai detto o pensato di lei qualcosa di simile.

Tutti sembravano restare colpiti dal suo aspetto nordico, dai capelli biondi, dagli occhi azzurri e da quel fisico da modella che le era stato donato dai suoi genitori, ma si fermavano a quello.

Ann sentiva che dentro di lei c'era molto di più e avrebbe tanto desiderato che anche chi le stava attorno se ne accorgesse, ma pareva quasi che la maggior parte dei suoi compagni a scuola fossero intimiditi da lei, tutti tranne Shiho, la sua amica, l’unica a cui raccontava ogni cosa, per lei Ann avrebbe scalato montagne e corso maratone.

 

Nella vita Ann aveva sempre seguito il suo cuore e poteva dire di non essersene mai pentita. In classe, continuava a osservare quel tipo, Amamiya, e si chiedeva se davvero fosse un violento come tutti dicevano, se davvero fosse stato processato per un assalto a un innocente, perché in lui non vedeva aggressività, quanto determinazione e non si era mai sbagliata nel valutare le persone, quindi si fidava di lui.

Era rimasta un po' stupita nel constatare che avesse fatto amicizia proprio con Sakamoto, un altro ragazzo che lei considerava un incompreso. Era immaturo e parlava senza pensare alle conseguenze, in più agiva di impulso, spesso esagerando con le sue reazioni, ma era sempre stato onesto e lei tutto sommato pensava che ci fossero elementi ben peggiori coi quali stringere rapporti in quella scuola. Ann non poteva dimenticare come Ryuji si fosse guadagnato una cattiva nomea facendo quello che anche lei avrebbe desiderato: mettendo Kamoshida con le spalle al muro, ponendolo di fronte alla verità che lui aveva a quel punto negato con tutte le sue forze, e soprattutto usando il suo potere e facendo in quel modo ricadere la colpa sul suo vecchio amico, che era diventato il capro espiatorio per lo scioglimento della squadra di corsa. 

Kamoshida non era il tipo di persona in grado di accettare una sconfitta, avrebbe mentito e affondato quante più persone fosse stato possibile pur di stare a galla, pur di mantenere quella sua reputazione di grande sportivo e di bravo insegnante. 

Era chiaro ad Ann che non lo fosse mai stato, la ragazza si chiedeva cosa sarebbe successo se anche lei avesse provato a reagire: Avrebbe iniziato a diffondere maldicenze sul suo conto? L'avrebbe resa come Ryuji? Una persona da evitare. Forse però era più probabile che si vendicasse su Shiho, e lei non avrebbe mai potuto sopportarlo.

Guardandosi intorno, Ann aveva capito che probabilmente già spettegolavano su di lei, perché in molti, soprattutto tra le ragazze, avevano smesso di parlarle quando Kamoshida aveva iniziato a spargere voci sulla loro frequentazione. Non poteva essere certa che fosse stato proprio il professore a farlo, ma era un dato di fatto che lui avesse più volte usato quelle dicerie per avvicinarla a lui, convincendola che in realtà non ci fosse niente di male e che le altre ragazze erano solo invidiose della sua fortuna.

 

Ann aveva origliato il discorso di Amamiya e di Sakamoto: li aveva sentiti parlare di Kamoshida, avevano detto di volerlo fermare e lei desiderava aiutarli, per Shiho, per se stessa e per tutte le persone che quel maiale aveva fatto soffrire.

Quei due erano come lei: due persone incomprese e sole che cercavano di combattere le ingiustizie e che per questo venivano ripagati nel migliore dei casi con l'indifferenza. Loro avrebbero fatto il possibile per cambiare quella situazione insopportabile, nel suo cuore, Ann era convinta che insieme ce l'avrebbero fatta.